I due tempi. Togliatti e papa Giovanni

Transcript

I due tempi. Togliatti e papa Giovanni
I due tempi.
Togliatti e papa Giovanni
Francesco Mores *
1. Vorrei immediatamente sgombrare il campo da un possibile
equivoco. Non sono tra coloro che ritengono che ci sia un rapporto diretto tra il discorso che Togliatti tenne a Bergamo cinquant’anni fa, il 20 marzo 1963, e la lettera enciclica Pacem in terris, data a Roma l’11 aprile dello stesso anno. Il rapporto tra questi due testi e tra queste due figure fu indiretto e proprio per questo molto più stretto e profondo. Proverò a dimostrarlo mettendo in fila una serie di testi di pubblico dominio e, dunque, accessibili a tutti per una verifica; lo farò in più tempi, di breve durata come i paragrafi che seguono, e spiegherò alla fine perché questi tempi possono essere ridotti a due: al futuro e al passato di Togliatti e di
papa Giovanni, del discorso di Bergamo e della Pacem in terris.
2. Il mito di un rapporto diretto tra il discorso di Bergamo e
l’enciclica di Roma fu fissato in un libro-intervista che il penultimo segretario del Partito comunista italiano, Alessandro Natta, pubblicò con Alceste Santini nel 1989. Il libro si intitolava I
tre tempi del presente e fu stampato dalle Edizioni Paoline. Ecco
come Natta descrisse il problema del rapporto tra i due testi, in
un paragrafo intitolato «Il PCI legge la Pacem in terris»:
Le date molto vicine dei due documenti, l’affinità ed il respiro che
li caratterizzavano fanno, giustamente, sorgere l’interrogativo se ci
*
Fondazione Giovanni XXIII Bergamo. Scuola normale superiore di Pisa.
21
fosse stata da parte di Togliatti una preventiva conoscenza, se non
del testo pontificio, almeno della sua ispirazione e dell’imminenza
della sua pubblicazione. Io credo che Togliatti fosse in possesso di
informazioni assunte da quei canali apertigli, suppongo, dalla lunga
amicizia con don Giuseppe De Luca, molto introdotto nei vertici
vaticani del tempo e amico personale di papa Roncalli, oltre che
dalla sua frequentazione con Franco Rodano. Togliatti aveva già
avuto l’occasione di rilevare l’importanza della svolta giovannea,
anche se l’enciclica Pacem in terris fu un punto alto del nuovo orientamento della Chiesa cattolica che veniva emergendo dal concilio
Vaticano II in pieno svolgimento. Con il discorso di Bergamo, Togliatti volle compiere un gesto significativo che segnasse uno sviluppo nell’elaborazione teorica e politica verso il mondo cattolico e
la questione religiosa, rispetto all’appello del 1954 ed a quanto affermato nei congressi del PCI, proprio in vista dell’enciclica di cui
forse conosceva l’impostazione [...]. In segreteria Togliatti non ci
fece partecipi delle sue informazioni, né era sua consuetudine presentare una traccia dei suoi discorsi di cui, però, indicava le tematiche quando si trattava di cose importanti [...]. Comprendemmo
dopo che, con grande intelligenza politica, Togliatti aveva scelto
l’occasione di una importante competizione elettorale, che segnò
poi un nostro successo, per rivolgersi alla Chiesa, ai cattolici, ai
potenziali elettori comunisti di fede cattolica per fare delle affermazioni che finirono per assumere una rilevanza anche internazionale. Infatti nell’affrontare i temi connessi al destino dell’umanità
da salvaguardare dalla minaccia di una guerra nucleare, Togliatti
riteneva possibile una collaborazione tra comunisti e cattolici da
sperimentare attraverso un riconoscimento reciproco di valori. E
su questo punto, rifiutando una concezione negativa della religione
derivante dall’illuminismo settecentesco e dal materialismo dell’Ottocento, riconosce il possibile ruolo positivo di una fede fortemente vissuta dai credenti e con radici profonde nella coscienza
dell’uomo1.
La testimonianza di Natta è importante per più ordini di motivi. Ci dice innanzitutto alcune cose sul futuro dei due testi che
sono al centro del nostro seminario. Da una parte il discorso di
Togliatti (pronunciato al termine di una campagna elettorale che
1 A. Natta, I tre tempi del presente. Intervista di Alceste Santini, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1989, pp. 285-287.
