I diritti reali - Simone per la scuola

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I diritti reali - Simone per la scuola
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I diritti reali
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Diritti reali - diritti obbligatori
I diritti reali, per le loro caratteristiche, differiscono sostanzialmente dai diritti di credito (o di obbligazione o obbligatori) in quanto:
— il diritto reale è caratterizzato dalla immediatezza, giacché consente al titolare l’immediata realizzazione dell’interesse attraverso la cosa; per soddisfare il diritto di credito occorre, invece, la cooperazione
del debitore. Tale distinzione si riverbera sul piano della tutela: il diritto reale può essere fatto valere
contro chiunque (c.d. actio in rem), il diritto di credito invece soltanto nei confronti del soggetto obbligato (c.d. actio in personam);
— altra differenza è data dalla normale perpetuità dei diritti reali (con la sola eccezione di usufrutto, uso
ed abitazione) in contrapposizione alla temporaneità dei diritti di credito.
La dicotomia diritti reali - diritti obbligatori appare oggi meno netta che in passato, perché:
— alcuni caratteri peculiari dei diritti reali non si riscontrano in tutti i «diritti reali», ad esempio l’immediatezza del potere del titolare sulla cosa non si riscontra nella ipoteca, che pure rientra tra i diritti reali di
garanzia, poiché il creditore ipotecario non può soddisfare il suo interesse immediatamente sulla cosa,
ma può farlo solo mediante l’instaurazione di un processo di espropriazione: (art. 2808) che si conclude con la vendita del bene e con il soddisfacimento del creditore sul prezzo ottenuto;
— alcuni caratteri peculiari dei diritti reali si riscontrano anche in situazioni che si collocano al di fuori dei
diritti reali: nella locazione, ad esempio, in base alla regola, propria del diritto romano, «emptio non
tollit locatum» (la vendita non tocca la locazione) ed in applicazione della legislazione vigente, il diritto del conduttore a permanere nel godimento dell’immobile fino alla scadenza del contratto prevale di
fronte a qualunque proprietario che sia divenuto successivamente acquirente dello stesso;
— alcuni caratteri peculiari dei diritti di credito si riscontrano anche in situazioni di diritti reali (serie di
diritti ed obblighi che fanno capo a due soggetti determinati, es: tra proprietario ed enfiteuta).
L’evoluzione storica della proprietà
La concezione romana arcaica della proprietà risentiva della struttura fortemente centralizzata della famiglia,
che costituiva un nucleo chiuso e intangibile a qualsiasi interferenza esterna, rigidamente sottoposto all’autorità del pater familias. Questi era l’esclusivo ed assoluto titolare del dominium sulle cose e sui servi,
della patria potestas sui figli, della manus maritalis sulla moglie. Il diritto di proprietà, dunque, era assoluto,
illimitato ed intangibile anche da parte dello stesso Stato.
Tale concezione si andò affievolendo con l’evolversi della repubblica e dell’impero, fino alla nascita e
all’affermarsi dei primi vincoli pubblicistici (imposte, canoni etc.) e privatistici (enfiteusi) alla proprietà.
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La concezione germanica e longobarda, per quanto riguarda i beni immobili, fu — invece — agli antipodi.
Originariamente, infatti, la proprietà immobiliare spettava all’aggregato politico al quale i singoli appartenevano. Esisteva, dunque, un tipo di proprietà collettiva cui si andò affiancando, dopo l’impatto con il sistema romano, anche una proprietà di tipo privato sottoposta, però, a vincoli e limiti pubblicistici.
Il codice Napoleonico (1804) riconobbe il diritto di proprietà, quale simbolo della libertà e sovranità individuale, come il più esteso, pieno e assoluto dei diritti, limitabile solo per motivi di convivenza civile.
Con l’affermarsi del liberalismo questa concezione si andò rafforzando e la proprietà, nata come liberazione dell’individuo dal privilegio feudale, assunse sempre più il carattere della esclusività e della illimitatezza.
