N. 2/2012 - Associazione Italiana per l`Arbitrato

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N. 2/2012 - Associazione Italiana per l`Arbitrato
ISSN 1122-0147
ASSOCIAZIONE
ITALIANA
PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XXII - N. 2/2012
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
RIVISTA
DELL’ARBITRATO
diretta da
Antonio Briguglio - Giorgio De Nova - Andrea Giardina
© Copyright - Giuffrè Editore
ASSOCIAZIONE
ITALIANA
PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XXII - N. 2ù/2012
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
RIVISTA
DELL’ARBITRATO
diretta da
Antonio Briguglio - Giorgio De Nova - Andrea Giardina
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INDICE
DOTTRINA
PIETRO RESCIGNO, Rapporti associativi, indipendenza e ricusazione dell’arbitro (il caso dell’Opus Dei) ..............................................................
KATIA FACH GÓMEZ, El arbitraje en España: principales novedades aportadas por la Ley 11/2011 ....................................................................
MAURO BOVE, Arbitrato e fallimento ...........................................................
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275
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GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I)
Italiana
Sentenze annotate
Trib. Milano 28 settembre 2009, con nota di A. MOTTO, Concorso di fattispecie, ne bis in idem e ordine di esame delle questioni di rito ...
Trib. Frosinone 13 aprile 2010, con nota di D. GROSSI, Il silenzio come
manifestazione di consenso alla liquidazione del compenso degli
arbitri. L’obbligo del comportamento in buona fede ........................
Trib. Livorno 11 febbraio 2011, con nota di A. VANNI, I controversi rapporti fra arbitrato e opposizione a decreto ingiuntivo ......................
II)
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365
375
Straniera
Sentenze annotate
Francia - Cour de Cassation, 29 giugno 2011, con nota di C. RASIA, Il
controllo del lodo in caso di impugnazione per violazione di norme
di ordine pubblico europeo: la situazione in Francia ......................
393
GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I)
Italiana
Lodi annotati
Arb. Unico (Lucca) 5 maggio 2011, con nota di F. UNGARETTI DELL’IMMAGINE, La convocazione dell’assemblea di società, l’approvazione del
bilancio e l’arbitrato ..........................................................................
509
III
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RASSEGNE E COMMENTI
VALERIO SANGIOVANNI, L’ambito di applicazione dell’arbitrato Consob .....
FABRIZIO GIUSEPPE DEL ROSSO, Il riconoscimento del lodo estero tra esigenze di « ordine pubblico » e divieto di disparità di trattamento ..
425
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DOCUMENTI E NOTIZIE
Notizie libri [A.B.] ......................................................................................
IV
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DOTTRINA
Rapporti associativi, indipendenza
e ricusazione dell’arbitro
(il caso dell’Opus Dei) (*)
PIETRO RESCIGNO (**)
1. Una ordinanza milanese inedita del 2008. — 2. La risposta di Scalfaro ministro dell’Interno, nell’ottobre 1986, alle interpellanze parlamentari sull’Opus Dei. — 3. Il pensiero di Nicola Colaianni, ecclesiasticista. — 4. Il
generale problema della comune appartenenza di arbitro e parte ad una formazione sociale garantita.
1. Una ordinanza del 24 novembre 2008, per quanto sappia
rimasta inedita, del presidente del Tribunale di Milano — un magistrato, Livia Pomodoro, di cui sono note la sensibilità e la cultura —
ha rigettato un’istanza di ricusazione sollevata in un procedimento
arbitrale in ragione della comune appartenenza di un arbitro e di una
parte all’Opus Dei. Nella discussione del ricorso, a sostegno della richiesta, era stato prodotto un parere redatto da Nicola Colaianni e
dall’autore di queste note. In verità, come potrà constatare il lettore,
soltanto poche pagine sono a me riconducibili, pagine che costituiscono il paragrafo conclusivo, alle mie cure affidato, del parere reso
a doppia firma. L’interesse per il tema sembra evidente, al di là della
vicenda in cui fu portato all’esame di un giudice autorevole ed in
una sede prestigiosa: si è cercato di chiarire, con esiti negativi nel
caso dell’Opus Dei, il senso di quegli « altri rapporti di natura associativa » (altri rispetto alle relazioni individuate in maniera specifica
nella norma dell’art. 815, comma 1, n. 5 c.p.c.) che, « legando » (è
la parola usata dal legislatore) una delle parti all’arbitro, ne consen(*) Lo scritto è destinato agli Studi in onore di L.V. Moscarini.
(**) Professore emerito nella Università di Roma « La Sapienza ».
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tono e giustificano la ricusazione se e quando « ne compromettono
l’indipendenza ». Nella richiesta e nel parere, e cosı̀ nella stessa ordinanza si è pure insistito su un profilo di frequente messo in luce e
ribadito nella materia, e cioè che l’arbitro, oltre che essere immune
da vincoli di dipendenza, appaia altresı̀ indipendente agli occhi dei
terzi.
Nell’ordine vengono forniti al lettore i passaggi dell’ordinanza
in cui è racchiusa la ratio decidendi; alcuni brani della lunga risposta data nella seduta del 24 novembre 1986 della Camera dei deputati ad interrogazioni ed interpellanze sull’Opus Dei dall’allora ministro degli Interni on. Scalfaro; taluni motivi svolti da Colaianni con
la sicura competenza dell’appassionato cultore della materia delle
confessioni religiose in uno Stato di democrazia laica; da ultimo il
mio esile apporto alla discussione, indirizzato in particolare a dissipare i timori che la ricusazione (eventualmente) pronunciata per
un’organizzazione di singolare natura qual è l’Opus Dei debba poi
estendersi a tutte, o quasi, le formazioni sociali garantite dalla norma
costituzionale (l’art. 2) relativa ai diritti fondamentali della persona.
L’ordinanza milanese, in via preliminare, rimuove alcune obiezioni che avrebbero precluso l’esame della questione. In primo luogo
essa chiarisce che « la riforma dell’arbitrato ha allargato, non ristretto, le ipotesi di ricusazione degli arbitri »; nella nuova versione
dell’art. 815 rientrano ora, « anche se circoscritti ad ipotesi ben individuate, quei motivi di convenienza che, consentendo la sola astensione facoltativa, erano irrilevanti per una ricusazione ». Nel caso
specifico, e prima ancora del generale rilievo circa l’accresciuto ambito della ricusabilità, l’ordinanza respinge l’eccezione di tardività
della denuncia: « affermare che i rapporti denunciati erano di pubblico dominio e quindi ben noti ai ricorrenti appare una generica forzatura, tenendo conto da un lato della riservatezza degli appartenenti
all’organizzazione in esame e dall’altro lato della mancanza di occasioni per discuterne in quel contesto litigioso ».
Nel merito il giudice milanese esclude tuttavia che la comune
appartenenza all’organizzazione possa compromettere l’indipendenza dell’arbitro. Che si tratti di « un’istituzione facente parte della
struttura gerarchica della Chiesa, governata da un vescovo munito di
poteri di direzione spirituale », e non di « un’associazione di individui sorta per trattare affari comuni, libera di organizzarsi e governarsi secondo le esigenze della maggioranza degli associati », non è
constatazione sufficiente ad escludere che si tratti di un rapporto di
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natura associativa, da intendere nella larga accezione dell’art. 815,
comma 1, n. 5 c.p.c. Ma è sul punto concreto della visione del lavoro professionale di ciascun membro come “santificante”, e in tale
prospettiva posto alla base del vincolo di comunione e della stretta
coesione dei componenti, che il Tribunale nega ogni compromissione
dell’indipendenza: si discute di questioni societarie, e quindi di interessi patrimoniali, e « un lavoro santificato coincide in questo campo
con il giusto componimento degli opposti interessi economici, non
con l’attribuzione di vantaggi ad una parte che condivide gli stessi
ideali religiosi ma non li mette in pratica ». Poiché « sarebbe contraria al principio di santificazione del lavoro professionale dell’arbitro
l’affermazione della liceità di un comportamento sociale scorretto »,
l’ordinanza finisce anzi per muoversi, senza nasconderselo, sul filo
sottile del paradosso: « si può persino affermare che l’arbitro più
adatto a giudicare se il lavoro professionale di un componente dell’Opus Dei è stato santificato, sia proprio un fedele della Prelatura ».
2. La lunga risposta dell’on. Scalfaro, a quel tempo (novembre 1986) ministro dell’Interno, a interrogazioni e interpellanze relative alla “segretezza” dell’Opus Dei (e ai conseguenti divieti in cui
poteva incorrere ai sensi della Costituzione e della speciale normativa dettata con la Legge n. 18/1962), è un documento meritevole di
attenzione, provenendo da un personaggio di considerevole statura
che ha sempre cercato di conciliare il rispettoso senso dello Stato e
la devozione fedele alla Chiesa cattolica (anche se, per sua e nostra
fortuna, non ha vissuto episodi di laceranti conflitti di lealtà). L’intervento dell’on. Scalfaro contiene innanzitutto i dati relativi alla nascita ed ai riconoscimenti ottenuti dall’Opus Dei: fondata nel 1928
in Spagna e riconosciuta come “pia unione” secondo il diritto canonico nel 1943 dal vescovo di Madrid, nel ’47 l’organizzazione fu
eretta in istituto secolare di diritto pontificio e nel 1982 in “prelatura
personale” con l’approvazione del Codex iuris particularis che ne
rappresenta lo statuto; con quella qualifica passò sotto la competenza
diretta del Papa, ne venne confermato il carattere dell’internazionalità, le venne assegnata Roma come sede centrale (ma già tra il ’47
e il ’53 avevano ottenuto la personalità giuridica italiana alcune
strutture operanti nel nostro paese). La risposta di Scalfaro, in larga
misura fondata su informazioni e chiarimenti ricevuti dalla Santa
Sede, è costellata da frequenti citazioni dal codex iuris particularis,
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tradotte in italiano dopo che con ingenua sincerità un deputato aveva
confessato ad alta voce la generale ignoranza del latino nell’assemblea.
Le interpellanze dei parlamentari e la replica del ministro riguardarono, come si è detto, il profilo della segretezza. Le conclusioni di Scalfaro la negano senza alcun margine di dubbio. « L’Opus
Dei, assicurava il ministro, non è segreta né in linea di diritto né in
linea di fatto; il dovere di obbedienza riguarda esclusivamente materie spirituali; non vi sono diritti e doveri oltre quelli previsti dal Codex iuris particolaris, e anche questi sono di natura strettamente spirituale; nessun diritto e dovere del vecchio regime, se non è previsto
nel nuovo, è sopravvissuto all’istituzione della prelatura ».
Conviene riportare i passi salienti della motivazione: « il limite
tra il lecito e l’illecito, tra il sacrosanto esercizio del diritto e la consumazione del reato è individuabile nel nesso di preordinazione o,
quanto meno, di consequenzialità che deve intercorrere tra l’azione
di occultamento dell’associazione e quella di interferenza nell’esercizio di pubbliche funzioni, di talché la prima azione possa essere
considerata strumentale alla seconda. Fuori di questi limiti, ogni fenomeno associativo non può che essere considerato lecito... Nessuno
dei requisiti voluti dall’art. 1 della Legge n. 17/1982 perché una associazione possa ritenersi segreta si attaglia all’Opus Dei, né sotto il
profilo della sua organizzazione, né sotto quello delle sue regole, né
relativamente alle attività poste in essere... Quanto all’organizzazione e alle sue regole è noto che l’art. 1 della Legge n. 17/1982
ipotizza in proposito una serie di alternative. Vi è quella dell’occultamento della stessa esistenza dell’associazione: l’ipotesi, con riguardo all’Opus Dei, è talmente priva di riscontro da non richiedere
alcuna particolare osservazione. Vi è anche quella del tener segrete
congiuntamente finalità e attività sociali: anche qui siamo fuori di
ogni riscontro nella realtà, essendo chiare e proclamate le finalità e
le attività sociali dell’Opus Dei nel campo della formazione religiosa, secondo le direttive spirituali del capo della Chiesa cattolica e
in assonanza con la sua opera ecumenica; e per quanto attiene ai fedeli non religiosi l’Opus Dei... se ne propone la santificazione attraverso l’esercizio delle virtù cristiane nello stato, professione e condizione di vita di ciascuno, precludendosi però espressamente di dar
loro scelte in materia professionale... Vi è ancora quella di rendere,
in tutto o in parte, ed anche reciprocamente sconosciuti i soci; ma
neanche sotto tale profilo l’Opus Dei può qualificarsi come associa266
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zione segreta; né secondo la Costituzione né secondo la legge vigente può pretendersi difatti che un’associazione, per essere lecita e
non segreta, sia tenuta a pubblicizzare all’esterno l’identità dei propri associati; divieto di segretezza non significa obbligo di pubblicizzazione ».
E più avanti: « l’atto di adesione del laico alla prelatura investe
esclusivamente i fini spirituali della prelatura stessa, restando tassativamente escluso tutto ciò che possa determinare interferenze nelle
attività civili, svolte dai membri dell’Opus Dei in quanto cittadini.
L’attività della prelatura è infatti, dichiara la Santa Sede, assolutamente rispettosa dell’autonomia dell’ordine temporale tant’è — è
bene ribadirlo — che gli artt. 2 e 3 del Codex juris particularis prescrivono che i fedeli della prelatura compiano i doveri del proprio
stato e si comportino nella loro attività o professione sociale “summa
semper cum reverentia pro legitimis societatis civilis legibus”; l’art.
89 del Codex stesso impone di non nascondere l’appartenenza alla
prelatura e di rifuggire da ogni clandestinità o segretezza; in base all’art. 88 del Codex il potere delle autorità della prelatura è limitato
esclusivamente al campo religioso-spirituale, essendo ad esse proibito “del tutto di dare qualsiasi consiglio” in materia professionale e
nelle scelte sociali, politiche ».
3. Nell’inedito parere da me redatto assieme a Nicola Colaianni da quest’ultimo è stata compiuta un’indagine approfondita
sulle finalità dell’Opus Dei e sulla tenace rigidità dei vincoli che legano gli aderenti alla “prelatura” e gli associati tra loro; le fonti citate sono tratte in prevalenza da una letteratura che rifugge cosı̀ dall’esaltazione come dalla denigrazione dell’ente (i nomi di maggiore
spicco sono Messori, Baura, Le Tourneau). Scriveva Colaianni: « I
laici convenzionati con la prelatura — i numerari aggregati o soprannumerari che siano — hanno un vincolo molto più pregnante di
quello dei fedeli aderenti a semplici associazioni: in particolare, rispetto al Prelato - Vescovo, “omnibus Praelaturae fidelibus magister
atque Pater” (n. 132 § c.i.p.o.d.), si registra « un vincolo di comunione (gerarchica) tra di lui e i fedeli che sono sotto la sua cura pastorale e giurisdizione a motivo appunto della natura istituzionale,
intrinseca cioè alla struttura organizzatoria necessaria della Chiesa e
non modificabile o integrabile né tanto meno estinguibile dalla volontà del fedele, dell’Opus Dei ».
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E più avanti: « sotto il profilo dell’obbedienza, l’impegno dei
membri dell’Opus Dei sembra analogo a quello dei religiosi (cfr. i
nn. 6-16 c.i.p.o.d.), benché la prelatura si differenzi in radice dagli
istituti di vita consacrata sia per la composizione — di essa facendo
parte chierici e laici, celibi e coniugati, uomini e donne — sia, soprattutto, per la peculiare finalità, che richiede ai suoi membri, come
disse il Fondatore, proprio di “rimanere per strada”: ma consapevoli
di potersi imbattere in qualche cartello di divieto di accesso o di
svolta o di inversione ad U, apposto dal legittimo superiore, alle cui
prescrizioni accettano a priori (non per voto, come i religiosi, ma,
laicamente, per libera convenzione) di obbedire ».
In particolare sul fine dell’organizzazione, sulla natura “santificante” del lavoro professionale e sulla presunzione di “giustizia”
delle prestazioni rese: « il fine dell’Opus Dei invece è affatto peculiare, giacché, a differenza di quello delle circoscrizioni territoriali
(diocesi), non consiste nella generica cura delle anime ma specificamente (n. 2 c.i.p.o.d.) nella santificazione delle realtà temporali attraverso la santificazione del lavoro professionale... Nell’Opus Dei, siccome continuazione della preghiera, il lavoro “santificante e santificato non è un’attività marginale nella vita del cristiano” e perciò assurge ad elemento essenziale del vincolo comunionale ed è perciò
giudicabile dalla gerarchia istituzionale. Di conseguenza il vincolo di
fede dei membri dell’organizzazione si realizza non solo nella preghiera (culto, spiritualità, formazione dottrinale) ma anche e principalmente nell’attività professionale che, in qualunque campo si esplichi, è, o comunque si presume, resa conforme alla preghiera, anzi un
momento di essa... Coinvolgendo nella propria ragion d’essere istituzionale non solo l’attività spirituale o apostolica in senso proprio,
ma anche quella lavorativa, l’Opus Dei acquista però un carattere
olistico, connotato dall’attenzione verso tutti gli aspetti della vita
umana e le attività dei propri aderenti, visti in una totalità ad essi superiore. L’attività professionale è cosı̀ coessenziale al carisma dell’Opera da diventare elemento di coesione dei membri, ragione di
identità ma, per altro verso, anche di riconoscimento della meritevolezza dei legami associativi, professionali e patrimoniali, intrattenuti
da ogni membro con chi non è associato. D’altro canto, le relazioni
che si stabiliscono nel mondo del lavoro, delle professioni e degli
affari costituiscono momenti privilegiati di apostolato ».
E per finire: « se “il lavoro va compiuto bene, perché non si
può offrire a Dio un dono malfatto”, “perché cosı̀ facendo si migliora
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la vita di tutti” e cosı̀ “vi risaltino davanti a tutti le qualità del credente, collaboratore di Dio nella creazione e nella ricreazione del
mondo (cosı̀ si esprimono i due autori di un libro sulla vita del fondatore) si può dire che l’attività svolta da ciascun membro — personalmente o in associazione con altri soggetti, anche estranei all’Opus
— è assistita da una presunzione di giustizia e meritevolezza, agli
occhi degli altri aderenti, la cui indipendenza di giudizio rimane cosı̀
velata ».
4. L’ultima parte del parere conteneva le mie riflessioni, qui
riportate nella loro integrità e dedicate al generale tema dei rapporti
intersoggettivi nelle formazioni sociali preordinate allo sviluppo
della persona (art. 2 Cost.).
Alla singolare natura dell’Opus Dei, ed all’indole del vincolo
che ne lega i componenti, non sono assimilabili le altre formazioni
sociali a cui si può essere indotti a pensare, sempre con riguardo al
dovere di astensione ed al potere di ricusazione dell’arbitro-giudice.
Sul punto sembra necessario svolgere qualche considerazione poiché
un motivo di valutazione critica della tesi potrebbe ravvisarsi nella
gravità delle conseguenze, qualora si estenda il principio ai rapporti
associativi correnti tra i membri di altre formazioni, o a dirittura di
tutte quelle riconducibili alla previsione costituzionale dell’art. 2,
prima e fondamentale regola in cui è dichiarata la tutela alle stesse
riservata.
In effetti, ciò che si è cercato di mettere in luce per l’Opus Dei
— quanto al rilievo del lavoro professionale degli aderenti ed alla
presunzione di verità e giustizia che riveste la condotta pratica di
ciascuno agli occhi degli altri — non ricorre in alcuna delle formazioni sociali protette, a cominciare dalle confessioni religiose e dalle
istituzioni create nel loro ambito.
Il discorso e la verifica possono essere condotti sulle formazioni abitualmente considerate nel novero di quelle in cui si svolge
la personalità individuale e che sono assistite dalla rafforzata garanzia della norma costituzionale. Prescindendo dalla famiglia, che tra
le comunità contemplate presenta caratteri non comparabili con
quelli delle altre formazioni (ma intanto non vi è dubbio che incida
sulla capacità di essere arbitro il vincolo familiare che lega il soggetto ad una delle parti in giudizio), deve prestarsi attenzione alle
confessioni religiose, ai sindacati, ai partiti politici, che costituiscono
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— secondo una terminologia largamente invalsa — formazioni sociali “tipiche”, in quanto storicamente consolidate e sul piano positivo munite di ulteriore, specifica garanzia costituzionale.
Una elementare indagine sulla natura e gli effetti della partecipazione individuale a siffatte comunità (o “società intermedie”, per
usare un’altra formula adottata dalla dottrina sociologica e giuridica)
non rivela un coinvolgimento della persona analogo, e nemmeno
lontanamente suscettibile di essere posto a confronto con il rapporto
che tra singolo e organizzazione si attua in istituzioni come l’Opus
Dei.
Come si è avuto modo di chiarire attingendo dalle stesse fonti
costitutive e regolative dell’Ente, dalla disciplina in concreto osservata e dalle descrizioni dottrinali provenienti da giuristi che dell’O.D. hanno diretta cognizione, nella istituzione in esame, per l’assoluta decisiva preminenza attribuita al lavoro professionale come
strumento di “santificazione” nell’ordine spirituale oltre che di qualificazione nell’ambito della condizione e della promozione sociale
dei singoli, la condivisione dei motivi ideali e l’appartenenza alla
formazione rappresentativa dell’idea assumono nei rapporti intersoggettivi una rilevanza del tutto impensabile nelle altre forme associative operanti sul terreno religioso o sindacale o politico o mutualistico (con l’ultimo termine si indica un altro fenomeno proprio della
realtà pluralista rispecchiata nella norma costituzionale più volte richiamata).
Nelle confessioni religiose la comunanza di fede, pur quando si
traduce in comportamenti omogenei esteriormente apprezzabili, non
conduce agli esiti che si è tentato di porre in evidenza per l’O.D. In
effetti può dirsi per tutte le chiese, a partire da quella cattolica, che
l’attività dei soggetti nella esterna dimensione del lavoro svolto, autonomo e subordinato, costituisce un fatto indifferente ai fini dell’elevazione del singolo e del perseguimento delle finalità spirituali
del gruppo. In linea di principio l’appartenenza ad una o altra categoria professionale non introduce criteri classificatori o discriminanti
tra i correligionari, come del resto si evince dalle finalità indicate nei
testi normativi (e dal c.j.c. della Chiesa cattolica in primo luogo)
quale elenco degli scopi che debbono proporsi le organizzazioni pubbliche o private dei fedeli.
Il punto merita di essere sottolineato, nel senso che l’O.D. presenta nelle “tavole” fondative e regolamentari ed ancor più nella
prassi concreta peculiarità che valgono a distinguerla ed a contrap270
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porla alle modalità con cui vengono costituite ed operano le confessioni religiose globalmente considerate e le articolazioni in cui si organizzano.
A titolo di esempio, non costituirebbe motivo legittimo di ricusazione dell’arbitro la appartenenza condivisa con la parte all’Azione
cattolica, o ad uno dei “movimenti” (Gioventù, universitario, laureati) in cui essa si articola, non rappresentando il fatto un evento
“totalizzante” come è la milizia dell’O.D. che per solito si traduce
altresı̀ nel ricorso a “servizi” (scolastico, ospedaliero, turistico) prestati nell’ambito del gruppo.
La constatazione, che riveste particolare importanza se riferita
a ciascuna confessione religiosa vista nella totalità e negli enti strumentali creati ai propri fini, riceve conferma dall’esame delle formazioni alla cui base si rinvengono motivazioni diverse dalla fede religiosa (che è in primo luogo un fatto di coscienza, pur se tende poi a
manifestarsi all’esterno attraverso il culto). Se ad esempio si guarda
al sindacato come associazione preordinata alla tutela degli interessi
di una categoria professionale di prestatori o datori di lavoro, ci si
rende conto che l’appartenenza di due soggetti al medesimo sindacato rappresentativo della categoria, mentre rivela la comune convinzione che l’interesse collettivo (e di riflesso quello individuale) possa
essere efficacemente curato dal gruppo a cui si aderisce, prescinde da
ogni valutazione di merito circa le modalità e gli esiti dell’esercizio
della professione da parte dei singoli aderenti. In sostanza la professione esercitata e l’interesse a tutelarla costituiscono il presupposto
del vincolo associativo; nel caso dell’O.D. è il rapporto tra gli associati a determinare, superando ogni specificità e diversità dei settori
di impegno lavorativo, la convinzione che ciascun aderente esplichi
il proprio lavoro esterno professionale, in virtù della obbedienza al
credo comune, secondo un modello che ne garantisce l’interna conformità a giustizia.
La preoccupazione che la tesi sostenuta per l’O.D. possa condurre a indebite e pericolose estensioni del principio è infondata anche per il partito politico, dove il concorso di tutti gli associati a determinare la politica nazionale con metodo democratico (che è la finalità riconosciuta ai partiti nell’art. 49 Cost.) non si traduce in una
visione “totalizzante” dell’adesione, nel senso di ravvisarvi il presupposto di comuni concezioni di ogni aspetto della vita concreta, a cominciare dal lavoro professionale e con l’attribuire allo stesso un carattere qualificante della persona. Come si è detto alla stregua dei
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documenti di provenienza dell’O.D. e dell’esperienza che è dato
averne anche alla luce delle sofferte testimonianze dei fuorusciti,
l’attività professionale, pur se collocata nel mondo degli affari, costituisce mezzo di “santificazione” e si risolve perciò nel parametro con
cui ogni aderente, quale che sia il tipo di vincolo che all’organizzazione lo lega, è giudicato e valutato, sempre sulla premessa che l’attività sia svolta in termini corrispondenti all’altissima finalità a cui è
preordinata sul piano spirituale.
Ciò che si è osservato per le confessioni religiose e per gli enti
in seno ad esse operanti, per i sindacati, per i partiti politici può essere ripetuto con ragioni parimenti persuasive per le associazioni
d’indole mutualistica. L’appartenenza ad una comune categoria (che
può del resto presentare una estrema latitudine, come ad esempio
avviene quando la società cooperativa o la mutua assicuratrice sia
aperta a “consumatori” o “lavoratori”) e lo spirito di solidarietà che
ne lega i componenti sono certamente alla base dei singoli fatti organizzativi, ma la motivazione delle singole adesioni, da cercare
nelle favorevoli condizioni di accesso a beni o servizi, non si risolve
in “implicazioni” che incidano sull’intera vita e attività delle persone
e che facciano del lavoro professionale di ciascuna il preminente criterio di giudizio e di apprezzamento.
La breve riflessione svolta sulle confessioni religiose, i sindacati professionali, i partiti politici, le associazioni di tipo mutualistico
aveva il dichiarato scopo di mettere in luce come non sia giustificato
il timore dell’interprete circa l’estensione ad altre formazioni sociali
(non di profitto, e preordinate allo sviluppo della persona) del principio prospettato per l’Opus Dei e che giustifica la ricusazione dell’arbitro che in maniera diretta o mediata abbia con la parte in comune l’appartenenza e l’impegno nell’organizzazione.
Nelle stesse confessioni religiose, come si è cercato di chiarire,
il lavoro professionale non costituisce elemento rilevante al fine di
fondare criteri di giudizio, e ancor meno nella condivisione di interessi economici (perciò, con un esempio di sicura evidenza, si è affermato che non sarebbe ricusabile l’arbitro militante, come la parte,
in organismi quale l’Azione cattolica).
La precisazione ancor più agevolmente si comprende e deve
essere accettata per i sindacati, i partiti, gli enti mutualistici: la condivisione di soli motivi ideali in soggetti collettivi a cui è estraneo
ogni intento di profitto sicuramente rivela il carattere non “totalizzante” dell’adesione e dei vincoli che ne discendono, a differenza di
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ciò che accade, per ammissione dello stesso fondatore e delle autorità spirituali del gruppo, nell’Opus Dei.
Un discorso diverso si renderebbe necessario, risalendo anche
alle fonti giurisprudenziali, per le associazioni a cui è connaturale il
carattere di segretezza (talora accostate, nella pubblicistica in materia, allo stesso Opus Dei); ma una specifica indagine non sembra necessaria, in ragione della negata liceità di tali enti, mentre dell’Ente
in esame non può revocarsi in dubbio la meritevolezza dei fini e
dunque, prima ancora, la piena liceità.
As its starting point, the comment makes reference to a decision of the Milan Tribunal which, in November 2008, rejected a challenge brought by a party to
the appointment of an arbitrator who, together with another party to the same arbitration, were both members of the Opus Dei prelature, a Catholic institution. The
court’s decision was based on the wording of article 815, first paragraph, no. 5, of
the Code of Civil Procedure.
The article considers the ratio decidendi of the court’s orders but then goes
much further. Reference is made first to several passages of the “lengthy answer”
presented by the late Honourable Oscar Luigi Scalfaro, then Minister of Internal
Affairs, to the Lower House of Parliament in its sitting of 24 November 1986, in
response to a formal question regarding the Opus Dei organisation. The comment
also contains detailed excerpts from joint report, filed in the Milan court proceedings referred to above, prepared by Nicola Colaianni, an expert on the internal
rules and the ends of the Opus Dei organisation, and by the author of the comment
himself, who considers the general theme of the interpersonal relationships within
associations which are aimed at the development of the individual (article 2, Constitution).
The commentary distinguishes Opus Dei from other social groups whose existence is enshrined by article 2 of the Constitution. In particular, the elements of
secrecy and of obedience are peculiar features of Opus Dei. In conclusion, the article invites serious reflection on the true significance and implications of the
wording of Article 815, in the part which refers to those bonds created through relationships within associations which may “compromise the independence” of the
arbitrator.
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KATIA FACH GÓMEZ (*)
1. Elevación de los órganos competentes para llevar a cabo determinadas
funciones judiciales de apoyo y control en relación con el arbitraje. — 2. Potenciación del arbitraje societario. — 3. Incorporación de mejoras al procedimiento arbitral. — 4. Incorporación de mejoras referidas al laudo arbitral.
— 5. Incremento de la protección al convenio arbitral y al pacto de mediación en el ámbito concursal. — 6. Resolución de conflictos entre la Administración estatal y sus Entes Instrumentales.
La Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje (1), vino a
sustituir en España a la Ley 36/1988, de 5 de diciembre, de arbitraje (2). Aquella Ley 60/2003 se presentó sistematizada en nueve tı́tulos, que contenı́an un total de 46 artı́culos. En la Exposición de Motivos de la citada norma de 2003 se afirmaba que la nueva regulación pretendı́a generar un salto cualitativo en el ámbito del arbitraje.
En este sentido, la mencionada Ley se declaraba inspirada en la Ley
Modelo de Uncitral y a través de dicha influencia se deseaba que
España se convirtiese en un referente en materia arbitral (3).
Al igual que otros legisladores extranjeros han hecho recientemente (4), el legislador español decidió emprender en el año 2010
(*) Profesora Titular de Derecho Internacional Privado de la Universidad de Zaragoza. Miembre de los projectos de investigación DER 2009-11702 (sub SURI) y e-PROCIFIS (Reg. S14/3).
(1) BOE número 309 de 26/12/2003, 46097 a 46109.
(2) BOE número 293 de 7/12/1988, 34605 a 34609.
(3) Esta ley española fue objeto de interés por parte de la doctrina italiana, manifestado en trabajos como Alessandro PIERALLI, « La reforma del arbitraje en Italia: Principales
novedades comparadas con la Ley española 60/2003 de arbitraje », Anuario de Justicia Alternativa, Derecho Arbitral, número 9, año 2008, 83-117.
(4) A modo de ejemplo, en Francia, Decreto 2011 48 de 13 de enero de 2011 rela-
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una reforma de esta Ley 60/2003 (5). Partiendo de que los logros
conseguidos por dicha ley son abundantes (« la formulación unitaria
del arbitraje, el reconocimiento del arbitraje internacional, el aumento de la disponibilidad arbitral, sus reglas sobre notificaciones,
comunicaciones y plazos, el apoyo judicial al arbitraje o su antiformalismo ») (6), se afirma que « algún aspecto de la Ley 60/2003 que
en la práctica se ha mostrado mejorable » (7) justifica una modificación legislativa a través de la cual « se pretende dotar de mayor seguridad y confianza jurı́dica a esta institución, para acrecentar la
celebración de procedimientos arbitrales, sobre todo desde el plano
internacional » (8). Teniendo en cuenta que actualmente se estima
que hay más de cuatro millones de causas pendientes ante los tribunales españoles (9) y que el número de arbitrajes en España aún podrı́a ir creciendo de una forma más intensa (por ejemplo, los arbitrajes gestionados por la Red de Cortes de Arbitraje de las Cámaras de
Comercio de España han pasado de 420 en el año 2007 a 751 en el
2009) (10), esta voluntad legislativa está claramente justificada.
La reforma citada se lleva a cabo a través de la aprobación de
la Ley 11/2011, de 20 de mayo, de reforma de la Ley 60/2003, de 23
de diciembre, de Arbitraje y de regulación del arbitraje institucional
en la Administración General del Estado (11), ası́ como de la Ley
Orgánica 5/2011, de 20 de mayo, complementaria a la Ley 11/2011,
tivo a la reforma del arbitraje (traducción española en Revista de arbitraje comercial y de inversiones, 2011, 3, 836-844 y con un monográfico sobre dicho Decreto en el Spain Arbitration Review 11/2011). En Costa Rica, la Ley 8937 sobre arbitraje comercial internacional, en
vigor desde el 25 de mayo de 2011, http://www.wipo.int/wipolex/es/details.jsp?id=9447.
(5) Esta Ley 60/2003 habı́a sufrido ya una modificación no esencial a través de la
Ley 13/2009, de reforma de la legislación procesal para la implantación de la nueva Oficina
Judicial: BOE número 266 de 4/11/2009, Núm. 266, 92103-92313. En torno a esta reforma,
vid. Maria Victoria SÁNCHEZ POS, « La nueva oficina judicial y el arbitraje (modificación de
la Ley 60/2003 de 23 de diciembre, de arbitraje, por la Ley 13/2009, de 3 de noviembre, de
reforma de la legislación procesal para la implantación de la nueva oficina judicial) », Revista Aranzadi doctrinal, número 4, 2010, 87-98.
(6) Preámbulo de la Ley 11/2011BOE número 121 de 21/5/2011, 50797.
(7) Preámbulo de la Ley 11/2011, BOE número 121 de 21/5/2011, 50797.
(8) Preámbulo de la Ley 5/2011, BOE número 121 de 21/5/2011, 50795.
(9) Elvira ARROYO, « La reforma de la Ley de Arbitraje », Escritura Pública, n. 66,
2010, 26-28.
(10) Ha de tenerse en cuenta que estas estadı́sticas son parciales, ya que no abarcan
los arbitrajes gestionados por otras instituciones arbitrales ni los arbitrajes ad hoc, vid. « La
reforma de la Ley de Arbitraje de 2003 », http://www.diariojuridico.com/opinion/la-reformade-la-ley-de-arbitraje-de-2003.html.
(11) BOE número 121 de 21/5/2011, 50797 a 50804.
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de 20 de mayo, de reforma de la Ley 60/2003, de 23 de diciembre,
de Arbitraje y de regulación del arbitraje institucional en la Administración General del Estado para la modificación de la Ley Orgánica 6/1985, de 1 de julio, del Poder Judicial (12).
El presente trabajo va a realizar a continuación una presentación de las novedades más relevantes que las leyes 11/2011 y 5/2011
han introducido en la actual normativa arbitral española (13), sin analizar exhaustivamente otras propuestas de reforma que no han llegado a plasmarse en las citadas leyes (14). Con fines sistematizadores, dichas reformas se van a abordar agrupándolas en los seis apartados que componen este trabajo.
1. En el artı́culo 8, apartados 1 y 6 de la Ley 60/2003 se proclamaba la competencia de los Juzgados de Primera Instancia (15)
para, respectivamente, nombrar árbitros y decidir sobre el exequátur
de laudos extranjeros. La nueva redacción introducida para la Ley
11/2011 altera este reparto, proclamando que ahora es competente la
(12) BOE número 121 de 21/5/2011, 50795 a 50796.