22
vedrà il Pci avanzare e la Dc retrocedere) che, secondo Natta,
avrebbe insegnato al partito
a riconoscere sempre più anche lo spazio autonomo di associazioni,
di organizzazioni cattoliche che operano nel sociale ed a valutare ed
apprezzare le motivazioni etiche che le ispirano e le animano nel sostenere una cultura della solidarietà in una società come la nostra investita da troppi fenomeni disgreganti2;
dall’altra la Pacem in terris, che avrebbe fornito
ai cattolici una metodologia per dialogare con forze politiche e
culturali di diversa ispirazione e con realtà storiche diverse3.
Tornerò sul problema del futuro dei due testi al termine del
mio intervento. Quanto a quello che allora era il presente della
lettera di Roma e del discorso di Bergamo, Natta ricorda come
Togliatti non facesse partecipe la segreteria delle sue informazioni, né presentasse nulla di più delle tematiche dei discorsi che
egli riteneva più importanti. La segreteria avrebbe compreso
solo dopo le implicazioni più immediatamente politiche del discorso di Bergamo; l’effetto procurato dal discorso fu la prova
dell’esercizio nel passato, seppure prossimo, dell’intelligenza del
segretario.
Ma qual era il passato del discorso, forzatamente diverso dal
passato prossimo dei suoi effetti e delle sue ricadute? Come Togliatti arrivò alla sua formulazione? Ho cominciato il mio intervento affermando in maniera nemmeno troppo implicita di non
credere a un rapporto diretto tra il discorso di Bergamo e la lettera di Roma. Non esiste nessun documento che provi che il segretario del Pci abbia conosciuto in anticipo il testo dell’enciclica:
una lunga distanza separa una «preventiva conoscenza» da una
«ispirazione». L’idea che siano esistiti canali di informazione non
ufficiali non mi sembra sostenibile, perché fa torto all’intelligenza
politica di Togliatti, che aveva colto tutta la rilevanza del pontifi2
3
Ivi, p. 287.
Ivi.
23
cato di Giovanni XXIII, e perché l’identificazione dei terminali
di questi canali (la «frequentazione di Franco Rodano» e «la lunga
amicizia con don Giuseppe De Luca, molto introdotto nei vertici
vaticani del tempo e amico personale di papa Roncalli») non può
essere valutata nello stesso modo.
Sulla «frequentazione di Franco Rodano» con Togliatti sono
stati versati fiumi d’inchiostro. Qui ricorderò solo che in diverse
sedi l’intervistatore di Alessandro Natta nel 1989, Alceste Santini
(vaticanista de «L’Unità»), dichiarò di aver raccolto negli anni
settanta la confessione di Rodano intorno a quella che potremmo
definire la trasmissione preventiva della Pacem in terris. Nell’intervista a Natta questa certezza sembra meno certa: frequentazione
non vale certo trasmissione.
Ben altro, almeno apparentemente, lascia intravedere il riferimento a don Giuseppe De Luca, un sacerdote erudito ed editore
che fu per molti anni non ai margini della vita culturale e politica
romana. Se possono esserci pochi dubbi sull’amicizia che legò
Palmiro Togliatti a De Luca, una posizione più prudente andrebbe assunta nel giudicare un’espressione come «introdotto nei
vertici vaticani» e il tipo di amicizia che legava De Luca a papa
Roncalli. Per ciò che riguarda la circostanza particolare che
stiamo discutendo – che è solo, si ricordi, il rapporto tra due
testi, la Pacem in terris e il discorso di Bergamo – vale solo la
cronologia: la Pacem in terris fu emanata l’11 aprile 1963, il discorso di Bergamo fu pronunciato il 20 marzo (e pubblicato il
30 marzo 1963 su «Rinascita»), don Giuseppe De Luca era
morto il 19 marzo 1962.
3. Il fatto che De Luca sia stato evocato da Natta e Santini
come l’origine dei canali che unirono papa Giovanni a Togliatti
deriva da una circostanza precisa. La raccontò Natta, sollecitato
da una domanda di Santini:
Esiste poi un appunto di Togliatti con la conferma chiarissima dell’iniziativa degli auguri da parte di Krusciov a papa Giovanni per il suo
ottantesimo compleanno che, come hai ricordato, in una conversazio24
ne tra De Luca e De Rosa, il sacerdote rivendicò a sé. Anche la motivazione che Togliatti annota veniva dallo stesso De Luca. In questo
promemoria si dice infatti: «Nell’ottantesimo del papa farsi vivi», sottolineato[;] al termine dell’appunto c’è una nota che rende esplicita la fonte, quando si dice «da don D.L. prima del 22», e i tempi perché una iniziativa relativa agli auguri al Papa doveva essere fatta prima del 22, cadendo l’ottantesimo compleanno il 25 novembre 19614.