Questi caratteri furono confermati dal nostro codice civile nel 1865 che, agli artt. 436 e 440, definì il diritto di «proprietà» come il «diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se
ne faccia un uso vietato dalle leggi e dai regolamenti», stabilendo che «la proprietà si estende allo spazio
sovrastante e a tutto ciò che si trova sopra o sotto la superficie». La illimitatezza del diritto di proprietà, in
particolare, incontrava un solo limite negativo nelle leggi e nei regolamenti. La illimitatezza del diritto di
proprietà è stata in qualche modo ridimensionata prima dall’art. 832 del codice del 1942 (l’attuale codice
civile) e poi dall’art. 42 della Costituzione.
La proprietà agricola
Anche la proprietà della terra è considerata, nella Costituzione e nelle leggi ordinarie, come un problema
che coinvolge interessi pubblici fondamentali: lo «sfruttamento razionale del suolo» e gli «equi rapporti
sociali» sono, secondo l’art. 44, 1° comma, Cost., gli obiettivi finali, cui la legge deve tendere anche fissando limiti e vincoli e imponendo obblighi ai proprietari, limitando l’estensione della proprietà, promuovendo o imponendo la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo etc.
Il codice civile prevede, in tre sezioni (artt. 846-868) alcuni interventi di questo tipo: fissa la «minima unità colturale», cioè un’area minima da non dividere nemmeno in caso di successione ereditaria (artt. 846
ss.); prevede l’obbligo di esecuzione di opere per i proprietari di terreni dichiarati soggetti a bonifica (artt.
857 ss.), o sottoposti a vincoli per scopi idrogeologici (artt. 866 e ss.); in particolare, sia per scopi di bonifica che di difesa fluviale, i proprietari possono essere riuniti obbligatoriamente in consorzi, che sono
persone giuridiche pubbliche, il cui scopo è provvedere all’esecuzione, alla manutenzione e all’esercizio
delle opere necessarie (artt. 857, 868).
Ma nel dopoguerra, alcuni interventi legislativi hanno parzialmente attuato il programma costituzionale: così le leggi di riforma agraria del 1950, che hanno espropriato i latifondi per distribuire la terra
fra i coltivatori; le «disposizioni per lo sviluppo della proprietà coltivatrice» contenute nella L. 26-51965, n. 590, che ha introdotto forme di credito agevolato ai coltivatori per l’acquisto di fondi rustici,
e ha istituito il diritto di prelazione a favore dei coltivatori per il caso di alienazione del fondo; di recente, la legislazione sulle terre incolte, che ne ha previsto l’assegnazione in affitto forzoso a chi ne
faccia richiesta (L. 4-8-1978, n. 440): ma già l’art. 838 c.c., come si è detto, prevedeva in casi simili
l’espropriazione.
La disciplina della proprietà agricola, però, è influenzata soprattutto dalla disciplina dei contratti agrari,
cioè dei contratti tra il proprietario e l’imprenditore, grande o piccolo, che lavora la terra.
Il diritto di sopraelevazione
La sopraelevazione consiste nella costruzione di uno o più piani ovvero di nuove fabbriche sull’ultimo
piano dell’edificio.
Tale diritto è disciplinato dall’art. 1127 c.c. che è una regola speciale dettata per il proprietario dell’ultimo
piano dell’edificio, al quale, salvo che diversamente risulti dal titolo (ossia dall’atto costitutivo della proprietà), è attribuita la facoltà di sopraelevare — previa corresponsione di un’indennità agli altri condomini,
e fermo restando l’obbligo di ricostruire il lastrico solare di cui tutti o parte dei condomini avevano il diritto di usare — soltanto quando le condizioni statiche dell’edificio consentano la sopraelevazione e purché
questa non pregiudichi l’aspetto architettonico dell’edificio né provochi una diminuzione notevole dell’aria
o della luce dei piani sottostanti.
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Si può affermare, più precisamente, che titolare del diritto di sopraelevazione è chi ha nell’edificio la proprietà della porzione sita alla massima quota altimetrica e, qualora all’ultimo piano vi siano più appartamenti,
ciascun proprietario può sopraelevare soltanto nell’area sovrastante la superficie del proprio appartamento.
Molto discussa è la natura di tale diritto.
Alcuni autori hanno ritenuto che il proprietario dell’ultimo piano sarebbe nel contempo titolare di due
diritti e cioè del diritto di proprietà dell’ultimo piano e del diritto di sopraelevazione che assumerebbe la
connotazione giuridica del diritto di superficie.