(13) Las diferentes modificaciones que se han ido proponiendo respecto de la Ley
60/2003 en los distintos momentos del proceso de reforma pueden consultarse en http://
www.aeade.org/corte/arbitraje/index.php?len=es&pag=guia_rapida_reforma_ley_arbitraje.
(14) En este sentido, el colectivo arbitral español agradece unánimemente que no
llegase a convertirse en ley el texto aprobado el 22 de febrero de 2011 por la Comisión de
Justicia del Congreso. En él sólo se admitı́a el arbitraje de equidad si se trataba de un arbitraje internacional y si las partes lo habı́an autorizado expresamente. En contra de dicha restricción — que no ha llegado a incorporarse a la Ley 60/2003 — se ha argumentado que el
arbitraje de equidad es una figura de gran arraigo histórico, suponiendo la propuesta aprobada por la Comisión una limitación a la autonomı́a de la voluntad, que es una de las piedras
angulares del arbitraje. El arbitraje de equidad es asimismo especialmente adecuado para solucionar controversias de carácter técnico y esta pretendida restricción hubiese supuesto además apartarse del modelo monista, que inspira la Ley 60/2003, siendo incongruente con el
mantenimiento del arbitraje de equidad en el ámbito del arbitraje de consumo (posible a través del artı́culo 1.3 y la disposición adicional única de la Ley 60/2003 y de normas como el
Real Decreto 231/2008, de 15 de febrero, por el que se regula el Sistema Arbitral de Consumo). Respecto a este posicionamiento, vid. Miguel TEMBOURY, « El nuevo proyecto de reforma de la Ley de Arbitraje: Primeras impresiones », http://prensa.vlex.es/vid/reforma-arbitraje-primeras-impresiones-262385570 y Marco DE BENITO, « Tres apuntes sobre la reforma
de la Ley de Arbitraje », Diario La Ley 7533, 22 diciembre 2010, 1833-1841, esp. 18391840.
(15) Aunque no apareciese recogido en el tenor literal del artı́culo 8.1 y 8.6 de la Ley
60/2003 también eran competentes en estas materias los Juzgados de lo Mercantil, tal y como
se afirma en el Preámbulo de la Ley Orgánica 5/2011 y como igualmente proclamaba el artı́culo 86.ter. 2 g) de la Ley Orgánica del Poder Judicial 6/1985, antes de ser derogado por
la citada Ley Orgánica 5/2011.
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Sala de lo Civil y de lo Penal del Tribunal Superior de Justicia (16)
de la correspondiente Comunidad Autónoma (17) respecto del nombramiento y remoción judicial de árbitros (18) y respecto del reconocimiento de laudos o resoluciones arbitrales extranjeras (19). El artı́culo 8.5 de la Ley 60/2003 también refleja lo que el Preámbulo de la
Ley 11/2011 denomina « reasignación-elevación de funciones judiciales », al pasar a ser competente para conocer de la acción de anulación del laudo la Sala de lo Civil y de lo Penal del Tribunal Superior de Justicia de la correspondiente Comunidad Autónoma, cuando
previamente era competente la Audiencia Provincial del lugar donde
se dictó dicho laudo (20). Es el Preámbulo de la Ley 5/2011 el que
justifica estos cambios afirmándose que los Tribunales Superiores de
Justicia cuentan con « un ámbito territorial con mayor visibilidad a
efectos de arbitraje internacional que los Juzgados unipersonales y
que permitirán una mayor unificación de criterios de los que actualmente acontecen con las Audiencias Provinciales » (21). Sensu contrario, seguirán siendo competentes los Juzgados de Primera Instancia (22) para el resto de cuestiones que les atribuı́a la Ley 60/2003 y
que no han sido modificadas por la Ley 11/2011 (en materia de asis(16) Estos cambios han requerido que se hayan introducido modificaciones en los artı́culos 73, 85 y 86 ter de la Ley Orgánica 6/1985 del Poder Judicial a través de la Ley Orgánica 5/2011 y que se haya modificado el artı́culo 955 de la Ley de Enjuiciamiento Civil de
1881 a través de la disposición final primera de la Ley 11/2011.
(17) Entiéndase que con « correspondiente » esta autora hace referencia al Tribunal
que venga determinado en cada caso por la aplicación de los criterios « en cascada » que recoge el artı́culo 8.1 y 8.6.
(18) Véase que la referencia a la remoción de los árbitros no estaba recogida expresamente en la versión originaria de la Ley 60/2003.
(19) Desde la Associació per al foment de l’arbitratge (AFA) se valora positivamente
este cambio, al considerarse que la sobrecarga de trabajo de los Juzgados de Primera Instancia impedı́a la especialización de los jueces y generaba unos procedimientos excesivamente
largos. Vid. Miquel MONTAÑÁ, « Sobre la competencia en material de apoyo y control judicial del arbitraje », www.afa.cat/AFA.COMENTARIOS%20ANTEPROYECTO.pdf. En torno a
estas cuestiones, vid. asimismo, Marina CEDEÑO HERNÁN, « La intervención judicial en el arbitraje en la Ley 11/2011 y en la Ley Orgánica 5/2011 de reforma de la legislación arbitral »,
Revista de arbitraje comercial y de inversiones, 2011, 3, 705-728.
(20) La retirada de esta competencia a las Audiencias Provinciales, órganos con especialización en materias mercantiles, ha sido puesta en cuestión por Miquel MONTAÑÁ, op. cit.
(21) Preámbulo de la Ley 5/2011, BOE número 121 de 21/5/2011, 50795.
(22) Tal y como se establece en el Preámbulo de la Ley Orgánica 5/2011 estas cuestiones ya no competen a los Juzgados de lo Mercantil, de forma que dicha Ley « aprovecha
para delimitar y deslindar las atribuciones del Juzgado de lo Mercantil en material de arbitraje, que se reducen, en detrimento del Juzgado de primera instancia, con lo que se les
descarga de cuestiones no estrictamente mercantiles ». Preámbulo de la Ley 5/2011, BOE
número 121 de 21/5/2011, 50795.
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tencia en la práctica de prueba, adopción de medidas cautelares o
ejecución forzosa del laudo) (23). Esta recién expuesta elevación de
los órganos competentes ha sido valorada con carácter general positivamente por parte de la doctrina española (24), apuntándose que al
existir en toda España más de tres mil juzgados de primera instancia, la competencia de estos provocaba una imprevisibilidad mucho
mayor que la que se prevé pueda generarse con las nuevas competencias asumidas por los diecisiete Tribunales Superiores de Justicia
existentes en España (25). Este razonamiento ha conducido a algunos
autores a lamentar que, pese a las dilaciones que podrı́an causarse,
no se otorguen mayores competencias al Tribunal Supremo español (26).
2. En el mismo Preámbulo de la Ley 11/2011 se afirma que
ésta « aclara mediante la inclusión de dos nuevos preceptos de la
Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje, las dudas existentes
en relación con el arbitraje estatutario en las sociedades de capital.
Con la modificación se reconoce la arbitrabilidad de los conflictos
que en ellas se planteen » (27). Estos dos nuevos preceptos son los
artı́culos 11 bis y 11 ter. En el primero, tras proclamarse que « las
sociedades de capital podrán someter a arbitraje los conflictos que
en ellas se planteen », se indica que « la introducción en los estatutos sociales de una cláusula de sumisión a arbitraje requerirá el
voto favorable de, al menos, dos tercios de los votos correspondien-
(23) La Ley 11/2011 en el artı́culo 8.4, además de hacer referencia a los « laudos »
(nacionales), incluye una nueva referencia a « resoluciones judiciales » (nacionales), referencia que se repite asimismo en el artı́culo 8.6 respecto de decisiones que provengan del extranjero.
(24) Subrayando también algunos peligros de esta reforma, Fernando Goñi indica
que previsiblemente se producirán mayores retrasos y que en un primer momento se pueden
generan disfunciones y conflictos debido a la inexperiencia de los Tribunales Superiores de
Justicia en estos ámbitos: Fernando GOÑI, « La Ley 11/2011 de reforma del arbitraje: una primera y favorable aproximación », http://www.goni-abogados.com/noticias.php.
(25) En palabras del entonces Ministro de Justicia D. Miguel Caamaño: « Las empresas extranjeras tienen que saber que si se someten al arbitraje estarán ante los tribunales más importantes del paı́s, los Tribunales Superiores de Justicia de las Comunidades Autónomas, que se encuentran sólo por debajo del Tribunal Supremo, y que la justicia se toma
muy en serio el arbitraje », http://www.cincodias.com/articulo/economia/gobierno-apruebaanteproyecto-ley-mediacion-arbitraje/20100219cdscdseco_17/.
(26) Tom TOULSON, « Spain fine-tunes’ arbitration act », http://www.globalarbitrationreview.com/news/article/29471/.
(27) Preámbulo de la Ley 11/2011, BOE número 121 de 21/5/2011, 50797.
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tes a las acciones o a las participaciones en que se divida el capital social », mayorı́a cualificada cuya introducción supone una novedad respecto al previo Proyecto de Ley de 8 de septiembre de 2010,
que exigı́a que existiese unanimidad para poder realizarse dicha incorporación estatutaria (28). En relación con la impugnación de los
acuerdos sociales por los socios o administradores, el último inciso
del artı́culo 11 bis prevé que los estatutos sociales puedan establecer
que esta impugnación « quede sometida a la decisión de uno o varios árbitros, encomendándose la administración del arbitraje y la
designación de los árbitros a una institución arbitral ». Aunque con
carácter general la doctrina y práctica española valora positivamente
la incorporación de estos dos preceptos a la Ley 60/2003 (29), algunos aspectos de la regulación del arbitraje societario han suscitado
crı́ticas (30) como, por ejemplo, la falta de sintonı́a en materia de impugnación de acuerdos societarios entre el Preámbulo — utilizando
una redacción claramente imperativa « requiere la administración y
designación de los árbitros por una institución arbitral » — y el artı́culo 11 bis 3 — que puede entenderse que introduce una redacción
potestativa y por tanto admitirı́a arbitrajes ad hoc (31).
La nueva regulación expresa de este arbitraje societario se complementa con lo establecido en el artı́culo 11 ter, que determina que:
« El laudo que declare la nulidad de un acuerdo inscribible habrá
de inscribirse en el Registro Mercantil. El Boletı́n Oficial del Registro Mercantil publicará un extracto. En el caso de que el acuerdo
impugnado estuviese inscrito en el Registro Mercantil, el laudo de(28) Artı́culo 3 del Proyecto de Ley 121/000085, Boletı́n Oficial de las Corte Generales de 8 de septiembre de 2010, www.congreso.es.
(29) En este sentido, el Tribunal Arbitral de Barcelona ha declarado que con este
precepto: « se ha desarrollado una sensibilidad hacia el empresariado, que lleva mal los litigios largos », vid. « La reforma de la Ley de Arbitraje impulsará esta disciplina, según el
TAB », http://www.elderecho.com/actualidad/profesionales/Ley-Arbitraje-impulsaradisciplina-TAB_0_276750142.html.
(30) Otras crı́ticas, junto a la recogida en la nota siguiente, son las tres siguientes: a)
dicha reforma deberı́a haberse realizado en la Ley de Sociedades de Capital; b) pueden plantearse dudas en torno a si el requisito del artı́culo 2.1 de la Ley 60/2003 (sólo son arbitrables
las controversias sobre materias de libre disposición conforme a derecho) es también aplicable a las cuestiones societarias; c) se ha indicado que una mayorı́a ordinaria hubiese sido una
opción más adecuada. Acerca de estas cuestiones, vid. Pilar PERALES VISCASILLAS, « La reforma de la Ley de Arbitraje (Ley 11/2011, de 20 de mayo) », Revista de arbitraje comercial
y de inversiones 2011, vol. 3, 667-704, esp. 677-682.
(31) Perales VISCASILLAS, op. cit., 681. La autora opta por darle prioridad al texto del
artı́culo 11 bis 3, que « meramente reconoce la posibilidad de que dicha impugnación de
acuerdos sociales se pueda realizar bajo un arbitraje administrado ».
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terminará, además, la cancelación de su inscripción, ası́ como la de
los asientos posteriores que resulten contradictorios con ella » (32).
3. En esta sección se procede a exponer una serie de modificaciones a la Ley 60/2003. Todas ellas tienen en común su voluntad
de incrementar la calidad del procedimiento arbitral.
a) Arbitraje institucional. En relación con esta cuestión a que
alude el artı́culo 14.1 de la Ley 60/2003, junto con las « asociaciones y entidades sin ánimo de lucro en cuyos estatutos se prevean
funciones arbitrales » y « las Corporaciones de Derecho público que
pueden desempeñar funciones arbitrales según sus normas reguladoras », la Ley 11/2011 incorpora las Entidades públicas al listado de
entes a los que las partes pueden encomendar tanto la administración
del arbitraje como la designación de árbitros.
También en materia de arbitraje institucional, se adiciona un
nuevo artı́culo 14.3, proclamando que: « Las instituciones arbitrales
velarán por el cumplimiento de las condiciones de capacidad de los
árbitros y por la transparencia en su designación, ası́ como su independencia ». Esta referencia expresa incorporada a la Ley 60/2003,
que refleja la importancia que han adquirido estas cuestiones también
en el ámbito internacional, es una muestra más de la voluntad de
nuestro legislador de « incrementar tanto la seguridad jurı́dica como
la eficacia de estos procedimientos », con el fin de impulsar el arbitraje nacional e internacional en España (33).
b) Contratación de seguro. Partiendo de que según la Ley 60
2003, si los árbitros no cumplen fielmente su encargo, incurren en
una « responsabilidad por los daños y perjuicios que causaren por
mala fe, temeridad o dolo » (34), y que el perjudicado en estos casos
también tiene acción directa contra la institución arbitral, la Ley 11/
2011 introduce un nuevo párrafo en el artı́culo 21.1 de la ley española de arbitraje. De acuerdo con él: « Se exigirá a los árbitros o a
las instituciones arbitrales en su nombre la contratación de un seguro de responsabilidad civil o garantı́a equivalente, en la cuantı́a
(32) Ley 11/2011, BOE número 121 de 21/5/2011, 50797 y ss.
(33) Preámbulo de la Ley 11/2011, BOE número 121 de 21/5/2011, 50797.
(34) Esta afirmación ha sido interpretada en España como una concesión legislativa
de una inmunidad relativa a la institución arbitral, « al eximı́rsele de responsabilidad en los
supuestos de negligencia. Vid. Ramón MULLERAT, « Sobre las referencias a la independencia
de los árbitros », www.afa.cat/AFA.COMENTARIOS%20ANTEPROYECTO.pdf.
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que reglamentariamente se establezca. Se exceptúan de la contratación de este seguro o garantı́a equivalente a las Entidades públicas
y a los sistemas arbitrales integrados o dependientes de las Administraciones públicas ». El desarrollo reglamentario de esta obligación destinada a asegurar la responsabilidad de los árbitros y de las
instituciones arbitrales aún está pendiente de ejecución, siendo ésta
una de las razones que permite explicar las dudas doctrinales generadas en torno a la extensión de su ámbito de aplicación (35).
c) Relación entre arbitraje y mediación. En el artı́culo 17, dedicado a los motivos de abstención y recusación, la Ley 11/2011 ha
introducido un nuevo apartado — el número 4 —, en el que se proclama que « salvo acuerdo en contrario de las partes, el árbitro no
podrá haber intervenido como mediador en el mismo conflicto entre
éstas ». Este precepto se inspira en el artı́culo 12 de la Ley Modelo
de la CNUDMI de 2002 sobre Conciliación Comercial Internacional (36) y también ha hallado reciente plasmación en el Proyecto de
(35) Perales VISCASILLAS, op. cit., 684. A ese respecto, esta autora considera que este
nuevo inciso del artı́culo 21.1 sólo es aplicable a instituciones administradoras de arbitraje
sujetas a derecho español, quedando eximidas de contratar el citado seguro o garantı́a las instituciones arbitrales extranjeras que administren un arbitraje en territorio español. Esta exclusión viene justificada al no estar dichas instituciones regidas por derecho español y ser
mayoritariamente las partes quienes eligen el lugar de arbitraje. La autora también estima que
introducir esta obligación respecto de instituciones arbitrales extranjeras tendrı́a consecuencias económicas negativas, ya que España podrı́a desaconsejarse o bien no elegirse como
sede arbitral. Para cumplir con el nuevo artı́culo 21.1, la autora propone que en estos casos
sean los árbitros los que a tı́tulo individual contraten dicho seguro o garantı́a equivalente.
Siendo esta interpretación perfectamente plausible, pueden hallarse no obstante argumentos a
favor de la extensión de esta obligación también al tipo de supuestos controvertidos, ya que,
por ejemplo, el artı́culo 1 de la Ley establece que « esta ley se aplicará a los arbitrajes cuyo
lugar se halle dentro del territorio español, sean de carácter interno o internacional ». El
criterio geográfico es además el que el artı́culo 21.1 también impone a los árbitros que llevan a cabo arbitrajes ad hoc en España. Asimismo, parece menos gravoso económicamente
que, sustanciándose el arbitraje institucional en España, sean siempre las instituciones arbitrales — nacionales o extranjeras — las que, como entidad, se hayan preparado — si no lo
estaban ya pre-Ley 11/2011 — para cumplir con el requisito establecido en el artı́culo 21 y
desarrollado reglamentariamente en el futuro. Por ultimo, puede argumentarse que si el legislador deseaba excluir este supuesto lo habrı́a hecho expresamente; ası́ ha sucedido con « las
entidades públicas y los sistemas habitarles integrados o dependientes de las Administraciones públicas » (artı́culo 21.1, segundo inciso).
(36) « Salvo acuerdo en contrario de las partes, el conciliador no podrá actuar como
árbitro en una controversia que haya sido o sea objeto del procedimiento conciliatorio ni en
otra controversia que surja a raı́z del mismo contrato o relación jurı́dica o de cualquier contrato o relación jurı́dica conexos ». http://www.uncitral.org/uncitral/es/uncitral_texts/arbitration/2002Model_conciliation.html.
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Ley de mediación en asuntos civiles y mercantiles de 2011 — actualmente, Real Decreto-ley 5/2012, de 5 de marzo de 2012 (37) —.
d) Idioma del arbitraje. El tenor originario del artı́culo 28 establecı́a que « las partes podrán acordar libremente el idioma o los
idiomas del arbitraje. A falta de acuerdo, decidirán los árbitros,
atendidas las circunstancias del caso. Salvo que en el acuerdo de las
partes o en la decisión de los árbitros se haya previsto otra cosa, el
idioma o los idiomas establecidos se utilizarán en los escritos de las
partes, en las audiencias, en los laudos y en las decisiones o comunicaciones de los árbitros ». El artı́culo 28 de la actual Ley 60/2003
introduce una serie de novedades que ha generado el debate entre los
prácticos del arbitraje en España. En primer lugar, en defecto de
acuerdo entre las partes y si las circunstancias del caso tampoco permiten delimitar la cuestión (38), se introduce un nuevo criterio de
cierre según el cual, « el arbitraje se tramitará en cualquiera de las
lenguas oficiales en el lugar donde se desarrollen las actuaciones ».
Conectando este precepto con la realidad plurilingüı́stica española
que proclama la Constitución de 1978 — artı́culo 3: « El castellano
es la lengua española oficial del Estado. Todos los españoles tienen
el deber de conocerla y el derecho a usarla. Las demás lenguas españolas serán también oficiales en las respectivas Comunidades Autónomas de acuerdo con sus Estatutos » (39) —, es factible que el
idioma de un arbitraje localizado en España sea uno o varios (40) de
los siguientes: catalán, euskera y gallego. Como se ha reseñado, ello
puede bien desincentivar la celebración de arbitrajes internacionales
(37) Artı́culo 5.1: « Tienen la consideración de instituciones de mediación las entidades públicas o privadas y las corporaciones de derecho público que tengan entre sus fines el impulso de la mediación, facilitando el acceso y organización de la misma, incluida
la designación de mediadores. Deberán garantizar la transparencia en la designación de
mediadores y asumirán solidariamente la responsabilidad derivada de su actuación. Si entre
sus fines figurase también el arbitraje adoptarán las medidas para asegurar la incompatibilidad entre ambas actividades ». http://www.mjusticia.gob.es/cs/Satellite/es/1215198252237/
ALegislativa_P/1215197611119/Detalle.html.
(38) La actual redacción de este artı́culo 28.1 ya no dice expresamente que a falta de
acuerdo son los árbitros quienes deciden esta cuestión.
(39) http://noticias.juridicas.com/base_datos/Admin/constitucion.tp.html@a1.
(40) Es posible imaginar que en único arbitraje coexistiesen varias lenguas, ya que,
por ejemplo, « el lugar donde se desarrollen las actuaciones » no es la sede jurı́dica del arbitraje sino cualquier ubicación dentro del territorio español en la que se lleve a cabo alguna
de las actuaciones arbitrales.
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en España o bien aumentar la actividad arbitral en lugares de este
paı́s en los que el castellano sea la única lengua oficial (41).
En segundo lugar, el nuevo artı́culo 28.1 recoge dos manifestaciones más a favor de la defensa de la co-oficialidad lingüı́stica española, cuya puesta en práctica generará arbitrajes plurilingües que a
la vez traerán consigo un incremento de los costes arbitrales: « la
parte que alegue desconocimiento del idioma tendrá derecho a audiencia, contradicción y defensa en la lengua que utilice, sin que
esta alegación pueda suponer la paralización del proceso »; y « los
testigos, peritos y terceras personas que intervengan en el procedimiento arbitral, tanto en actuaciones orales como escritas, podrán
utilizar su lengua propia ». En tercer lugar, el nuevo artı́culo 28
afirma que: « En las actuaciones orales se podrá habilitar como intérprete cualquier persona conocedora de la lengua empleada, previo juramento o promesa de aquella ». La redacción de este precepto
se reputa excesivamente laxa, habiendo sido más adecuado que el
legislador español hubiese tenido en cuenta en materia arbitral los
estándares de calidad interpretativa que por ejemplo el legislador comunitario viene potenciando en el ámbito jurisdiccional (42).
e) Formación de los árbitros. La redacción originaria de la Ley
60/2003 establecı́a en su artı́culo 15.1 que « en los arbitrajes internos que no deban decidirse en equidad de acuerdo con el artı́culo
34, se requerirá la condición de abogado en ejercicio, salvo acuerdo
expreso en contrario ». En el Preámbulo de la Ley 11/2011 se
avanza que en la actual reforma de la ley española de arbitraje se
abre « el abanico de profesionales con conocimientos jurı́dicos que
pueden intervenir en el mismo, cuando se trata de un arbitraje de
derecho »; asimismo, se prevé « de forma expresa que es posible la
intervención de otro tipo de profesionales, no necesariamente pertenecientes a dicho campo del conocimiento, pues la experiencia internacional plenamente asentada aconsejaba dicha reforma y ello
sin olvidar que de esta manera se produce un mayor acoplamiento a
(41) Perales VISCASILLAS, op. cit., 688-692.
(42) Aún tratándose de ámbitos jurı́dicos distintos, se considera muy positiva — y, por
lo tanto, merecedora de ser extrapolada a otros ámbitos jurı́dicos — la preocupación que por la
calidad interpretativa refleja en sus artı́culos 2.8, 3.9 y 5 la Directiva 2010/64 relativa al derecho a interpretación y a traducción en los procesos penales. Persiguiendo mejorar la calidad de
la traducción e interpretación, es igualmente reseñable el Libro Blanco que ha elaborado la Comisión Europea, el MAEC, la APTIJ y la RITAP. http://ec.europa.eu/spain/pdf/libro_blanco_
traduccion_es.pdfhttp://ec.europa.eu/spain/pdf/libro_blanco_traduccion_es.pdf.
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la libre competencia que reclaman las instituciones de la Unión Europea ». En consonancia con ello, el actual artı́culo 15.1 determina
que « cuando el arbitraje se haya de resolver por árbitro único se
requerirá la condición de jurista al árbitro que actúe como tal.
Cuando el arbitraje se haya de resolver por tres o más árbitros, se
requerirá que al menos uno de ellos tenga la condición de jurista ».
La sustitución del requisito de ser abogado en ejercicio por la de ser
jurista ha sido considerada adecuada en el ámbito arbitral, a pesar de
que dicha novedad podrá plantear dudas ante casos concretos: frente
a la a priori sencilla subsunción en el término de « jurista » de profesiones legales como notarios, registradores y profesores universitarios (43), mayor controversia puede plantear, por ejemplo, alguien
que ha realizado un master o doctorado jurı́dico sin tener una licenciatura, un grado o un tı́tulo asimilado en derecho (44). Por su parte,
se considera que en el ámbito jurı́dico se va a valorar controvertidamente la posibilidad que incorpora el actual artı́culo 15.1 de que un
arbitraje que se decida en derecho por tres o más árbitros solo requiera la presencia de un jurista, — frente a la redacción anterior,
que exigı́a que en arbitrajes internos todos fuesen abogados en ejercicio —.
f) Medidas cautelares. La nueva redacción que la Disposición
final segunda de la Ley 11/2011 otorga al artı́culo 722 de la Ley
1/2000 de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil (45) clarifica que sı́
pueden solicitarse medidas provisionales antes de que comience el
procedimiento arbitral: « Podrá pedir al Tribunal medidas cautelares
quien acredite ser parte de convenio arbitral con anterioridad a las
actuaciones arbitrales. También podrá pedirlas quien acredite ser
parte de un proceso arbitral pendiente en España o, en su caso, haber pedido la formalización judicial a que se refiere el artı́culo 15
de la Ley 60/2003, de 23 de diciembre de arbitraje, o en el supuesto
de un arbitraje institucional, haber presentado la debida solicitud o
encargo a la institución correspondiente según su Reglamento ».
(43) La noción de profesor universitario abarca diversas figuras funcionariales (catedrático y profesor titular) y contractuales (contratado doctor, colaborador, ayudante doctor,
ayudante, etc), por lo que no parece muy correcta la simple equiparación entre jurista y catedrático. A este respecto, v. Miguel TEMBOURY, « El nuevo proyecto de reforma de la Ley de
Arbitraje: Primeras impresiones », http://prensa.vlex.es/vid/reforma-arbitraje-primerasimpresiones-262385570.
(44) Perales VISCASILLAS, op. cit., 685-687.
(45) BOE número 7 de 8/1/2000, 575 a 728.
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g) Declinatoria arbitral. El actual artı́culo 11 de la Ley 60/2003
parte de la redacción originaria de este precepto: « El convenio arbitral obliga a las partes a cumplir lo estipulado e impide a los tribunales conocer de las controversias sometidas a arbitraje, siempre
que la parte a quien interese lo invoque mediante declinatoria »; a
continuación, incorpora la siguiente precisión temporal: « El plazo
para la proposición de la declinatoria será dentro de los diez primeros dı́as del plazo para contestar a la demanda en las pretensiones
que se tramiten por el procedimiento del juicio ordinario, o en los
diez primeros dı́as posteriores a la citación para vista, para las que
se tramiten por el procedimiento del juicio verbal ». Este plazo —
más extenso que el contenido en el artı́culo 64 de la Ley de Enjuiciamiento Civil española (46) —, ha sido apreciado positivamente por
la doctrina española (47), de la misma forma que se ha estimado adecuada la no conversión de esta declinatoria en una excepción procesal de arbitraje (48).
4. a) Plazo para dictar el laudo. El actual artı́culo 37.2 establece que: « Salvo acuerdo en contrario de las partes, los árbitros
deberán decidir la controversia dentro de los seis meses siguientes a
la fecha de presentación de la contestación a que se refiere el artı́culo 29 o de expiración del plazo para presentarla. Salvo acuerdo
en contrario de las partes, este plazo podrá ser prorrogado por los
árbitros, por un plazo no superior a dos meses, mediante decisión
(46) Este artı́culo y los plazos en él contenidos eran los que se habı́an aplicado en
España antes de la modificación de la Ley 60/2003. Artı́culo 64 de la Ley 1/2000, de 7 de
enero, de Enjuiciamiento Civil: « La declinatoria se habrá de proponer dentro de los diez
primeros dı́as del plazo para contestar a la demanda, o en los cinco primeros dı́as posteriores a la citación para vista, y surtirá el efecto de suspender, hasta que sea resuelta, el plazo
para contestar, o el cómputo para el dı́a de la vista, y el curso del procedimiento principal,
suspensión que acordará el Secretario judicial ». BOE, 8 de enero de 2000, número 7, 575728.
(47) Se argumenta incluso que hubiese sido preferible ampliar el plazo a quince dı́as,
vid. Diana MARCOS FRANCISCO, « Las garantı́as del arbitraje tras la reciente ley de reforma de
la Ley Arbitral », Actualidad Civil, número 17, octubre 2011, esp. 3.
(48) En torno a esta cuestión, vid. Gonzalo STAMPA, « La reforma de la Ley de Arbitraje », Diario La Ley 7725, 28 de octubre 2011, 1-6, esp. 1-2. Destacando la inadecuación
de no incluir en la Ley 60/2003 un sobreseimiento judicial a petición de parte en caso de que
el « litigio del que conocieran cuando éste se encontrara sometido a arbitraje o existiera un
convenio arbitral, a menos que comprobaran que dicho convenio era manifiestamente nulo o
ineficaz », vid. Perales VISCASILLAS, op. cit., 676-677.
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motivada. Salvo acuerdo en contrario de las partes, la expiración
del plazo sin que se haya dictado laudo definitivo no afectará a la
eficacia del convenio arbitral ni a la validez del laudo dictado, sin
perjuicio de la responsabilidad en que hayan podido incurrir los árbitros ». Si se compara este texto con el último inciso de la redacción originaria del artı́culo 37.2 — « la expiración del plazo sin que
se haya dictado laudo definitivo determinará la terminación de las
actuaciones arbitrales y el cese de los árbitros. No obstante, no
afectará a la eficacia del convenio arbitral, sin perjuicio de la responsabilidad en que hayan podido incurrir los árbitros » —, se
constata que, en lı́nea con lo que se afirma en la Exposición de Motivos de la Ley 11/2011, el legislador ha apostado claramente « a favor del arbitraje » (49), permitiendo superar dudas jurisprudenciales
pasadas al proclamar expresamente que un laudo dictado fuera de
plazo es válido (50).
b) Motivación del laudo. La posibilidad de que las partes pactasen que el laduo no fuese motivado ha sido eliminada del actual
artı́culo 37.4, en el que — en aras de la seguridad jurı́dica — se
afirma que: « El laudo deberá ser siempre motivado, a menos que se
trate de un laudo pronunciado en los términos convenidos por las
partes conforme al artı́culo anterior » (51).
c) Votos particulares. El tenor originario del artı́culo 37.3 —
« todo laudo deberá constar por escrito y ser firmado por los árbitros, quienes podrán expresar su parecer discrepante » — se ha visto
alterado por la Ley 11/2001, pasando a proclamarse que: « Todo
laudo deberá constar por escrito y ser firmado por los árbitros,
quienes podrán dejar constancia de su voto a favor o en contra ».
Pese al cambio de redacción, en la doctrina española se considera
(49) Preámbulo de la Ley 11/2011BOE número 121 de 21/5/2011, 50797.
(50) Para un desarrollo doctrinal detallado de esta cuestión, vid. Maria Victoria SÁNCHEZ POS, « La validez y eficacia del laudo arbitral a la luz de la reforma de la Ley de Arbitraje », Diario La Ley, 3 octubre 2011, 9-13.
(51) Este « artı́culo anterior » — artı́culo 36 — regula el laudo por acuerdo de las
partes, estableciendo que: « 1. Si durante las actuaciones arbitrales las partes llegan a un
acuerdo que ponga fin total o parcialmente a la controversia, los árbitros darán por terminadas las actuaciones con respecto a los puntos acordados y, si ambas partes lo solicitan y
los árbitros no aprecian motivo para oponerse, harán constar ese acuerdo en forma de laudo
en los términos convenidos por las partes. 2. El laudo se dictará con arreglo a lo dispuesto
en el artı́culo siguiente y tendrá la misma eficacia que cualquier otro laudo dictado sobre el
fondo del litigio ». BOE número 121 de 21/5/2011, 50797 a 50804.
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mayoritariamente que este precepto sigue permitiendo que un árbitro
exponga en el laudo su opinión discordante (52).
d) Extralimitación parcial del laudo. El actual artı́culo 39 —
además de referirse a la corrección, aclaración y complemento del
laudo arbitral —, introduce ahora una referencia a la extralimitación
del laudo, indicando que: « dentro de los diez dı́as siguientes a la
notificación del laudo, salvo que las partes hayan acordado otro
plazo, cualquiera de ellas podrá, con notificación a la otra, solicitar
a los árbitros la rectificación de la extralimitación parcial del laudo,
cuando se haya resuelto sobre cuestiones no sometidas a su decisión
o sobre cuestiones no susceptibles de arbitraje ». Encargar a los
propios árbitros que resuelvan sobre esta solicitud de rectificación de
la extralimitación parcial del laudo supone potenciar la validez de los
laudos arbitrales, lo que en principio concuerda con los objetivos
proclamados en la reforma de la Ley 60/2003. No obstante, en la
doctrina española se ha cuestionado la adecuación de esta reforma,
ya que podrı́a llegar a afectar a otros principios que también han de
ser básicos en el ámbito arbitral, como el de seguridad jurı́dica (53).
e) Anulación del laudo. El actual artı́culo 42 presenta una nueva
redacción, a través de la cual se han incorporado varias mejoras procedimentales: la demanda de anulación y su oposición deben incorporar una serie de documentos; tras la contestación del demandado,
el actor podrá presentar documentos adicionales o proponer práctica
de prueba; la celebración de una vista no es siempre necesaria (54).
(52) A favor de no considerar el cambio de formulación como una modificación de
fondo, vid. Gonzalo STAMPA, op. cit., 4 y Perales VISCASILLAS, op. cit., 694-695.
(53) Vid. Perales VISCASILLAS, op. cit., 695-696.
(54) Artı́culo 42: « La acción de anulación se sustanciará por los cauces del juicio
verbal, sin perjuicio de las siguientes especialidades: a) La demanda deberá presentarse
conforme a lo establecido en el artı́culo 399 de la Ley 1/2000, de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil, acompañada de los documentos justificativos de su pretensión, del convenio
arbitral y del laudo, y, en su caso, contendrá la proposición de los medios de prueba cuya
práctica interese el actor. b) El Secretario Judicial dará traslado de la demanda al demandado, para que conteste en el plazo de veinte dı́as. En la contestación, acompañada de los
documentos justificativos de su oposición, deberá proponer todos los medios de prueba de
que intente valerse. De este escrito, y de los documentos que lo acompañan, se dará traslado
al actor para que pueda presentar documentos adicionales o proponer la práctica de prueba.
c) Contestada la demanda o transcurrido el correspondiente plazo, el Secretario Judicial citará a la vista, si ası́ lo solicitan las partes en sus escritos de demanda y contestación. Si en
sus escritos no hubieren solicitado la celebración de vista, o cuando la única prueba propuesta sea la de documentos, y éstos ya se hubieran aportado al proceso sin resultar impu-
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f) Efectos de cosa juzgada. El actual artı́culo 43 establece que:
« El laudo produce efectos de cosa juzgada y frente a él sólo cabrá
ejercitar la acción de anulación y, en su caso, solicitar la revisión
conforme a lo establecido en la Ley 1/2000, de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil para las sentencias firmes ». Esta nueva redacción
elimina la referencia anterior al « laudo firme » e incorpora una referencia expresa a la acción de anulación.