Come sanno bene gli studiosi e i biografi di papa Giovanni,
l’appunto finale «da don D.L. prima del 22» non coincide con i
tempi del telegramma di Chrušÿȍv. Molto probabilmente il telegramma del 25 novembre 1961 fu il frutto di un’iniziativa molto
più ampia5, per trasformare un messaggio che seguiva la prassi
abituale di inviare telegrammi di auguri ai capi di Stato in qualcosa di molto diverso. L’iniziativa sovietica non sarebbe stata possibile senza un radiomessaggio che papa Giovanni lesse il 10
settembre 1961. Il messaggio si rivolgeva a tutto il mondo, «per
la concordia delle genti e la tranquillità nella famiglia umana», e
fu percepito come una sorta di apertura di credito, soprattutto
perché conteneva un’esplicita messa in guardia dall’uso di
moderni ordigni di guerra sottratti ormai ai segreti della natura, ed
in elaborazione di energie ultra-potenti a sovvertimento e a distruzione6.
Il radiomessaggio generò il telegramma e il telegramma generò
quella particolare disposizione che si sarebbe rivelata con forza
durante la cosiddetta crisi dei missili a Cuba.
La crisi dell’ottobre 1962 vide scontrarsi Unione Sovietica e
Stati Uniti, nell’eventualità che i primi potessero installare a Cuba
4 Ivi, pp. 292-293 e, per la riproduzione fotostatica dell’appunto di De Luca e
della postilla di Togliatti, p. 374.
5 Delimitata da M. Roncalli, Giovanni XXIII Angelo Giuseppe Roncalli, una vita nella
storia, Mondadori, Milano, 2006, pp. 523-524 e note corrispondenti.
6 Le vie della pace sono le vie di Dio e delle vere conquiste. Radiomessaggio per la concordia
delle genti e la tranquillità nella famiglia umana (10 settembre 1961), in Discorsi, messaggi e
colloqui del santo padre Giovanni XXIII, 6 voll., Tipografia Poliglotta Vaticana / Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1960-1967, vol. III, pp. 408-414, in
particolare p. 412.
25
missili in grado di colpire il territorio statunitense. Il presidente
Kennedy reagì con un blocco navale che portò le navi americane
a fronteggiare un convoglio sovietico diretto verso l’isola. I fatti
della crisi (che possono ancora oggi essere ricostruiti con difficoltà, dal momento che la memorialistica ha decisamente sopravanzato la ricerca storica) furono soverchiati dal radiomessaggio
che papa Giovanni lanciò in francese il 25 ottobre7. Ne riporto
due passi, secondo quella che è stata definita una «traduzione ufficiosa»8. Papa Giovanni esortava prima Stati Uniti e Unione Sovietica:
che continuino a trattare perché questa attitudine leale e aperta è una
grande testimonianza per la coscienza di ognuno davanti alla storia.
Promuovere, favorire e accettare i dialoghi, a tutti i livelli e in ogni
tempo, è una regola di saggezza e di prudenza che attira le benedizioni del Cielo e della terra.
Poi, elevando una vera e propria supplica
ai governanti a non restare sordi a questo grido dell’umanità. Che
facciano tutto quello che è in loro potere per salvare la pace. Eviteranno al mondo gli orrori di una guerra di cui non si può prevedere
quali saranno le terribili conseguenze.
L’ordine dei passi che vi ho appena letto dovrebbe in realtà
essere invertito: ciò che ho qualificato come «poi» precede in
realtà ciò che è «prima». Allo stesso modo, le reazioni ufficiali al
messaggio furono per dir così invertite: entusiasmo da parte
sovietica e silenzio degli Stati occidentali. Persino l’archivio del
Ministero degli Affari esteri spagnoli recherebbe traccia della
notizia che l’ambasciata sovietica in Italia, il 27 ottobre 1962,
avrebbe trasmesso a Mosca una informativa per rilevare come
alla Camera il Pci avesse sostenuto la coincidenza fra le tesi del
La pace del mondo nel cuore della Chiesa. Radiomessaggio per l’intesa e la concordia dei
popoli (25 ottobre 1962, testo francese), in Discorsi, messaggi e colloqui del santo padre
Giovanni XXIII, cit., vol. IV, pp. 614-615.