Altri, invece, ritengono che il diritto di sopraelevazione sia una emanazione del diritto di proprietà e, precisamente, rientri nelle facoltà del proprietario dell’ultimo piano il quale, per la posizione in cui si trova, è
preferito agli altri condomini.
Tuttavia sembra inquadrare esattamente l’istituto la giurisprudenza allorquando distingue a seconda che il
diritto di sopraelevazione resti nella titolarità del proprietario dell’ultimo piano (o del lastrico solare), ovvero sia da quest’ultimo trasferito a terzi. Nel primo caso esso rientrerebbe in una delle facoltà del proprietario; nel secondo caso si configurerebbe come un vero e proprio diritto di superficie.
Si è detto che titolare del diritto di sopraelevare è il proprietario dell’ultimo piano, ma la circostanza che
costui debba un indennizzo agli altri condomini, commisurato al valore attuale dell’area da occupare,
induce la dottrina a ritenere che, nel caso in cui detto proprietario rinunci al diritto di sopraelevare, tale
diritto spetti agli altri condomini. Occorre, però, a tal fine, una rinuncia espressa da parte del proprietario,
non ritenendosi sufficiente la semplice astensione dell’esercizio del diritto.
Data l’autonomia del diritto di sopraelevazione il relativo titolare non abbisogna, per poterlo esercitare, del
consenso degli altri condomini, i quali possono soltanto opporsi nel caso in cui la sopraelevazione venga
effettuata nel mancato rispetto dei limiti previsti dalla legge.
In realtà l’ordinamento pone soltanto un limite obiettivo all’esercizio del diritto in questione, che deriva
dalla compatibilità o meno della nuova costruzione con le condizioni statiche dell’edificio.
Alcuni autori ritengono che tale limite sia di ordine pubblico, sì che esso, in caso di inerzia degli altri condomini, potrebbe venire opposto dall’autorità amministrativa. Tale tesi trova il conforto della giurisprudenza della Suprema Corte che ha ritenuto che l’accertamento delle condizioni statiche dell’edificio non costituisce un limite all’esercizio del diritto, ma un presupposto della sua esistenza.
Gli altri limiti cui la legge subordina l’esercizio del diritto di sopraelevare, sono, invece, rimessi alla discrezionale facoltà dei condomini dell’edificio, i quali, appunto, «possono opporsi alla sopraelevazione, se
questa pregiudica l’aspetto architettonico dell’edificio, ovvero diminuisca notevolmente l’aria o la luce dei
piani sottostanti » (art. 1127, 3° comma, c.c.).
Il diritto alla sopraelevazione, avendo natura reale, si trasferisce automaticamente con il trasferimento
dell’ultimo piano o della proprietà esclusiva del lastrico solare.
Il proprietario dell’ultimo piano può anche alienare a terzi il solo diritto alla sopraelevazione, conservando per sé la proprietà del piano, come pure può alienare la proprietà di quest’ultimo riservandosi il diritto di sopraelevare. Obbligato al pagamento dell’indennità, in questo caso, è colui che
costruisce. La dottrina ravvisa la ratio dell’obbligo di indennizzo gravante sul costruttore piuttosto che
nella esigenza di compensare gli altri condomini per i danni o le molestie che potranno derivare ai
beni di loro proprietà esclusiva dalla nuova costruzione, nella necessità di far luogo ad una nuova
ripartizione, tra i condomini, del valore dell’area su cui l’edificio sorge. Da ciò il complesso calcolo
di essa, previsto dall’art. 1127 c.c., che deve tener conto del valore attuale dell’area che verrà occupata con la nuova costruzione, determinazione oggetto di una complessa operazione aritmetica (art.
1127, 4° comma, c.c.).
Usufrutto improprio o quasi usufrutto
Il titolare dell’usufrutto ha l’obbligo di rispettare la destinazione economica della cosa e, alla fine dell’usufrutto, di restituire la cosa stessa al proprietario.
Da ciò consegue che oggetto di usufrutto possono essere soltanto i beni inconsumabili.
La legge ammette, tuttavia, che l’usufrutto possa avere ad oggetto anche beni consumabili, facendone derivare effetti notevolmente diversi; in questo caso, infatti, l’usufruttuario acquista la proprietà dei beni e, di
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conseguenza, non è più tenuto a rispettarne la destinazione economica, salvo l’obbligo di pagarne il valore, secondo la stima convenuta, al termine dell’usufrutto (art. 995).