5. La Disposición Final tercera de la Ley 11/2011 introduce
una modificación en el artı́culo 52 de la Ley Concursal, 22/2003 de
9 de Julio (55), viniendo justificada ésta en el Preámbulo al afirmarse
que « la nueva redacción se adapta a las soluciones comunitaria y
elimina la incoherencia existente hasta la fecha entre los dos apartados del artı́culo 52 » (56). La tajante afirmación originaria — « Los
convenios arbitrales en que sea parte el deudor quedarán sin valor
ni efecto durante la tramitación del concurso, sin perjuicio de lo
dispuesto en los tratados internacionales » —, aparece ahora matizada de la siguiente manera (57): « La declaración de concurso, por
sı́ sola, no afecta a los pactos de mediación ni a los convenios arbitrales suscritos por el concursado. Cuando el órgano jurisdiccional
entendiera que dichos pactos o convenios pudieran suponer un perjuicio para la tramitación del concurso podrá acordar la suspensión
de sus efectos, todo ello sin perjuicio de lo dispuesto en los tratados
internacionales » (58). En consecuencia con esta reforma, la Ley 11/
2011 también introduce un cambio en el artı́culo 8.4 de la Ley 22/
2003, que pasa a afirmar que: « Son competentes para conocer del
gnados, o en el caso de los informes periciales no sea necesaria la ratificación, el Tribunal
dictará sentencia, sin más trámite ». BOE número 121 de 21/5/2011, 50797 a 50804.
(55) BOE número 164, 10 de Julio de 2003, 26905 y ss.
(56) Preámbulo de la Ley 11/2011, BOE número 121 de 21/5/2011, 50798.
(57) Acerca de la adecuación de la redacción actual, que deja a la voluntad del juez
del concurso la eficacia del convenio arbitral o pacto de mediación, vid. Iván HEREDIA CERVANTES, « Tratamiento concursal del convenio arbitral: la modificación del articulo 52.1 de la
Ley Concursal », La Ley, número 7576, 24 de febrero de 2011, 1-5; Miguel GÓMEZ JENE, « El
nuevo artı́culo 52.1 de la Ley Concursal », La Ley, número 7711, 7 de octubre de 2011, 1-5;
Faustino CORDÓN, « Concurso y convenios arbitrales (a propósito de la pretendida reforma del
art. 52.1 LC) », Anuario de Derecho Concursal, mayo-agosto 2011, 163-175.
(58) No obstante, la Disposición Final tercera del Proyecto de Ley 121/000085, Boletı́n Oficial de las Corte Generales de 8 de septiembre de 2010 suponı́a una alteración más
profunda del régimen contenido en la ley concursal, al afirmarse únicamente en la propuesta
de artı́culo 52 que « la declaración de concurso, por sı́ sola, no afecta a los pactos de mediación ni a los convenios arbitrales suscritos por el concursado ».
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concurso los jueces de lo mercantil. La jurisdicción del juez del
concurso es exclusiva y excluyente en las siguientes materias: Toda
medida cautelar que afecte al patrimonio del concursado excepto las
que se adopten en los procesos que quedan excluidos de su jurisdicción en el párrafo 1 de este precepto y, en su caso, de acuerdo con
lo dispuesto en el artı́culo 52, las adoptadas por los árbitros en las
actuaciones arbitrales, sin perjuicio de la competencia del juez para
acordar la suspensión de las mismas, o solicitar su levantamiento,
cuando considere que pueden suponer un perjuicio para la tramitación ».
6. La Disposición Adicional única de la Ley 11/2011 introduce un extenso precepto que obliga a regular las controversias jurı́dicas entre la Administración General del Estado y sus organismos
públicos a través del procedimiento perfilado en dicha disposición.
Aun reconociendo que este procedimiento puede resultar de utilidad,
teniendo en cuenta que en el año 2009 los conflictos entre los organismos de la Administración General del Estado española generaron
un volumen de asuntos jurı́dicos valorados en 85 millones de
euros (59), la doctrina española se ha mostrado muy crı́tica con esta
regulación. Ası́, se advierte de que esta regulación no instaura un arbitraje ni un recurso administrativo, sino que se trata de un mero
procedimiento administrativo, que pretende cumplir con principios
tales como la coordinación o la unidad de actuación de la Administración General del Estado. Los argumentos para negar que la Disposición Adicional única esté creando un auténtico arbitraje son
abundantes, ya que, aparte de que el legislador no utiliza esta terminologı́a, el citado procedimiento tiene bases incompatibles a las propias del arbitraje — como que la sumisión a éste es obligatoria o que
el conflicto no es decidido por un tercero imparcial (60) —.
The Spanish Arbitration Act (Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje)
was amended in 2011 by the Act 11/2011 (Ley 11/2011, de 20 de mayo, de reforma
(59) « La Ley de Arbitraje busca poner coto a los actuales desmanes », http://www.eleconomista.es/legislacion/noticias/2765562/01/11/La-Ley-de-Arbitraje-busca-poner-coto-alos-actuales-desmanes.html.
(60) Beatriz BELANDO GARÍN, « El supuesto arbitraje administrativo de la reforma de
la Ley 60/2003, de 23 de diciembre », Diario La Ley 7504, 8 de noviembre 2010, 1560-1564.
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de la Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje y de regulación del arbitraje
institucional en la Administración General del Estado). This amendment introduces
a new regulation on relevant issues, such as: competence of the courts in arbitration matters, mandatory insurance for arbitrators, arbitration of corporate matters,
effect of insolvency proceedings in arbitration agreements, public institutions’ arbitration, action to set aside the award, etc. The paper analyzes these modifications
and also reflects on some controversial aspects of the amendment.
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Arbitrato e fallimento
MAURO BOVE (*)
1. Premessa. — 2. I limiti dell’arbitrabilità. — 3. Il dibattito intorno al problema della sopravvivenza dei patti compromissori stipulati dal fallito e dei
giudizi già pendenti al momento della dichiarazione di fallimento. — 4. (Segue): il dibattito successivamente alla riforma del 2006. — 5. Prospettiva ricostruttiva. — 6. Prosecuzione del giudizio arbitrale pendente. — 7. La via
arbitrale scelta dal curatore.
1. Ormai da diverso tempo è stata abbandonata l’idea che vi
sia una sorta d’incompatibilità concettuale tra arbitrato e fallimento.
Una simile idea, sostenuta in tempi meno recenti in virtù di una generale coloritura giuspubblicistica della procedura fallimentare (1), è
ormai del tutto superata, non solo dalla giurisprudenza pratica e teorica, ma anche testualmente dal diritto positivo. Invero, quando la
legge fallimentare prevede, all’art. 25, comma 1, n. 7), che il giudice
delegato, su proposta del curatore, nomina gli arbitri ed ancora, all’art. 35, che il curatore può stipulare patti compromissori, previa
autorizzazione del comitato dei creditori, è reso evidente come alla
luce del diritto vigente non si possa affermare che la procedura fallimentare sia incompatibile con l’arbitrato (2).
Il problema pratico più comune emerge a fronte di due domande tra loro connesse. La prima: quand’è che l’amministrazione
fallimentare, in persona del curatore, può essere parte di un giudizio
arbitrale? La seconda: quali effetti produce la dichiarazione di falli(*) Professore ordinario nella Università di Perugia.
(1) Sul punto vedi una sintesi delle opinioni in BERLINGUER, L’arbitrato nelle procedure concorsuali, in L’arbitrato. Profili sostanziali a cura di G. ALPA, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale fondata da W. Bigiavi, Torino, 1999, II, 977 ss.,
spec. 983-984 (in cui si riferisce di questa posizione meno recente della giurisprudenza e
della dottrina di totale chiusura per quanto riguarda i rapporti tra arbitrato e fallimento).
(2) Cfr., fra gli altri, ZUCCONI GALLI FONSECA, in Arbitrato, Commentario diretto da F.
Carpi, Bologna, 2007, sub art. 806, 108-109.
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mento in riferimento ad un patto compromissorio già stipulato in
precedenza dall’imprenditore poi fallito o in riferimento ad un giudizio arbitrale pendente di cui questi sia parte?
Per rispondere a queste domande bisogna, però, preliminarmente interrogarsi sui limiti in cui l’arbitrato ha spazio in collegamento al fallimento, insomma bisogna verificare come si possa in
questo campo tracciare la linea di confine tra controversie arbitrabili
e controversie non arbitrabili. Solo trovando la risposta a questa domanda preliminare ha poi senso chiedersi se e come possa mantenere
effetti un patto compromissorio stipulato in precedenza dal fallito o
un giudizio arbitrale già avviato, perché evidentemente è immaginabile una simile, pretesa, « sopravvivenza » solo se quello o questo
abbiano un oggetto tale da potersi concepire un arbitrato in cui sia
coinvolta l’amministrazione del fallimento.
Quale ultima tappa, sarà infine dedicata qualche attenzione anche alle modalità per mezzo delle quali il curatore può effettuare la
scelta della via arbitrale, ove questa non sia già stata effettuata in
precedenza.
2. La domanda che si pone è: tra i conflitti che sorgono dal
fallimento o che in qualche modo sono ad esso collegati come si
possono distinguere quelli la cui risoluzione è devolvibile anche ad
un arbitro da quelli che non possono che essere gestiti dal giudice
statale secondo le procedure previste dalla legge?
Per rispondere a questa domanda bisogna partire da alcuni presupposti essenziali allo studio del fenomeno arbitrale, per poi poter
trarre, alla loro luce, delle conclusioni in riferimento alle vicende
collegate alla procedura fallimentare.
L’arbitrato è un mezzo alternativo alla giurisdizione statale per
la risoluzione delle controversie attinenti all’esistenza e/o al modo di
essere di situazioni giuridiche soggettive, con l’unico limite di carattere generale dato dal fatto che dette controversie non abbiano ad
oggetto diritti indisponibili (3). Da questa semplice affermazione,
confermata non solo dalla storia dell’arbitrato, ma anche dalla lettera
dell’art. 806 c.p.c., si possono trarre alcuni corollari.
(3) Vedi, se vuoi, BOVE, La giustizia privata, Padova, 2009, 1 ss. ed ivi ulteriori riflessioni sulla necessità di non confondere il problema del rapporto tra diritti disponibili e diritti indisponibili col diverso problema del rapporto tra norme derogabili e norme inderogabili.
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Innanzitutto, si deve trarre l’idea che l’arbitrato può intervenire
solo in sostituzione della giurisdizione contenziosa che svolga la
funzione dichiarativa, non potendo esso, invece, né sostituire la funzione esecutiva, non avendo l’arbitro alcun potere di utilizzare la
forza nei confronti dei consociati, né intervenire nel campo proprio
della c.d. giurisdizione volontaria (4). Ma nell’ambito della giurisdizione contenziosa di tipo dichiarativo il legislatore non pone limiti
generali all’arbitrato diversi da quello della sussistenza di diritti indisponibili. Da questo punto di vista, in primo luogo non bisogna
confondere la funzione con i riti attraverso i quali la funzione dichiarativa si svolge di fronte al giudice pubblico. Insomma, non ha alcun
senso chiedersi se è possibile celebrare un arbitrato in sostituzione
dei procedimenti speciali utilizzabili di fronte al giudice statale, perché è ovvio che questi procedimenti speciali, variamente a cognizione sommaria, sono strumenti che possono operare solo all’interno
della giurisdizione pubblica. Ma è altrettanto ovvio che, se detti procedimenti speciali sono approntati in funzione della tutela dichiarativa, ossia al fine di giungere all’accertamento dell’esistenza e/o del
modo di essere di una situazione giuridica soggettiva, in linea di
principio (se non si incide su diritti indisponibili) i privati possono
sempre impedirli scegliendo di devolvere agli arbitri le controversie
che con essi si sarebbero dovute risolvere (5).
In secondo luogo, se siamo di fronte ad un’attività di giurisdizione contenziosa di tipo dichiarativo, non si può impedire la devoluzione agli arbitri in nome di peculiari ragioni processuali, tra le
quali, in ipotesi, quella per cui la controversia è stata dalla legge attribuita alla competenza inderogabile di un certo giudice statale o
anche quella per cui certi incidenti cognitivi sarebbero intimamente
(4) Non è che l’arbitro non possa intervenire in sostituzione del rito camerale, quanto
piuttosto che egli non può sostituire propriamente la funzione che il giudice sarebbe chiamato
a svolgere seguendo quel rito. Insomma, all’arbitro è data in ipotesi la funzione di risolvere
controversie su diritti soggettivi, quindi sull’attribuzione di un bene della vita, e non quella
di curare interessi. Sarebbe, allora, fuorviante affermare che ove operi il rito camerale non
possa avere spazio l’arbitrato, perché il punto vero è che all’arbitro non è attribuibile la funzione propria della giurisdizione volontaria. Insomma, se la legge prevede il rito camerale al
fine della cura di interessi, l’arbitrato non ha spazio. Ma se il detto rito è previsto per la tutela dei diritti, allora potrebbe ricorrersi anche ad un arbitro. Sempre che vengano in gioco
situazioni giuridiche soggettive disponibili.
(5) Cosı̀, ad esempio, se è ovvio che l’arbitro non può concedere un decreto ingiuntivo, è altrettanto ovvio che la controversia sul credito per la quale si potrebbe instaurare il
procedimento per ingiunzione ben potrebbe essere devoluta alla decisione di un arbitro.
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collegati a determinate procedure che devono essere inevitabilmente
gestite dal giudice statale.
Dal primo punto di vista, è ormai superata l’idea, pur sostenuta
in passato, per cui l’arbitrato dovrebbe essere impedito per il fatto
che la controversia sia attribuita, nell’ambito della giurisdizione statale, alla competenza funzionale di un dato giudice ordinario o alla
giurisdizione di un giudice speciale (6). Dal secondo punto di vista,
non vedo francamente perché, ad esempio, la giusta affermazione per
cui le opposizioni esecutive, siano esse ad oggetto sostanziale, come
le opposizioni di cui agli artt. 615 (7) e 619 c.p.c., o ad oggetto processuale, come quelle di cui agli artt. 617 e 512 (8) c.p.c., possono
avere un senso solo se collegate alla pendenza di un processo esecutivo, che ovviamente può essere gestito solo dal giudice statale,
debba portare con sé anche l’altra, quella per cui le dette opposizioni
non potrebbero essere devolute ad un arbitro. Una simile conclusione
potrebbe trarsi solo se si ritenesse che i detti incidenti cognitivi siano
interni al processo esecutivo, ossia parti di quella attività che serve a
realizzare la funzione esecutiva. Ma, poiché, al contrario, è opinione
pacifica che con le opposizioni esecutive si innestano sul tronco del
processo esecutivo processi dichiarativi strutturalmente autonomi da
quello, ancorché ad esso funzionalmente collegati, non si vede perché il giudice privato non dovrebbe poter sostituire l’opera del giudice pubblico (9). La verità è che quando ci si trova di fronte ad
(6) Sul primo aspetto vedi per una sintesi del dibattito CECCHELLA, L’arbitrato, in
Giur. sist. dir. proc. civ. diretta da A. PROTO PISANI, Torino, 1991, 13 ss.; BERLINGUER, La compromettibilità per arbitri. I. La nozione di compromettibilità, Torino, 1999, 100 ss. Sul punto
vedi anche LUISO, Diritto processuale civile. IV. I processi speciali, Milano, 2009, 344 e, se
vuoi, BOVE, Il patto compromissorio rituale, in Riv. dir. civ., 2002, I, 403 ss., spec. 405-406.
Sul secondo aspetto, la questione è ormai superata dallo stesso legislatore nel momento in
cui ha previsto che si possano devolvere ad arbitri le controversie su diritti soggettivi che sarebbero state altrimenti decise dal giudice amministrativo nell’ambito della sua giurisdizione
esclusiva (cosı̀ prima il secondo comma dell’art. 6 della Legge n. 205/2000 ed oggi l’art. 12
del D.Lgs. n. 104/2010, che ha assunto un vero e proprio codice del processo amministrativo).
(7) Con esclusione del caso in cui si contesti la pignorabilità dei beni.
(8) Il discorso che si fa nel testo si riferisce ovviamente solo alla fase delle controversie distributive (art. 512 c.p.c.) che si svolge eventualmente a seguito dell’opposizione ai
sensi dell’art. 617 c.p.c. avverso l’ordinanza del giudice esecutivo.
(9) Altro è rilevare l’esigenza di coordinare l’introduzione del giudizio arbitrale con
l’introduzione delle opposizioni esecutive, anche in considerazione del fatto che l’arbitro non
può certo concedere il provvedimento di sospensione di cui all’art. 615, comma 1, c.p.c., né
quelli previsti dagli artt. 618, comma 2, e 624 c.p.c. La sospensione dell’efficacia esecutiva
del titolo esecutivo potrà essere chiesta al giudice statale anche prima dell’instaurazione della
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un’attività di giurisdizione contenziosa con funzione dichiarativa,
abbia essa ad oggetto una situazione di diritto sostanziale o anche
una situazione di diritto processuale (10), in linea di principio è sempre possibile la sua sostituzione con l’arbitrato.
Fermi restando questi punti di partenza in materia di arbitrato,
passando a trattare della arbitrabilità dei conflitti collegati al fallimento il discorso dovrebbe avere una sua linearità.
In primo luogo nulla può essere ricavato dall’art. 24 Legge
fall., perché, anche se si volesse abbandonare una lettura restrittiva,
secondo la quale sono azioni che derivano dal fallimento solo quelle
che hanno come presupposto imprescindibile appunto la dichiarazione di fallimento, e si volesse abbracciare una lettura ampia di
essa, attraendo nel suo campo di applicazione ogni controversia che
incida sulla formazione dell’attivo o del passivo, resterebbe sempre
il rilievo di fondo, già prima enunciato, per cui una norma di attribuzione di competenza operante nell’ambito della giurisdizione statale, quand’anche sia inderogabile, non può incidere sull’individuazione della linea di confine tra controversie arbitrabili e controversie
non arbitrabili. Di conseguenza, ben può essere che una causa derivi
dal fallimento, e quindi sia attribuita in ipotesi alla competenza funzionale del tribunale fallimentare ai sensi del citato art. 24 Legge
fall., e sia tuttavia arbitrabile.
La stessa irrilevanza, mi sembra, colpisce altri argomenti di
origine processuale (11). Cosı̀ quello per cui, tra le liti collegate al
causa di merito di fronte all’arbitro, passando dalla via tracciata dall’art. 669-ter c.p.c. Dopo
il pignoramento, invece, l’opposizione va sempre proposta con ricorso al giudice dell’esecuzione, il quale, dopo aver eventualmente provveduto sull’istanza di sospensione, si spoglierà
della causa a favore dell’arbitro, ancorché, come è ovvio, non si avrà tecnicamente una translatio iudicii, dovendo l’interessato attivarsi nel termine perentorio assegnato dal giudice dell’esecuzione per instaurare la causa con la proposizione della domanda arbitrale.
(10) Che l’opposizione agli atti esecutivi abbia ad oggetto una questione processuale
è opinione pacifica. Qualche dubbio sorge invece rispetto alle controversie distributive di cui
all’art. 512 c.p.c. A mio parere esse hanno ad oggetto una situazione processuale quale è il
diritto al concorso: vedi BOVE, La distribuzione, in BALENA - BOVE, Le riforme più recenti del
processo civile, Bari, 2006, 251 ss. Ma non nascondo che l’assunto è controverso: vedi, anche per una sintesi del dibattito, CAPPONI, L’opposizione distributiva dopo la riforma dell’espropriazione forzata, in Corr. giur., 2006, 1760 ss.; BARRECA, Le nuove norme sulle controversie distributive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, 267 ss.; NASCOSI, Il nuovo volto delle
controversie distributive ex art. 512 c.p.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 213 ss. ed ivi
ulteriori citazioni.
(11) Sul problema vedi, per tutti, VINCRE, Arbitrato rituale e fallimento, Padova,
1996, 8 ss., le cui considerazioni di principio potrebbero mantenere valore anche dopo la ri-
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fallimento, non sarebbero arbitrabili quelle particolarmente connesse
con esso, mentre lo sarebbero quelle meno connesse. O anche quello
per cui « ragioni di carattere processuale » impedirebbero l’arbitrabilità di determinate controversie fallimentari, in particolare quando
per esse il legislatore prevede la necessità di seguire un peculiare rito
processuale ovvero si tratti di impugnare provvedimenti giudiziali.
Gli esempi a cui simili affermazioni si applicano sono tratti da una
serie di vicende fallimentari di vario tipo, tutte comunque caratterizzate dall’insorgenza di un conflitto. Si pensi cosı̀: alla dichiarazione
di fallimento, all’opposizione (oggi reclamo) (12) a detta dichiarazione, alla verifica dello stato passivo, al procedimento di riparto
dell’attivo, alle situazioni in cui il giudice delegato o il tribunale
pronunciano decreto, al reclamo avverso tali decreti.
Queste applicazioni sono ragionevoli ed è condivisibile l’affermazione di sintesi per cui nell’ambiente fallimentare in fondo l’arbitrato può operare solo in una zona residuale (13). Ma, bisogna rimodulare le motivazioni che si adducono, perché, riprendendo quanto
detto sopra, il rilievo per cui al fine di decidere una certa controversia la legge prevede la necessità di seguire di fronte al giudice statale un determinato procedimento speciale ha poca influenza quando
poi ci si chiede se quella controversia possa essere o meno decisa da
un arbitro. Per delineare i limiti della giustizia privata non bisogna
chiedersi quali siano i procedimenti statali sostituibili, quanto piuttosto interrogarsi sulla funzione che, attribuita al giudice statale, può
essere in sostituzione attribuita anche al giudice privato. E, come è
stato già rilevato, l’arbitro, se può intervenire per sostituire un’attività di giurisdizione contenziosa dichiarativa, non può invece intervenire quando si tratterebbe di sostituire l’attività esecutiva del giudice pubblico o un’attività di giurisdizione volontaria.
Ma, allora, la verità è che tutti gli incidenti cognitivi endofallimentari che sovvengono negli esempi fatti non sono gestibili dall’ar-
forma del 2006. Ed infatti alcune di esse sono riprese ad esempio da FRASCAROLI SANTI, L’art.
83-bis Legge fall. e i problemi irrisolti nei rapporti tra fallimento e giudizio arbitrale, in
Sull’arbitrato. Studi offerti a G. Verde, Napoli, 2010, 367 ss., spec. 373.
(12) Con la riforma del 2006 è stato, quindi, eliminato un grado di giudizio: sul
punto vedi, per tutti, SALETTI, La tutela giurisdizionale nella legge fallimentare novellata, in
Riv. dir. proc., 2006, 981 ss., spec. 990, il quale peraltro scriveva prima del D.Lgs. n. 169/
2007, quando, sulla base del D.Lgs. n. 5/2006, l’art. 18 Legge fall. parlava di « appello » e
non di « reclamo ».
(13) Cosı̀ VINCRE, op. cit., 12, 23.
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bitro per il semplice fatto che in essi non vi è lo svolgimento di
un’attività giurisdizionale contenziosa di natura dichiarativa, ossia
essi non sono al servizio dell’accertamento dell’esistenza e/o del
modo di essere di una situazione giuridica soggettiva, sostanziale o
processuale che sia (14). Qui bisogna stare attenti al senso giuridico
dell’espressione « incidente cognitivo », perché, se è ovvio che il
giudice, in ogni attività giurisdizionale che è chiamato a svolgere, sia
essa contenziosa (dichiarativa o esecutiva) o meno, debba conoscere
i presupposti del provvedimento che deve porre in essere, è anche
vero che solo nell’ambito dell’attività che, per ragioni essenzialmente funzionali prima che strutturali, viene qualificata come dichiarativa la cognizione è sia mezzo sia fine: in essa l’accertamento non
è compiuto solo al fine di provvedere, ma esso è l’obiettivo (quantomeno minimo) a cui l’attività mira, attuandosi la funzione dichiarativa appunto nel fissare qual è il diritto nel caso concreto. Ebbene,
nell’ambito degli incidenti cognitivi endofallimentari sopra citati gli
accertamenti che il giudice è chiamato a svolgere sono solo ed unicamente funzionali all’attuazione del concorso, anche quando essi
assumono forme di una qualche complessità, ossia, più precisamente,
all’attuazione di un’attività esecutiva, non singolare, come avviene
in base agli artt. 474 ss. c.p.c., bensı̀ appunto concorsuale o, se si
vuole, generale, in quanto potenzialmente coinvolgente tutti i beni
del debitore e tutti i suoi creditori (15). Se cosı̀ è, non si vede come
(14) Si noti anche che non basta ad escludere l’operatività di un’attività giurisdizionale contenziosa di natura dichiarativa il fatto che l’incidente cognitivo si risolva nell’impugnativa di un atto dell’autorità. Per fare solo qualche esempio, dà certamente luogo allo svolgimento di un’attività giurisdizionale contenziosa di natura dichiarativa sia l’opposizione agli
atti esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c. sia l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi di
fronte al giudice amministrativo. Altro, poi, è interrogarsi sulla possibilità di devolvere queste controversie ad un arbitro, possibilità che è impedita solo se ci si convince di essere di
fronte ad oggetti indisponibili. In ogni caso, quale che sia l’idea che si voglia sostenere, la
tracciabilità della linea di confine tra arbitrabilità e non arbitrabilità non ha niente a che fare
col rilievo che ci si trovi di fronte all’impugnativa di un atto dell’autorità.
(15) Dubbio potrebbe essere l’inquadramento della sentenza che dichiara il fallimento o di quella che la conferma in sede di reclamo (cfr. gli artt. 16 e 18 Legge fall., sui
quali si veda ad esempio PUNZI, La dichiarazione di fallimento, in Riv. dir. proc., 2008, 1501
ss. e DE SANTIS, Sulla c.d. « degiurisdizionalizzazione » del concorso collettivo e sui limiti dei
giudicati endofallimentari dopo le riforme, in Riv. dir. proc., 2008, 367 ss., spec. 373 ss., che
vede nella fase di dichiarazione del fallimento e dell’eventuale reclamo un momento di giurisdizione contenziosa di tipo dichiarativo). Peraltro, anche se qui non si volesse vedere
l’esplicarsi di una funzione del tutto peculiare, qual è quella di dichiarare l’apertura dell’esecuzione concorsuale, dopo averne accertato i presupposti, e, quindi, di adottare provvedimenti conseguenti, quali quelli indicati nel primo comma dell’art. 16 Legge fall., l’idea che
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l’arbitro potrebbe intervenire in sostituzione del giudice statale, posto che al giudice privato non è dato in astratto il potere di svolgere
un’attività esecutiva.
Ci si soffermi, per un momento, sul caso, forse il più spinoso,
dell’accertamento dello stato passivo, nell’ambito del quale sembra
che vi sia un « accertamento » dei crediti nei confronti del fallito (16). Decisive sono le disposizioni dell’art. 52 Legge fall., ai sensi
del quale dopo la dichiarazione di fallimento ogni credito deve essere « accertato » secondo le norme del fallimento, e dell’art. 96, ult.
comma, Legge fall., ai sensi del quale ogni decisione assunta dal
giudice nella verifica del passivo, anche a seguito d’impugnazione
del decreto che rende esecutivo lo stato passivo ai sensi dell’art. 99
Legge fall., produce effetti soltanto ai fini del concorso. Tali disposizioni rendono evidente come, dichiarato il fallimento, questo si atteggi come una sorta di sistema (tendenzialmente) chiuso, che, seguendo forme a volte semplici ed a volte più complesse, quando è
necessario risolvere conflitti, punta però nel suo insieme unicamente
all’attuazione del concorso e non all’accertamento (con forza di giudicato) della spettanza dei beni della vita. Cosı̀ accade che per la vepossa essere un arbitro, anziché il giudice dello Stato, a pronunciarsi sembrerebbe palesemente urtare contro l’indisponibilità dell’oggetto della sentenza, che, se vogliamo vedere
come espressione di una funzione di giurisdizione contenziosa di tipo dichiarativo, rientra
certamente nell’ambito della c.d. tutela costitutiva necessaria. Tuttavia, a me sembra del tutto
evidente come questo provvedimento in camera di consiglio, più che svolgere una funzione
dichiarativa (rispetto alla quale sarebbe anche arduo stabilirne l’oggetto: sul punto vedi da
ultimo FABIANI, L’oggetto del processo per dichiarazione di fallimento, in Riv. dir. proc.,
2010, 766 ss.), sia anch’esso al servizio puramente e semplicemente dell’esecuzione forzata
generale, di cui, accertandone i presupposti di legge, rappresenta il primo momento. E tale
rilievo non può essere smentito dall’osservazione della struttura del procedimento, perché la
maggiore o minore complessità della struttura di un procedimento (in termini di istruzione
probatoria e di attuazione del principio del contraddittorio) non sempre è significativa per
stabilire la funzione al cui servizio esso è posto. Tantomeno può avere un peso a questo proposito il rilievo per cui è venuta meno la possibilità di una dichiarazione d’ufficio del fallimento.
(16) Quanto si dirà non subisce variazioni ove si voglia affermare che nel fallimento
non si accertano i crediti, quanto piuttosto i diritti al concorso dei vari creditori. Sulla classica disputa vedi variamente RICCI, Formazione del passivo fallimentare e decisione sul credito, Milano, 1979, 71 ss.; MONTANARI, Fallimento e giudizi pendenti sui crediti, Padova,
1991, 125 ss.; LANFRANCHI, La verificazione del passivo nel fallimento, Milano, 1979, 240 ss.,
261 ss.; CAVALAGLIO, Fallimento e giudizi pendenti, Padova, 1975, 119 ss.; GARBAGNATI, Osservazioni sull’effıcacia del provvedimento del provvedimento del giudice delegato che ammette od esclude un credito dal passivo fallimentare, in Riv. dir. proc., 1943, II, 137 ss. A
seguito della riforma del 2006 emerge chiaramente che nell’accertamento del passivo vi sia
essenzialmente una verifica dei diritti al concorso a puri fini interni alla procedura: sul punto
vedi, fra gli altri, SALETTI, op. cit., 1004.
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rifica dei crediti (o dei diritti al concorso) non vi sia più spazio per
un eventuale giudizio dichiarativo, statale o arbitrale che sia (17). O
meglio, esse rendono evidente come la procedura fallimentare ed
eventuali giudizi dichiarativi sui crediti, statali o arbitrali, corrano su
linee parallele che non s’incontrano, fino al punto che è anche possibile che penda e prosegua il giudizio dichiarativo avente ad oggetto
l’accertamento di un credito nei confronti dell’imprenditore fallito,
senza, però, che esso possa avere un qualche rilievo nella procedura
concorsuale, nel cui ambito si conosce quel credito solo ai fini della
sua attuazione, senza che nulla si accerti nei confronti del debitore (18). E la riprova di ciò sta nel fatto che il debitore-fallito non è
neanche legittimato a contestare alcunché ed anzi egli, ove ritenga
che sia stato pagato nella procedura fallimentare un credito inesistente, può sempre agire per la ripetizione dell’indebito ai sensi dell’art. 114, comma 2, Legge fall., proprio perché nell’esecuzione generale (o collettiva) che egli ha subito i c.d. incidenti cognitivi non
erano certo espressione di una funzione dichiarativa (19).
(17) Oltretutto con la riforma del 2006 l’ambito di applicazione dell’art. 52 Legge
fall. si è ampliato rispetto alla legge precedente, recitando la norma: « Ogni credito, anche se
munito di diritto di prelazione o trattato ai sensi dell’articolo 111, primo comma, n. 1), nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le
norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni di legge ».
(18) Tradizionalmente la giurisprudenza ritiene che il giudizio arbitrale avente ad
oggetto un credito nei confronti di una parte poi dichiarata fallita debba essere dichiarato improcedibile: vedi, fra le altre, Cass., 4 settembre 2004, n. 17891, in Dir. fall., 2005, II, 430.
Sul punto vedi anche in dottrina, tra i più recenti, CARRATTA, Arbitrato rituale su credito e
interferenze con la verificazione del passivo, in questa Rivista, 1998, 102 ss.; ZUCCONI GALLI
FONSECA, op. cit., 109 A mio parere in questo caso, se non avrebbe alcun senso immaginare
un subentro del curatore nel giudizio arbitrale, perché, ai sensi dell’art. 52 Legge fall., a seguito della dichiarazione di fallimento, i crediti nei confronti del fallito vanno accertati nel
fallimento secondo le relative modalità, è anche vero che non ha senso immaginare una chiusura di quel giudizio. Starà all’attore scegliere. Egli può rinunciare agli atti e coltivare la sua
pretesa solo nel fallimento. Ma, se egli vuole continuare il giudizio arbitrale potrà farlo, sapendo però che il lodo che otterrà sarà opponibile al debitore al di fuori del fallimento, una
volta che questi sia tornato in bonis.
(19) Né quanto appena detto pare smentito dal primo comma dello stesso art. 114
Legge fall., nel quale si legge: « I pagamenti effettuati in esecuzione dei piani di riparto non
possono essere ripetuti, salvo il caso dell’accoglimento di domande di revocazione ». Invero,
questo disposto si riferisce alla stabilità del riparto di fronte agli altri creditori e non alla stabilità di esso a fronte del debitore. Per il debitore, si ripete, vale il secondo comma del citato
articolo, che recita: « I creditori che hanno percepito pagamenti non dovuti devono restituire
le somme riscosse, oltre agli interessi legali dal momento del pagamento effettuato a loro favore ». Ma vedi per una diversa lettura CARRATTA, Liquidazione e ripartizione dell’attivo nel
fallimento e tutela giurisdizionale dei diritti, parte seconda, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008,
1271 ss., spec. 1290-1291.
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Se tutto quello che è stato detto finora è vero, pare evidente
come il domandarsi quand’è che una controversia collegata al fallimento sia arbitrabile o meno significa in realtà chiedersi quali siano
gli spazi in cui può operare un’attività giurisdizionale di tipo dichiarativo all’esterno della procedura fallimentare con effetti da prodursi
nell’ambito del concorso. In altri termini, in collegamento al fallimento l’arbitrato è concepibile nella misura in cui è concepibile un
processo dichiarativo di fronte al giudice statale, ossia l’esplicarsi di
un’attività giurisdizionale contenziosa al di fuori della procedura,
che dismetta i panni dell’attività esecutiva e acquisti quelli dell’attività dichiarativa ed allo stesso tempo metta capo a pronunce nei
confronti dell’amministrazione fallimentare, pronunce che, quindi,
esplicano i loro effetti nell’ambito della procedura fallimentare.
Ecco, allora, che si comprende quanto sia residuale lo spazio
per l’arbitrato in collegamento al fallimento, una residualità che, oltretutto, dopo l’ampliamento dell’art. 52 Legge fall., appare oggi ancor più evidente di quanto lo fosse in precedenza (20). In pratica, io
direi che lo spazio per un arbitrato in questo « ambiente » si apre essenzialmente in riferimento a due gruppi di casi. In primo luogo è
possibile che siano devolute ad un arbitro le controversie relative a
pretese attive che ritenga di vantare il fallimento, sia quelle che si
fondano su rapporti giuridici pendenti che, ai sensi degli artt. 72 ss.
Legge fall., sopravvivono alla dichiarazione di fallimento sia quelle
che nascono dall’esercizio provvisorio dell’impresa autorizzato ai
sensi dell’art. 104 Legge fall. In secondo luogo non vedo cosa potrebbe impedire di devolvere ad un arbitro le azioni revocatorie, posto che, restando del tutto irrilevante la loro attribuzione, in ipotesi,
alla competenza funzionale del tribunale fallimentare, nonché anche
il loro inscindibile collegamento alla procedura fallimentare, in esse,
se esercitate di fronte al giudice statale, si avrebbe puramente e semplicemente proprio l’esplicarsi di quella attività giurisdizionale contenziosa con funzione dichiarativa che ben può essere sostituita da
un giudice privato.