8 Da A. Melloni, Pacem in terris. Storia dell’ultima enciclica di papa Giovanni, Laterza,
Roma-Bari 2010, p. 33.
7
26
papa e quelle dell’Urss9. Una sintassi troppo intricata: una coincidenza – ben diversa! – c’era e fu affidata, per parte comunista, al discorso pronunciato da Togliatti a Bergamo il 20
marzo 196310.
4. Del discorso parleremo diffusamente in seguito, dunque
non rievocherò se non di sfuggita, alla fine del mio intervento, le
circostanze locali che portarono il segretario del Pci a Bergamo
per chiudere la campagna elettorale. Le teorie che vorrebbero
vedere dietro il testo qualcos’altro trascurano spesso ciò che c’è
in primo piano. E dunque le domande a cui rispondere (brevemente) sono queste: ci sono riferimenti impliciti o espliciti a papa
Giovanni nel discorso di Togliatti? Qual è la cornice all’interno
della quale esso si colloca?
La cornice, almeno a me, pare molto chiara e si lega alla distinzione, altrettanto chiara a Togliatti, della differenza tra «documenti pontifici» (come la Pacem in terris) e posizioni di quello che
il segretario del Pci chiamava l’«attuale pontefice». I documenti
pontifici citati nel discorso sono il Sillabo degli errori moderni, emanato da papa Pio IX nel 1864, e l’enciclica giovannea del 15 maggio 1961 Mater et magistra (non nominata direttamente, ma evocata come «ultima enciclica sociale della Chiesa»), mentre le posizioni dell’allora «attuale pontefice» sono accennate dopo aver ricordato proprio Cuba e quelle che Togliatti considerava le ingerenze americane nei confronti di un paese che voleva «svilupparsi
come socialista». Naturalmente Togliatti non fece nessun accenno al fatto che lo sviluppo socialista comportava anche la possibilità di dotarsi di quelle armi che avrebbero ribaltato l’equilibrio
di Yalta, ma notò che ciò, perlomeno, corrispondeva all’«affermazione dell’attuale pontefice circa la neutralità della Chiesa nel
Ivi, nota 50, p. 35.
Come ho già ricordato, il testo del discorso fu pubblicato su «Rinascita» il 30
marzo. Nei paragrafi seguenti cito – senza rinvii puntuali, per non appesantire il
testo – dalla versione inclusa in Comunisti e cattolici Stato e Chiesa 1920 1974, a cura
della sezione centrale delle scuole di partito del Pci, Roma 19743, pp. 66-78.
9
10
27
contrasto tra gli Stati» e conduceva alle «numerose prese di posizione dell’attuale pontefice a favore della pace e della distensione
internazionale».
Queste citazioni quasi esplicite del nome di Giovanni XXIII si
accompagnavano a una citazione decisamente implicita, che di
certo non tutti gli ascoltatori del discorso sarebbero stati in grado
di decrittare. «Anche l’incontro che ha avuto luogo giorni or sono in Vaticano, di cui tanto si è parlato e sul quale non intendo
soffermarmi, rientra nel quadro»: Togliatti si riferiva all’incontro
del 7 marzo di papa Giovanni con il genero di Chrušÿȍv, il direttore
della «Izvestija» Aleksej Adjubei, e sua moglie Rada Chrušÿȍva.
Il segretario sorvolò e fece bene visto il numero inverosimile
di leggende fiorite sull’incontro. Non sorvolò, invece, su un altro
punto, che è l’unica citazione esplicita del nome di papa Giovanni XXIII:
Noi crediamo che l’uomo deve diventare padrone della natura, il che
è compito biblico, indicato all’uomo da Dio stesso, nella Genesi. Lo
stesso Giovanni XXIII, nelle parole da lui dedicate ai cosmonauti
sovietici, dopo la meravigliosa navigazione spaziale dell’estate scorsa,
esaltava questo compito e la sua era quasi una preghiera per il progresso nella conoscenza e nel dominio della natura.
Il riferimento, apparentemente preciso, andava questa volta
alle parole che papa Giovanni aveva pronunciato il 12 agosto
1962, dopo il lancio della Vostok 3 e 4 durante un Angelus domenicale:
L’Angelus domini consacra per tutti i secoli il congiungimento del cielo
e della terra, del divino con l’umano. In quest’ora amiamo associare
alle intenzioni della Nostra preghiera il giovane pilota dello spazio.