L’usufrutto su cose consumabili è pertanto una forma impropria di usufrutto, che viene denominata «quasi
usufrutto».
Da non confondere col quasi-usufrutto è l’usufrutto avente ad oggetto beni deteriorabili. Beni deteriorabili sono quelli che, pur se con l’uso continuato subiscono una diminuzione nel loro valore economico,
possono essere usati più volte e, perciò, sono inconsumabili (es.: l’uso di un abito comporta necessariamente il suo logorio e deterioramento, ma non certo la sua distruzione).
L’usufruttuario di cose deteriorabili ha diritto di servirsene secondo l’uso al quale sono destinate ed alla fine
è soltanto tenuto a restituirle nello stato in cui si trovano.
La multiproprietà
La multiproprietà consiste nella comproprietà da parte di più soggetti di uno stesso bene immobile di cui
però possono godere solo per un determinato periodo dell’anno.
Il diritto di ciascun soggetto sull’immobile è individuale e non collettivo ma limitato ad un certo periodo
dell’anno.
La natura di tale diritto è oggetto di discussione.
Si esclude ovviamente che si tratti di un diritto reale su cosa altrui ma allo stesso tempo si ha difficoltà
anche a configurarlo come un vero diritto di proprietà per i limiti e i vincoli a cui è sottoposto il diritto di
proprietà.
Il multiproprietario, infatti, non può godere a proprio piacimento dell’immobile. Risponde di ogni deteriramento che ecceda l’uso normale della cosa e deve destinare l’immobile all’esclusivo uso fissato nel
contratto. Per quanto riguarda il potere di disporre del suo diritto, può farlo con i limiti sostanziali e temporali che lo caratterizzano.
Numerose sono state le teorie esposte dalla dottrina per individuare l’esatta natura giuridica del fenomeno
anche per le difficoltà poste dal principio che sancisce il numero chiuso dei diritti reali impedendo quindi
ai privati di crearne di nuovi.
Una parte della dottrina e anche la giurisprudenza ha inquadrato la multiproprietà nella comunione, ritenendo che si tratti di una comunione particolare anche perché l’alienante di solito predispone un regolamento della comunione con cui disciplina il regolamento turnario tra i multiproprietari.
Tuttavia il fenomeno della multiproprietà sembra contrastare con la nozione e la disciplina della comunione, dal momento che è immodificabile la destinazione del bene, è inammissibile la divisione e l’uso turnario è un aspetto essenziale e necessario dell’istituto.
Anche la tesi della proprietà temporanea è stata criticata poiché si è evidenziato che le ipotesi di proprietà temporanea si caratterizzano per la presenza di un termine iniziale e di un termine finale. La multiproprietà invece si atteggia quale diritto perpetuo anche se ciclico e turnario, di qui la non assimilabilità con
le ipotesi di proprietà temporanea.
Altra dottrina ritiene che la multiproprietà è una proprietà avente ad oggetto una frazione spazio-temporale del bene. «Più coerente ricostruzione del fenomeno è quella che fa capo all’idea di una proprietà individuale su un bene, identificato non solo nello spazio ma anche nel tempo e definito come bene spaziotemporale.
Da questo punto di vista l’invenzione della multiproprietà non ha dato vita ad un nuovo diritto reale sulle
cose (ciò che è reso inammissibile dal ben noto numero chiuso dei diritti reali) ma ad una cosa nuova (ciò
che è pienamente ammissibile), oggetto pur sempre del comune diritto di proprietà. Essendo pur sempre
l’interesse degli uomini la misura di ciò che è bene e di ciò non lo è, nulla vieta di concepire un bene che
non ha solo confini nello spazio ma anche , se ciò ne fa un’entità idonea a realizzare interessi, limiti nel
tempo» (GALGANO).
Altra dottrina ritiene preferibile configurare la multiproprietà come proprietà immobiliare speciale «con un
particolare statuto che tenga conto della natura del bene, del collegamento tra spazio e tempo, e del problema fondamentale dei servizi. Tale statuto è pattizio, ossia risiede nel regolamento convenzionale che le
parti hanno l’autonomia di dare al contenuto del diritto reale» (COMPORTI).