(20) Si faccia l’esempio dei c.d. crediti di massa: se in precedenza si poteva ipotizzare l’arbitrabilità delle liti ad essi relative, sul presupposto, peraltro discutibile, che per essi
fosse percorribile la via del processo dichiarativo ordinario e non quella dell’insinuazione
allo stato passivo (sul punto vedi VINCRE, op. cit., 23 ss.), oggi una simile ipotesi non è per
nulla prospettabile, perché anche a questi crediti si riferisce il citato art. 52 Legge fall.
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3. Stabilito ciò che può essere devoluto ad un arbitro coinvolgendo l’amministrazione fallimentare, la scelta della via arbitrale su
un oggetto che rientri in quell’area può essere effettuata dalla stessa
amministrazione fallimentare oppure può essere stata effettuata
prima dall’imprenditore poi fallito. Rinviando ad un momento successivo la trattazione del primo aspetto, occupiamoci del secondo,
che è certamente più problematico.
Ci si chiede quale sia il valore, di fronte all’amministrazione
fallimentare, di quanto « accaduto » prima della dichiarazione di fallimento (21), vale a dire se sia ad essa opponibile un patto compromissorio precedentemente stipulato ovvero di un giudizio arbitrale
già pendente (22).
Ora, se prima della riforma del 2006 della legge fallimentare si
dettava una disciplina degli effetti del fallimento sui rapporti giuri-
(21) Se, poi, prima della dichiarazione di fallimento c’è stata la pronuncia di una
sentenza, privata o statale che sia (equipara giustamente le due ipotesi VINCRE, op. cit., 113),
questa ha effetti nei confronti dell’amministrazione fallimentare negli stessi termini in cui un
giudicato ha effetti rispetto ai successori delle parti (se l’amministrazione fallimentare subentra nel rapporto sostanziale, con la conseguenza che essa, subendo l’efficacia diretta della
sentenza, privata o statale, può impugnarla con i rimedi, ordinari o straordinari, delle parti)
ovvero, a seconda della situazione, rispetto ai terzi. Ciò a prescindere da situazioni particolari, qual è quella, in specie, che si ha a fronte di una pronuncia che abbia accertato crediti
nei confronti del fallito. Cosı̀, se un credito nei confronti del fallito è stato accertato in un
lodo, esso sarà fatto valere nel fallimento ai sensi degli articoli 92 ss. Legge fall., con l’avvertenza che detto credito sarà senz’altro ammesso se il lodo era definitivo, mentre sarà ammesso con riserva, ai sensi dell’art. 96, comma 2, n. 3 Legge fall., in caso di lodo ancora
soggetto all’impugnazione per nullità di cui agli artt. 828 ss. c.p.c., con possibilità per il curatore di esperire questa impugnazione. Sull’applicabilità del citato disposto contenuto nell’art. 96 Legge fall. anche ai lodi (rituali) vedi MONTANARI, Lodi rituali e verifica dei crediti
nel fallimento dopo la riforma, in Sull’arbitrato. Studi offerti a G. Verde, Napoli, 2010, 529
ss. Sull’applicabilità del previgente art. 95, comma 3, Legge fall. anche ai lodi impugnabili
vedi, per tutti, CAVALAGLIO, Sui rapporti tra clausola compromissoria, processo arbitrale,
lodo rituale e giudizio fallimentare di verifica dei crediti, in questa Rivista, 1999, 707 ss. ed
ivi ulteriori citazioni. In termini dubitativi vedi, invece, ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., 118.
(22) Nell’affrontare il problema non sembra che possa avere una qualche rilevanza
la distinzione tra arbitrato rituale ed arbitrato irrituale. A mio parere queste sono figure assai
diverse tra di loro sul piano del regime giuridico applicabile. Ma questa diversità non ha alcuna rilevanza a fronte del discorso che stiamo facendo, perché il patto compromissorio è
comunque il contratto con cui due parti impediscono l’esplicarsi della giurisdizione statale
su una lite già nata o su una serie di liti future, ponendosi solo in un momento successivo la
stipula di un contratto di mandato con gli arbitri. Che poi questo effetto impediente si esplichi a livello di giurisdizione statale in modi tecnicamente diversi è questione che non incide
sulla domanda che poniamo nel testo. Insomma, che un patto compromissorio sia di tipo rituale o irrituale, sempre, a seguito della dichiarazione di fallimento di una parte, si pone un
identico problema: è esso opponibile all’amministrazione fallimentare? E la risposta a questa
domanda non si diversifica a seconda del tipo di arbitrato che le parti abbiano inteso fondare.
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dici preesistenti fondata sul metodo casistico senza nulla prevedere
in riferimento alla convenzione di arbitrato, con la detta riforma è
oggi, per un verso, dettata una norma di carattere generale, essendosi
riformulato l’art. 72 Legge fall. che è intitolato genericamente ai
« rapporti pendenti », e, per altro verso, con specifico riguardo alla
clausola compromissoria è stata inserita nella legge fallimentare una
disposizione, l’art. 83-bis, che, come vedremo, se qualcosa dice, non
è però del tutto perspicua. Per poter svolgere un discorso ordinato è
allora opportuno ricordare, sia pure sommariamente, quali erano le
opinioni che in precedenza si dividevano il campo.
Dovendo, nella totale mancanza di disposizioni esplicite, fondarsi solo su principi generali, le opinioni precedenti, sia in dottrina
sia in giurisprudenza, erano le più varie (23). Cosı̀, se alcuni proponevano una tesi del tutto restrittiva, secondo la quale, ancorché non
utilizzando sempre i medesimi argomenti (24), si affermava la caduta
di ogni convenzione di arbitrato e l’inopponibilità di ogni giudizio
arbitrale pendente all’apertura del fallimento, altri propendevano
piuttosto per la necessità di distinguere a seconda che la procedura
fallimentare si trovi di fronte ad una convenzione di arbitrato o ad
un giudizio arbitrale pendente, affermando la caduta di quella e la
sopravvivenza di questo, con la precisazione che la pendenza del
giudizio arbitrale si avrebbe con l’accettazione del mandato ad opera
(23) Vedi variamente ed anche per una sintesi: VECCHIONE, Compromessi in arbitri e
fallimento, in Dir. fall., 1956, II, 294 ss.; CAPACCIOLI, L’amministrazione fallimentare di fronte
all’arbitrato, in Riv. dir. proc., 1959, 526 ss.; ALVINO, Clausola compromissoria, compromesso e fallimento, in Dir. fall., 1964, II, 12 ss.; PIEGROSSI, Rapporti tra fallimento e arbitrato, in La legge fallimentare. Bilancio e prospettive dopo 30 anni di applicazione, Milano,
1975, 637 ss.; DEL VECCHIO, Clausola compromissoria, compromesso e lodo di fronte al successivo fallimento di una delle parti, in Dir. fall., 1986, I, 285 ss.; PROFETA, L’opponibilità
dell’arbitrato rituale al fallimento, in Dir. fall., 1991, I, 1173 ss.; BOZZA, Arbitrato e fallimento, in Il fallimento 1993, 477 ss.; BERLINGUER, L’arbitrato nelle procedure concorsuali,
cit., 983 ss.; BONSIGNORI, Compromesso, clausola compromissoria e fallimento, in Scritti in
onore di E. Fazzalari, IV, Milano, 1993, 345 ss.; ID., Arbitrati e fallimento, Padova, 2000, 1
ss.; FESTI, La clausola compromissoria, Milano, 2001, 388 ss.; VERDE, La convezione di arbitrato, in AA.VV., Diritto dell’arbitrato a cura di G. VERDE, Torino, 2005, 71 ss., spec. 80
ss.; TIZI, Fallimento e giudizi arbitrali pendenti su crediti, in Dir. fall., 2005, II, 430 ss.
(24) Si andava dal richiamo alla vis attractiva dell’art. 24 Legge fall. o dall’idea
della coloritura del tutto pubblicistica della procedura fallimentare, che di fatto mettevano in
crisi l’arbitrato tout court, all’idea per cui la convenzione di arbitrato, quale contratto strettamente personale, non potrebbe sopravvivere al fallimento di uno dei contraenti, fino alla
specificazione per cui questo carattere di stretta personalità sarebbe proprio del compromesso
e non anche della clausola compromissoria, dovendo questa, al contrario, sopravvivere in
caso di sopravvivenza del rapporto sostanziale di riferimento.
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degli arbitri, momento in cui, a detta della maggior parte dei fautori
di detta teoria, scatterebbe l’operatività del principio della c.d. perpetuatio iurisdictionis di cui all’art. 5 c.p.c., in virtù del quale, radicata la competenza in capo al giudice adito, qui il giudice privato,
eventi successivi potenzialmente sottrattivi di detta competenza
(come ad esempio potrebbe essere in astratto la dichiarazione di fallimento) non avrebbero alcun effetto (25).
Altri, ancora, cercando la risposta al problema nell’art. 72
Legge fall., da applicarsi quantomeno in via analogica, ritenevano
che il patto compromissorio dovesse essere trattato come un contratto pendente, al quale applicare il principio generale per cui, in
mancanza di diverse e specifiche disposizioni di legge, sta al curatore valutare se subentrare o meno. Di conseguenza, si affermava la
sospensione dell’efficacia della convenzione di arbitrato in attesa
della scelta dell’amministrazione fallimentare, salva la possibilità
dell’altro contraente di mettere in mora il curatore per effettuare la
scelta. Fino a giungere, infine, alla tesi di chi riconduceva la sopravvivenza della clausola compromissoria alla sopravvivenza del contratto sostanziale collegato a cui il curatore decida di subentrare.
Salvo poi a dividersi, nell’ambito dei sostenitori di questa tesi, tra
chi ricollegava la permanenza dell’efficacia della clausola compromissoria alla sua valenza di elemento accessorio del contratto e chi,
invece, salvando l’autonomia della clausola compromissoria come
contratto processuale, connesso, ma distinto dal contratto sostanziale
di riferimento, semplicemente non vedeva la ragione per far cadere
un contratto vincolante per il fallito a fronte dell’amministrazione
fallimentare, ritenendo che, in mancanza di disposizioni specifiche in
senso contrario, non possa che valere anche per il detto contratto
processuale il principio della vincolatività emergente dall’art. 1372,
comma 1, c.c. (26).
(25) Peraltro, a volte faceva capolino un’attenuazione dei detti principi, ammettendosi la possibilità per l’amministrazione fallimentare di avvalersi della convenzione di arbitrato in base ad una valutazione di utilità, a prescindere dal fatto che al momento della dichiarazione di fallimento pendesse già il giudizio arbitrale.
(26) In fondo, anche se non esplicitamente, è al principio da ultimo citato che si deve
ricondurre la giurisprudenza meno risalente, secondo la quale la convenzione di arbitrato non
perde effetti per la dichiarazione di fallimento, anche se questa si preoccupa, invece, di
escludere l’applicabilità del previgente art. 78 Legge fall., che prevedeva la scioglimento del
mandato per il fallimento di una delle parti. Cosı̀ Cass., 8 settembre 2006, n. 19298, in Giust.
civ. Rep., 2006, v. Compromesso e arbitrato, 4 e Cass., 17 aprile 2003, n. 6165, in Giust. civ.,
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4. Con la riforma del 2006 nella legge fallimentare vengono
introdotte, per quanto ci riguarda, tre fondamentali novità.
La prima: l’art. 72 viene intitolato, non più al contratto di vendita, ma genericamente ai rapporti pendenti, fissandosi in esso il
principio generale per cui se un contratto non è ancora eseguito o
non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando, nei confronti di una di esse, è dichiarato il fallimento, l’esecuzione del contratto rimane sospesa fino a quando il curatore, con l’autorizzazione
del comitato dei creditori, dichiari di subentrare nel contratto in
luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo. Aggiungendosi che il contraente può mettere
in mora il curatore, facendogli assegnare dal giudice delegato un termine non superiore a sessanta giorni, decorso il quale il contratto si
intende sciolto.
La seconda: viene introdotto un art. 83-bis, in cui testualmente
si dispone che se « il contratto in cui è contenuta una clausola compromissoria è sciolto a norma delle disposizioni della presente sezione, il procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito ».
La terza: viene riscritto il previgente art. 78 in riferimento al
mandato disponendosi che il contratto di mandato si scioglie, non
più per il fallimento di una delle parti, ma solo per il fallimento del
mandatario.
A fronte di questo rinnovato quadro normativo gli interpreti si
sono soffermati essenzialmente sul citato art. 83-bis, ricavando da
esso, in virtù del suo tenore letterale e, si aggiunge, anche in virtù di
quanto sarebbe ricavabile a contrario, il principio per cui la clausola
compromissoria seguirebbe le sorti del contratto sostanziale a cui
accede. Per cui, si dice: se il curatore subentra in questo, subentra
anche nella clausola compromissoria, altrimenti, sciogliendosi dal
contratto sostanziale, egli si scioglie anche dalla detta clausola.
2004, II, 2408 affermano che, essendo la convenzione di arbitrato un mandato collettivo stipulato anche nell’interesse di terzi, esso non può sciogliersi con l’apertura del fallimento, non
valendo per esso appunto la detta norma contenuta nella previgente legge fallimentare. Ma è
evidente come in relazione alla questione che abbiamo di fronte, ossia se sopravviva o meno
alla dichiarazione di fallimento l’efficacia di una convenzione di arbitrato, non abbia alcun
rilievo la norma (peraltro oggi mutata, come vedremo) che nella legge fallimentare si occupa
della pendenza di un rapporto di mandato, perché nella convenzione di arbitrato non vi è alcun mandato, ponendosi questo successivamente nel perfezionamento del rapporto tra le parti
e gli arbitri.
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Insomma, secondo gli interpreti più recenti, una volta aperta la
procedura fallimentare, non si potrebbe distinguere a seconda che
penda o meno il giudizio arbitrale, restando il problema della sopravvivenza della scelta della via arbitrale a fronte dell’amministrazione
fallimentare sempre identico. Ad esso il legislatore del 2006 avrebbe
risposto escludendo ogni autonomia del patto compromissorio rispetto al rapporto sostanziale a cui accede (27).
A mio parere queste letture vulnerano il principio di autonomia
del patto compromissorio sulla base di una norma, qual è quella
contenuta nell’art. 83-bis Legge fall., il cui scarno contenuto non può
certo portare a quella conclusione. Del resto, al più si potrebbe negare il detto principio in riferimento alla clausola compromissoria e
non anche al compromesso. Ma, se sarebbe assurdo, come rilevano
a ragione gli interpreti, immaginare che nella lettura dell’art. 83-bis
Legge fall. si possa fare una qualche differenza a seconda della
forma che abbia assunto in concreto la convenzione di arbitrato, evidentemente la vulnerazione o meno del principio di autonomia della
clausola compromissoria qui poco c’entra.
La verità è che, purtroppo, nonostante l’ampio dibattito che si
era sviluppato sulla tematica che ci occupa, non si può dire che il legislatore del 2006 abbia chiarito i problemi che erano sul tappeto,
problemi che in fondo, lungi dal dover essere risolti in base ad imprescindibili ragioni logico-sistematiche, esigerebbero solo chiare
(27) DIMUNDO, in Il diritto fallimentare riformato a cura di G. SCHIANO DI PEPE, Padova, 2007, 290 ss.; CANALE, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da A. JORIO coordinato da M. FABIANI, I, Bologna, 2006, sub art. 83-bis, 1345 (il quale specifica che
non si può distinguere tra clausola compromissoria e compromesso: il patto compromissorio,
quale che sia la sua forma, sopravvive se sopravvive il rapporto sostanziale a cui si riferisce,
altrimenti viene meno); ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., 116-117 (la quale, invece, distingue
tra compromesso e clausola compromissoria, applicando a questa l’art. 83-bis Legge fall. ed
a quello il principio ricavabile dall’art. 72 Legge fall., che dà al curatore il potere di scelta);
FRASCAROLI SANTI, op. cit., 377; DE SANTIS, Sull’opponibilità al curatore fallimentare della
convenzione di arbitrato stipulata dal fallito, alla luce delle riforme della legge concorsuale,
in Sull’arbitrato. Studi offerti a G. Verde, Napoli, 2010, 357 ss. (il quale fa due precisazioni:
a) in linea di principio il patto compromissorio è opponibile al fallimento; b) si potrebbe
contestare la legittimità della scelta di scioglimento dal contratto ad opera del curatore, ma
detta contestazione va sollevata a fronte del tribunale fallimentare); CASTAGNOLA, Arbitrato
pendente e subentro del curatore nel contratto contenente la clausola compromissoria, in
Sull’arbitrato. Studi offerti a G. Verde, cit., 169. Legge in modo limitativo l’art. 83-bis VELLANI, L’art. 83-bis Legge fall. e l’art. 15 regolamento CE n. 1346 del 2000, in Sull’arbitrato.
Studi offerti a G. Verde, cit., 861 (il quale ritiene che la norma non si occupi né del caso in
cui la scelta della via arbitrale sia fondata su compromesso né del caso in cui all’apertura del
fallimento non penda ancora il giudizio arbitrale).
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scelte di diritto positivo. Ma queste chiare scelte non sono ad oggi
ancora state fatte e l’interprete deve arrangiarsi con i pochi dati normativi che ha a disposizione.
5. Volendo cercare di dare una risposta al quesito intorno alla
sopravvivenza della scelta della via arbitrale effettuata dall’imprenditore prima della sua dichiarazione di fallimento, direi che si debba
preliminarmente partire da alcuni rilievi, per cosı̀ dire, in negativo.
Innanzitutto, a mio parere, non sembra che l’art. 83-bis Legge
fall. possa risolvere il problema, perché questa norma nulla dice in
positivo, limitandosi essa solo, in negativo, ad affermare che il giudizio arbitrale pendente non può proseguire ove il contratto sostanziale a cui accedeva il patto compromissorio venga sciolto. Insomma, detta norma impone la caduta del giudizio arbitrale, che, per
cosı̀ dire, abbia « perso » il suo oggetto, essendo venuto meno il rapporto sostanziale su cui fino alla dichiarazione di fallimento esso era
incentrato.
Se questa, e solo questa, è la ragione della norma, ne conseguono altri rilievi.
In primo luogo, ne consegue l’assoluta irrilevanza della forma
che abbia assunto la convenzione di arbitrato. Anche se l’articolo in
commento cita solo il caso della clausola compromissoria, è ovvio
che, disciplinando esso la sorte di un giudizio che abbia « perso » il
suo oggetto, la stessa sorte spetti al giudizio arbitrale fondato su un
compromesso.
In secondo luogo, si deve ritenere che l’art. 83-bis Legge fall.
non possa fondare, in ipotesi, un’eventuale scelta del legislatore in
favore della c.d. teoria dicotomica, ossia di quella idea, sostenuta in
epoche passate, secondo la quale si dovrebbe distinguere a seconda
che l’amministrazione fallimentare si trovi di fronte ad una convenzione di arbitrato o ad un giudizio arbitrale pendente, certamente
salvando questo ed al più facendo cadere quella. Invero, se detta
norma disciplina solo in negativo la caduta del giudizio arbitrale che
abbia « perso »il suo oggetto, evidentemente essa non esprime nulla
in positivo, in particolare essa non fonda l’accettazione del principio
per cui, posta la sopravvivenza del rapporto sostanziale, si debba affermare anche la sopravvivenza del giudizio arbitrale, ossia l’opponibilità della scelta della via arbitrale all’amministrazione fallimentare una volta che essa sia stata attuata nella pendenza del giudizio
arbitrale.
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Ed, anzi, da quest’ultimo punto di vista, io direi che si possono
aggiungere altre affermazioni in negativo, riprendendo in chiave critica l’idea, in precedenza sostenuta, secondo la quale la sopravvivenza del giudizio arbitrale a seguito della dichiarazione di fallimento potrebbe spiegarsi o in virtù dell’art. 5 c.p.c. o in virtù del
principio per cui quella pendenza rappresenterebbe l’attuazione del
patto compromissorio o, se si vuole, la costituzione di un mandato,
nel rapporto tra le parti e gli arbitri, che dovrebbe rimanere insensibile alla dichiarazione di fallimento.
Circa il primo argomento a me sembra che, se l’art. 5 c.p.c.
rappresenta una delle applicazioni del principio chiovendiano per cui
il tempo necessario per celebrare un giudizio non deve andare a
danno della parte che ha ragione, evidentemente esso debba trovare,
in linea di principio (28), la sua applicazione anche nel campo della
giustizia privata. Ma, il punto è che la dichiarazione di fallimento
non rappresenta un fatto che in astratto sottrarrebbe la potestas iudicandi agli arbitri già investiti del giudizio, perché, presupponendo di
trovarsi nell’ambito di quelle controversie che sono arbitrabili anche
in collegamento al fallimento, evidentemente qui non sovviene uno
di quei mutamenti di cui tratta l’art. 5 c.p.c., che trova, invece, applicazione quando ad esempio interviene una legge che sottragga all’arbitrabilità una lite che in precedenza era devolvibile agli arbitri.
Né, ammettendo che eventuali fatti estintivi del patto compromissorio possano ripercuotersi sul giudizio arbitrale pendente, sembra che
si possa ravvisare nella dichiarazione di fallimento uno di quei fatti
estintivi da cui in ipotesi doversi parare, non essendovi alcun appiglio normativo in tal senso.
Passando, poi, al secondo argomento, esso è inconsistente, anche se oggi potrebbe sembrare, al contrario, che se ne potrebbe trovare un ulteriore fondamento nell’art. 78 Legge fall., che, come è già
stato ricordato, prevede oggi la sopravvivenza del contratto di mandato ove a fallire sia il mandante. Ma il punto è, o almeno cosı̀ a me
sembra, che detta norma, pur a volerla applicare al rapporto tra le
(28) La precisazione nel testo è doverosa, perché, senza voler qui aprire un discorso
troppo complesso, si deve pur tenere presente che la giustizia privata trova il suo fondamento
in un contratto, le cui vicende patologiche possono ben ripercuotersi sul giudizio arbitrale
pendente. Cosı̀ l’eventuale estinzione della convenzione di arbitrato travolge il giudizio arbitrale, senza che l’art. 5 c.p.c. possa rappresentare un limite a ciò. Sulle fattispecie di estinzione del patto compromissorio vedi, se vuoi, BOVE, La giustizia privata, cit., 45 ss.
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parti e gli arbitri (29), nulla dice in ordine alla sopravvivenza della
scelta della via arbitrale a fronte dell’amministrazione fallimentare,
limitandosi essa semplicemente a disporre che, se quella scelta sopravvive per altra ragione, allora l’amministrazione fallimentare
deve attenersi alla nomina già in precedenza effettuata dall’imprenditore, senza poter nominare un arbitro diverso.
Peraltro, volendo allargare la prospettiva, non si può neanche
affermare che il patto compromissorio a cui abbia fatto seguito il
perfezionamento del rapporto tra le parti e gli arbitri, sia un contratto
attuato e come tale intangibile da parte dell’amministrazione fallimentare. Innanzitutto, se cosı̀ fosse, allora la ragione della sopravvivenza del giudizio arbitrale a fronte dell’amministrazione fallimentare non starebbe tanto nella pendenza del giudizio arbitrale in sé,
che si ha con la notificazione della domanda, quanto piuttosto nel
perfezionamento della sequenza nomina-accettazione nell’ambito
della dinamica tra le parti e gli arbitri. Ma il punto è che, quand’anche si voglia parlare di una « attuazione » della convenzione di arbitrato, quel termine dovrebbe semplicemente rinviare alla realizzazione dello scopo della convenzione stessa, meta che si raggiunge,
non certo con la nomina degli arbitri, quanto piuttosto con la pronuncia del lodo. Per cui, al più, seguendo questa logica, nella sequenza
nomina-accettazione che fonda la costituzione del rapporto tra parti
ed arbitri si avrebbe solo una parziale attuazione del patto compromissorio, con la conseguenza che, rimanendo sempre nell’ambito
della stessa logica, resterebbe intatto il problema della sua opponibilità all’amministrazione fallimentare, la cui soluzione dovrebbe comunque cercarsi altrove.
Se tutte queste affermazioni in negativo sono convincenti, si ha
almeno un risultato certo: il problema della sopravvivenza della via
arbitrale scelta dall’imprenditore poi fallito è unico e la sua soluzione prescinde dal trovarsi l’amministrazione fallimentare di fronte
ad un giudizio arbitrale già pendente o solo ad una convenzione di
arbitrato ancora da attivare. Insomma, non si danno ipotesi in cui
potrebbe proseguire il giudizio arbitrale là dove, se non fosse già
pendente detto giudizio, cadrebbe, invece, il patto compromissorio.
In verità la sopravvivenza della scelta in favore della via arbitrale
effettuata dall’imprenditore poi fallito dipende sempre e solo dalla
(29)
Cosa secondo me doverosa, come emergerà anche dal prossimo paragrafo.
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sopravvivenza della convenzione di arbitrato, non essendovi ragioni
peculiari attinenti al giudizio in sé che militino comunque a favore
della sua opponibilità all’amministrazione fallimentare. Detta affermazione a me sembra abbastanza certa, anche se essa non è certo
esplicitata nella legge fallimentare.
Ed, allora, se è evidente che la scelta della via arbitrale cade se
cade il rapporto sostanziale a cui essa si riferiva, a prescindere dalla
circostanza che penda o meno il giudizio arbitrale al momento della
dichiarazione di fallimento, residua la domanda: quella scelta sopravvive certamente o sopravvive a certe condizioni o comunque
cade se, al contrario, il rapporto sostanziale a cui si riferiva resta in
vita a fronte dell’amministrazione fallimentare?
Facendo a meno di idee preconcette ed attenendosi al solo diritto positivo, l’interprete ha qui due possibili scelte.
Si potrebbe ritenere che, presupposta la sopravvivenza del rapporto sostanziale a cui accede, la scelta della via arbitrale in precedenza effettuata dall’imprenditore poi fallito sia opponibile al fallimento semplicemente sulla base dell’art. 1372 c.c., non ravvisandosi
alcuna ragione che potrebbe consentire all’amministrazione fallimentare di sottrarsi al contratto che chiamiamo convenzione di arbitrato.
Qui, si ripete, poco senso avrebbe mettere in campo l’idea per cui
verrebbe meno il principio di autonomia del patto compromissorio,
perché quella sopravvissuta efficacia avrebbe una ragione autonoma,
che prescinde dal vincolo al contratto sostanziale. E la ragione autonoma starebbe nell’impossibilità per l’amministrazione fallimentare
di liberarsi dalla soggezione alla scelta della via arbitrale, sempre
ovviamente che ciò abbia un senso, ossia un oggetto, non essendo
venuto meno il rapporto sostanziale di riferimento. Un vincolo, poi,
che prescinderebbe sia dalla forma assunta dalla convenzione di arbitrato sia dalla fase in cui si trovi l’esperienza della vicenda, essendo irrilevante la già incardinata pendenza o meno del giudizio arbitrale.
Ma l’interprete potrebbe anche valorizzare il tenore generale
che ha oggi, dopo la riforma del 2006, assunto l’art. 72 Legge fall.,
norma di principio e residuale sulla sopravvivenza dei rapporti pendenti a seguito della dichiarazione di fallimento, norma che distingue
a seconda che il contratto pendente sia già stato compiutamente eseguito ovvero sia stato parzialmente eseguito o del tutto non eseguito.
Nelle due ultime eventualità la legge dà al curatore un potere di
scelta, in base evidentemente ad una valutazione di opportunità, an311
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che corroborata dal comitato dei creditori. Si potrebbe, allora, ritenere che anche a fronte della convenzione di arbitrato, che penda o
meno già il giudizio arbitrale, potrebbe emergere la necessità di detta
valutazione autonoma, per cui il curatore ben potrebbe, ad esempio,
subentrare nel contratto sostanziale e non anche nel connesso patto
compromissorio, a prescindere dalla forma da esso assunta.
La scelta non è semplice, perché, come è già stato evidenziato,
i dati normativi non sono univoci. Ma, se, come appare logico, la
valutazione preliminare spetta alla seconda delle opzioni interpretative enunciate, a me sembra che siano più le ragioni per dubitare
dell’applicabilità dell’art. 72 Legge fall. alla convenzione di arbitrato
in sé che non quelle contrarie.
Si potrebbe affermare che le parole utilizzate dall’art. 72 Legge
fall. vadano intese in termini ampi. Cosı̀, in particolare, si potrebbe
ritenere che detta norma, quando parla di esecuzione del contratto,
voglia riferirsi, non necessariamente ad adempimenti in senso stretto,
quanto piuttosto, più genericamente, all’attuazione del programma
negoziale, insomma alla realizzazione dello scopo del contratto. Ma,
anche a voler forzare la mano in questo senso, resterebbe sempre da
spiegare come si può aggirare il concetto di assunzione di « tutti i
relativi obblighi », di cui pur tratta l’articolo in parola, quando in
esso si immagina un curatore che scelga di subentrare nel contratto
sotto osservazione. Invero, il patto compromissorio non è un contratto sostanziale, bensı̀ processuale, per cui da esso non deriva alcun rapporto obbligatorio tra le parti, ma solo effetti processuali,
fondando esso, in negativo, l’eccezione di patto compromissorio di
cui all’art. 819-ter c.p.c., che porta alla pronuncia di una sentenza di
rigetto in rito nell’ambito del processo statale instaurato inavvedutamente nonostante la scelta della via arbitrale, ed, in positivo, l’efficacia vincolante della (futura) sentenza privata. Inoltre, se da un
certo punto di vista l’effettività del patto compromissorio è garantita,
non dalla nascita di un rapporto obbligatorio avente come contenuto
l’obbligo di non agire di fronte ad un giudice statale, bensı̀ dalla
detta eccezione di patto compromissorio, da altro punto di vista non
ha consistenza immaginare la nascita da esso di un ulteriore obbligo
di cooperazione al fine di rendere possibile l’attuazione della giustizia privata, essendo più verosimile l’utilizzazione della figura dell’onere, visto che l’eventuale inerzia di una parte, ad esempio nella
nomina dell’arbitro che le spetta, può danneggiare solo la parte
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inerte, avendo l’altra ogni strumento di legge per rimediare facendo
a meno della cooperazione dell’altra (30).
Ma, allora, appare veramente arduo immaginare che il patto
compromissorio possa essere oggetto di un’autonoma valutazione da
parte del curatore, per decidere se subentrarvi o meno. Intendiamoci:
io non credo che sarebbe irragionevole un legislatore che lasciasse
all’amministrazione fallimentare una simile scelta, perché è evidente
che anche in riferimento ad un contratto processuale, qual è la convezione di arbitrato, potrebbero esservi spazi per valutare l’opportunità economica di subentrarvi o meno. Il punto è solo di diritto positivo. Se non si trova un appiglio normativo che consenta di attribuire una simile scelta al curatore, evidentemente delle due l’una: o
si trova una qualche norma che sancisce l’inefficacia del patto compromissorio a seguito della dichiarazione di fallimento oppure valgono pur sempre i principi generali tratti dal codice civile, in particolare l’art. 1372 c.c.
Ora, posto che nessuna norma sancisce la caduta della scelta
della via arbitrale in precedenza effettuata dall’imprenditore poi fallito, non vedo come l’amministrazione fallimentare potrebbe svincolarsi da essa. E, si ripete, nulla conta il fatto che il giudizio arbitrale
già penda o meno al momento dell’apertura del fallimento né quale
sia la forma che il patto compromissorio abbia assunto. Tutto ciò,
s’intende, sempre che, come abbiamo già precisato in precedenza, il
patto compromissorio non abbia « perso » il suo oggetto, essendo
venuto meno il rapporto sostanziale di riferimento e sempre che la
controversia di riferimento resti arbitrabile dopo la dichiarazione di
fallimento (31).
6. Nella misura in cui il giudizio arbitrale pendente già col
fallito debba proseguire nei confronti dell’amministrazione fallimentare si pone il problema del come questa subentri in luogo di quello (32).
(30) Su questi aspetti vedi, se vuoi, BOVE, La giustizia privata, 33 ss.
(31) Il riferimento è ovviamente a quelle pretese che dopo l’apertura del fallimento
devono essere fatte valere all’interno del fallimento. Vedi le precisazioni fatte nel secondo
paragrafo.
(32) Ovviamente resta fuori dal discorso che si sviluppa nel testo il caso in cui il
giudizio arbitrale pendente riguardi un credito nei confronti del fallito, ipotesi nella quale non
avrebbe alcun senso immaginare un subentro del curatore, posto che, ai sensi dell’art. 52
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Secondo una certa tesi qui si applicherebbe integralmente l’art.
43 Legge fall., che esprimerebbe due principi indissolubilmente legati tra loro. Il primo: che nelle controversie in corso al momento
della dichiarazione di fallimento subentrerebbe il curatore al posto
del fallito. Il secondo: che la modalità per attuare un simile subentro
dovrebbe necessariamente passare attraverso l’istituto dell’interruzione (33).
Ma, francamente, se la prima affermazione è indiscutibile, perché non si vede come potrebbe immaginarsi la prosecuzione di un
giudizio pendente ad opera del fallito in modo opponibile al fallimento, non è condivisibile la seconda affermazione, per il semplice
fatto che l’interruzione non è istituto applicabile all’arbitrato. Né si
può accampare a sostegno della tesi contraria il rilievo per cui l’art.
43 Legge fall. andrebbe letto in modo inscindibile, perché nulla impone una simile inscindibilità ed anzi è evidente che il terzo comma
del citato art. 43 Legge fall., nel riferirsi all’interruzione del processo, può avere spazio di applicabilità, e non potrebbe essere altrimenti, solo in un « ambiente » nel quale opera di per sé l’istituto
dell’interruzione, non potendo certo il solo art. 43 Legge fall. fondare l’applicabilità di un istituto nell’ambito di un giudizio nel quale
esso non è previsto come operante (34).
Resta allora quale unica ipotesi di lavoro praticabile l’applicabilità al nostro caso dell’art. 816-sexies c.p.c. (35), per cui, lungi dal-
Legge fall., a seguito della dichiarazione di fallimento i crediti nei confronti del fallito vanno
accertati nel fallimento. Su detto caso vedi accenni supra nel § 2, testo e nota 18.
(33) CASTAGNOLA, op. cit., 170 ss.
(34) Che l’istituto dell’interruzione non operi nel giudizio arbitrale ed in particolare
non operi nel caso di specie, ossia a fronte del fallimento di una delle sue parti, è opinione
abbastanza diffusa. Vedi prima della riforma del 2006 VINCRE, op. cit., 97 ss. e dopo detta riforma VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2010, 123 e, se vuoi, BOVE, La giustizia privata, 128-129 (Castagnola mi accusa di non motivare la mia tesi, ma in realtà la
motivazione che avevo addotto, e che qui ripeto, si fonda proprio su un principio generale:
che nel giudizio arbitrale le c.d. vicende anomale, che determinano nel processo statale la sospensione, l’interruzione o l’estinzione, sono disciplinate in modo peculiare dalle norme che
il codice di rito detta appunto per l’arbitrato).
(35) CASTAGNOLA, op. cit., 174 adduce quale ulteriore argomento in favore della sua
tesi il rilievo per cui l’art. 816-sexies c.p.c. non potrebbe applicarsi perché dovrebbe necessariamente cedere il passo alla norma specifica di settore contenuta nel terzo comma dell’art.
43 Legge fall., che appunto disciplinerebbe il caso specifico degli effetti della dichiarazione
di fallimento sul giudizio arbitrale pendente. Ma questo argomento in realtà è solo una ripetizione, sotto altra forma, dell’idea dell’inscindibilità delle disposizioni contenute nel citato
art. 43 Legge fall., a fronte della quale insorge sempre la stessa critica: come si può ritenere
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l’aversi un’interruzione del giudizio arbitrale ai sensi delle norme
che disciplinano l’interruzione del processo statale, qui non richiamabili, starà agli arbitri assumere le misure necessarie per attuare il
subentro del curatore al fallito (36). Alla luce della citata norma gli
eventi che avrebbero portato all’interruzione il processo statale devono essere considerati dagli arbitri dal punto di vista del possibile
vulnus al principio del contraddittorio, affinché essi assumano i provvedimenti che ritengono opportuni, fino al limite, possibile ma non
necessario, dell’arresto (sospensione) del giudizio ove le parti abbiano bisogno di tempo per attuare le disposizioni degli arbitri stessi.