Diletti figli appartenenti a tutte le genti, voi siete qui adunati come
buoni fratelli, mentre il pilota sta sperimentando, in modo quasi decisivo e certo determinante, le capacità intellettuali, morali e fisiche
dell’uomo, e continua quella esplorazione del creato, che la Sacra
Scrittura incoraggia nelle sue prime pagine: Ingredimini super terram et
replete eam (Gen. 9, 1-7). I popoli, e in particolare le giovani generazioni, seguono con entusiasmo gli sviluppi delle mirabili ascensioni e
navigazioni spaziali. Oh! come vorremmo che queste intraprese as28
sumessero significato di omaggio reso a Dio creatore e legislatore supremo. Questi storici avvenimenti come saranno segnati negli annali
della conoscenza scientifica del cosmo, così possano divenire espressione di vero e pacifico progresso, a solido fondamento11.
Come appare evidente, la preghiera di Roncalli non andava
tanto «al progresso nella conoscenza e nel dominio della natura»,
quanto al fatto che le missioni spaziali fossero lo strumento per
riconoscere il dovuto omaggio reso «a Dio creatore e legislatore
supremo». In ogni caso, le parole di papa Giovanni erano diverse, soprattutto nel tono, da quelle del commentatore di Radio
Vaticana che, alla notizia del primo volo spaziale, compiuto da
Jurij Gagarin a bordo della Vostok 1 il 12 aprile 1961, aveva affermato:
L’evoluzione della tecnica, realizzata per mano dell’uomo, cela in sé
un enorme pericolo: l’uomo può pensare di essere il creatore e che
tutto ciò che è fatto con le sue mani sia il frutto del suo intelletto e
operato. L’uomo è semplicemente lo scopritore di ciò che il Signore
Dio gli ordina. Il progresso tecnologico, deve far inginocchiare l’uomo e far credere in Dio con più fede.
Viste, o meglio udite, da Mosca, le parole della Radio Vaticana
erano interpretate come parole del papa. Il quotidiano «Izvestija» aveva titolato Muori papa – è meglio non parlare!12 e riviste italiane erano state molto esplicite a riguardo del significato teologico della missione di Gagarin, trasformando il cosmonauta in
una icona.
5. Sono arrivato all’immagine che vedete nella pagina seguente
dopo aver parlato di citazioni dirette e indirette, implicite ed esplicite nel discorso di Togliatti. Avrei potuto continuare ancora per
molto, ma avrebbe avuto poco senso, come ha poco senso appliDeum creatorem venite adoremus. Nel vero pacifico progresso la salda conferma della
umana fraternità (12 agosto 1962), in Discorsi, messaggi e colloqui del santo padre Giovanni
XXIII, cit., vol. IV, pp. 470-471.
12 Ho ripreso il confronto a distanza tra Radio Vaticana e «Izvestija» da M.
Roncalli, Giovanni XXIII Angelo Giuseppe Roncalli, cit., p. 513, e nota 53, p. 717.
11
29
30
care lo stesso metodo alla lettera enciclica Pacem in terris, promulgata da papa Giovanni l’11 aprile 1963.
Non c’è nessun dubbio che Pacem in terris sia un testo di papa
Giovanni, come esistono pochi dubbi che il testo non fu redatto
da Giovanni XXIII. Chi ha potuto lavorare su parte dei materiali
preparatori dell’enciclica ha ricostruito un itinerario che cominciò
il 23 novembre 1962, quando monsignor Pietro Pavan, in seguito
rettore dell’Università lateranense, scrisse al segretario del pontefice una lettera, proponendosi per redigere quella che sarebbe divenuta l’enciclica dell’anno seguente. La proposta fu accettata e la
preparazione cominciò13. Dal gennaio del 1963 fu fatto circolare
un testo che gli esperti chiamati a leggere e correggere lasciarono
quasi invariato: tra l’altro, fu rimossa un’apertura all’obiezione di
coscienza e caddero due frasi che suggerivano l’immoralità dell’uso
delle armi nucleari visti i loro effetti incontrollabili14.