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Con il D.Lgs. 6-9-2005, n. 206 (Codice del consumo), poi modificato dal D.Lgs. 79/2011 (Codice del turismo), si è provveduto a disciplinare il contratto di multiproprietà, ossia il «contratto di durata superiore a
un anno tramite il quale un consumatore acquisisce a titolo oneroso il diritto di godimento su uno o più
alloggi per il pernottamento per più di un periodo di occupazione».
La proprietà nell’ordinamento inglese
Property e Law of property
La disciplina della proprietà nei sistemi anglosassoni, ed in particolare nel diritto inglese, è da sempre al
centro dell’attenzione degli studiosi di diritto comparato, per l’estrema complessità e possibilità di obsolescenza della disciplina della common law in materia (MOCCIA) e, soprattutto, per la notevole diversità,
concettuale e di disciplina, della proprety inglese rispetto alla proprietà come intesa nei sistemi di civil law
(in particolare la proprietè francese e la eigentum germanica).
Sin dalla conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni, il connotato tipico della proprietà di tradizione
romanistica, l’esclusività, fu ridimensionato a causa del moltiplicarsi di singoli rapporti di utilizzazione
della medesima res da parte di più soggetti (es.: servitù pubbliche), con il conseguente attenuarsi della distinzione tra dominium e iura in re. La continuità della tradizione giuridica inglese ha mantenuto il concetto di proprietà (specie immobiliare) fedele al suo carattere antico.
Nel modello romanistico, la proprietà è un diritto assoluto ed esclusivo di un soggetto su una determinata
cosa mobile o immobile, classificato nell’ambito della più ampia categoria cd. diritti reali.
Nel modello inglese, invece, il temine property assume una doppia connotazione patrimonialistica:
— in senso soggettivo, con riguardo ad una serie di diritti reali concernenti l’utilità di una cosa;
— in senso oggettivo, considerando tutti i beni (materiali, immateriali, diritti personali) che possono formarne oggetto e che, insieme, costituiscono il patrimonio di un determinato soggetto.
Con la conseguenza che la property inglese può riferirsi tanto al dominio esclusivo quanto ad una serie di
diritti meno intensi che fanno capo al titolare nei confronti del bene.
Inoltre, mentre nel diritto continentale la principale distinzione relativa alla proprietà riguarda il piano
sostanziale (beni mobili ed immobili), nel diritto anglosassone si distingue, sul piano processuale, tra:
— real property, ovvero le situazioni di carattere possessorio aventi ad origine il libero godimento (freehold)
del bene immobile in virtù delle antiche concessioni feudali (tenures), tutelate attraverso le cd. real
actions, dirette ad ottenere la reintegrazione nel possesso ed il recupero effettivo del bene;
— personal property, che rappresenta una categoria residuale avente ad oggetto una ampia gamma di beni
mobili o diritti (cd. goods), tutelata attraverso le cd. personal actions, che non assicurano sempre il recupero specifico del bene ma solo la possibilità di ottenere il pagamento del controvalore a titolo di
risarcimento (detinue o trover) o la restituzione in forma specifica.
Nell’ambito delle due categorie, si distinguono le cose corporali da quelle incorporali, tra le quali rientrano
i crediti (debts, rents), suscettibili di tutela mediante azione diretta ad ottenere la condanna al pagamento
di una somma di danaro.
Inoltre nell’ambito delle res incorporales rientra la cd. new property, comprendente, ad esempio, i diritti
all’assistenza sociale derivanti da provvedimenti delle pubbliche amministrazioni.
Oggi tale distinzione è notevolmente attenuata, mentre ha acquisito maggiore rilevanza la distinzione tra
beni mobili ed immobili.
Mentre nei modelli di derivazione romanistica è marcata la distinzione tra diritti reali (tra i quali il dominium
del proprietario) ed obbligazioni, nel diritto anglosassone il concetto stesso di dominio non rimanda ad una
appartenenza piena ed esclusiva della res bensì al complesso di tutti i diritti che fanno capo alla stessa,
concernenti non solo il godimento ma anche posizioni sociali, giurisdizionali, privilegi, titoli o uffici.