Fermo restando che, se le parti non dovessero ottemperare alle indicazioni degli arbitri, questi possono anche legittimamente rinunciare
all’incarico, non potendosi pretendere da essi di giungere alla pronuncia di un lodo annullabile perché assunto in violazione del principio del contraddittorio.
Stabilita la modalità del subentro del curatore al fallito nel giudizio arbitrale pendente, restano altri problemi da risolvere.
Il primo problema riguarda la costituzione del tribunale arbitrale. Se gli arbitri devono ancora essere nominati e il patto compromissorio prevedeva la nomina ad opera delle parti, per l’amministrazione fallimentare sta al giudice delegato effettuare la nomina su
proposta del curatore (art. 25, comma 1, n. 7 Legge fall.). Se, invece,
gli arbitri erano già stati nominati, il curatore non può sciogliesi dal
contratto di mandato ormai perfezionatosi (37). Posto che il rapporto
parti-arbitri, ancorché con tutta una serie di precisazioni derivanti
dalle sue peculiarità e dalla disciplina specifica contenuta nel codice
di rito, è sostanzialmente avvicinabile al contratto di mandato, io
applicabile all’arbitrato una disposizione che parla di un istituto, l’interruzione, che all’arbitrato non è applicabile in termini generali?
(36) CASTAGNOLA, op. cit., 174 pone anche in dubbio che con la dichiarazione di fallimento si determini uno dei presupposti dell’art. 816-sexies c.p.c., in particolare rilevando
che col fallimento l’imprenditore non perde la capacità legale. Ma è evidente come con la
dichiarazione di fallimento il fallito perda la capacità di disporre dei suoi beni, cosa che non
può non riconoscere lo stesso Castagnola, altrimenti non troverebbe applicazione neanche il
primo comma dell’art. 43 Legge fall.
(37) Prima della riforma del 2006 era discutibile se il curatore fosse vincolato alla
scelta dell’arbitro già effettuata dal fallito oppure se se ne sciogliesse certamente (in applicazione del previgente art. 78 Legge fall., che prevedeva lo scioglimento del mandato per il
fallimento di una delle parti) o ancora, in virtù dell’applicazione di un presunto principio generale, in ipotesi valevole per tutti i rapporti pendenti non nominati dalla legge fallimentare,
potesse scegliere tra scioglimento e prosecuzione. Vedi sul tema BONSIGNORI, Arbitrati e fallimenti, cit., 81-82.
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credo che il curatore non possa sciogliersi da esso per due ragioni.
Innanzitutto in virtù del principio generale per cui il mandato si instaura tra tutte le parti e gli arbitri, per cui non si vede come il curatore, subentrato nella posizione di una sola tra le parti, potrebbe
unilateralmente liberarsi dal contratto di mandato già in precedenza
perfezionatosi. In secondo luogo per una ragione specifica che
emerge dall’art. 78 Legge fall., che, come è già stato accennato in
precedenza, se in sé non spiega la sopravvivenza del giudizio arbitrale pendente, che si fonda sulle ragioni viste nel paragrafo precedente, fonda, però, il vincolo del curatore al contratto di mandato che
già in precedenza era stato stipulato con gli arbitri, compreso quello
nominato dall’imprenditore poi fallito.
Per quanto riguarda poi l’efficacia, nei confronti dell’amministrazione fallimentare, degli atti in precedenza compiuti nel giudizio
arbitrale da parte del fallito, nulla fa pensare che si possa limitarla in
qualche modo, subentrando il curatore nella posizione processuale
che aveva il fallito prima della dichiarazione di fallimento. Cosı̀, in
linea di principio, varrà la scelta della sede dell’arbitrato già concordata dalla parti (38) e resteranno efficaci gli atti istruttori già compiuti
in precedenza.
Né un qualche problema specifico può sorgere quando nel giudizio arbitrale sia stata resa una confessione da parte dell’imprenditore poi fallito. Qui le opinioni si sono in passato divise tra coloro
che hanno ritenuto senz’altro opponibile la confessione, quale prova
legale, all’amministrazione fallimentare e coloro che, invece, in questo caso hanno fatto scadere la confessione a prova liberamente valutabile (39). A mio parere il problema non sussiste perché, più in generale, nel giudizio arbitrale non valgono le regole che disciplinano
l’istruzione probatoria nel processo statale, salvo i principi dell’ordine pubblico processuale, quali quello della terzietà del giudice e
quello del contraddittorio (40). Di conseguenza, in esso non è nean-
(38) Ma resta sempre la possibilità per le parti di ripensarci. Se una parte è stata sostituita dall’amministrazione fallimentare si pone la domanda: il curatore può modificare la
determinazione della sede, in accordo con l’altra parte, senza l’autorizzazione del giudice delegato? In mancanza di appigli normativi da trarre dall’art. 25 Legge fall., propenderei per
una risposta negativa. Vedi sul punto, prima della riforma del 2006, VINCRE, op. cit., 102 ss.,
che, invece, optava per la risposta contraria.
(39) Sul punto vedi VINCRE, op. cit., 105-106.
(40) Cosı̀, anche per gli arbitri vale, oltre al principio della domanda e della corri-
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che riproducibile la dicotomia tra prove legali e prove libere, fondandosi il giudizio arbitrale sul puro principio del libero convincimento.
Residua un’ultima domanda: cosa accade se agli arbitri non è
reso noto che una parte è fallita? Il giudizio arbitrale continua senza
che possa essere applicato il dettato dell’art. 816-sexies c.p.c., perché
gli arbitri nulla sanno, e, cosı̀, si giunge al lodo nella totale ignoranza
degli arbitri e magari anche dell’amministrazione fallimentare.
Questo lodo è opponibile al fallimento? Io credo di si (41).
Si faccia il caso di una lite c.d. attiva, in cui l’imprenditore poi
fallito abbia fatto valere un diritto nei confronti della sua controparte (42). Questo giudizio, nella totale ignoranza dell’avvenuto fallimento dell’attore, può giungere ad un lodo di accoglimento della domanda ovvero di rigetto. A me non sembra dubbio che questo lodo,
in virtù dell’operatività dei principi dettati in materia di limiti soggettivi della cosa giudicata valga anche nei confronti dell’amministrazione fallimentare, la quale ne godrà, se esso è favorevole, e lo
subirà se esso è sfavorevole.
Ma, in questo secondo caso residua il fatto che detto lodo è
stato pronunciato in violazione del principio del contraddittorio, non
avendo avuto l’amministrazione fallimentare la possibilità di subentrare nel giudizio. Ed, allora, si dovrà pur riconoscere al curatore il
potere di impugnarlo per violazione appunto del detto principio del
contraddittorio (art. 829, comma 1, n. 9 c.p.c.), anche, eventualmente, oltre il termine di un anno di cui all’art. 828, comma 2, c.p.c.,
appoggiandosi, in ipotesi, sul supporto dell’art. 153, comma 2, c.p.c.
7. A fronte di una lite connessa al fallimento che sia arbitrabile la scelta della giustizia privata, non effettuata in precedenza dall’imprenditore poi fallito, può essere effettuata dall’amministrazione
fallimentare, scelta che, anzi, può riguardare, non solo un rapporto
sostanziale preesistente, ma anche un rapporto sostanziale nato dopo
l’apertura del fallimento. La via per attuare una simile scelta è delispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, il divieto di scienza privata: vedi per un più ampio discorso, se vuoi, BOVE, La giustizia privata, cit., 118 ss.
(41) Diversamente VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, cit., 123-124.
(42) Non ci stanchiamo di ripetere che l’ipotesi in cui, al contrario, il giudizio arbitrale instaurato prima della dichiarazione di fallimento abbia ad oggetto un credito nei confronti del fallito è da trattare in modo del tutto diverso, emergendo qui la necessaria applicabilità dell’art. 52 Legge fall. e non essendo minimamente prospettabile un possibile subentro dell’amministrazione fallimentare nel giudizio arbitrale pendente.
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neata in termini generali dall’art. 35 Legge fall., in virtù del quale la
convenzione di arbitrato (43) può essere stipulata dal curatore previa
autorizzazione del comitato dei creditori ed anche, se la lite ha un
valore superiore ai cinquantamila euro, previa informativa del curatore al giudice delegato (44).
Avverso la concessione o il diniego della detta autorizzazione è
ammesso reclamo ai sensi dell’art. 36 Legge fall. al giudice delegato
per violazione di legge ad opera del fallito o di ogni altro interessato (45).
Se, poi, il patto compromissorio è stipulato dal curatore senza
la prevista autorizzazione, i rimedi immaginabili sono due: uno endofallimentare ed uno esterno al fallimento. Innanzitutto il fallito e
ogni altro interessato possono esperire il reclamo ai sensi del citato
art. 36 Legge fall., facendo valere la detta omissione. In secondo
luogo è sempre possibile far valere l’invalidità della convenzione di
arbitrato, sub specie di vizio di capacità, quindi ad istanza del solo
curatore (46), secondo le norme di diritto comune che si ritrovano innanzitutto nel codice di procedura civile, che contemplano sia la
possibilità di sindacare l’esistenza di un valido patto compromissorio in via principale in un ordinario processo dichiarativo (47) sia la
(43) L’art. 35 Legge fall. parla solo di compromessi, ma è stato detto che non si vede
la ragione per non applicare detta norma più in generale ad ogni tipo di patto compromissorio: cosı̀, fra gli altri, FRASCAROLI SANTI, op. cit., 369. Prima della riforma del 2006 VINCRE,
op. cit., 37 ss. aveva sostenuto l’applicabilità dell’art. 35 Legge fall. (vecchio testo) al solo
compromesso, per poi, però, attribuire alla clausola compromissoria lo stesso regime, ma non
in virtù del citato art. 35, bensı̀ in virtù del previgente art. 25, n. 6 Legge fall., che prevedeva
in generale la necessaria autorizzazione al curatore da parte del giudice delegato per compiere atti di straordinaria amministrazione, sul presupposto che in questa categoria rientrasse
la clausola compromissoria. A mio parere nell’odierno quadro normativo l’unica norma della
legge fallimentare che viene in gioco è il riformulato art. 35 secondo il tenore già indicato
nel testo, norma che, se può immaginarsi come applicabile anche al di là dei compromessi in
senso proprio, non può, però, far venire meno il principio contenuto nell’ultimo inciso dell’art. 808 c.p.c., per cui il curatore, se ha in ipotesi il potere di stipulare un contratto sostanziale, ha per ciò solo anche il potere di inserirvi una clausola compromissoria. Vedi sul punto
in termini dubitativi ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., 112.
(44) Per riferimenti al previgente testo dell’art. 35 Legge fall. vedi, per tutti, VINCRE,
op. cit., 36 ss.
(45) Vedi in generale sull’art. 36 Legge fall., fra gli altri, FABIANI, Nuovi equilibri fra
gli organi del fallimento e centralità del reclamo ex art. 36 Legge fall., in Riv. trim. dir. proc.
civ., 2007, 811 ss.
(46) Insomma si tratta di mera annullabilità: cfr, ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., 112.
(47) Eventualità oggi ricavabile, mediante un ragionamento a contrario, dall’ultimo
comma dell’art. 819-ter c.p.c.
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possibilità, più usuale, di sollevare una simile questione incidentalmente nell’ambito del processo instaurato sul diritto sostanziale controverso, e ciò mediante il rilievo di un’eccezione processuale d’incompetenza del giudice adito, che è disciplinata dall’art. 819-ter
c.p.c. ove la causa penda di fronte al giudice statale ovvero dall’art.
817 c.p.c. ove la causa penda di fronte all’arbitro, con conseguente
possibilità di coltivare la questione in quest’ultimo caso in sede
d’impugnativa del lodo alla luce dell’art. 829, comma 1, n. 1 c.p.c.
The article first outlines the limits on the arbitrability of disputes with reference to bankruptcy. It maintains that disputes are, as a rule, arbitrable when the
receiver in bankruptcy could be a party in proceedings before a State court seeking the declaration of a right which is external to the bankruptcy proceedings and
which court may make orders having an effect on the bankruptcy proceedings.
The author then replies essentially to the following question: what effect does
a declaration of bankruptcy have on a prior arbitration agreement or on a pending arbitral proceeding? Excluding that the answers to the two questions may be
different from each other, the commentary draws the conclusion that, presuming
that the substantive agreement has remained on foot, the arbitration agreement is
valid vis-à-vis the bankruptcy pursuant to article 1372, Civil Code, as the receiver
in bankruptcy in this case does not have the power to make the choice foreseen by
article 72 of the bankruptcy law.
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GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I)
ITALIANA
Sentenze annotate
TRIBUNALE DI MILANO, Sez. VIII civ., sentenza 28 settembre 2009, n. 11436;
DAL MORO G.U. ed Est.; Fallimento Cecchi Gori Group FIN.MA.VI S.p.a.
(avv. Galgano), Cecchi Gori Group Media Holding S.r.l. in liquidazione (avv.
Galgano) e Vittorio Cecchi Gori (avv. Nappi) c. Telecom Italia Media S.p.a.,
già SEAT Pagine Gialle S.p.a. (avv. Sbisà).
Clausola compromissoria - Domanda di risarcimento dei danni per illecito
contrattuale - Rigetto - Successiva domanda in sede giurisdizionale per il
risarcimento dei medesimi danni per illecito extracontrattuale - Eccezione
di giudicato e di compromesso - Fondatezza di entrambe le eccezioni Dichiarazione di incompetenza.
Proposta e rigettata in sede arbitrale la domanda di risarcimento dei danni
per illecito contrattuale, alla domanda di risarcimento dei medesimi danni, proposta in sede giurisdizionale per illecito extracontrattuale, sono fondatamente opponibili le eccezioni di precedente giudicato e di compromesso. Il Tribunale deve
quindi dichiarare la propria incompetenza a decidere.
CENNI DI FATTO. — Sorta controversia fra le parti di un complesso ed articolato
contratto, una di esse propone, in sede arbitrale, domanda di risarcimento dei danni
per illecito contrattuale. Rigettata nel merito la domanda, propone, in sede giurisdizionale, domanda di risarcimento dei danni per gli stessi fatti, questa volta però
sotto il profilo dell’illecito extracontrattuale. Il Tribunale, ritenendo fondata sia
l’eccezione di compromesso sia l’eccezione di giudicato, dichiara la propria incompetenza.
MOTIVI
1.
DELLA DECISIONE.
I fatti.
Il 7 agosto 2000 Cecchi Gori Group Fin.Ma.Vi S.p.a. (Finmavi) e Media Holding S.r.l. (Media), da una parte, e Seat Pagine Gialle S.p.a. (Seat), dall’altra stipu321
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larono un contratto per l’acquisto del 100% delle azioni di Cecchi Gori Comunictions S.p.a. (CGC), all’epoca proprietaria del gruppo televisivo Telemontecarlo e
titolare di due delle 11 concessioni nazionali per la trasmissione televisiva. La CGC
era interamente posseduta da Media Holding a sua volta controllata da Finmavi,
holding del gruppo facente capo a Vittorio Cecchi Gori titolare della maggioranza
del capitale.
« Il contratto era strutturato in modo tale che l’acquisto da parte di Seat della
partecipazione CGC sarebbe avvenuto in tre fasi, la prima immediatamente esecutiva, la seconda e la terza sospensivamente condizionate all’ottenimento delle autorizzazioni all’operazione di trasferimento delle azioni da parte delle competenti
Autorità », Antitrust e Agcom, ai sensi della legge 31 luglio 1997, n. 9 (cfr. atto di
citazione, pag. 3).
In attuazione della prima fase del contratto (Prima esecuzione, parag. 2.03 del
contratto) Seat acquistò il 25% delle partecipazioni per l’importo complessivo di
250 miliardi di lire (somma che era destinata a ripianare i debiti della CGC verso
Finmavi ed altre società del gruppo Cerchi Gori) attraverso la sottoscrizione di un
corrispondente aumento di capitale di CGC con sovrapprezzo, il quale venne deliberato congiuntamente a modifiche statutarie che (come contrattualmente stabilito)
attribuivano a Seat il potere di veto su tutte le deliberazioni dell’assemblea ordinaria e straordinaria attraverso l’innalzamento all’85% dei quorum costituitivi e deliberativi di prima e seconda convocazione) nonché quello di designare la maggioranza dei componenti del CdA sia di CGC che di tutte le società del gruppo (attraverso un meccanismo di voto di lista strutturato in maniera tale da moltiplicare la
valenza dei voti espressi dalle azioni di categoria B, appartenenti a Seat rispetto a
quelli espressi dalle azioni di categoria A, appartenenti a Media); detto trasferimento venne, altresı̀, accompagnato dalla costituzione in pegno di tutte le altre
azioni CGC di Media in favore di Seat, con pattuizioni sull’esercizio del voto che,
pur riservandolo a Media, garantivano a Seat il controllo dell’assemblea, come meglio si vedrà in seguito.
Il completamento dell’operazione di trasferimento doveva avvenire attraverso
l’acquisizione da parte di Seat della maggioranza assoluta e, poi, della totalità delle
azioni di CGC: prima attraverso il conferimento da parte di Media del 50% delle
azioni possedute in CGC (Seconda esecuzione) in sede di sottoscrizione di corrispondenti aumenti di capitale di Seat riservati a Media, che avrebbe dovuto contestualmente attribuire a primaria banca o S1M designata da Seat, mandato a custodire le azioni Seat sottoscritte; quindi attraverso un meccanismo di reciproche Opzioni, di cessione e di acquisto, del residuo 25% del capitale della target (Terza
esecuzione).
Era altresı̀ previsto (parag. 13.06 del contratto) che fino all’esercizio da parte
di Seat dell’Opzione di acquisizione, il fabbisogno finanziario di mezzi propri sarebbe stato fornito alla CGC a mezzo finanziamenti del socio Seat in conto futuri
aumenti di capitale.
Le parti convennero che l’efficacia dell’obbligo delle parti di dar corso alla
Seconda Esecuzione e dei diritti che alle parti derivavano dalle Opzioni (Terza esecuzione) fosse sottoposta alle condizioni sospensive predette da parte delle competenti Autorità, per l’avveramento delle quali fissarono il termine del 31 gennaio
2001 (cfr. parag.14.01 (a) del contratto).
In caso di decorrenza del termine senza che le condizioni si fossero avverate
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il contratto si sarebbe risolto automaticamente a quella data, e le parti sarebbero
state liberate da ogni obbligo da esso derivante, onde alcuna pretesa ad alcun titolo
avrebbero potuto formulare Finmavi e Media verso Seat e viceversa (parag. 14.05);
per tale ipotesi Media conferiva a Seat procura e mandato irrevocabile a vendere
tutte le azioni di CGC (quelle di Seat e quelle di Media) con l’intesa che il ricavato
della vendita sarebbe stato destinato in primo luogo a rimborsare Seat dell’investimento di 250 miliardi oltre interessi (parag. 14.05 del contratto), quale prezzo minimo convenuto tra le parti per il 25% delle azioni CGC sottoscritte da Seat, e in
secondo e subordinato luogo e fino alla concorrenza di 750 miliardi, accreditato da
Seat a Media quale prezzo delle restanti azioni vendute in esecuzione del mandato.
Le società cedenti avrebbero comunque potuto riacquistare da Seat le azioni della
target per il corrispettivo di 250 miliardi oltre interessi.
A garanzia dell’adempimento puntuale di tutti gli impegni e le obbligazioni
previste a carico di Finmavi e Media in forza del contratto (cfr. parag. 11.01 del
contratto), le parti convennero che Media avrebbe costituito in pegno (con atto 8
agosto 2000) a favore di Seat tutte le azioni della CGC di sua proprietà (quindi il
residuo 75% del capitale sociale di CGC) riservandosi, in deroga a quanto previsto dall’art. 2352 c.c., il diritto di voto, che avrebbe però dovuto esercitare nell’interesse proprio e di Seat, comunicandole in anticipo le proprie intenzioni di voto,
rispetto alle quali Seat avrebbe avuto il diritto di manifestare il proprio disaccordo
e di fornire per iscritto istruzioni alternative in tempo utile; detta pattuizione sull’esercizio del diritto di voto in deroga all’art. 2352 c.c. si sarebbe risolta automaticamente senza pregiudizio del diritto di pegno, qualora Seat avesse comunicato
per iscritto alla target che si erano verificate le condizioni per la decadenza di Media dal diritto di esercitare il voto per inadempimento a qualsiasi « impegno, obbligazione obbligo di comunicazione previsto dal contratto; detta comunicazione sarebbe stata efficace nei confronti della CGC dal momento della sua ricezione » (cfr.
art. 11 parag. 11.02 (b)).
Nel termine previsto per il rilascio delle autorizzazioni l’AGCM si pronunciò
favorevolmente; l’AGCOM, invece, con provvedimento 23.1.2001 non concesse
l’autorizzazione poiché per effetto dell’operazione Telecom Italia, controllante di
Seat ex monopolista, avrebbe acquisito il controllo indiretto di società che svolgevano attività di raccolta pubblicitaria per emittenti televisive e di produzione televisiva nonché di società titolari di concessioni radiotelevisive su frequenza in
chiaro, in contrasto con l’art. 4 comma 8 Legge n. 249/1997.
Con ordinanza 31 gennaio 2001 il TAR del Lazio dispose il riesame da parte
di Agcom della domanda di autorizzazione dell’operazione di concentrazione, non
ritenendo applicabile al caso di specie il divieto di cui all’art. 4, comma 8 Legge n.
249/1997, poiché il divieto di ingresso nel settore delle telecomunicazioni televisive previsto dalla predetta norma, riguardava « la concessionaria del servizio pubblico di telecomunicazioni », posizione caratterizzata dall’affidamento in via esclusiva del servizio di telecomunicazioni rivolto alla generalità degli utenti « venuta
meno per effetto del mutato quadro normativo nazionale e comunitario di riferimento » (D.P.R. 18 settembre 1997 n. 318 direttiva C.E.E. 97/13/CE) caratterizzato
dalla liberalizzazione... con abolizione dei diritti speciali di esclusiva in capo ai
concessionari », sicché doveva ritenersi in contrasto con il chiaro dettato normativo e con la sua lettura costituzionalmente orientata l’opzione interpretativa adottata dall’Agcom ai fini dell’operatività del divieto nei confronti di Telecom quale
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« ex monopolista » ovvero « operatore storico del servizio pubblico di telecomunicazioni » (ord. TAR pag. 6).
Seat, quindi, reputando illegittimo il provvedimento di Agcom, invitò Finmavi
e Media a predisporre la documentazione necessaria all’attuazione dell’operazione
ritenendo che i presupposti della stessa potessero ormai considerarsi sussistenti.
Vittorio Cecchi Gori ritenendo, invece, che il contratto stipulato dovesse considerarsi risolto, invitò Seat « a non assumere alcuna iniziativa riguardante le partecipazioni detenute » dalla stessa Seat nonché da Media in CGC prima che fossero
convenute « modalità relative allo scioglimento il rapporto o all’eventuale prosecuzione su altre basi » (doc. 31 Seat). Finmavi e Media erano invero interessate a
rivedere le condizioni per la cessione del residuo capitale di CGC (Terza Esecuzione) per recuperare la perdita che subivano a causa del forte calo subito nel mercato borsistico dai titoli Seat.
Le parti non raggiunsero alcun accordo; Finmavi e Media diffidarono, quindi,
Seat a non assumere alcuna iniziativa riguardante le partecipazioni in CGC (lettera
7 febbraio 2001, doc. 18, Seat), compresi atti di disposizione delle quote (lettera 12
febbraio 2001 sub doc. n. 32 Seat), rappresentando che il loro « desiderio » era nel
senso che gli amministratori di nomina Seat non assumessero nelle more alcuna
deliberazione, tantomeno contraria ai loro interessi.
Seat replicò (lettera 14 febbraio 2001) contestando alle cedenti l’inadempimento.
Finmavi e Media risposero promuovendo un procedimento cautelare per ottenere (previo accertamento della risoluzione o della nullità del contratto 7.8.2000,
delle clausole statutarie di CGC che attribuivano il controllo a Seat e del mandato
a vendere) che il Tribunale ordinasse: al Presidente del Cda di CGC di ammettere
al voto il socio Media; agli amministratori di CGC di non compiere atti eccedenti
l’ordinaria amministrazione; a Seat di non dare esecuzione al mandato irrevocabile
a vendere le azioni della target perché nullo e comunque revocato. Il Tribunale, con
ordinanza 12 marzo 2001, dichiarò in parte inammissibile in parte infondato il ricorso, rigettando ogni richiesta di Finmavi e Media (in particolare osservando che
il fatto di poter esercitare, quale unica legittimata, il voto in assemblea sarebbe
stato del tutto irrilevante stante il quorum dell’85% fissato nello statuto, le cui
norme non potevano considerarsi in sé contrarie in alcun modo alla invocata Legge
n. 249/1997, dovendo semmai Media, per ottenere l’invalidazione delle stesse impugnare le delibere che le avevano introdotte; azione, peraltro, non prospettata in
sede cautelare).
Il 20 febbraio 2001 l’Agcom, riesaminata la questione, ribadı̀ il proprio provvedimento 17 gennaio 2001.
In data 12 marzo 2001 il TAR del Lazio annullò il provvedimento dell’Agcom
ritenendo inapplicabile nella specie il divieto di cui all’art. 4 Legge n. 249/1997.
Il 27 marzo 2001 il CdA di CGC deliberò la convocazione dell’assemblea ordinaria e straordinaria per deliberare fra l’altro sul bilancio dell’esercizio 2000, il
ripianamento delle perdite e l’aumento di capitale sociale a pagamento. Seat comunicò a Finmaivi e Media le istruzioni per il voto in assemblea in relazione alle
azioni ricevute in pegno, e, non avendo ricevuto conferma nel termine stabilito dichiarò che la clausola sull’attribuzione del diritto di voto in deroga all’art. 2352 c.c.
di cui all’atto di pegno dell’8 agosto 2000 doveva tenersi risolta ai sensi dell’art.
5.4 dell’atto stesso.
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Il 27 aprile 2001 l’assemblea in sede ordinaria approvò il bilancio dell’esercizio 2000 da cui risultava una perdita di lire 421.541.625.873 e un patrimonio
netto negativo di lire 156.724.494.009; in sede straordinaria deliberò la copertura
delle perdite con imputazione di tutte le riserve, l’azzeramento del capitale sottoscritto e versato (lire 9.805.000.000) la sua ricostituzione con sovraprezzo di lire
156.724.502.505 da destinarsi ad integrale copertura delle perdite. Seat, socio al
25%, sottoscrisse e versò l’intero aumento a condizione che Media, socio al 75%,
non avesse esercitato l’opzione entro il termine del 4 giugno 2001.
Il 29 maggio-26 giugno 2001 il Consiglio di Stato confermò la sentenza del
TAR quanto all’illegittimità del provvedimento negativo di Agcom, e il giudizio di
« irrazionalità anche sul piano costituzionale della lettura patrocinata dalle parti
appellanti », osservando quanto al provvedimento confermativo Agcom del 20 febbraio 2001, che « la riproposizione a corredo della successiva determinazione confermativa delle stesse tesi giuridiche confutate dai giudici di primo grado in occasione della misura cautelare a carattere propulsivo, qualificano il provvedimento in
termini di violazione della statuizione cautelare, donde (...) l’emersione di una situazione di carenza di potere e, con essa di radicale nullità della statuizione in parola » (Cons. Stato, pag 18-25, sub doc. 72 Seat), ed ordinò che la sentenza fosse
eseguita dall’autorità amministrativa.
Seguirono ulteriori contatti tra le parti e da ultimo una lettera del 4 giugno
2001 con la quale Seat dava atto di un incontro del giorno prima nel corso del
quale essa aveva ribadito la disponibilità ad eseguire il contratto ed in particolare
a dar corso alla Seconda esecuzione e, se richiesto, anche alla Terza esecuzione, nei
termini contrattualmente previsti (salvo che Media avrebbe scambiato non più le
azioni CGC, annullate, ma le opzioni per la ricostituzione del capitate), ed aveva
invece manifestato serie e motivate obiezioni alla controproposta formulata da Finmavi e Media che prevedeva modifiche dei rapporti originari e ulteriori prestazioni
di rilevante entità a carico di Seat, detta proposta sarebbe stata esaminata dal suo
CdA il 4 giugno stesso, data in cui sarebbe scaduto il termine per l’esercizio del
diritto d’opzione di Media per la ricostituzione del capitale di CGC.
Il CdA di Seat quello stesso giorno respinse la controproposta, e, Media, pur
notiziata tempestivamente, non accettò la proposta di Seat, e non esercitò l’opzione,
onde l’aumento di capitale di CGC venne sottoscritto integralmente da Seat.
Solo l’8 giugno 2001 Media comunicò che avrebbe accettato la proposta di
Seat di dare esecuzione al contratto 7 agosto 2000, ma inutilmente, atteso che il 4
giugno 2001 la sottoscrizione dell’aumento di capitale a divenuta definitivamente
efficace nei confronti della società.
Con provvedimento del 4 luglio 2001 Agcom autorizzò l’operazione di acquisizione di CGC da parte di Seat.
2.
Le iniziative processuali di Finmavi e Media.
Alla rottura dei rapporti tra le parti seguı̀ una serie di iniziative processuali
(riassunte dalla parte convenuta nella propria comparsa conclusionale).
In particolare, per quel che qui interessa in relazione alle eccezioni preliminari proposte dalla parte convenuta;
1) nell’aprile 2001 Finmavi e Media impugnarono le delibere con cui l’assem325
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blea straordinaria della CGC in data 11 agosto 2000 aveva modificato lo statuto
sociale come sopra s’è illustrato (attribuendo alla Seat il potere di veto su tutte le
deliberazioni dell’assemblea e il potere di nomina della maggioranza dei consiglieri
di amministrazione sia di CGC che di tutte le società del gruppo); il Tribunale di
Roma con sentenza 14 maggio 2003 ha respinto l’impugnativa, precisando che le
deliberazioni impugnate attenevano « al funzionamento interno della società ed a
diritti patrimoniali de soci e come tali non interessavano alcuna nonna inderogabile posta a tutela di un interesse generale, onde non potevano essere sussunte
nelle specifiche e tassative ipotesi di nullità delle deliberazioni, ovverosia in quelle
di illiceità o di impossibilità dell’oggetto » poiché riguardavano « materia di quorum qualificati e del regime della libera circolazione delle azioni ordinarie che
certamente non esplicano la loro effıcacia nell’ambito del c.d. interesse generale »,
e che, pertanto, trattandosi di ipotesi di annullamento, la società Finmavi era carente di legittimazione in quanto non socia di CGC, e la società Media — che,
quale socio allora al 100%, aveva votato le delibere impugnate — era carente del
requisito legittimante ex artt. 2378 c.c. non avendo provveduto a comprovare all’atto dell’impugnazione lo status di socio con il deposito di almeno un’azione,
onde il suo ricorso era inammissibile (decisione confermata con sentenza dalla
Corte d’Appello di Roma, contro la quale pende ricorso in Cassazione);
2) nel maggio 2001 Media e Finmavi chiesero al Tribunale di Roma di accertare la nullità del bilancio e della connessa situazione patrimoniale al 31 dicembre
2000, predisposta dal CdA di CGC ed approvata con il voto del creditore pignoratizio Seat, e di annullare le deliberazioni assunte dall’assemblea di CGC il 27
aprile 2001 per difetto di legittimazione al voto di Seat, eccesso di potere e abuso
di diritto da parte di Seat, in quanto le suddette delibere sarebbero state preordinate
all’illegittima estromissione di Media da CGC attraverso l’approvazione di una situazione patrimoniale che avrebbe rappresentato falsamente lo stato di liquidazione
della società e imposto la copertura della perdita e la ricostituzione del capitale con
il versamento da parte di Media del 75% dei mezzi finanziari necessari, salvo la rinuncia al diritto di opzione e l’uscita dalla compagine sociale; la sentenza del Tribunale di Roma che respinge integralmente l’impugnativa è stata confermata dalla
Corte d’Appello di Roma e dalla Corte di Cassazione con sentenza 16 novembre
2007, n. 23823;
con detta pronuncia è definitivamente accertato che:
— le perdite (pari a lire 511.709.660.898) della società controllata Globo BV
(che controllava il segmento più rilevante dell’impresa della CGC, ovvero la TV
internazionale S.p.a. titolare della concessione televisiva Telemontecarlo) erano
reali e durevoli, onde correttamente — ed anzi con atto dovuto — gli amministratori decisero di iscrivere nel bilancio della controllante CGC un fondo copertura
perdite di pari importo, in considerazione del fatto che a nonna dell’art. 2423-bis,
comma 1 c.c. « si deve tener conto nella redazione del bilancio dei rischi e delle
perdite di competenza dell’esercizio anche se conosciuti dopo la chiusura di questo », e che nella specie la durevolezza della perdita era stata determinata dall’evolversi sfavorevole della possibilità di realizzare il business plan per il quale erano
interventi tra le parti gli accordi dei 7 agosto 2000;
— correttamente a tale iscrizione seguirono le delibere di azzeramento (necessaria) e di ricostituzione del capitale con sovraprezzo fino a sua totale copertura,
atteso che solo l’apporto di nuovi finanziamenti avrebbe consentito di conservare
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l’attività produttiva e la capacità imprenditoriale di Globo e della stessa CGC
(salvo la decisone di dismetterne la partecipazione, che però sarebbe stata contraria all’interesse alla conservazione del patrimonio di CGC come affermato dal suo
socio di controllo Media, che invero mai s’è lamentato della mancata dismissione
della Globo);
— del tutto infondata era la pretesa di Media che Seat facesse fronte all’esigenza di mezzi finanziari mediante versamenti in conto futuri aumenti di capitale
in ottemperanza agli obblighi contrattualmente assunti, « in considerazione dei reiterati rifiuti di Media stessa di dare integrale esecuzione a quegli accordi sfociati
in iniziative giudiziarie volte addirittura a farne acclarare la risoluzione »;
— nessun comportamento abusivo fu, con tali operazione, perseguito da Seat,
stante « l’offerta di Seat intervenuta il 4 giugno 2001, a sentenza favorevole del
CdS ormai pronunciata, di eseguire integralmente il contratto in conformità degli
originari accordi »;
3) nell’agosto 2001 Finmavi e Media hanno adito il Tribunale di Milano per
far accertare la nullità del contratto con il quale l’8 agosto 2000 Media ha costituito in pegno a favore di Seat il 75% della sua partecipazione al capitale sociale
di CGC o, in subordine, per far accertare risolto il medesimo contratto per inadempimento di Seat e ottenere, in ogni caso, condanna di Seat al risarcimento dei danni
a favore di Media in misura non inferiore a 750 miliardi e al risarcimento degli ulteriori danni subiti da Finmavi in conseguenza della perdita di valore della sua partecipazione in Media; il Tribunale di Milano ha respinto integralmente le domande
con sentenza confermata dalla Corte d’Appello di Milano, decisione in parte cassata e rinviata alla Corte d’Appello di Milano, presso cui pende, tuttora, il giudizio;
4) nell’agosto 2001 Finmavi e Media hanno altresı̀ promosso un giudizio arbitrale chiedendo di dichiarare risolto il contratto 7 agosto 2000 per fatto e colpa
di Seat inadempiente agli obblighi contrattuali assunti, di dichiarare quest’ultima
responsabile della perdita dei titoli rappresentativi della partecipazione CGC e
della perdita dei relativi diritti di opzione, e di condannarla al risarcimento dei
danni, in forma specifica alla restituzione della partecipazione Media al capitale
CGC nella misura del 75% del capitale, ovvero, per l’ipotesi che detta restituzione
non fosse ritenuta possibile, per equivalente al pagamento in favore di Media della
somma di 750 miliardi di lire oltre interessi e rivalutazione e, in ogni caso, al risarcimento di tutti gli ulteriori danni subiti e subendi da Finmavi e Media indicati
nella misura non inferiore a lire 500 miliardi; in via subordinata hanno chiesto la
risoluzione del contratto per eccessiva onerosità, o l’annullamento del contratto per
errore essenziale e riconoscibile sulla prestazione dedotta, sempre ai fini della restituzione della partecipazione azionaria, ed in ogni caso con condanna al risarcimento dei danni predetti; infine hanno chiesto la dichiarazione dell’obbligo di Seat
di corrispondere la somma di 750 miliardi di lire a titolo di ingiustificato arricchimento per aver acquisito il 75% del capitale azionario di CGC senza corrisponderne il prezzo;
Seat ha chiesto il rigetto delle domande di parte avversa e di accertare che il
contratto si era estinto per impossibilità sopravvenuta della prestazione dovuta da
Fumavi e Media; in via riconvenzionale ha chiesto di accertare l’inadempimento di
queste ultime agli obblighi assunti con il contratto e il risarcimento del danno (cfr
doc. n. 27 fasc. Seat, pag. 8);
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il Collegio Arbitrale, con lodo pronunciato il 1o gennaio 2003 e depositato il
18 novembre 2003, dopo aver respinto le istanze di sospensione del giudizio in
pendenza delle altre iniziative processuali, ha dichiarato « la parziale ineffıcacia del
contratto inter partes del 7 agosto 2000 a norma del suo art. 14.05... per mancato
avveramento della condizione prevista dal suo art. 14.01(a) » ed ha respinto le altre domande proposte da Finmavi e Media e da Seat.; il lodo non è stato impugnato
ed è perciò passato in giudicato;
5) con atto di citazione 31 luglio 2003 Finmavi, Media e VCG hanno proposto il presente giudizio chiedendo il risarcimento dei danni che sarebbero loro derivati per effetto della condotta asseritamente illecita di Seat, che si sarebbe avvalsa
di un meccanismo alternativo al contratto concluso il 7 agosto 2000 tra le parti per
acquisire, nonostante la mancanza della prescritta autorizzazione e quindi contra
legem, il 100% della partecipazione della società Cecchi Gori Comunications S.p.a.