L’enciclica emanata l’11 aprile 1963 non si occupava naturalmente solo del problema della pace. Diceva (e dice) molte cose, ma
mi pare qui valga la pena ricordarne soprattutto una, che mostra
quella che è la base pratica dell’apertura a «tutti gli uomini di buona
volontà». Perché ci sia un’apertura è necessario che due parti fondino il loro rapporto su qualcosa, la cui natura può essere mutata
da un semplice aggettivo. Su questo punto particolare15 l’enciclica
mostra un’oscillazione significativa, in almeno due passi, che sono
forse i più noti. Il primo riguarda il modo per non fare la guerra:
61. Occorre però riconoscere che l’arresto agli armamenti a scopi
bellici, la loro effettiva riduzione, e, a maggior ragione, la loro eliminazione sono impossibili o quasi, se nello stesso tempo non si procedesse ad un disarmo integrale; se cioè non si smontano anche gli
A. Melloni, Pacem in terris, cit., pp. 44-46.
Il punto di arrivo dell’analisi testuale condotta ivi, è la Sinossi delle redazioni a
stampa, pp. 134-219. La versione italiana apparve per la prima volta ne «L’Osservatore romano» dell’11 aprile 1963: tutte le citazioni dall’enciclica nelle pagine seguenti saranno tratte da qui; i corsivi sono miei.
15 Già rilevato e contestualizzato da D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 267271.
13
14
31
spiriti, adoprandosi sinceramente a dissolvere, in essi, la psicosi bellica: il che comporta, a sua volta, che al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si
può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. Noi riteniamo che si
tratti di un obiettivo che può essere conseguito. Giacché esso è reclamato dalla retta ragione, è desideratissimo, ed è della più alta utilità.
62. È un obiettivo reclamato dalla ragione. È evidente, o almeno dovrebbe esserlo per tutti, che i rapporti fra le comunità politiche, come quelli fra i singoli esseri umani, vanno regolati non facendo ricorso alla forza delle armi, ma nella luce della ragione; e cioè nella verità,
nella giustizia, nella solidarietà operante.
Il secondo la precondizione perché non si verifichi mai più la
guerra:
83. Non si dovrà però mai confondere l’errore con l’errante, anche
quando si tratta di errore o di conoscenza inadeguata della verità in
campo morale religioso. L’errante è sempre ed anzitutto un essere
umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità. Inoltre in
ogni essere umano non si spegne mai l’esigenza, congenita alla sua
natura, di spezzare gli schemi dell’errore per aprirsi alla conoscenza
della verità. E l’azione di Dio in lui non viene mai meno. Per cui chi
in un particolare momento della sua vita non ha chiarezza di fede, o
aderisce ad opinioni erronee, può essere domani illuminato e credere
alla verità. Gli incontri e le intese, nei vari settori dell’ordine temporale, fra credenti e quanti non credono, o credono in modo non adeguato, perché aderiscono ad errori, possono essere occasione per
scoprire la verità e per renderle omaggio.
84. Va altresì tenuto presente che non si possono neppure identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche,
sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora
ispirazione. Giacché le dottrine, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse; mentre i movimenti suddetti, agendo
sulle situazioni storiche incessantemente evolventisi, non possono
non subirne gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a
mutamenti anche profondi. Inoltre chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana,
vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione?
32
L’oscillazione che segna questi due passi riguarda il termine
«ragione»: la «ragione» come terreno di incontro e la «retta ragione», che è tale solo perché esiste un’autorità che dice ciò che è
giusto e ciò che è ingiusto.
6. Sottigliezze, si dirà, che riguardano un modo di leggere i testi che sembrerebbe appartenere al passato. Ma è di passato, presente e futuro del discorso di Bergamo e della Pacem in terris che
volevo parlarvi.
Ripartiamo allora, per avviarci alla conclusione, dal futuro. Sul
futuro di questi due testi e dei loro autori disse cose vere Alessandro Natta. Spero di aver dimostrato quanto poco verosimile
sia un legame diretto tra il discorso di Bergamo e Pacem in terris,
ma la testimonianza di Natta mi pare veritiera per ciò che riguarda le conseguenze che i due testi portarono con sé, dal momento che essi contenevano «affermazioni che finirono per assumere una rilevanza anche internazionale»: da una parte, il rifiuto di «una concezione negativa della religione derivante dall’illuminismo settecentesco e dal materialismo dell’Ottocento»,
per «riconoscere il possibile ruolo positivo di una fede fortemente vissuta dai credenti e con radici profonde nella coscienza dell’uomo» (nel discorso di Togliatti, che Natta citò quasi
alla lettera); dall’altra – l’ho già ricordato – la Pacem in terris, che
fornisce «ai cattolici una metodologia per dialogare con forze
politiche e culturali di diversa ispirazione e con realtà storiche
diverse».