Nel diritto feudale, la real property era articolata in due classi di beni e diritti:
— beni corporali (cd. corporeal) nei quali rientravano tutti i maggiori diritti sulla terra (estates in the land), che
implicavano un godimento effettivo del fondo; la materialità o corporeità costituiva una estensione della
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fisicità del bene sul quale cadevano e veniva certificata da un solenne atto di costituzione (cd. seisin o livery of seisin), consistente in una cerimonia di infeudazione con consegna materiale del possesso del bene;
— beni incorporali (cd. incorporeal), ovvero diritti rientranti nei rapporti di concessione feudale ma insuscettibili di consegna reale, che traevano origine in un atto unilaterale di concessione (cd. grant) effettuato anch’esso in forma solenne (deed) ma senza la consegna materiale del bene. Tra gli incorporeal
rientravano, tra l’altro, diritti di patronato, franchigie, decime, servitù prediali (easements), diritti di
trarre i frutti (profits a prendre) etc.
Ownership e possession
Anche il concetto anglosassone di ownership, letteralmente possesso in nome proprio, titolarità (MOCCIA),
appare poco compatibile con gli istituti continentali, anche perchè l’istituto assume significati e valenze tra
loro ben distinti negli ordinamenti di derivazione romanistica; owner è infatti il proprietario di un bene, ma
anche il titolare di uno o più interessi di tipo proprietario aventi rilevanza patrimoniale (cd. estate owner).
La ownership degli ordinamenti anglosassoni non corrisponde assolutamente, né sul piano concettuale né
su quello sistematico, alla proprietà dei sistemi di civil law, ma assume valore descrittivo di una mera titolarità di diritti, di qualsiasi tipo, su beni mobili o immobili.
Le ragioni di tale distinzione di fondo sono ancora una volta di ordine storico.
All’epoca della conquista dei Normanni, in Inghilterra la terra era tutta di proprietà della corona (terra regis),
sicché ogni privato proprietario terriero, chiamato appunto land owner, altro non era che un mero possessore di un bene altrui (del sovrano), ed il relativo diritto non poteva che essere esercitato sotto le dipendenze del sovrano stesso, al quale andavano resi oneri e servigi.
In epoca medioevale, partendo dal presupposto della pienezza dei poteri riguardo al fondo, molti autori
(GLANVILL, BRANCTON) omologarono la posizione del land owner a quella del dominus rei di stampo
romanistico. Tale avvicinamento, tuttavia, nasceva da una confusione tra la sfera privata (proprietà dei
territori) e quella pubblica (governo dei territori).
Nel 1660 (Tenures abolition Act), gli obblighi tipicamente feudali di prestare oneri e servigi al sovrano
vennero convertiti nel cd. free and common socage (ovvero nell’unica obbligazione di pagare una rendita),
il che sancì la decadenza dell’antico sistema feudale e l’affermarsi di una sistema borghese fondato sulle
libertà economiche e civili, con un conseguente rafforzamento del concetto di «signoria generale» in capo
al proprietario.
Il principio feudale del dominio eminente della corona, tuttavia, rimase sempre concettualmente in vigore,
sicché la property immobiliare rimase ben distinta dalla proprietà assoluta (absolute ownership).
La ownership anglosassone, ben distinta dalla proprietà dei sistemi continentali, presenta invece una strettissima connessione con la possession di stampo romanistico.
Mentre nei sistemi di civil law proprietà e possesso rappresentano concetti ben distinti sia sul piano sostanziale sia processualmente (in quanto diversamente tutelate da azioni petitorie e possessorie), nel modello
inglese si instaura tra le due figure un rapporto di implicazione reciproca, ben rappresentato dalla formula
possessory ownership (possesso come presunzione di proprietà).
Non vi è, comunque, assoluta identità tra ownership e possession: la prima, infatti, costituisce pur sempre
una situazione di diritto, mentre il rapporto possessorio resta relegato tra quelli di fatto. Dal che deriva,
processualemnte, che solo la absolute ownership è oggetto di apposita tutela mediante declaratory judgement (giudizio di accertamento).
Nel sistema immobiliare della real property, alla posizione di «proprietario» (landowner) compete il diritto di ownership che, come detto, non costituisce una proprietà assoluta ma solo un diritto al possesso del
bene (right to possess).