(CGC) senza alcun corrispettivo, violando il diritto di proprietà di Media; in particolare Seat avrebbe:
— illegittimamente proseguito, dopo la totale risoluzione del contratto 7 agosto 2000, nell’esercizio del controllo sulla società CGC;
— predisposto ed approvato (avvalendosi dei diritti di voto spettanti grazie al
contratto di pegno stipulato con Media l’8 agosto 2000) una situazione patrimoniale
al 31 dicembre 2000 che evidenziava la perdita del capitale sociale e la necessità
di procedere alla copertura delle perdite e alla ricapitalizzazione della società che
Seat avrebbe sottoscritto per intero (seppure a condizione che Media non esercitasse l’opzione nel termine stabilito) ed avrebbe impedito, da ultimo, a Media
(priva di idonei mezzi finanziari) di sottoscrivere quantomeno la quota di CGC
corrispondente ai crediti verso la stessa vantati cedendo a CGC stessa di crediti
propri (di SEAT) verso Media di ben maggiore importo (onde all’esito della compensazione delle reciproche pretese Media sarebbe non più creditrice ma debitrice
verso CGC della somma di euro 10.971.000.000).
Invocando l’illiceità ex art. 2043 c.c. della predetta condotta priva della fonte
contrattuale da cui era generata per avvenuta risoluzione del contratto, e contraria
alla legge 249/1997, gli attori hanno chiesto il risarcimento del danno relativo al
valore della partecipazione CGC acquisita da SEAT, e quello derivante dalla mancata disponibilità dell’importo corrispondente al valore delle azioni, e consistente
nell’impossibilità di Media e Finmavi di provvedere « alla regolare gestione del
fabbisogno corrente delle società del gruppo, con maggiori oneri per ritardati pagamenti... impossibilità di procedere a nuovi investimenti... e di ripianare dell’esposizione debitoria pregressa »; in particolare Finmavi non avrebbe potuto procedere al rimborso del prestito di lire 70 miliardi ottenuto dalla società Calcistica
Fiorentina, e sarebbe stata perciò chiamata a rispondere dalla curatela fallimentare
del dissesto; Vittorio Cecchi Gori, a causa della perdita delle partecipazioni in CGC
di Media frutto dell’illecita acquisizione di Seat, avrebbe subito la perdita di valore della sua partecipazione in Finmavi;
Seat si è costituita chiedendo:
1) in via preliminare di dichiarare il difetto di legittimazione o interesse ad
agire di Finmavi S.p.a. e Vittorio Cecchi Gori;
2) di dichiarare l’incompetenza del Tribunale a conoscere delle domande in
relazione alla clausola compromissoria stipulata dalle parti nel contratto 7 agosto
2000;
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3) di dichiarare inammissibili/improcedibili le domande per ragioni di litispendenza e continenza in relazione ai giudizi promossi e tuttora pendenti, ed, in
subordine, disporre la sospensione del giudizio in attesa della definizione con sentenza passata in giudicato dei giudizi pendenti;
4) nel merito respingere integralmente le domande e condannare gli attori al
pagamento delle spese e al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. in misura non
inferiore a 500.000 euro.
Con memoria 15 luglio 2004 la convenuta, dando atto del passaggio in giudicato del lodo arbitrale, chiedeva che le domande avversarie fossero respinte in
quanto inammissibili per il principio del ne bis in idem.
***
Con ordinanza 9 dicembre 2006, all’esito della remissione della causa in decisione, il giudice allora designato per la trattazione, ravvisando « elementi di continenza di cause intesa nella accezione più ampia d’interferenza negli effetti pratici
dei giudicati, poiché fatti pretesamene fondanti una responsabilità extracontrattuale dedotti in questa sede sono già dedotti in altra sede come fatti determinativi
di un vizio delle delibere assembleari il cui accertamento può fondare una responsabilità risarcitoria non solo a carico della società ma anche a carico del socio
(nella fattispecie Seat) che abbia espresso illegittimamente il proprio voto », disponeva la sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c. fino alla definizione
della causa n. 11220/2002.
Dopo il deposito, avvenuto il 16 novembre 2007, della sentenza della Corte
di Cassazione che ha definito il predetto giudizio, Telecom Italia Media (TIM), già
Seat, con ricorso 20 dicembre 2007 ha riassunto il giudizio sospeso e notificato agli
attori ricorso e decreto del nuovo giudice designato per la trattazione del giudizio.
All’udienza del 17 dicembre 2008, fissata per la prosecuzione del giudizio, si
sono costituiti i nuovi difensori di Vittorio Cecchi Gori e gli originari difensori di
Media Holding e di Finmavi hanno comunicato rinuncia al mandato, dichiarando,
altresı̀, l’intervenuto fallimento di quest’ultima, pronunciato dal Tribunale di Roma
il 23 ottobre 2006.
La convenuta ha eccepito l’intervenuta estinzione del processo nei confronti
di Finmavi, reputando che fosse inutilmente decorso dal 16 gennaio 2008 il termine
di sei mesi per la riassunzione del giudizio interrotto automaticamente a quella data
per effetto della riforma dell’art. 43 Legge fall.
Il giudice ha rinviato per la precisazione delle conclusioni all’udienza de 28
gennaio 2009, alla quale si sono costituiti i nuovi difensori di Media Holding e del
fallimento Finmavi che ha contestato l’estinzione del giudizio nei suoi confronti.
Tutte le parti hanno quindi precisato le rispettive conclusioni e il giudice ha
trattenuto la causa in decisione assegnando i termini per le difese.
4.
L’estinzione dei giudizio nei confronti di Finmavi dichiarata fallita il 23 ottobre 2006.
L’eccezione è infondata: la dichiarazione di fallimento in ragione della nuova
329
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formulazione dell’art. 43, ult. comma Legge fall. produce automaticamente l’interruzione del giudizio, senza, cioè, che sia più necessaria la relativa dichiarazione;
nella specie l’evento interruttivo si è prodotto il 23 ottobre 2006 quando la presente
causa era stata già posta in decisione, pertanto l’effetto interruttivo non si è prodotto (la conclusione è pacifica anche tra le parti; cfr. Cass. 29 maggio 1999 n.
5237); l’ordinanza 9 dicembre 2006 con (fui il Giudice ha disposto la sospensione
del giudizio ex art. 295 c.p.c. — quand’anche avesse implicitamente rimesso la
causa sul ruolo agli effetti del prodursi dell’evento interruttivo come sostiene TIM
— ha comunque impedito ex art. 298 c.p.c. il decorso dei termini per la costituzione di colui cui spettava la sua prosecuzione (la curatela Fallimentare), termini
che hanno ricominciato a decorrere, sempre secondo il chiaro dettato ex art. 298
c.p.c., dal giorno della nuova udienza fissata per la prosecuzione del giudizio, che
— a seguito di ricorso in riassunzione del processo sospeso pt.roposto da TIM (già
Seat) dopo la sentenza della Cassazione del 16 novembre 2007 che ha definito il
giudizio in funzione del quale questo processo era stato sospeso — è stata fissata
dapprima, con decreto 7 gennaio 2008, per il 27 maggio 2008, quindi, con ulteriore
decreto pronunciato d’ufficio (che ha revocato il precedente) per il 17 dicembre
2008, udienza nel corso della quale il difensore delle parti attrici comunicava la
propria rinuncia al mandato e ove si costituiva per Vittorio Cecchi Gori il nuovo
difensore; la costituzione del Fallimento Finmavi con nuovo difensore (e la costituzione del nuovo difensore di Media) è avvenuta, infine, all’udienza del 26 gennaio 2009, entro il termine di sei mesi dall’udienza del 17 dicembre 2008 fissata
per la prosecuzione del giudizio, quindi del tutto tempestivamente.
5.
Le domande proposte.
Nel presente giudizio gli attori hanno dedotto che « il 31 gennaio 2001 non
essendovi la necessaria autorizzazione il contratto si è risolto di diritto onde l’operazione di trasferimento delle azioni non poteva più essere attuata » e che, ciò nonostante, Seat avrebbe comunque proseguito nell’esercizio del controllo sulla CGC
ed attuato grazie a questo l’acquisizione del 100% del capitale di CGC (atto di citazione pag. 7) attraverso un meccanismo alternative che configurerebbe « da un
lato inadempimento contrattuale », come dedotto nell’arbitrato (definito nelle more
del presente giudizio come sopra specificato) e, dall’altro, « illecito ex art. 2043
c.c. in relazione all’ingiusto pregiudizio arrecato agli esponenti dagli illegittimi
comportamenti posti in essere da Seat e dagli amministratoci CGC di sua designazione finalizzati alla estromissione del socio di maggioranza Media » (atto di citaz.
pag. 8); detti comportamenti integranti l’illecito extracontrattuale — a detta degli
stessi attori — sarebbero costituiti da:
— « illegittimo rifiuto di Seat di prendere atto che, risolto il contratto per
mancanza delle autorizzazioni, il controllo societario avrebbe dovuto essere restituito all’azionista di maggioranza »;
— « il rifiuto di Seat di concordare con il socio di maggioranza l’andamento
della gestione sociale nella anomala situazione creatasi » socio che avrebbe subito
« scelte imprenditoriali che comportavano la dismissione di attività del gruppo,
consistente nell’accordo per la cessione del 49% di Beta Television (titolare della
concessione televisiva per la trasmissione sul canale TMC2) a MTV-Italia (control330
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lata dal gruppo americano MTV-Viacom) e per la trasmissione sulla rete TMC2 dei
programmi giovanilistici di MTV con abbandono del marchio “TMC2” sostituito
con quello “MTY” »;
— l’approvazione da parte del CdA della CGC in data 27 marzo 2001 di un
progetto di bilancio al 31 dicembre 2000 che evidenziava un incremento rispetto
all’esercizio precedente del fondo copertura perdite delle società controllate nella
misura di 372.168.250.220, giustificato sulla base del venir meno del business plan
predisposto da Seat nell’ambito dell’esecuzione della seconda e terza fase del contratto, ed evidenziava la perdita del capitale sociale e la necessità di procedere alla
copertura delle perdite e alla ricapitalizzazione della società con versamenti da
parte dei soci di 150 miliardi di lire: a dire degli esponenti (1) « la proseguibilità
del business plan da parte di Seat non poteva essere messa in dubbio, ed anzi
avrebbe rappresentato la doverosa conseguenza che Seat avrebbe dovuto trarre
dall’illegittimo rifiuto di restituzione del controllo al socio di maggioranza » (atto
di citaz. pag. 13); (2) la reintegrazione del capitale con sovraprezzo funzionale alla
copertura delle perdite sarebbe stata adottata senza che vi fosse alcuna urgenza
nella consapevolezza « che Finmavi e Media, non avendo ricevuto il corrispettivo
previsto nel contratto, non avrebbero potuto far fronte alla quota di aumento di capitale di loro spettanza con versamento di lire 125 miliardi » e al solo scopo di
escludere il socio Media, essendo — a loro dire — possibili altre legittime alternative « quali il mantenimento della società in stato di liquidazione onde preservare
il valore delle azioni di Media ai fini dell’esecuzione del contratto, ovvero la reintegrazione del capitale della società fino al minimo di legge »; (3) Seat avrebbe
sottoscritto e versato sia la sua quota di aumento di capitale sia la quota di spettanza di Media utilizzando la compensazione con finanziamenti effettuati in favore
di CGC tra il dicembre 2000 e l’aprile 2001 (alla condizione risolutiva del mancato
esercizio da parte di Media del diritto di opzione nel termine di 30 giorni dalla
pubblicazione della delibera) ma avrebbe impedito a Media di sottoscrivere persino
una quota minima dell’aumento di capitale mediante la compensazione dei propri
crediti verso CGC cedendo a CGC stessa i propri presunti crediti verso Media (da
questa contestati, relativi all’indennizzo stabilito nel contratto 7 agosto 2000 per
eventuali passività emerse) di ben maggior importo, onde all’esito della compensazione delle reciproche pretese Media sarebbe rimasta debitrice verso CGC della
somma di euro 10.971.000.000.
Il danno ingiustamente provocato in conseguenza di detti illeciti comportamenti e di cui Seat dovrebbe rispondere ex art. 2043 c.c., consisterebbe:
— nel valore della partecipazione CGC (750 miliardi);
— nella mancata disponibilità dell’importo corrispondente al valore azioni
che avrebbe impedito a Media e Finmavi « la regolare gestione del fabbisogno corrente delle società del gruppo »; in particlolare Finmavi non avrebbe potuto ripianare il debito di 70 miliardi verso la società calcistica Fiorentina che sarebbe quindi
fallita, onde Seat dovrebbe essere dichiarata tenuta a tenere indenne Finmavi da
tutte le conseguenze economiche connesse alle iniziative contro di questa avviate
dalla curatela);
— quanto a Vittorio Cecchi Gori nella perdita di valore della sua partecipazione nella Finmavi stante la perdita da parte della controllata Media delle azioni
CGC.
331
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6.
Le eccezioni preliminari: l’incompetenza.
Stante la prospettazione della fattispecie illecita sopra descritta deve anzitutto
essere vagliata l’eccezione di incompetenza del Tribunale adito svolta da Seat ex
art. 18 del contratto 7 agosto 2000, che prevede un giudizio arbitrale per arbitrato
rituale per « qualsiasi controversia derivante da questo contratto o da eventuali
patti esecutivi modificativi o integrativi ».
Gli attori escludono l’applicazione della clausola compromissoria poiché reputano che comportamenti allegati debbano giudicarsi illegittimi non perché contrari agli obblighi derivanti dal contratto ma in quanto tenuti proprio nonostante la
« caducazione totale degli effetti di quel contratto » e quindi in violazione del « diritto assoluto di proprietà di cui gli esponenti erano legittimi titolari » « sul presupposto del venir meno degli effetti del contratto » (pag. 29 conclusionale).
Per escludere l’applicazione della clausola compromissoria, la difesa degli attori invoca, dunque, una risoluzione totale del contratto 7 agosto 2000 (comparsa
concl. pag. 28), e sostiene che nel contenzioso di specie « manca la relazione funzionale con il contratto 7 agosto 2000 per la semplice considerazione che esso è
venuto meno », onde l’azione extracontrattuale ha come « indeclinabile presupposto proprio la cessazione degli effetti del contratto ».
Sempre gli attori sostengono (pur dopo il passaggio in giudicato del lodo che
sul punto si è espresso in senso opposto con chiara argomentazione in fatto e diritto) che « caduta anche la pattuizione relativa al mandato a vendere per inoperatività della stessa tra le parti e poi per revoca per giusta causa da parte di Finmavi e Media, ne consegue che i successivi comportamenti delle parti non possono
essere considerati dipendenti da fonte contrattuale. La presente azione non “deriva” quindi dal contratto perché presuppone la definitiva cessazione dei suoi effetti »; ed ancora che « venuto meno il contratto la relazione tra gli esponenti e
Seat non correva tra soggetti nella loro veste di “parte” ma tra soggetti tenuti al
dovere di rispetto degli interessi altrui nella gita di relazione » (pag. 33 concl.).
Ebbene sono proprio le argomentazioni difensive degli attori che consentono
di smentire il fondamento della loro pretesa di escludere che questa controversia
rientri tra quelle « derivanti » dal contratto, rendendo, anzi, evidente — come oltre si vedrà — che la stessa ha il solo scopo di riproporre sotto una veste giuridica
diversa gli stessi fatti già oggetto di pronunce coperte da giudicato.
Infatti — come è stato accertato con un lodo passato in giudicato ex art. 825
c.p.c. in data 24 maggio 2004 — in conseguenza del mancato avveramento delle
condizioni previste entro il 31 dicembre 2001, il tratto è divenuto parzialmente
ineffıcace tra le parti, con riguardo, cioè, alle sole Seconda e Terza Esecuzione (e
conseguentemente a tutti gli obblighi che a queste fasi erano collegati); sicché la
condotta di Seat che viene prospettata come illecita in quanto attività di direzione
della società CGC priva della fonte negoziale da cui traeva origine e, proprio perciò, abusiva e lesiva del diritto di proprietà, è in realtà riconducibile proprio agli
accordi negoziali del 7 agosto 2000 rimasti validi ed efficaci, che avevano attribuito
in via definitiva a Seat (attraverso la sottoscrizione di un aumento di capitale riservato di ben 250 miliardi):
— una partecipazione in CGC del 25% che — grazie alle pattuite ed eseguite
modifiche dello statuto di CGC — garantiva comunque a Seat il sostanziale con332
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trollo della gestione sociale in funzione di tutela del suo ingente investimento oltre
che il potere di nomina degli amministratori di CGC e delle controllate;
— il pegno sul 75% delle azioni rimaste nella titolarità di Media con connessi
patti circa l’esercizio del voto.
Peraltro, come dichiarato anche nel lodo, « si comprende bene che il contratto
era strutturato in modo da assicurare a Seat la massima garanzia di recuperare
l’investimento di 250 miliardi » (già effettuato con la Prima esecuzione) per il caso
di mancanza di avveramento delle condizioni, onde « le disposizioni circa i poteri
di Seat nel gruppo CGC appaiono poste alla scopo di consentire a Seat di presidiare il suo investimento di 250 miliardi di lire sia nell’ipotesi che si passasse alla
Seconda Esecuzione, sia in quella che si dovesse procedere alla vendita a terzi allo
scopo di Consentire prioritariamente a Seat di recuperare l’investimento anzidetto ».
È pacifico che non può essere la natura della responsabilità che la parte asserisce voler far valere a decidere dell’applicabilità o meno della clausola compromissoria, bensı̀ la considerazione della fattispecie concreta dedotta, e, quindi, della
causa petendi cui essa si riferisce: « non si deve invero confondere la causa petendi
oggettivamente intesa con la giustificazione giuridica della pretesa; questa attiene
alla qualificazione del fatto, al suo inquadramento in una determinata fattispecie
legale ed agli argomenti di diritto adottati per ottenere la pronuncia favorevole,
mentre quella, intesa come elemento idoneo a caratterizzare la domanda in giudizio, si identifica sostanzialmente nell’atto o nel fatto giuridico da cui secondo l’attore deriva il suo diritto ad ottenere il bene richiesto » (Cass. 26 febbraio 1994 n.
2010); nella specie la domanda di tutela degli attori si fonda sulla pretesa violazione da parte di Seat del presunto obbligo di restituire il controllo di CGC a Finmavi e Media in quanto detto controllo aveva, in tesi, perso la sua fonte negoziale:
pretesa cui Seat nel merito si oppone invocando proprio i poteri e i diritti che derivavano dal contratto; la questione controversa, quindi, riguarda la persistenza
della fonte contrattuale di quei poteri pur dopo il mancato avveramento delle condizioni previste, e la legittimità del loro esercizio nel quadro dell’assetto di interessi
contrattualmente delineato; dunque si fonda su una interpretazione del contratto e
dei suoi effetti anche per quella fase che le parti avevano regolamentato in previsione dell’eventualità che le autorizzazioni non pervenissero nel termine stabilito.
Sicché competente a decidere siffatta controversia che « deriva » dal contratto
non è il Tribunale adito bensı̀ un collegio arbitrale.
Come eccepito da parte convenuta, costituisce, invece, un mutamento inammissibile della prospettazione dei fatti dedotti a fondamento del proprio diritto risarcitorio (quindi della causa petendi) che in quanto tale non può incidere nella valutazione della questione in discorso, la deduzione su cui insiste la difesa degli attori in conclusionale per cui il controllo sostanziale di Seat e il suo esercizio sarebbero stati contrari alla legge: altro è dire che l’influenza dominante sulla gestione
era illegittimamente mantenuta ed esercitata in violazione del diritto di proprietà di
Media in quanto il contratto 7 agosto 2000 era totalmente risolto alla data del 31
gennaio 2000, con completa caducazione di tutti i suoi effetti ivi compreso il mandato a vendere tutte le quote di CGC che attribuiva a Seat il diritto di disporre delle
stesse onde esso avrebbe dovuto essere restituito a Media (sul punto è inequivocabile la memoria attorea 15 luglio 2004 ex art. 183, comma 5 c.p.c. termine ultimo
peraltro di precisazione della domanda, sub pag. 16 e 17); altro è sostenere che
333
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detta influenza dominante e il suo esercizio erano illegittimi in mancanza del presupposto richiesto dalla legge e costituito dall’autorizzazione Agcom (come sostenuto nella memoria 184 c.p.c. dopo il passaggioo in giudicato del lodo che ha dichiarato « parzialmente inefficace » e non « risolto » il contratto, ma soprattutto
dopo che era maturata ampiamente la preclusione quanto a precisazione o modifica
delle domande). Quest’ultima prospettazione, peraltro, implica un giudizio di illegittimità della posizione di Seat che va al di là delle condotte contestate compiute
dopo il 31 gennaio 2001, ed involge la stessa liceità dell’intero contratto voluto
dalle parti stante il preteso contrasto con la normativa pubblicistica in materia di
trasferimenti di proprietà delle società esercenti attività radiotelevisiva. Invero la
deduzione del contrasto con la legge del potere attribuito ed esercitato da Seat non
potrebbe limitare il suo effetto alle condotte successive al 31 gennaio 2001 in
quanto involge necessariamente la stessa fonte di quel potere, ovvero la c.d.
« Prima Esecuzione » del contratto 7 agosto 2000 con cui le parti avevano pattuito
la cessione del 25% d CGC a Seat con la connessa essenziale previsione di mutamenti statutari che avessero garantito l’esercizio sostanziale di un’influenza dominante di Seat (ciò a prescindere dalla fondatezza o meno della discutibile questione,
atteso che nessun definitivo trasferimento del controllo — anche in forme equipollenti al trasferimento delle quote — era comunque avvenuto con siffatta pattuizione).
Se, da un lato, la prospettazione costituisce un mutamento inammissibile della
domanda (come ha ritenuto anche Cass. 23823/2007 nella pronuncia che ha definito il giudizio sull’impugnativa delle delibere 27 aprile 2001 con riguardo alla illegittimità dedotta sotto detto diverso profilo della pretesa del creditore pignoratizio Seat di far esercitare a Media il voto secondo le sue indicazioni), dall’altro, essa
implicherebbe, comunque la delibazione di una questione (la nullità del contratto)
che, secondo la clausola 18 del contratto, è riservata alla cognizione del collegio
arbitrale.
In definitiva: o Seat stava agendo in virtù di un valido contratto cui è accertato con efficacia di giudicato che non ha in alcun modo inadempiuto, ed in tal caso
non violava alcuna legge; o il contratto non era valido perché contrario alla legge
ma allora trattasi di questione che va rimessa alla cognizione degli arbitri, poiché
introduce pacificamente una controversia derivante dal contratto.
7.
L’inammissibilità della pronuncia richiesta per effetto del principio di ne bis
in idem.
Sebbene le considerazioni che precedono abbiano valore assorbente, verrà
esaminata anche la questione dell’inammissibilità della domanda, che, essendo a
sua volta fondata, fa perdere di rilievo sostanziale la questione della competenza,
atteso che il Tribunale, in ogni caso, non potrebbe pronunciarsi.
I fatti controversi sono, invero, stati già vagliati (oltre che da due pronunce
cautelari che hanno respinto ogni richiesta degli attori) da due pronunce passate in
giudicato: i comportamenti asseritamente illegittimi qui dedotti che avrebbero cagionato il pregiudizio della « espropriazione » delle azioni CGC possedute da Media, sono stati invero già vagliati (con esito negativo) sia dal Tribunale di Roma,
che ha respinto la domanda di annullamento, tra l’altro, per eccesso di potere, delle
334
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delibere con cui l’assemblea di CGC del 27 marzo 2001 aveva compiuto le sopra
descritte operazioni sul capitale, sia dall’autorevole collegio arbitrale che ha respinto ogni domanda di Finmavi e Media volta a far accertare l’inadempimento di
Seat al contratto (sotto tutti i profili di fatto anche qui dedotti, compreso quello
della esecuzione secondo buona fede della parte di esso che restava effıcace, e
quindi della gestione delle partecipazioni in CGC), nonché ad ottenere la condanna
della Seat al risarcimento di tutti quei danni che anche qui sono stati dedotti (basta confrontare la conclusionale depositata in quel giudizio dagli attori — sub doc.
n. 17 fasc. Seat, — e le conclusioni riassunte dallo stesso collegio arbitrale nella
motivazione del lodo — sub doc. n. 27 fasc. Seat).
Se nella controversia promossa avanti al Tribunale di Roma quei fatti (causa
petendi) erano dedotti per ottenere l’invalidamento delle delibere assembleari impugnate (petitum), nel giudizio promosso avanti agli arbitri quegli stessi fatti e
comportamenti erano dedotti (insieme ad altri) per ottenere — come qui — la condanna di Seat al risarcimento dei danni subiti: in forma specifica (restituzione delle
azioni CGC a Media) o, in subordine, per equivalente (valore della partecipazione
quantificato in euro 387.342.674,32 pari a 750 miliardi di lire); oltre ai danni derivati « dalla mancata disponibilità del suddetto importo » e rappresentati dai « maggiori oneri sostenuti da Finmavi e Media » e « costituiti dai maggiori interessi
passivi corrisposti alle banche e agli altri finanziatori, dalle sanzioni per omessi e
ritardati versamenti fiscali contributivi, dai maggiori oneri conseguenti al mancato
pagamento di creditori... documentati nelle perizie prodotti in atti », « dalla perdita
di valore delle attività Finmavi » che non ha potuto appostare un corrispettivo nell’attivo patrimoniale gettando il gruppo in una grave crisi finanziaria nonché dal
« contenzioso avviato dalla società calcistica Fiorentina per il mancato rimborso
del prestito di 70 miliardi concesso a Finmavi » (cfr. pag. 60, 61 doc. n. 17 fasc.
Seat); gli stessi danni, all’evidenza, che qui sono richiesti (sulla base della medesima documentazione) dalle società attrici, cui si è unito — probabilmente per cercare (inutilmente come si dirà) di scongiurare gli effetti della prevedibile eccezione
fondata sul principio del ne bis in idem — Vittorio Cecchi Gori.
Tanto il Tribunale di Roma che il lodo arbitrale, dunque, hanno definitivamente accertato sia che Seat era legittimata ad esercitare il potere di controllo, sia
che non vi era alcuna possibile alternativa concreta agli atti di gestione da essa
compiuti.
***
In particolare le predette decisioni hanno affrontato tutti i fatti e i comportamenti anche qui dedotti nella pretesa nuova veste di condotte extracontrattauli e
hanno definitivamente accertato che:
a) quanto all’« illegittimo rifiuto di Seat di prendere atto che, risolto il contratto per mancanza delle autorizzazioni, il controllo societario avrebbe dovuto essere restituito all’azionista di maggioranza » (pag. 9-10 dell’atto di citazione), che
nessun inadempimento o violazione delle regole di correttezza e buona fede era
imputabile a Seat dopo il 31 gennaio 2000; in particolare nel lodo si legge e che
« gli effetti degli atti già compiuti restavano fermi trattandosi di atti posti in essere
nei confronti di terzi e non essendo prevista altra modalità di scioglimento dell’af335
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fare se non quella menzionata » — cioè del mandato a Seat a vendere con pieni
poteri tutte le azioni di CGC — e che « dopo essersi opposte in ogni modo e fin
dall’inizio all’esecuzione del mandato Finmavi e Media non possono prospettare
come inadempimento la mancata esecuzione del mandato stesso, e ciò sia con riferimento alle azioni, sia con riferimento alle opzioni cui le azioni si sono ridotte
in seguito all’azzeramento e ricostituzione del capitale sociale » con la significativa precisazione che « per quanto riguarda le opzioni... Media si era riservata fino
all’ultimo di esercitarle »; pag. 45 e 50 del lodo sub doc. n. 27 Seat); ed ancora
che « le disposizioni circa i poteri di Seat nel gruppo CGC appaiono poste allo
scopo di consentire a Seat di presidiare il suo investimento di 250 miliardi di lire,
e ciò sia nell’ipotesi che si passasse alla Seconda Esecuzione, sia in quella che si
dovesse procedere alla vendita a terzi allo scopo di consentire prioritariamente a
Seat di recuperare l’investimento anzidetto » (sul punto peraltro con condivisibili
argomenti il Collegio arbitrale ha osservato che tale comportamento « è stato dichiaratamente rivolto a rinegoziare i termini dell’accordo (al che Seat non era in
alcun modo tenuta) e le iniziative rivolte ad impedire la vendita appaiono strumentali a questo scopo »);
b) quanto all’illegittimo « rifiuto di Seat di concordare con il socio di maggioranza l’andamento della gestione sociale nella anomala situazione creatasi »,
socio che avrebbe subito « scelte imprenditoriali che comportavano la dismissione
di attività del gruppo, consistente nell’accordo per la cessione del 49% di Beta Television (titolare della concessione televisiva per la trasmissione sul canale TMC2)
a MTV-Italia (controllata dal gruppo americano MTV-Viacom) e per la trasmissione sulla rete TMC2 dei programmi giovanilistici di MTV con abbandono del
marchio “TMC2” sostituito con quello “MTV” » (pag. 10-11 atto di citaz.), il lodo
arbitrale ha accertato, alla luce del bilancio consolidato di CGC e del valore attribuito alla controllata Beta Television — il cui avviamento considerato al momento
dell’acquisizione fu mantenuto a differenza di altre controllate proprio in ragione
dell’acquisizione delle attività italiane di MTV e della loro notevole redditività attuale e prospettica — che « era doveroso, nella situazione, che le attività del
gruppo non fossero paralizzate (la stesa difesa di Finmavi e Media afferma che si
sarebbe dovuto procedere all’attuazione del business plan) » e che non solo « non
è stato provato che l’operazione fosse dannosa » ma la stessa « intendeva realizzare un rinnovamento del palinsesto televisivo rivolto al pubblico giovane e dunque una finalità condivisa dal Gruppo Cecchi Gori, come risulta dal comunicato
stampa congiunto del 7 agosto 2000 » (lodo pag. 51);
c) quanto all’approvazione da parte del CdA della CGC in data 27 marzo
2001 « di un progetto di bilancio valido anche quale situazione patrimoniale ex
art. 2446 2447 c.c. che imponeva l’immediata ricapitalizzazione della società
quando di essa non vi sarebbe stato affatto bisogno », e alla decisione di reintegrare il capitale con sovraprezzo nella consapevolezza « che Finmavi e Media, non
avendo ricevuto il corrispettivo previsto nel contratto, non avrebbero potuto far
fronte alla quota di aumento di capitale di loro spettanza con versamento di lire
125 miliardi » e, quindi, al solo scopo di escludere il socio Media essendo possibili altre legittime alternative « quali il mantenimento della società in stato di liquidazione onde preservare il valore delle azioni di Media ai fini dell’esecuzione
del contratto, ovvero la reintegrazione del capitale della società fino al minimo di
legge », sia la sentenza del Tribunale di Roma passata in giudicato, sia il lodo ar336
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bitrale hanno accertato trattarsi di comportamenti del CdA leciti ed anzi doverosi
stante la pacifica entità della perdita e la necessità di procedere alla ricapitalizzazione della società da parte di entrambi i soci: da un lato perché non era esigibile
che Seat — stante la inefficacia della seconda parte del contratto e le plurime iniziative della controparte volte ad acclararne la risoluzione continuasse ad attuare il
business plain convenuto avendo peraltro già immesso 250 miliardi nel gruppo;
dall’altro perché « Seat doveva rispettare l’interesse di Finmavi e Media alla conservazione dell’integrità patrimoniale del gruppo (interesse peraltro largamente
coincidente con il proprio)... ma non doveva affrontare nuovi rischi finanziari »;
peraltro nel lodo si aggiunge che « il bilancio consolidato di CGC presentava un
patrimonio netto negativo per oltre 171 miliardi mentre quello della holding un
patrimonio netto negativo per 156 miliardi », e che l’assemblea straordinaria della
società dell’11 agosto 2000 (dominata da Media) aveva previsto — in conformità
a quanto stabilito nel primo emendamento del contratto — la delega al Consiglio
di CGC della facoltà di aumentare in una o più volte il capitale sociale di un ammontare fino al lire 500 miliardi entro cinque anni (pag. 56 del lodo); sicché alla
luce dei dati di bilanci veri e corretti — come affermato nella sentenza confermata
del Tribunale di Roma — la messa in liquidazione di CGC, in alternativa alla sua
ricapitalizzazione, non avrebbe potuto condurre alla continuazione dell’attività
delle società operative e alla conservazione dell’integrità patrimoniale della holding, che si sarebbe sciolta a norma dell’art. 2448 c.c. senza poter procedere ad alcun finanziamento delle controllate, sia perché si sarebbe trattato di operazioni
nuove e vietate dall’art. 2449 c.c. sia per indisponibilità delle risorse, non essendo
Seat tenuta ad alcun finanziamento e non avendo Finmavi e Media mai neppure
rappresentato che vi avrebbero potuto provvedere loro (cfr. lodo pag. 60).