Proprio perché ancora irrealizzato (o, nella migliore delle ipotesi, sempre in procinto di essere realizzato), questo futuro è
l’aspetto positivo di un presente nel quale tutti vorremmo poter
ritrovare le conseguenze del discorso di Bergamo e della Pacem in
terris. Esso porterebbe con sé la percezione della differenza che,
nel passato remoto e prossimo, esisteva tra Togliatti e Roncalli,
tra il vertice del movimento comunista in Italia e il magistero
della Chiesa cattolico-romana. Come per la genesi del discorso di
Bergamo (nato anche per iniziativa del segretario della Federa33
zione comunista della città, Eliseo Milani)16, sarebbe far torto all’intelligenza di Palmiro Togliatti credere che non ne fosse avvertito. Nella parte finale del suo discorso bergamasco, Togliatti
fece un riferimento al passato remoto del suo partito, mostrando
quanto esso potesse essere attuale per il magistero ecclesiastico:
Ma come ponete, ci si dice, il problema della libertà, voi che volete una
dittatura? Dittatura è, per noi, la formulazione scientifica del concetto
che vi è sempre, in ogni società, un blocco di forze sociali dominanti.
Quello cui noi aspiriamo è un blocco di tutte le classi lavoratrici, del
braccio e della mente. Ad esse spetta dirigere tutta la vita sociale. Ma il
pensiero cattolico non respinge affatto il concetto della dittatura. Lo riconosceva il padre Lener, in uno scritto sulla «Civiltà cattolica», dove diceva esattamente questo: «La dittatura non è per se stessa un male, e
non lo è punto quando buona parte del popolo vi consenta, per l’impossibilità di provvedere altrimenti alle esigenze appunto vitali della
conservazione dello Stato e della trasformazione non rivoluzionariamente violenta del superato suo regime politico». Se si tiene conto delle
circostanze che, nell’Unione Sovietica e altrove, imposero di rompere
con le stesse armi la violenza delle classi reazionarie, si può trovare in
questo passo una indicazione di ciò che si dovette fare per il passaggio
da ordinamenti reazionari arretrati a un regime democratico e socialista.
Oggi nell’Unione Sovietica non si parla del resto più di dittatura, ma di
Stato di tutto il popolo e noi da tempo sosteniamo e dimostriamo che è
possibile nel nostro paese, sulla base delle conquiste democratiche e sociali
realizzate con la vittoria della Resistenza antifascista e registrate nella
nostra Costituzione, avanzare verso un regime di giustizia sociale senza
abbandonare il terreno delle istituzioni democratiche e del loro sviluppo
nel campo economico e sociale. Nel rivolgerci ai lavoratori e uomini di
cultura cattolici manteniamo questa posizione e insistiamo in essa.
16 L. Barca, Cronache dall’interno del vertice del PCI, 3 voll., Rubbettino, Soveria
Mannelli 2005, vol. 1 (Con Togliatti e Longo), p. 310: «Qualche merito del resto lo ha anche lui. Ultimo, il discorso di Bergamo ai cattolici, pronunciato quando già aveva
avuto sentore delle novità dell’enciclica giovannea, ma programmato e impostato
ben prima, d’accordo con il segretario della Federazione di Bergamo, Eliseo Milani, e i suoi amici cattolici». Ringrazio Alessandro Santagata per aver attirato la mia
attenzione su questo passo. Più in generale, sulla posizione di Togliatti prima del
discorso di Bergamo, un panorama sintetico è offerto da A. Agosti, Togliatti, la pace, i cattolici, in Togliatti e il destino dell’uomo. L’impegno di comunisti e cattolici nell’Italia repubblicana, atti del convegno di Bergamo del 22 marzo 2003, a cura di B. Milani e
P. Pellegrini, Robin, Roma 2003, pp. 71-82.
34
Chiamando in causa il padre gesuita Salvatore Lener e una serie di articoli apparsi ne «La civiltà cattolica»17, il segretario del Pci
ricordava come il ragionamento del magistero non fosse orientato in maniera univoca verso la democrazia; per il magistero, la
dittatura non apparteneva ancora al passato remoto, come, invece, lo era per l’Unione Sovietica, passata dalla dittatura allo «Stato
di tutto il popolo». Il passato prossimo dell’Italia, segnato dalla
Resistenza e dalla Costituzione, faceva presagire la possibilità di
coniugare «giustizia sociale» e «istituzioni democratiche». Su questa possibilità, aperta ai «lavoratori» e agli «uomini di cultura cattolici», Togliatti era stato chiaro, chiamando in causa il passato
che si voleva remoto della dittatura. La morte di papa Giovanni
fu l’occasione per spiegare come egli vedeva il futuro e il passato
prossimi del rapporto tra comunisti e cattolici.