Si parla, perciò, di titolarità al possesso (title to land) e non direttamente di titolarità del bene (ownership
to land). Il possesso conferisce pertanto un titolo valido erga omnes (ad eccezione di chi può vantare un
diritto superiore al possesso).
Tale concezione possessoria del tilte to land ha origine da un atto formale di attribuzione e riconoscimento, la cd. seisin.
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Gli Estates
Accanto alla seisin-possession, l’altra componente fondamentale del modello inglese di real property è rappresentata dall’estate, ovvero lo status giuridico di cui taluno è investito in relazione ad un determinato bene.
L’idea si «estate» presuppone un’altra delle fondamentali caratteristiche del modello inglese di proprietà,
ovvero la frazionabilità (cd. fragmentation of ownership) dei diritti connessi alla proprietà.
L’origine dalla doctrine of estates risale all’epoca medioevale, nella quale si sostituiva alla materialità
dell’oggetto l’effettivo godimento delle utilità relative allo stesso: nacque così una moltiplicazione di rapporti di appartenenza relativi (e non assoluti) facenti capo a soggetti diversi in relazione al medesimo bene.
La dominazione normanna, con l’affermarsi della monarchia e dell’idea del sovrano come unico proprietario assoluto del suolo, favorirono il proliferare dei rapporti relativi, nascenti da una formale concessione
ed aventi ad oggetto possesso e godimento dei fondi.
Mentre nel resto dell’Europa il modello feudale veniva progressivamente abbandonato, tuttavia, in Inghilterra si verificò l’omologazione, e la successiva evoluzione, di un modello di tipo feudale derivato dal rifiuto dell’idea romanistica di proprietà: anziché concentrarsi su chi fosse il proprietario del bene in senso
fisico, l’attenzione si concentrò sulla utilizzazione effettiva della cosa e sui diritti relativi.
Da qui nacque la caratteristica flessibilità dei property rights, e, in luogo di quella del proprietario, si affermarono altre figure di titolari di posizioni — tutt’altro che assolute — dalle quali derivavano diritti assolutamente analoghi a quelli del proprietario (come inteso nei sistemi di civil law); tra queste, vanno ricordate:
— il tenant in fee, ovvero colui che possedeva (tenant) il fondo per sé e per i suoi eredi in forza di una
concessione di godimento ad infinitum e che poteva definirsi owner of the land in quanto, avendone il
possesso, poteva usarlo, finanche abusarne e comunque escludere ingerenze altrui;
— il tenant for life, ovvero colui che aveva diritto di possedere il fondo fino al termine della sua vita in
virtù di una concessione del proprietario o del tenant in fee; al termine della vita del tenant, il possesso
del fondo tornava al concedente (istituto paragonabile all’usufrutto).
La ownership inglese era pertanto strettamente connessa ad una concezione temporalmente limitata dei
diritti reali ed all’effettività del godimento del bene, mentre era del tutto svincolata dalla corporeità del bene.
Le situazioni soggettive di godimento della terra (estates o, in latino, status) qualificavano appunto lo status
giuridico di cui taluno era investito e non erano diversificate dal punto di vista qualitativo, ma solo in relazione all’aspetto quantitativo della durata.
Essendo così ripartito tra più soggetti il godimento di un fondo, risultava impossibile assimilare tali posizioni al concetto di proprietà assoluta del diritto romano ed affermare che ogni appezzamento dovesse avere
un unico proprietario: dal che l’affermazione che ognuno dei titolari di un estate era proprietario di un
proprio interesse (CROSSLEY VANES), ovvero titolare di un proprio status rispetto al bene stesso che lo
legittimava, per un periodo più o meno lungo, all’esercizio dei relativi poteri di godimento.
La doctrine of estates, sulla quale si fonda gran parte dell’istituto della real property inglese, muovendo
dalle esigenze, tipicamente feudali, di godimento della terra, tendeva quindi a pianificare la distribuzione
del possesso e del godimento dei fondi sullo schema delle vigenti gerarchie sociali.
Preliminarmente, è opportuno distinguere (GRAY, MOCCIA) la terra intesa come oggetto fisico (land) dai
diritti sulla stessa, oggetto di property e, pertanto, qualificabili come estates.