Il collegio arbitrale del resto aggiunge che « se Finmavi e Media avessero
mantenuto la maggioranza nel Cda di CGC e l’esercizio del voto in assemblea, e
valendosi di questi avessero seguito la via prospettata in arbitrato (di lasciare la
CGC in uno stato di quiescenza), avrebbero leso l’integrità patrimoniale del
gruppo o quanto meno l’avrebbero messa gravemente a repentaglio, rendendosi
cosı̀ anche inadempienti verso Seat perché il contratto nella parte rimasta effıcace
dopo il 31 gennaio 2001 era rivolto a garantire a questa il recupero del suo investimento in CGC », onde non potevano pretendere siffatto comportamento (lasciare
CGC in stato di quiescenza) da Seat, che, nel non tenerlo, non commise nei loro
confronti alcun illecito (cosı̀ il lodo pag. 62).
d) quanto, infine, all’abusività del comportamento finalizzato ad escludere
Media dalla compagine sociale di CGC — già escluso dalla sentenza del Tribunale
di Roma confermata in Cassazione — il collegio ha osservato che « l’irragionevolezza della via alternativa dello scioglimento della holding, in assenza di un obbligo di Seat di finanziare il gruppo e dunque della mancanza di ragiovevoli alternative al comportamento tenuto da Seat, è sciente ad escludere che il comportamento di questa possa considerarsi come abusivo e contrario alla buona fede contrattuale » ed ha aggiunto che, ad escludere l’abuso sotto il profilo soggettivo, valeva sottolineare — come peraltro già fatto dal Tribunale di Roma in tutte le sedi
cognitive sommarie e piene — che « Seat ha inizialmente proposto di prorogare la
scadenza fissata per le autorizzazioni, e poi ha sempre cercato di indurre Finmavi
e Media alla Seconda e qualora lo avessero desiderato alla terza esecuzione e che,
ancora in data 4 giugno 2001, dopo la pronuncia favorevole del C.d.S, si è dichia337
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rata disposta ad eseguire il contratto in conformità degli accordi originari » (lodo
pag. 62-63).
e) da ultimo il collegio arbitrale ha valutato l’infondatezza anche della censura rivolta a Seat quanto alla cessione CGC dei suoi presunti crediti verso Media
(da questa contestati) onde impedire a quest’ultima di sottoscrivere anche solo una
parte del capitale mediante compensazione con propri crediti verso CGC, ed ha osservato che « se non sussistevano i presupposti della compensazione (essendo i
crediti vantati da Seat incerti, ndr) nulla impediva a Media di far valere i propri
diritti nei confronti di CGC » (lodo pag. 66).
***
Tutto ciò premesso poiché nel presente giudizio l’attore ha allegato i medesimi fatti (pur invocando una responsabilità extracontrattuale della convenuta) e le
medesime conseguenze dannose, non potrebbe che condividersi, se non fosse assorbente l’eccezione di incompetenza, l’eccezione di inammissibilità/improcedibilità della domanda per ne bis in idem svolta dalla convenuta.
È noto e consolidato il principio per cui il giudicato « partecipando della natura dei comandi giuridici non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti conformemente al principio del ne bis in idem, corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla
funzione primaria del processo e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle
situazioni giuridiche attraverso la stabilità della decisione » (da ultimo Cass. n.
879/2009).
La preclusione nascente da un precedente giudicato postula l’identità delle
due controversie per soggetti, causa petendi e petitum, e va riscontrata con riferimento al momento della decisione, sussistendo anche nel caso in cui il giudicato
esterno (art. 2909 c.c.), riflesso di quello formale (art. 324 c.p.c.) si sia formato in
un momento successivo a quello dell’instaurazione del nuovo giudizio (Cass. 20
aprile 1984 n. 2603).
***
Ciò premesso non hanno fondamento le obiezioni delle attrici. In particolare:
a) non ha alcun rilievo sottolineare che nella specie non vi sarebbe identità di
causa petendi per essere stati i fatti prospettati sotto il diverso profilo della responsabilità extracontrattuale: petitum e causa petendi sono le due prospettive in cui attraverso l’azione il diritto viene affermato nel processo; l’una mette a fuoco ciò che
si domanda l’altra il diritto sul cui fondamento si domanda; quest’ultimo, il diritto
che nel processo viene affermato, non è individuato dalla norma giuridica intesa
come volontà astratta della legge, bensı̀ dai fatti costitutivi del diritto; la causa petendi si risolve quindi nel riferimento concreto al fatto a ai fatti che sono affermati
e allegati come costitutivi e perciò individuatori del diritto che nel processo si vuol
far valere, sicché « la preclusione di un giudicato — fermo restando l’accadimento
storico che funge da causa petendi — non è impedita dal mutamento del titolo giuridico » (Cass. 4 maggio 1993 n. 5144); peraltro si osserva che sono gli stessi at338
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tori ad ammettere che la presente controversia si basa sugli stessi fatti già altrove
dedotti, avendo affermato che « tale illegittima acquisizione... configura da un lato
inadempimento contrattuale per il quale pende arbitrato costituisce anche illecito ex
art. 2043 c.c. in relazione all’ingiusto danno arrecato agli esponenti dagli illegittimi comportamenti posti in essere da Seat e dagli amministratori di CGC di sua
designazione, finalizzati alla estromissione del socio di maggioranza Media » (atto
di citaz. pag. 8) e si ricorda quanto sopra argomentato, ovvero che la controversia
— che pure gli attori affermano prescindere dalla fonte negoziale che aveva attribuito a Seat il 25% del capitale e un’influenza dominante sulla CGC perché la
stessa si sarebbe risolta dopo il 31 gennaio 2001 — riguarda in realtà la correttezza
della condotta di Seat proprio sul piano contrattuale stante la permanenza degli effetti negoziali summenzionati.
In questa prospettiva già la sentenza del Tribunale di Roma, confermata dalla
Cassazione (e pronunciata anche nei confronti di Seat convenuta in quel giudizio
perché fosse accertato il suo intento abusivo nell’esercizio del voto) impedisce il
riesame delle questioni di fatto e di diritto ivi accertate poiché è consolidato il
principio per cui « l’accertamento su un punto di fatto o di diritto di costituente la
premessa necessaria della decisione divenuta definitiva, quando è comune ad una
causa introdotta posteriormente, preclude il riesame della questione, anche se il
giudizio successivo abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo
ed il petitum del primo » (Cass. 8 ottobre 2002 n. 14414; e Cass. 27 ottobre 2006
n. 231539; da ultimo Cass. n. 10623/2009), nonché quello per cui « l’autorità del
giudicato spiega i suoi effetti non solo sulla pronuncia esplicita della decisione ma
anche sulle ragioni che ne costituiscono il presupposto logico giuridico » (Cass. n.
18725/2007); ma a maggior ragione impedisce il riesame della questione il lodo arbitrale che ha definito il giudizio in cui i medesimi fatti e comportamenti (causa
petendi) erano dedotti al fine di ottenere — come qui — la dichiarazione di responsabilità di Seat per i danni che asseritamente ne sarebbero derivati e la sua condanna al loro risarcimento (petitum), e che ha, invece, respinto perché infondato
ogni aspetto di illegittimità della condotta dedotto e qui riproposto, accertando con
effetto di giudicato che Seat era legittimata ad esercitare il potere di controllo in
forza della parte del contratto rimasta efficace e che non vi era alcuna alternativa
agli atti di gestione da essa compiuti;
b) non ha alcun rilievo, infine, sottolineare che nella specie non vi sarebbe
identità delle parti poiché Vittorio Cecchi Gori non ha partecipato al giudizio arbitrale né a quello di impugnativa delle delibere, poiché, richiamati i principi sopra
già affermati ed in particolare quello per cui « l’autorità del giudicato spiega i suoi
effetti non solo sulla pronuncia esplicita della decisione ma anche sulle ragioni che
ne costituiscono il presupposto logico giuridico » (Cass. n. 18725/2007) si osserva
che « il giudicato oltre ad avere un’effıcacia diretta nei confronti delle parti che
hanno partecipato al relativo giudizio, è dotato anche di un’effıcacia riflessa qualora i terzi rimasti estranei risultino titolari di diritti ed obblighi dipendenti dalla
situazione giuridica definita in quel processo » (Cass. n. 18725/2007), e non v’è
dubbio che Vittorio Cecchi Gori rivendichi in questo giudizio un diritto (al ristoro
del danno patrimoniale asseritamente subito in termini di minor valore della sua
partecipazione in Finmavi per effetto della perdita della partecipazione di CGC da
parte della controllata Media) che dipende dalla condotta illecita dedotta nei giudizi che ne hanno escluso la sussistenza. Del resto Vittorio Cerchi Gori quale so339
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cio di Finmavi non ha ineresse/legittimazione ad agire per far valere un siffatto
danno poiché all’evidenza « la riduzione del valore della quota e la compromissione della redditività dell’investimento costituiscono mero riflesso del pregiudizio
[arrecato eventualmente dal terzo al patrimonio sociale] e non conseguenza diretta
ed immediata dell’illecito, e del resto il riconoscimento di un autonomo diritto al
risarcimento in capo ai singoli soci potrebbe determinare una duplicazione del ristoro inerente ad un unico danno » (Cass. 8 settembre 2005 n. 17938).
La presente decisione sul tema della improcedibilità della domanda assorbe la
valutazione delle eccezioni di litispendenza o continenza rispetto ai giudizi tuttora
pendenti.
Conclusioni.
Il Tribunale di Milano adito è, dunque, incompetente e, comunque, la questione dedotta è coperta da giudicato. Peraltro solo per completezza di analisi del
complesso contenzioso si osserva che le plurime pronunce che si sono brevemente
ripercorse hanno escluso non solo che Seat abbia tenuto una condotta illecita nei
confronti degli attori sotto un qualunque profilo, ma in definitiva anche che il venir meno della partecipazione in CGC di Media sia imputabile a Seat, atteso che
Media era titolare di diritti di opzione che non ha tempestivamente esercitato in
sede di ricostituzione del capitale, perché non voleva o non poteva farlo in un contesto che è stato ritenuto del tutto lecito e legittimo e nel termine che il Collegio
arbitrale — chiamato a valutare anche questo punto — ha ritenuto più che congruo
(cosı̀ il lodo pag. 64). — (Omissis).
Concorso di fattispecie, ne bis in idem e ordine di esame delle questioni
di rito.
1. La vicenda decisa dal Tribunale di Milano trae origine da una
complessa operazione negoziale concernente l’acquisto di partecipazioni
azionarie. La fattispecie, nelle sue linee essenziali, è la seguente: gli attori
hanno chiesto il risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c., deducendo che la
convenuta avrebbe conseguito il 100% del capitale della società, nonostante
l’intervenuta risoluzione del contratto inter partes e la mancanza delle autorizzazioni all’operazione di trasferimento da parte delle competenti Autorità e, perciò, illecitamente; nel corso del giudizio, peraltro, è divenuto definitivo un lodo, il quale, da un lato, ha rigettato, perché infondate, le domande degli attori di risoluzione del contratto e di risarcimento dei danni
per inadempimento e, da un altro lato, ha dichiarato la parziale inefficacia
dell’accordo, per mancata realizzazione dell’evento (l’autorizzazione delle
Autorità di settore), a cui erano sospensivamente condizionate le obbligazioni previste dalla seconda e terza fase del contratto inter partes.
La sentenza ha rigettato la domanda, accogliendo le eccezioni di compromesso e di giudicato proposte dalla convenuta; in specie, il Tribunale ha
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ritenuto che: a) la clausola compromissoria stipulata dalle parti opera rispetto alla controversia de qua, atteso che essa concerne pretese derivanti
dal contratto (1); b) la domanda proposta ha ad oggetto lo stesso diritto già
sottoposto alla decisione degli arbitri, di guisa che il lodo, il quale, divenuto definitivo, assume autorità di cosa giudicata, impedisce, per l’operare
del principio del ne bis in idem, una seconda statuizione di merito sul diritto già dichiarato inesistente.
La pronuncia che si annota offre all’interprete l’occasione per soffermarsi sui seguenti temi: a) l’ambito oggettivo della clausola compromissoria rispetto a pretese dipendenti dall’inefficacia, originaria o sopravvenuta,
del contratto a cui accede; b) i limiti oggettivi di efficacia del giudicato che
abbia rigettato la domanda concernente il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno, all’interno di un secondo giudizio
in cui la pretesa risarcitoria per le medesime condotte sia fatta valere invocando un diverso titolo di responsabilità (nella specie, extracontrattuale anziché contrattuale); c) la sussistenza o meno di un ordine di esame delle
questioni sollevate con l’exceptio compromissi e con l’eccezione di giudicato.
2. Il Tribunale ha ritenuto ricompresa nell’ambito oggettivo della
convenzione arbitrale la domanda proposta dagli attori, rilevando che la
pretesa azionata è tra quelle « derivanti » dal contratto; in specie, è affermato che: a) contrariamente a quanto prospettato dagli attori, il contratto
non era divenuto inefficace in toto, bensı̀, come statuito dal lodo definitivo,
soltanto parzialmente inefficace rispetto alla seconda e terza fase di esecuzione; la condotta prospettata come illecita, in realtà, trova la propria legittimazione in quella parte di accordo rimasta efficace, di guisa che la controversia concerne pretese aventi titolo nel contratto; b) la deduzione degli
attori secondo cui le condotte della convenuta sarebbero illecite, in quanto
contrastanti con norme imperative, solleva la questione di nullità del negozio, di guisa che, anche sotto questo profilo, risulta confermato che la controversia « deriva » dal contratto.
Lo specifico punto di interesse di questa parte della pronuncia consiste nel verificare se l’ambito oggettivo della clausola compromissoria, la
quale, come nel caso in esame, riguardi le controversie « derivanti dal contratto », concerna le sole pretese che presuppongono l’efficacia del negozio,
oppure si estenda anche ai diritti, di carattere restitutorio o risarcitorio,
aventi titolo nell’inefficacia del contratto, originaria (ad esempio, per nullità o per mancata verificazione della condizione sospensiva) o sopravve-
(1) Dalla motivazione della sentenza, risulta che le parti avevano stipulato una clausola compromissoria per arbitrato rituale, avente ad oggetto « qualsiasi controversia derivante dal presente contratto o da eventuali patti esecutivi, modificativi o integrativi ».
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nuta (conseguente, ad esempio, ad annullamento, rescissione, risoluzione
del negozio o alla realizzazione della condizione risolutiva).
In particolare, tenendo in considerazione la prospettazione della fattispecie compiuta dagli attori, ci si chiede se la clausola compromissoria
operi rispetto alla controversia concernente l’obbligazione restitutoria derivante dall’inefficacia del contratto ed al diritto al risarcimento dei danni
conseguenti all’inadempimento di questa.
L’argomentazione per la quale i diritti de quibus, avendo titolo nell’inefficacia del negozio, originaria (se dipendente da nullità dell’accordo)
o sopravvenuta (se conseguente a risoluzione dei suoi effetti), non sarebbero ricompresi nell’ambito oggettivo della convenzione arbitrale concernente le controversie derivanti dal contratto, non appare persuasiva.
In primo luogo, anche i diritti in oggetto derivano dal contratto, atteso
che hanno titolo nella mancata produzione o nel successivo venir meno dei
suoi effetti; invero, vengono in rilievo pretese restitutorie, la cui fattispecie
costitutiva è rappresentata dall’esecuzione di un obbligo contrattuale e dall’inesistenza o dalla caducazione del rapporto giuridico alla cui costituzione
era diretto il negozio (2).
Per convincersi di ciò, si pensi al diritto di restituzione del bene concesso in locazione, sorto a seguito del decorso del termine di durata del
contratto: può sostenersi che il diritto de quo, presupponendo la perdita di
efficacia del titolo, non derivi dal negozio e che, quindi, la controversia ad
esso relativa non sia ricompresa nell’ambito della clausola compromissoria? Se, come crediamo, nessuno è disposto a rispondere affermativamente,
allora sembra che non possa valere diversa soluzione nel caso in cui la pretesa restitutoria consegua alla mancata produzione di effetti del contratto ab
origine o alla sua caducazione. Invero, quel che muta è solo la circostanza
che in tali ipotesi il venir meno degli effetti contrattuali dipende dal verificarsi di eventi patologici, anziché dalla fisiologica completa esecuzione del
rapporto; il che, però, sotto il profilo oggetto del nostro esame, è irrilevante:
la pretesa restitutoria ha pur sempre titolo nell’inefficacia del titolo legittimante il godimento del bene, e poco conta, per questo aspetto, quale sia la
ragione che l’ha determinata. In definitiva, si tratta, in tutti questi casi, di
controversie derivanti dal contratto, atteso che ne è oggetto una pretesa, la
cui causa petendi è costituita dall’inefficacia (originaria o sopravvenuta) del
negozio e dall’esecuzione di un obbligo in esso avente titolo (3).
(2) Per tutti, da ultimo, LUISO, Le azioni di restituzione da contratto e la successione
nel diritto controverso, in judicium.it, § 1.
(3) Può essere opportuno rilevare che la Corte di cassazione ritiene che tra le domande derivanti dal contratto, per le quali, nel rispetto della volontà delle parti, opera la
clausola compromissoria, vi sono quelle di risoluzione, annullamento e nullità del contratto
(Cass., 20 giugno 2011, n. 13531; Cass., 22 dicembre 2005, n. 28485; Cass., 27 febbraio
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Peraltro, è appena il caso di sottolineare che, per il principio dell’autonomia della clausola compromissoria, sancito dall’art. 808, comma 2,
c.p.c., la validità e l’efficacia di questa devono essere valutate in modo indipendente rispetto al contratto a cui si riferisce. Pertanto, da un lato, l’invalidità e l’inefficacia del contratto non determinano ex se l’invalidità e
l’inefficacia della convenzione arbitrale e, da un altro lato, il venir meno,
per qualsiasi ragione, degli effetti contrattuali non determina la cessazione
del vincolo compromissorio, di guisa che spetta agli arbitri decidere le controversie concernenti diritti e pretese derivanti dalla fine del rapporto (4).
In secondo luogo, si deve osservare che, anche qualora tali rilievi non
fossero ritenuti convincenti, il problema in esame dovrebbe essere comunque risolto nel senso indicato. Per un verso, infatti, l’art. 808-bis c.p.c. oggi
ammette esplicitamente la convenzione arbitrale per controversie future relative a rapporti non contrattuali; per un altro, l’art. 808-quater c.p.c. prevede che « nel dubbio, la convenzione di arbitrato si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si
riferisce ». Pertanto, chi volesse negare che il diritto restitutorio, conseguente all’inefficacia (originaria o sopravvenuta) del negozio, sia tra le pretese aventi titolo nel contratto, nondimeno dovrebbe riconoscere che si
tratta di controversia derivante dal « rapporto cui la convenzione si riferisce », di guisa che per essa sussisterebbe comunque il potere decisorio degli arbitri (5).
2004, n. 3975; Cass., 14 aprile 2000, n. 4842; Cass., 19 dicembre 2000, n. 15941; Cass., 12
marzo 1990, n. 2011). Ebbene, non vi è chi non veda, da un lato, che analogo principio non
può non valere per le pretese restitutorie conseguenti all’inefficacia originaria o sopravvenuta
del contratto e, da un altro lato, i gravi inconvenienti a cui conduce l’opinione criticata nel
testo. Infatti, alla luce dell’insegnamento della Suprema Corte, l’attore dovrebbe proporre la
domanda di impugnazione del titolo in sede arbitrale, mentre, secondo l’orientamento in
esame, dovrebbe far valere di fronte al giudice dello Stato le pretese restitutorie; il che determina significativi svantaggi in punto di effettività della tutela ed il rischio che all’esito dei
due processi vengano rese pronunce aventi contenuto contrastante.
(4) In modo conforme: C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova, 2000,
430, anche in nota 26, 432 ss., 438 ss.; G. VERDE, La convenzione di arbitrato, in Diritto dell’arbitrato, a cura di G. VERDE, 3a ed., Torino, 2005, 106-107; F.P. Luiso, Diritto processuale
civile, V, La risoluzione non giurisdizionale delle controversie, 6a ed., Milano, 2011, 93; C.
CECCHELLA, L’arbitrato, Torino, 2005, 62-63, 74 ss.; E. ZUCCONI GALLI FONSECA, Art. 808, in
Arbitrato, a cura di F. CARPI, 2a ed., Bologna, 2007, 141 ss., specie 142 ss.; EAD., Art. 808
quater, ivi, 187 ss., specie 192-193; F. FESTI, La clausola compromissoria, Milano, 2001, 46,
50-51.
(5) In questo senso: VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, 3a ed., Torino, 2010,
63-64; CARLEVARIS, Ambito oggettivo dell’accordo compromissorio e arbitrabilità delle controversie non contrattuali, in questa Rivista, 2010, 611 ss., specie 620-621, 630; al riguardo,
sia consentito rinviare anche a MOTTO, Art. 808-bis (convenzione di arbitrato in materia non
contrattuale), in Commentario alle riforme del processo civile, II, a cura di A. BRIGUGLIO e
B. CAPPONI, Padova, 2009, 516 ss., specie 534-535.
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3. Venendo al secondo tema, il Tribunale ha accolto l’eccezione di
giudicato — costituito dal lodo non più impugnabile emesso inter partes (6)
— rilevando che: a) la domanda proposta dagli attori è identica a quella già
avanzata in sede arbitrale e rigettata: identici sono i fatti allegati a suo fondamento (la condotta e le conseguenze dannose) e l’effetto giuridico, che,
in base ad essi, è azionato in giudizio (il diritto al risarcimento del danno,
in forma specifica o per equivalente); l’unica differenza risiede nella diversa qualificazione giuridica della fattispecie costitutiva compiuta dagli
attori, i quali hanno assunto che essa configuri un fatto illecito ex art. 2043
c.c., mentre in sede arbitrale avevano prospettato che essa integrasse inadempimento contrattuale; b) il diritto fatto valere in giudizio è il medesimo
già dichiarato inesistente dal lodo: « il diritto che nel processo viene affermato non è individuato dalla norma giuridica intesa come volontà astratta
della legge, bensı̀ dai fatti costitutivi del diritto; la causa petendi si risolve
quindi nel riferimento concreto al fatto o ai fatti che sono affermati e allegati come costitutivi e perciò individuatori del diritto che nel processo si
vuol far valere » (cosı̀, la sentenza in commento, in motivazione, sub 7).
La decisione appare corretta, alla luce dei principi che regolano i limiti oggettivi di efficacia del giudicato (7).
La decisione di merito (sentenza o lodo arbitrale rituale) dichiara esi-
(6) Il Tribunale, senza approfondire la questione, ha (condivisibilmente) riconosciuto
che il lodo rituale non più impugnabile per nullità ai sensi dell’art. 829 c.p.c. esplica tra le
parti autorità di cosa giudicata sostanziale, in modo identico alla sentenza passata in giudicato formale. Oggi, l’equiparazione, sotto il profilo degli effetti, del lodo rituale alla sentenza
è espressamente sancita dall’art. 824-bis c.p.c. (ma vedi anche l’art. 819 c.p.c.), di guisa che
non sembra potersi dubitare dell’idoneità del lodo non più impugnabile per nullità a spiegare
efficacia vincolante tra le parti ex art. 2909 c.c.; in questo modo, confronta: LUISO, L’art.
824-bis c.p.c., in questa Rivista, 2010, 235 ss.; AULETTA, Art. 824-bis (Effıcacia del lodo), in
La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di S. MENCHINI, Padova, 2010, 420 ss.; D’ALESSANDRO, Art. 824-bis (Effıcacia del lodo), in Commentario alle riforme del processo civile, II, cit.,
960 ss., specie 967 ss.; G.F. RICCI, Ancora sulla natura e sugli effetti del lodo arbitrale, in
questa Rivista, 2011, 165 ss.; sia consentito rinviare anche MOTTO, Art. 806 (Controversie arbitrabili), in Commentario alle riforme del processo civile, II, cit., 463 ss., specie 484-485;
in senso contrario, argomentando dalla natura negoziale del lodo: PUNZI, Luci ed ombre nella
riforma dell’arbitrato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 395 ss., specie 403-404, 421 nota 37,
430 ss.; ID., « Effıcacia di sentenza » del lodo, in questa Rivista, 2005, 819 ss., specie 827
ss.; ODORISIO, Prime osservazioni sulla nuova disciplina dell’arbitrato, in Riv. dir. proc.,
2006, 253 ss., specie 264, 267 ss.
(7) L’applicazione di tali principi si fonda sull’equiparazione, dal punto di vista degli effetti, del lodo rituale con la sentenza (v., la nota precedente); per questa impostazione,
confronta: MENCHINI, La natura e la disciplina dell’eccezione con la quale è fatta valere l’efficacia di un (precedente) lodo non impugnabile, in questa Rivista, 2002, 288 ss., specie 291
ss.; ID., Sull’attitudine al giudicato sostanziale del lodo non più impugnabile non assistito
dall’omologa giudiziale, in questa Rivista, 1998, 773 ss., specie 775 ss.; TARZIA, Conflitti tra
lodi arbitrali e tra lodi e sentenze, in Riv. dir. proc., 1994, 631 ss., specie 640 ss.; D’ALESSANDRO, op. cit., 973.
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stente o inesistente il diritto fatto valere in giudizio con la domanda; l’autorità di cosa giudicata, ai sensi dell’art. 2909 c.c., rende incontrovertibile
il contenuto della statuizione, di guisa che in successivi processi non può
essere posto in discussione l’accertamento compiuto in ordine all’esistenza
o all’inesistenza del diritto dichiarato, sulla base di fatti dedotti o deducibili all’interno del primo giudizio.
Il precedente giudicato, per quanto ai nostri fini rileva, opera nel successivo processo in cui sia fatto valere il medesimo diritto già accertato,
impedendo una nuova decisione di merito su di esso (ne bis in idem) (8).
La sentenza in rassegna ha accolto l’exceptio rei iudicatae, ritenendo
che il diritto fatto valere dagli attori fosse lo stesso già dichiarato inesistente dal lodo divenuto definitivo.
Premesso che l’affermazione dell’identità oggettiva delle controversie
appare corretta, per averne compiuta dimostrazione occorre soffermarsi sul
tema dell’identificazione dei diritti.
Le obbligazioni di genere si individuano in base ai soggetti, ai fatti
costitutivi ed al contenuto della prestazione (nel nostro caso, il pagamento
di una somma di denaro) (9); al variare di uno di questi tre elementi, muta
il diritto sostanziale.
Ai nostri fini, particolare attenzione merita l’analisi del secondo elemento; occorre infatti chiarire in quali ipotesi, fermi restando gli altri, viene
in rilievo un diverso fatto costitutivo e, quindi, una distinta situazione giuridica sostanziale.
Nel caso di specie, non sembrano porsi soverchie difficoltà.
Dalla lettura della motivazione, emerge che gli attori hanno posto a
fondamento della seconda domanda di risarcimento del danno esattamente
i medesimi fatti storici allegati nel precedente giudizio e si sono limitati a
conferire ad essi una diversa qualificazione giuridica, assumendo che la
(8) È opinione oggi prevalente, che nel giudizio avente ad oggetto lo stesso diritto
già accertato, il precedente giudicato opera come presupposto processuale (negativo), di
guisa che il giudice deve emettere una decisione di mero rito, declinatoria dell’osservanza del
giudizio: LIEBMAN, Giudicato, I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, 1988, 4;
LUISO, Diritto processuale civile, I, I principi generali, 6a ed., Milano, 2011, 190-191; MENa
CHINI, Il giudicato civile, 2 ed., Torino, 2002, 55-56; CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, 5a ed., Padova, 2006, 13, 35-36; in questo modo, nella dottrina classica,
CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, I, 2a ed., Napoli, 1935, 350.
(9) MENCHINI, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 218 ss., 226 ss.;
CONSOLO, Domanda giudiziale, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Torino, 1991, VII, 44 ss., specie
73 ss.; PROTO PISANI, Le tutele giurisdizionali dei diritti, Napoli, 2003, 293 ss., specie 298
(ove è riprodotto il saggio Appunti sul giudicato e sui suoi limiti oggettivi, in Riv. dir. proc.,
1990, 386 ss.); CERINO CANOVA, La domanda giudiziale e il suo contenuto, in Commentario
del Codice di procedura civile diretto da E. ALLORIO, II, 1, Torino, 1980, 3 ss., specie 189 ss.,
209 ss. (per il quale, ai fini della individuazione dei diritti eterodeterminati, occorre fare riferimento al fatto generatore, ma, tuttavia, l’unitarietà della fattispecie costitutiva dipende
dall’unitarietà dell’effetto giuridico azionato).
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condotta della convenuta configurerebbe tanto un inadempimento contrattuale, quanto un fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c. In tale ipotesi, è
stato agevole concludere per l’identità del diritto azionato: la qualificazione
operata dalla parte non individua il diritto fatto valere, tanto che il giudice,
in base al principio jura novit curia, può procedere in modo autonomo all’individuazione della norma di legge applicabile alla fattispecie, senza per
ciò incorrere in una violazione del principio della domanda (10); la causa
petendi non è costituita dalla norma di legge indicata dalla parte, bensı̀ dai
concreti fatti allegati a fondamento della domanda, di guisa che, fermi restando questi, la mera variazione del nomen iuris non comporta il mutamento del diritto sostanziale azionato (11).
Tuttavia, queste regole non consentono in ogni caso di conseguire risultati pienamente soddisfacenti. Se per fatto costitutivo si intende il concreto accadimento storico, naturalisticamente determinato in base alle sue
coordinate spaziali e temporali (12), è certo che il fatto costitutivo non muta,
se, come avvenuto nel caso di specie, fermi restando i fatti concreti posti a
fondamento della domanda, l’attore si sia limitato a prospettarne la qualificazione alla stregua di una diversa norma giuridica; di converso, è altrettanto certo che il fatto costitutivo muta, sol che la parte abbia l’accortezza
di porre a fondamento della domanda elementi e circostanze anche solo
parzialmente diversi.
L’accadimento storico, tuttavia, non si presta ad essere ricondotto ad
unità in base a criteri naturalistici, ma occorre fare riferimento ad un para-
(10) ANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 325; SATTA, Diritto processuale civile, 8a ed., Padova, 1973, 122; ID., Commentario al codice di procedura civile, I,
Milano, 1966, 332; ID., Commentario al codice di procedura civile, II, 1, Milano, 1966, 21;
HEINITZ, I limiti oggettivi della cosa giudicata, Padova, 1937, 160; CARRATTA - (M. TARUFFO),
Poteri del giudice, in Commentario del Codice di procedura civile a cura di S. CHIARLONI,
Bologna, 2011, 164 ss.; CERINO CANOVA, op. cit., 188-189; CONSOLO, Domanda, cit., 70-71,
74; GIORGETTI, Il principio di variabilità nell’oggetto del giudizio, Torino, 2008, 39-40;
GRASSO, La pronuncia d’uffıcio, I, La pronuncia di merito, Milano, 1967, 108 ss.; CHIOVENDA,
op. cit., 328; in questo senso, nella dottrina tedesca: NIKISCH, Zivilprozeßrecht, 2a ed., Tübingen, 1952, 415; ID., Zur Lehre vom Streitgegenstand im Zivilprozeß, in Arch. f. Civ. Praxis,
1955 (154), 269 ss., specie 283; HENCKEL, Parteilehre und Streitgegenstand, Heidelberg,
1961, 259 ss., specie 264-265. In giurisprudenza, tale principio è costantemente affermato;
con specifico riferimento alle ipotesi di concorso tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale: Cass., 20 aprile 2010, n. 9325; Cass., 18 luglio 2008, n. 19938; Cass., 11 maggio
2007, n. 10830; Cass., 8 febbraio 2007, n. 2746; Cass., 20 dicembre 2006, n. 27285; Cass.,
20 marzo 1999, n. 2574.
(11) ANDRIOLI, op. cit., 325; SATTA, Diritto, cit., 122; ID., Commentario, II, cit., 2122; CONSOLO, Domanda, cit., 70-71, 74; CERINO CANOVA, op. cit., 188-189; S. MENCHINI, I limiti, cit., 232 ss.; G. CHIOVENDA, op. cit., 328; NIKISCH, Zivilprozeßrecht, cit., 415; in giurisprudenza: Cass., 20 aprile 2010, n. 9325; Cass., 8 febbraio 2007, n. 2746; Cass., 11 maggio
2007, n. 10830; Cass., 20 marzo 1999, n. 2574.
(12) In questo senso, SATTA, Diritto, cit., 122; ID., Commentario, II, cit., 21-22.
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metro esterno — la norma di legge —, che operi la selezione dei fatti rilevanti ai fini della produzione di un determinato effetto giuridico (13).
Ciò, tuttavia, non è sufficiente. Infatti, lo stesso effetto giuridico non
è mai ricollegato da due norme diverse ad un’identica fattispecie: quando
due norme distinte prevedono uno stesso effetto giuridico, esso dipende dal
verificarsi di fattispecie, che, accanto ad un nucleo di fatti comuni, presentano altri elementi di fatto diversi (14).
Questo è quanto avviene nel caso sottoposto alla nostra attenzione.
Infatti, il medesimo episodio di vita si presta ad essere sussunto sia
nell’ambito della responsabilità contrattuale, sia nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, atteso che la condotta della convenuta astrattamente
integra tanto gli estremi dell’inadempimento contrattuale, quanto quelli del
fatto illecito, lesivo del diritto di proprietà dell’attore. Peraltro, al variare
della qualificazione giuridica muta anche la fattispecie costitutiva del diritto
risarcitorio, attesa la parziale diversità dei fatti rilevanti alla stregua dell’uno e dell’altro plesso normativo (15).
Tuttavia, non è chi non veda che in questo modo si perviene ad
un’inammissibile reiterazione di giudizi in ordine ad un unico bene della
vita. L’azione di responsabilità ex contractu e quella ex delicto proteggono
un identico bene giuridico: la condotta dannosa del convenuto o integra la
violazione di un obbligo contrattuale, oppure viola il generale dovere di
neminem laedere, essendo posta in essere in assenza di un preesistente rapporto giuridico tra le parti. Il diritto risarcitorio è uno solo e non due o più,
quante sono le figure di responsabilità concorrenti invocabili: da un evento
produttivo di danno sorge un solo diritto, poiché unico è l’interesse del creditore alla prestazione. Ciò risulta evidente, se si pone mente ai seguenti
fenomeni, di diritto sostanziale: per un verso, in caso di cessione del credito, il danneggiato ha un solo diritto da trasferire e non due; per un altro,
(13) MENCHINI, I limiti, cit., 248-249; ANDRIOLI, op. cit., 325-326; CONSOLO, Domanda,
cit., 74; CERINO CANOVA, op. cit., 187-188.
(14) MENCHINI, I limiti, cit., 249; E. HEINITZ, op. cit., 176-177.
(15) Al variare della qualificazione giuridica, muta anche la regolamentazione normativa dell’effetto giuridico, il quale, pur avendo uguale contenuto, è diversamente disciplinato: differisce il termine di prescrizione del diritto; assumono o perdono rilevanza taluni
elementi della fattispecie, mentre di altri varia la qualificazione giuridica; si diversificano le
regole sull’onere della prova (ad esempio, la colpa nell’un caso è fatto costitutivo, mentre
nell’altro è fatto impeditivo la sua assenza). Tuttavia, la classificazione giuridica, pur assumendo rilievo per questi aspetti, non ha diretta incidenza sull’individuazione del diritto dedotto in giudizio; a tal fine, assumono rilevanza solo il suo contenuto ed il fatto costitutivo
da cui sorge (per questi principi: HENCKEL, op. cit., 259 ss.; GEORGIADES, Die Anspruchskonkurrenz im Zivilrecht und Zivilprozeßrecht, München, 1968, 145 ss.; MENCHINI, I limiti,
cit., 232 ss.; CONSOLO, Domanda, cit., 74; CERINO CANOVA, op. cit., 194 ss., 200 ss.).
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la prestazione dovuta dal danneggiante è soltanto una, di guisa che l’adempimento estingue il credito (16).
L’attore, quindi, è titolare di un unico interesse giuridicamente protetto; tuttavia, egli potrebbe agire più volte a sua tutela, atteso che il mutamento del titolo determina la diversità delle circostanze rilevanti e, quindi,
individua una diversa fattispecie concreta.