In una riflessione apparsa su «Rinascita» del 29 giugno
196318 Togliatti mise in fila quelli che riteneva fossero i fatti
«nella successione dei pontificati di Pio XII e Giovanni XXIII».
I fatti erano in realtà un problema, riassumibile nella parte che la
Chiesa può avere e vuole riservare a se stessa in un mondo il
cui volto, le cui strutture ideali e pratiche già sono cambiate e
continuano a cambiare con una rapidità non conosciuta nei secoli passati. Mentre Pio XII si era cullato in una «illusione con17 S. Lener, Beneficienza, assistenza, previdenza e sicurezza sociale, in «La civiltà cattolica», 113, 2685 (5 maggio 1962), pp. 223-236; Per una determinazione critica del concetto
di giustizia sociale, in «La civiltà cattolica», 113, 2688 (16 giugno 1962), pp. 521-534;
Questione sociale e giustizia sociale, in «La civiltà cattolica», 113, 2692 (18 agosto 1962),
pp. 313-324; Questione sociale e giustizia sociale, in «La civiltà cattolica», 113, 2694 (15
settembre 1962), pp. 556-569; Giustizia sociale e bene comune (definizioni), in «La civiltà
cattolica», 113, 2698 (17 novembre 1962), pp. 338-352. La citazione fatta da Togliatti implicava un rovesciamento del passaggio contenuto ivi, p. 342: «Sotto
l’utopico pretesto di costruire un’impossibile società senza diritto e senza Stato, ci
si vale anche del diritto e dello Stato – intesi come meri strumenti di un potere
violento e non come concrete determinazioni oggettive di giustizia sociale – per
affermare, in teoria, la dittatura di una sola classe; in realtà, il governo totalitario di
un solo partito, del solo gruppo in esso dominante, del solo individuo che di quel
gruppo riesca comunque a costituirsi “capo”».
18 Riprodotta in seguito, con il titolo Da Giovanni a Paolo, in P. Togliatti, Opere, a
cura di L. Gruppi, VI (1956-1964), Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 715-718.
35
servatrice», Giovanni XXIII aveva agito in maniera molto diversa:
Il punto di maggior rilievo, secondo noi, [dell’azione di papa Giovanni] sta pur sempre nella visione della storia come creazione
della ragione umana. E una visione che viene riferita allo sviluppo
di organizzazioni, istituti e formazioni sociali, che hanno dato vita
a realtà nuove, cui aderiscono con convinzione e passione masse
sterminate di uomini e che non possono quindi venir condannate
in partenza, qualunque sia la base ideale e pratica su cui sono state
costruite.
Il passato prossimo del passo che ho appena citato era facile da
cogliere. Ora Togliatti (nell’articolo dato alle stampe il 29 luglio) conosceva davvero e direttamente la Pacem in terris (promulgata l’11
aprile e accolta con grande «interesse ed emozione»19) e aveva ben
in mente un passaggio che ho già citato nelle pagine precedenti.
Chi – si domandava la Pacem in terris in chiusura del capo ottantaquattresimo – può negare che in quei movimenti, nella misura in cui
sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle
giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e
meritevoli di approvazione?
La ragione, ecco il punto: per Togliatti si trattava della ragione umana; per Roncalli, pur tra qualche oscillazione, anche della retta ragione, che è tale solo perché esiste un’autorità che divide ciò che è giusto da ciò che è ingiusto. Faremmo torto a papa Giovanni e a Palmiro Togliatti se non riconoscessimo questa differenza fondamentale – Roncalli non si sarebbe mai riconosciuto in una «visione
della storia» come sola «creazione della ragione umana»! D’altra
parte, sarebbe profondamente ingiusto non riconoscere che entrambi, in due ordini completamente diversi, ebbero molte ragioni.
L. Barca, Cronache dall’interno del vertice del Pci, cit., vol. 1, p. 310: «Interesse ed
emozione per l’enciclica Pacem in terris. Moltissimi i temi coraggiosamente posti in
campo: dal rispetto delle minoranze, al disarmo, alla distinzione tra l’errore e
l’errante. Alle 11 Amadesi mi avverte che Togliatti ha finito di leggerla e che, se
voglio, posso scendere da lui. È difficile che Togliatti metta allo scoperto i propri
sentimenti. Ma questa mattina è felice e non lo nasconde».
19
36