Distinzioni derivanti
Molteplici sono le distinzioni tra i vari estates proposte dalla dottrina, tutte imperniate sulla qualità e sulla
durata del diritto del titolare:
Innanzitutto vanno distinti gli estates riconosciuti in law (cd. legal estates) da quelli disciplinati dall’equity
(cd. equitables estates).
Tale distinzione, a seguito della fusione in un unico apparato giuridico delle corti di common law ed
equity operata dai Judicature Acts del 1873-75, assume oggi rilevanza solo in relazione ai mezzi di tutela:
difatti solo i legal remedies (come ad es. la liquidazione di danni) conseguono di diritto (automaticamente: MOCCIA) all’accertamento giudiziale dei fatti, mentre gli equitable remedies (come l’esecuzione in
forma specifica) sono concessi discrezionalmente all’esito di una valutazione di opportunità operata dal
giudice.
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Tra i legal estates, in origine riconosciuti e tutelati dalle corti di Westminster ed a numero chiuso, possono
annoverarsi:
— estates in fee simple, caratterizzati da una durata potenzialmente indefinita in quanto ereditabili da
tutta la discendenza; degli stessi il titolare poteva disporre anche per testamento; nella disciplina attuale, è indivisibile e non può essere frazionato dal titolare in una molteplicità di diritti dello stesso genere
(anche se, in equity, ammette una divisione sotto forma di trust);
— estates in fee simple conditional (o fee tail), ugualmente ereditario, ma limitato nella durata dalla predeterminazione della classe di eredi idonei alla successione (ad esempio, solo la linea maschile o
quella femminile);
— estates for life, di durata limitata alla durata della vita del titolare;
— term of years, ovvero il diritto di possesso esclusivo di un fondo per un periodo di tempo determinato.
Al di fuori dei diritti relativi al libero possesso del fondo in precedenza elencati (cd. estates of freehold),
troviamo altre situazioni comunque caratterizzate da un diritto di possedere un fondo:
— tenancy at will («a volontà»), che ciascuna della parti poteva liberamente far cessare in qualsiasi momento;
— tenancy at sufferance («per tolleranza»), caratterizzato da un primo periodo di concessione al termine
del quale il tenant poteva continuare a rimanere in possesso del fondo sino a quando il concedente non
avesse manifestato esplicito dissenso;
— leasehold (tramite il quale si costituiva comunque un term of years), ovvero l’affitto delle terre per un
tempo già inizialmente determinato.
Altra rilevante distinzione tra gli estates è tra:
— presenti (etsates in possession), caratterizzati dal godimento immediato del bene;
— futuri (estates in expectancy), nei quali il godimento è posticipato e solo eventuale.
La notevole frazionabilità degli estates in capo ad una pluralità di titolari determinava pesanti riflessi sui
trasferimenti immobiliari e sull’attività negoziale, costringendo l’acquirente a ricerche spesso estenuanti
per ricostruire tutte le vicende traslative e costitutive intervenute tra tutti i possibili co-titolari del bene.
Allo scopo di ridurre l’elevata frammentazione dell’uso e del godimento dei beni e, soprattutto, di garantire maggiore sicurezza nelle situazioni proprietarie e nella loro trasferibilità, la Law of property Act del 1925
ha distinto nettamente tra:
— legal estates (estates at law), indicati come i soli estates capaci di sussistere o di essere trasferiti o costituiti secondo lo stretto diritto: tra tali estates rientrano l’estate in fee simple absolute ed il term of year
absolute;
— legal interest (o charges), ovvero interessi o oneri relativi a beni immobili che, pur non assimilabili a
veri e propri diritti, sono comunque idonei ad essere trasferiti secondo diritto (at law). Tra questi vi sono
i diritti su fondo altrui (servitù prediali, diritti di pascolo, di raccolta prodotti, di pesca), le rendite, gli
oneri costituiti con garanzia reale, ed i cd. rights of entry che, in ipotesi di rapporti d’affitto con annessa
rendita fondiaria, attribuiscono al concedente il diritto di rientrare in possesso dell’immobile in caso di
inadempimento.
A differenza dei legal estates, i legal interest non attribuiscono potere di uso e godimento diretto dell’immobile e, pertanto, prescindono da un possesso diretto del bene da parte del titolare (cd. non possessory
rights).
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I diritti reali