La migliore dottrina ha indicato la soluzione a questi problemi: occorre « stabilire quando uno stesso complesso di fatti, preso in esame (insieme ad altri fatti, volta a volta diversi) da più fattispecie, genera una situazione soggettiva sostanziale unica e quando invece genera più situazioni
soggettive sostanziali, per quante sono le fattispecie che lo prendono in
esame » (17).
Nel primo caso, la stessa vicenda di vita, pur essendo sussumibile,
come entità naturalistica, in più fattispecie, in realtà, costituisce un fatto
giuridico unitario, di guisa che una ed unica è la situazione sostanziale che
da essa ha origine.
Per verificare quando ciò accada, occorre esaminare i nessi tra le
norme giuridiche applicabili, al fine di enucleare le ipotesi in cui queste
consentano di scomporre l’episodio di vita in una fattispecie concreta unitaria (18).
In particolare, si è rilevato che quando l’episodio si presta ad essere
sussunto sia nella norma disciplinante la responsabilità ex contractu che in
quella dell’illecito extracontrattuale, in realtà solo la prima è applicabile.
Tra di esse intercorre infatti un nesso di specialità o di sussidiarietà, che risolve il concorso a favore della norma disciplinante la responsabilità contrattuale; quando l’accadimento storico è suscettibile di integrare sia gli
estremi della responsabilità contrattuale sia quelli della responsabilità extracontrattuale, in realtà, la fattispecie applicabile all’evento è soltanto la
prima (19). Se esiste il contratto, l’unico diritto che sorge è quello contrat-
(16) HENCKEL, op. cit., 262 ss., specie 267-268; GEORGIADES, op. cit., 142, 145, 179180, 190, 206; NIKISCH, Zur Lehre, cit., 282-283; HESSELBERGER, Die Lehre vom Streitgegenstand, Köln-Berlin-Bonn-München, 1970, 284 ss.
(17) MENCHINI, I limiti, cit., 249.
(18) MENCHINI, I limiti, cit., 250 ss.; in modo conforme, CONSOLO, Domanda, cit., 75;
PROTO PISANI, Le tutele, cit., 307-308; C. CARIGLIA, Mutatio e emendatio libelli e termine per
la reconventio reconventionis nell’opposizione a decreto ingiuntivo, in Giust. proc. civ., 2011,
483 ss., specie 491 ss.
(19) MENCHINI, I limiti, cit., 252 ss.; in modo conforme, LUISO, Diritto, I, cit., 61;
CONSOLO, Domanda, cit., 75; per l’unicità del diritto al risarcimento del danno, in caso di
evento idoneo ad integrare sia gli estremi della responsabilità contrattuale che extracontrattuale, vedi anche CERINO CANOVA, op. cit., 200 ss., specie 206 ss., 232-233; CHIOVENDA, op.
cit., 337; nella dottrina tedesca, GEORGIADES, op. cit., 142 ss., 164, 204 ss.; A. NIKISCH, Zur
Lehre, cit., 282-283.
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tuale; ove, invece, il contratto non esista, non può che esservi responsabilità extracontrattuale.
In tale ipotesi, pertanto, la fattispecie concreta è una ed unica, di guisa
che a favore dell’attore sorge un unico diritto al risarcimento del danno,
ossia quello contrattuale. Ciò da cui discende che, respinta la domanda di
risarcimento del danno per inadempimento contrattuale, essa non potrà essere validamente riproposta assumendo che la condotta integra gli estremi
dell’illecito extracontrattuale (neppure nel caso in cui il diritto sia stato negato dal primo giudice esaminando soltanto una delle più fattispecie normative) (20), a ciò ostando l’autorità del giudicato. Infatti, il diritto fatto valere nel secondo giudizio è lo stesso già dichiarato inesistente dalla precedente statuizione.
4. Il Tribunale ha rigettato la domanda dell’attore, accogliendo le
eccezioni di compromesso e di giudicato sollevate dalla convenuta. Ciò offre lo spunto per soffermarsi, sia pure nei limiti consentiti da un breve
commento, sul tema dell’ordine di esame delle questioni di rito nel processo: rilevate, ad istanza di parte o d’ufficio, più questioni pregiudiziali, il
giudice deve seguire un determinato ordine di esame, tale per cui egli non
può decidere l’una, senza avere prima deciso, rigettandola, l’altra? Nel caso
di specie, il Tribunale avrebbe potuto rigettare la domanda accogliendo
l’eccezione di giudicato senza esaminare preventivamente l’eccezione di
compromesso (o, all’opposto, avrebbe potuto definire in rito il processo accogliendo quest’ultima, senza esaminare preventivamente l’exceptio rei iudicatae)? Oppure tra le questioni pregiudiziali de quibus sussiste un ordine
di esame, tale per cui la decisione dell’una è condizionata dalla preventiva
decisione dell’altra?
Prima di affrontare questo tema, occorre fornire un chiarimento preliminare (21); ci si riferisce alla vexata quaestio della natura dell’eccezione di
compromesso rituale, se di rito o di merito (22).
(20) NIKISCH, Zivilprozeßrecht, cit., 415; LUISO, op. ult. cit., 61.
(21) Infatti, qualora si ritenesse che l’eccezione di compromesso dia luogo ad una
questione di merito, il suo esame, a rigore, non potrebbe che seguire il rigetto delle eccezioni
di rito con le quali sia fatto valere il difetto di una o più condizioni della decisione nel merito della domanda, in base al principio di cui all’art. 276, comma 2, c.p.c. (in questo modo,
con riferimento all’eccezione di arbitrato estero ed all’eccezione di difetto di giurisdizione
italiana, in motivazione, Cass., Sez. un., 15 aprile 2003, n. 6349 e Cass., Sez. un., 12 gennaio 2007, n. 412, secondo cui, tuttavia, la prima, pur costituendo una questione di merito,
in deroga ai principi generali, va esaminata preliminarmente rispetto alla seconda, in base al
disposto dell’art. II, comma 3, della Convenzione di New York del 10 giugno 1958).
(22) Al riguardo, nella dottrina formatasi anteriormente alla riforma del diritto dell’arbitrato attuata dal D.Lgs. 40/2006, confronta, con diversità di orientamenti: FAZZALARI,
L’arbitrato, Torino, 1997, 41-42; PUNZI, op. cit, I, 116 ss.; BOVE, Sul regime dell’eccezione di
patto compromissorio rituale, in questa Rivista, 2004, 247 ss.; CECCHELLA, op. cit., 77 ss.;
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A nostro avviso, l’exceptio compromissi dà luogo ad una questione di
rito e non di merito, di guisa che la pronuncia, la quale, accogliendo tale
eccezione, rigetta la domanda, ha contenuto processuale.
Pur consapevoli che la giurisprudenza di legittimità prevalente opina
per la soluzione opposta, appaiono decisivi i seguenti dati (23): a) il patto
compromissorio rituale non ha carattere innovativo della realtà giuridica
materiale; con la stipula della convenzione arbitrale le parti non dispongono
del rapporto giuridico sostanziale, ma solo delle modalità di risoluzione
delle controversia (24); b) l’accordo compromissorio ha esclusivamente effetti processuali: l’uno negativo, che esclude il potere decisorio del giudice
dello Stato, l’altro positivo, che attribuisce la potestas iudicandi agli arbitri (25); c) all’interno del processo, sono « questioni di merito » quelle
aventi ad oggetto elementi condizionanti l’esistenza o il modo d’essere del
diritto dedotto in giudizio; quindi, le questioni concernenti i fatti costitutivi
o impeditivi, estintivi, modificativi della situazione giuridica sostanziale
fatta valere, la cui risoluzione determina la decisione di fondatezza o infondatezza della domanda; d) per contro, sono « questioni di rito » quelle concernenti la validità del processo e dei suoi atti; in particolare, costituiscono
questioni di rito quelle relative alle condizioni per la decisione nel merito
della domanda proposta, in difetto delle quali il giudice emette una pronuncia di absolutio ab instantia, con cui dichiara di essere privo del potere di
decidere nel merito la causa.
Alla luce di questi dati, non può apparire dubbio che l’eccezione di
compromesso solleva una questione di rito e non di merito, atteso che dalla
BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità del lodo, Napoli, 2005, 224 ss.; BRIGUGLIO, Le Sezioni
Unite ed il regime dell’eccezione fondata su accordo compromissorio, in questa Rivista,
2002, 515 ss.
(23) Questo è l’orientamento consolidato della Corte di cassazione a seguito della
nota Cass., Sez. un., 3 agosto 2000, n. 527; da ultimo, Cass., 14 luglio 2011, n. 15474, per
la quale « in tema di arbitrato, configurandosi la devoluzione della controversia agli arbitri
come rinuncia all’esperimento dell’azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato, attraverso la scelta di una soluzione della controversia con uno strumento di natura privatistica,
la relativa eccezione dà luogo ad una questione di merito, riguardante l’interpretazione e la
validità del compromesso o della clausola compromissoria »; tuttavia, la Corte precisa che
tale principio è valido nella misura in cui alla fattispecie decisa, ratione temporis, non è applicabile il nuovo art. 819-ter c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 40/2006, « alla stregua del quale
costituisce una questione di competenza stabilire se la controversia sia devoluta alla cognizione del giudice ordinario od a quella arbitrale » (in modo analogo, Cass., 29 agosto 2008,
n. 21926; Cass., 20 maggio 2008, n. 12814).
(24) In questo modo, per tutti: CECCHELLA, op. cit., 78 ss.; BOVE, Sul regime, cit.,
251-252; IZZO, Appunti sull’eccezione di compromesso e sulla sentenza che la decide, in Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli, 2010, 451 ss., specie 457-458; al riguardo
sia consentito rinviare anche ad MOTTO, Art. 806, cit., 486, e ivi ulteriori indicazioni.
(25) In questo senso, per tutti, BOVE, Il patto compromissorio rituale, in Riv. dir. civ.,
2002, I, 403 ss., specie 437 ss.; per ulteriori indicazioni, si rinvia a MOTTO, Art. 806, cit, 486,
in nota 52.
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sua risoluzione dipende la sussistenza del potere del giudice dello Stato di
decidere nel merito la domanda proposta.
Ciò, peraltro, trova conferma nella legge: l’art. 819-ter c.p.c., nel discorrere di incompetenza — a prescindere dalla correttezza, da un punto di
vista tecnico, della terminologia utilizzata (26) — esprime con chiarezza che
l’exceptio compromissi dà luogo ad una questione concernente l’attribuzione all’Autorità giudiziaria, ovvero ad altri soggetti, del potere decisorio
nel merito della controversia (27). Certo, se l’eccezione è stata validamente
proposta, nel risolvere tale questione, il magistrato è chiamato a verificare
l’esistenza, la validità, l’ambito oggettivo e soggettivo della convenzione
arbitrale; quindi, a decidere sulla fondatezza, nel merito, dell’eccezione, attraverso l’esame delle sotto-questioni da cui dipende l’efficacia del negozio
compromissorio rispetto alla controversia; ma ciò non significa affatto che
l’exceptio compromissi dia luogo ad una questione di merito (28). Invero, la
(26) Infatti, posto che la competenza definisce la ripartizione del potere decisorio tra
giudici appartenenti ad un medesimo ordine giurisdizionale, l’eccezione di compromesso non
dà luogo ad una questione di competenza (in modo conforme, per tutti, FAZZALARI, op. cit.,
41; E.F. RICCI, La never ending story della natura negoziale del lodo: ora la cassazione risponde alle critiche, in Riv. dir. proc., 2003, 557 ss., specie 559; CAPPONI, Art. 819- ter (Rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria), in Commentario alle riforme del processo civile, II,
cit., 873 ss.; contra, BOCCAGNA, op. cit., 244 ss., specie 255 ss.); ciò, peraltro, non esclude
che per tal via si solleva comunque una questione pregiudiziale, concernente l’attribuzione
del potere decisorio sulla controversia al giudice adito. Allo stesso modo, neppure la previsione del regolamento di competenza quale mezzo di impugnazione del provvedimento con
cui il giudice si dichiara incompetente in forza di una convenzione arbitrale (confronta l’art.
819 ter, comma 1, c.p.c.) è indice decisivo ai fini della qualificazione della questione come
questione di competenza in senso tecnico; a tal fine, è sufficiente osservare che il rimedio de
quo trova applicazione anche per l’impugnazione di provvedimenti non aventi ad oggetto la
questione di competenza (si pensi alle ordinanze di sospensione del processo ex art. 295
c.p.c.).
(27) Quanto detto nella prospettiva del processo statale, vale anche per il giudizio arbitrale, al cui interno siano contestate l’esistenza, la validità e l’ambito di efficacia della convenzione arbitrale: gli arbitri in tali casi decidono sulla propria competenza (art. 817, comma
1, c.p.c.), risolvendo una questione pregiudiziale di rito (al riguardo, da ultima, E. OCCHIPINTI,
La cognizione degli arbitri sui presupposti dell’arbitrato, Torino, 2011, 46 ss., specie 54 ss.).
(28) In questo modo, invece, Cass., Sez. un., 25 giugno 2002, ord., n. 9289 (in questa Rivista, 2002, 511 ss., con osservazioni critiche di BRIGUGLIO, Le Sezioni Unite ed il regime della eccezione fondata su accordo compromissorio, e in Corr. giur., 2003, 463 ss., con
nota critica di FORNACIARI, Natura, di rito o di merito, della questione circa l’attribuzione di
una controversia ai giudici statali oppure agli arbitri) per la quale « lo stabilire se una controversia appartenga alla cognizione del giudice ordinario o sia deferibile agli arbitri (...) costituisce una questione non già di competenza, in senso tecnico, ma parimenti di merito, in
quanto direttamente inerente alla validità, o alla interpretazione, del compromesso o della
clausola compromissoria » (questo rilievo, peraltro, è ricorrente nella giurisprudenza di legittimità; per molte: Cass., 14 luglio 2011, n. 15474; Cass., 30 maggio 2007, n. 12684; Cass.,
21 novembre 2006, n. 24681). La Cassazione sembra conferire rilievo, ai fini della qualificazione dell’exceptio compromissi come eccezione di merito, alla circostanza che vengono in
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risoluzione della questione concernente il patto compromissorio non rileva
per l’esistenza e il modo d’essere del diritto sostanziale azionato, bensı̀,
come si è detto, solo in ordine all’attribuzione al giudice adito del potere
decisorio nel merito della domanda proposta; con la conseguenza che, all’interno del processo, essa costituisce una questione di rito, la quale, se ritenuta fondata, conduce ad una pronuncia di absolutio ad instantia e non
già ad una sentenza di infondatezza, nel merito, della domanda proposta (29).
considerazione la validità, l’efficacia e l’interpretazione di un negozio privato; tuttavia, vien
fatto di osservare, danno forse luogo ad una questione di merito l’eccezione di incompetenza
territoriale a cui fondamento sia invocato un accordo di deroga ex art. 29 c.p.c. o l’eccezione
di giurisdizione formulata in base ad un patto ex art. 4, comma 2, Legge n. 218/1995?
(29) La conseguenza applicativa di maggior rilievo che discende dall’impostazione
adottata concerne il controllo da parte della Cassazione della decisione sull’eccezione di
compromesso. Trattandosi di una questione di rito, l’errata soluzione dà luogo ad un vizio di
attività processuale, consistente, ai seconda dei casi, nella declinatoria dall’osservanza del
giudizio malgrado l’inesistenza o l’inefficacia della convenzione arbitrale o nella decisione
nel merito della causa, nonostante un patto compromissorio valido ed efficace. Ciò da cui discende che l’errata soluzione della questione da parte del giudice di merito integra un error
in procedendo, per cui la Cassazione può e deve decidere tale questione mediante diretta apprensione del fatto processuale, apprezzando quindi direttamente l’esistenza, la validità e
l’ambito di efficacia della convenzione arbitrale, senza che la cognizione della Corte sia
« filtrata » dalla deduzione del vizio di violazione di legge sostanziale o di motivazione: oggetto della decisione è la sussistenza del potere decisorio dell’Autorità giudiziaria, e non già
la correttezza della decisione resa sul punto dal giudice adito (in questo senso, anche alla luce
del nuovo art. 360-bis c.p.c., BOVE, Ricadute sulla disciplina dell’arbitrato della Legge n.
69/2009, in Sull’arbitrato, cit., 81 ss., specie 88-89). Analoghi principi valgono in sede di
impugnazione per nullità del lodo: la questione concernente la sussistenza della potestas iudicandi degli arbitri in ragione della convenzione arbitrale dà luogo ad un error in procedendo, deducibile ai sensi dell’art. 829, comma 1, nn. 1, 4 e 10, c.p.c., e non già ad un error in iudicando, rilevante quale causa di nullità del lodo nei limiti segnati dall’art. 829,
comma 3, c.p.c.; « il motivo di impugnazione non è costituito dall’errata decisione degli arbitri circa la sussistenza del proprio potere decisorio, ma tout court dalla mancanza di tale
potere » (LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, in questa Rivista, 2005, 773 ss., specie 781;
in modo conforme, BOVE, Ancora sui rapporti tra arbitro e giudice, in questa Rivista, 2007,
357 ss., specie 366; ID., Ricadute, cit., 90).
La Corte di cassazione, invece, sulla base della diversa premessa accolta in ordine alla
qualificazione della questione concernente l’attribuzione agli arbitri o al giudice dello Stato
del potere di decidere sulla controversia, segue un opposto orientamento: « una volta che gli
arbitri abbiano fissato, mediante l’interpretazione della clausola, l’ambito oggettivo di essa e,
quindi, del loro potere decisorio, il relativo “dictum”, proprio in quanto ha previamente definito i “confini” della clausola stessa, non è impugnabile per nullità ai sensi dell’art. 829,
primo comma, numero 4), cod. proc. civ. (per avere, cioè, “pronunciato fuori dei limiti del
compromesso” o della clausola compromissoria), bensı̀ unicamente ai sensi del combinato
disposto degli artt. 829, primo comma, numero 5), e 823, secondo comma, numero 3), cod.
proc. civ., vale a dire nel solo caso in cui la motivazione sul punto in esame risulti radicalmente inidonea alla comprensione dell’“iter” logico-giuridico seguito dal collegio arbitrale o
all’individuazione della “ratio decidendi” del lodo, ovvero, ai sensi dell’art. 829, secondo
comma, del codice di rito, per violazione o falsa applicazione delle regole ermeneutiche co-
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Ciò chiarito, è possibile procedere all’esame del problema posto.
La regola generale, a nostro avviso, è la seguente: non sussiste un ordine di esame delle questioni di rito relative al difetto di un presupposto
processuale (30); per il principio della ragione più liquida, che emerge dagli
artt. 187, 276 e 279 c.p.c., il giudice può rigettare la domanda accogliendo
l’eccezione o le eccezioni relative ad uno o più di essi, su cui si sia già formato il convincimento, lasciando impregiudicati le altre, che richiederebbero una più lunga indagine (31).
Le questioni pregiudiziali di rito si collocano sullo stesso piano e le
une rispetto alle altre si pongono in un rapporto di coordinazione ed alternatività. Ciascuna è pregiudiziale rispetto alla decisione nel merito della
dicistiche » (Cass., 21 settembre 2004, n. 18917; nello stesso senso, Cass., 9 gennaio 2008,
n. 178). Analoghi principi sono enunciati dalla Suprema Corte con riferimento ai limiti del
sindacato in sede di legittimità della pronuncia con cui il giudice dello Stato ha accolto l’eccezione di compromesso (confronta, da ultimo, Cass., 20 giugno 2011, n. 13531); peraltro,
tale impostazione, con ogni probabilità, è destinata ad essere abbandonata, atteso che oggi,
in base all’art. 819 ter c.p.c., la sentenza che decide sull’eccezione de qua è impugnabile con
regolamento di competenza ed in tale sede la Corte di cassazione si ritiene consuetamente
anche giudice del fatto, potendo fondare il suo convincimento sulla base di una propria valutazione delle risultanze processuali.
(30) Si precisa che, nel prosieguo, facendo ricorso ad una terminologia tradizionale,
anche se, come noto, non del tutto perspicua, con « presupposto processuale » si intendono
designare le condizioni della decisione nel merito della domanda proposta.
(31) In questo modo, MENCHINI, Il giudicato, cit., 318; CONSOLO, Il cumulo condizionale di domande, I, Padova, 1985, 452 ss., specie 457; GIOIA, La decisione sulla questione di
giurisdizione, Torino, 2009, 231 ss.; SATTA, Commentario, II, cit., 317; M. FORNACIARI, Presupposti processuali e giudizio di merito, Torino, 1996, 62, 65 (per il quale peraltro tale principio generale può subire deroga a seconda di quale presupposto processuale venga in considerazione e delle peculiarità della fattispecie concreta: op. cit., 69 ss.). Peraltro, in dottrina
si rinvengono alcune proposte tese ad istituire un ordine tra le questioni pregiudiziali di rito;
con ricostruzioni diverse nei presupposti e nei risultati, confronta: LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, 4a ed., Milano, 1980, I, 139, 155-156 e II, 220, 226-227; MANDRIOLI,
Presupposti processuali, in Nov.mo Dig. it., XIII, Torino, 1968, 784 ss., specie 792 ss.; TARa
ZIA, Lineamenti del processo civile di cognizione, 3 ed., Milano, 2007, 253; SATTA, Commentario, cit., 317 (per il quale, tuttavia, i criteri enunciati non hanno carattere tassativo, di guisa
che « in definitiva, l’ordine è affidato alla discrezionalità del presidente, in relazione alle circostanze (lunghezza dell’indagine, ecc.) »). Nella dottrina tedesca, prevale l’opinione che i
presupposti processuali relativi alle parti (in specie, la capacità processuale) debbano essere
esaminati con precedenza rispetto agli altri; sul punto, con varietà di orientamenti, confronta:
BLOMEYER, Zivilprozessrecht. Erkenntnisverfahren, 2a ed., Berlin 1985, 229-230; ROSENBERG SCHWAB - GOTTWALD, Zivilprozessrecht, 15a ed., München, 1993, 540 (i quali propongono un
ordine di esame delle condizioni della decisione nel merito, ma tuttavia precisano che esso
non è giuridicamente vincolante); LÜKE, Vor § 253, in Münchener Kommentar zur Zivilprozeßordnung, I, 2a ed., München, 2000, 1437 ss., specie 1442; BREHM, Einleitung, in STEIN
- JONAS, Kommentar zur Zivilprozessordnung, I, Tübingen, 2003, 1 ss., specie 95 ss.;
GRUNSKY, Grundlagen des Verfahrensrecht, 2a ed., Bielefeld, 1974, 329-330; nella nostra dottrina, ritiene che il giudice debba esaminare prioritariamente la questione concernente la capacità processuale dell’attore, prima di poter rigettare la domanda per altre ragioni, FORNACIARI, op. ult. cit., 69 ss., 166.
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domanda, atteso che la soluzione di ognuna è di per sé in grado di determinare l’emanazione di una pronuncia di absolutio ab instantia; d’altra
parte, tra le questioni di rito non è possibile istituire un ordine di esame da
parte del giudice, proprio perché ciascuna condiziona autonomamente la
definizione in rito del processo: esse sono pregiudiziali rispetto alla sussistenza del potere decisorio nel merito del giudice (32).
A diversa conclusione, si può pervenire solo se tra le questioni sottoposte all’esame del giudice, a seguito di rilievo officioso o di parte, intercorra un nesso di pregiudizialità-dipendenza strutturale e, quindi, propriamente giuridico. Meno ellitticamente, si vuol dire che un determinato ordine decisorio potrà ravvisarsi solo tra presupposti processuali, tali per cui
nella fattispecie dell’uno rientri, quale elemento pregiudiziale, l’altro: solo
a questa condizione, l’accertamento relativo al primo, di carattere dipendente, impone la previa risoluzione della questione concernente l’altro, che
rispetto a quello è pregiudiziale (33).
Tuttavia, non sembra che siano ravvisabili ipotesi corrispondenti al
modello enunciato (34).
Non è sufficiente invece che tra le questioni di rito vi sia una relazione
di antecedenza meramente logica per affermare che, allora, sussiste un ordine decisorio riguardo ad esse; invero, poiché la legge non detta regole disciplinanti l’ordine di decisione delle questioni di rito, per tal via ci si avvale di un criterio che non ha basi nel diritto positivo, il quale, per questa
ragione, conduce ad esiti scarsamente soddisfacenti (35).
(32) TURRONI, La sentenza civile sul processo, Torino, 2006, 244-245; CONSOLO, Il cumulo, cit., 452 ss., specie 455-456; MENCHINI, Il giudicato, cit., 318; GIOIA, op. cit., 231 ss.
(33) In modo conforme, BLOMEYER, op. cit., 229; D. TURRONI, op. cit., 246.
(34) Cosı̀, TURRONI, op. cit., 246-247. Apparentemente, un rapporto di pregiudizialità
sussiste tra le questioni di continenza e di competenza, atteso che, secondo la giurisprudenza
(confronta Cass., Sez. un., ord. 13 luglio 2006, n. 15905, in Riv. dir. proc., 2007, 1323 ss.,
con nota di CAVALLINI, Il principio della Kompetenz-Kompetenz cede alla riunione tra cause
in rapporto di competenza), la pronuncia di continenza presuppone l’esame della competenza
sulle due cause proposte di fronte a giudici diversi. Tuttavia, a ben vedere, la questione che
il giudice è chiamato a risolvere ai fini della pronuncia di continenza non concerne la sua
competenza a decidere la causa di fronte a lui pendente; infatti, egli è chiamato a verificare
che l’altro giudice, a cui favore si prospetta l’emissione della pronuncia di continenza, sia
competente per entrambe le cause: per quella di cui tale giudice è attualmente investito e per
quella che potrà essere proseguita di fronte a lui, a seguito della pronuncia di continenza. Più
chiaramente, il giudice, in presenza di un’eccezione di incompetenza e di un’eccezione di
continenza, ben può non esaminare la prima ed accogliere la seconda, sol che egli ritenga che
l’altro giudice sia competente per entrambe le cause.
(35) Osserva CONSOLO, Il cumulo, cit., 455: « in questa materia la logica e cosı̀ pure
le considerazioni funzionalistiche operano quali strumenti adatti à tout faire, nonché a tutto
contestare; in quanto tali essi appaiono strumenti « spuntati », se non controproducenti, per
cercare di fare la pur necessaria chiarezza fra le innumeri opzioni in gioco »; in modo conforme, MENCHINI, Eccezione di giurisdizione, regolamento preventivo e translatio: il codice
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Ad esempio: tra la questione concernente la legittimazione ad agire e
quella di giurisdizione potrebbe sostenersi che la prima debba essere esaminata preliminarmente rispetto alla seconda, atteso che solo la parte legittimata può validamente contraddire rispetto alla questione relativa alla giurisdizione; in modo opposto, si potrebbe ritenere che questa debba essere
esaminata prioritariamente rispetto a quella, atteso che solo il giudice munito di giurisdizione può decidere in ordine alla legittimazione ad agire (36).
Ancora, tra la questione di giurisdizione e quella di competenza sembra
sussistere una relazione di pregiudizialità, poiché la seconda, definendo la
ripartizione del potere giurisdizionale tra giudici appartenenti al medesimo
ordine giudiziario, presuppone che il giudice adito sia munito di giurisdizione (37); tuttavia, questa relazione non assume rilievo nella prospettiva
della decisione sulla domanda proposta, atteso che il giudice, in ogni caso,
non ha il potere di decidere nel merito la causa: egli può rigettare la domanda per incompetenza, senza prima esaminare l’altra questione, atteso
che, comunque, se anche la giurisdizione vi sia, egli non è competente (38).
Infine, venendo al caso di specie: si può sostenere che la questione
concernente la convenzione arbitrale debba essere esaminata prioritariamente rispetto a quella relativa al precedente giudicato sullo stesso diritto,
posto che solo se sussiste la competenza del giudice adito, questi può decidere in ordine all’esistenza ed all’efficacia di una precedente statuizione
di rito e il nuovo codice della giustizia amministrativa, in Giur. it., 2011, 217 ss., specie 220.
(36) Con riferimento a fattispecie analoghe, si è ritenuto che la decisione sulla legittimazione ad agire spetta al giudice competente, di guisa che la questione concernente la
competenza deve essere decisa prioritariamente rispetto a quella (Cass., Sez. un., ord., 17 ottobre 2003, n. 15538; Cass., 18 dicembre 1958, n. 3910, in Riv. dir. proc., 1960, 300 ss., con
nota critica di CARNELUTTI, Rapporto tra la questione di competenza del giudice e la questione
di legittimazione della parte, per il quale « non occorre affatto che il giudice sia competente
a decidere sul merito affinché accerti la legittimazione ») e, in modo parzialmente diverso,
che la questione concernente l’integrità del contraddittorio ex art. 102 c.p.c. debba essere decisa anteriormente a quella relativa alla giurisdizione (Trib. Firenze, 5 dicembre 1988, in
Giust. civ., 1989, I, 1919 ss., con nota di LUISO).
(37) In base a questi rilievi, la giurisprudenza più recente ritiene che la questione
concernente la giurisdizione debba essere esaminata preliminarmente rispetto a quella relativa alla competenza (deducendo da tale principio altresı̀ la conseguenza, che non appare, invero, necessitata, che la pronuncia sulla competenza contenga un’implicita statuizione sulla
giurisdizione: Cass., Sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883; Cass., Sez. un., 17 dicembre 2007,
n. 26483; Cass., 3 maggio 2005, n. 9107; Cass., Sez. un., 10 gennaio 2003, n. 261); in questo senso, in dottrina: MONTESANO - Arieta, Trattato di diritto processuale civile, I, 2, Padova,
2001, 1570; secondo un diverso orientamento, invece, l’ordine dovrebbe essere invertito:
SATTA, Commentario, II, cit., 317; ORIGONI DELLA CROCE, Precedenza della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza o della seconda rispetto alla prima?, in Riv. dir.
civ., 1978, II, 697 ss., specie 703 ss.). Nega che tra giurisdizione e competenza sussista un
ordine di esame, in ragione del progressivo avvicinamento tra i due istituti, GIOIA, op. cit.,
217 ss.
(38) FORNACIARI, Presupposti, cit., 167.
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che impedisce una seconda decisione sul merito della domanda davanti a
lui proposta; tuttavia, in modo diverso, si potrebbe ritenere che l’exceptio
rei iudicatae sia da esaminare in ogni caso prima dell’eccezione di compromesso, atteso che la presenza di un precedente accertamento esclude la decisione nel merito sia del giudice dello Stato sia degli arbitri, di guisa che
diviene irrilevante la sussistenza di un efficace patto compromissorio.
Gli esempi proposti, tra i molti prospettabili, dimostrano, da un lato,
che tra le questioni concernenti i presupposti processuali corrono nessi di
concorrenza ed alternatività e, da un altro lato, che ciascuna condiziona autonomamente la sussistenza del potere decisorio nel merito del giudice. Nel
processo, le condizioni della decisione nel merito hanno eguale importanza,
atteso che la mancanza di una qualsiasi di esse è in pari grado requisito per
la decisione nel merito; pertanto, il magistrato non deve seguire alcun ordine decisorio, ma, in ossequio al principio della ragione più liquida, può
definire il giudizio con una pronuncia di absolutio ab instantia accogliendo
la questione di rito di più pronta soluzione, senza esaminare le altre, la cui
risoluzione richiederebbe un più complesso esame.
L’impostazione adottata si erge su due principi: l’equivalenza dei presupposti processuali rispetto all’esito decisorio della controversia, ciascuno
potendo determinare l’emanazione di una pronuncia di rigetto in rito, e
l’assenza di un nesso giuridico di pregiudizialità-dipendenza tra gli stessi.
Conseguentemente, per giungere a soluzioni diverse da quelle prospettate,
occorre verificare se, ed a quali condizioni, i principi enunciati subiscano
limitazioni al loro operare.
Sotto un primo profilo, si deve cosı̀ puntualizzare che è certamente
vero che, rispetto alla pronuncia declinatoria dell’osservanza del giudizio, i
presupposti processuali si pongono in un rapporto di concorrenza ed alternatività. Tuttavia, in talune ipotesi, il contenuto decisorio della pronuncia
che accerta la carenza di un presupposto processuale non è limitato alla absolutio ab instantia. Segnatamente, la pronuncia di incompetenza e quella
di difetto relativo di giurisdizione contengono, rispettivamente, l’indicazione del giudice compente (art. 44 c.p.c.) e del giudice nazionale munito
di giurisdizione (art. 59, comma 1, Legge n. 69/2009 e art. 11, comma 1,
c.p.a.).
Rispetto alla statuizione di contenuto positivo della pronuncia sono riscontrabili, in effetti, quei nessi di pregiudizialità-dipendenza tra presupposti processuali, in forza dei quali all’ufficio è imposto un determinato ordine
decisorio, quando, a seguito di rilievo di parte o officioso, sia insorta questione in ordine alla loro ricorrenza.
Cosı̀, il giudice, di fronte alle questioni di competenza e di giurisdizione, non può che esaminare prioritariamente quest’ultima; questo, in
quanto egli non può ritenere fondata la prima, e, in conseguenza di ciò, indicare il giudice munito di competenza, se non ha preliminarmente deciso,
rigettandola, l’altra. Invero, il giudice adito non può indicare l’ufficio com356
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petente appartenente al medesimo ordine giudiziario, se non dopo avere accertato l’esistenza della giurisdizione (39); pertanto, tale questione, in ogni
caso (e, dunque, a prescindere da un’istanza di parte a ciò diretta), dovrà
essere esaminata anteriormente a quella relativa alla competenza.
Allo stesso modo, e cosı̀ veniamo al caso di specie, sia rispetto alla
questione di incompetenza, sia rispetto a quella di difetto relativo di giurisdizione, è pregiudiziale l’esame dell’eccezione di compromesso. Infatti, la
convenzione arbitrale attua una deroga alla giurisdizione statale nel suo
complesso, di guisa che qualsiasi giudice dello Stato è privo del potere decisorio sulla controversia in oggetto. Pertanto, il giudice dovrà, in ogni
caso, esaminare prioritariamente l’exceptio compromissi, e solo se la riterrà
infondata potrà esaminare la questione di competenza o quella di giurisdizione; invero, il giudice adito non può indicare l’ufficio competente o il
giudice nazionale munito di giurisdizione, se non dopo aver accertato che
la domanda proposta non è deferita in arbitri in forza di un’efficace convenzione arbitrale.
Sotto un secondo profilo, in precedenza si è visto che il rapporto di
coordinazione ed alternatività tra i presupposti processuali si deduce dall’equivalenza dell’esito decisorio a cui essi, se ritenuti carenti, conducono.
La correttezza di questa regola si erge sulla premessa che le pronunce
definitive di rito non esplicano efficacia al di fuori del processo al cui esito
sono state emesse. In questa prospettiva, le decisioni di absolutio ab instantia, qualunque sia il presupposto processuale ritenuto carente, si equivalgono l’una rispetto all’altra: da un lato, dichiarano il difetto del potere decisorio nel merito del giudice adito e, da un altro lato, lasciano impregiudicata la riproposizione della domanda, atteso che il secondo giudice non è
in alcun modo vincolato dalla precedente pronuncia.
Non è ovviamente questa la sede per procedere ad un riesame del
complesso tema concernente l’efficacia delle sentenze di rito, ossia se esse
abbiano effetti limitati al giudizio in cui sono emesse o siano dotate di efficacia extraprocessuale (40).
(39) In modo conforme, A.A. ROMANO, Sul difetto di giurisdizione eccepito in sede di
regolamento necessario di competenza, in Corr. giur., 1999, 990 ss., specie 992-993.
(40) La dottrina italiana prevalente nega l’efficacia extraprocessuale delle pronunce
definitive di rito diverse da quelle della Corte di cassazione sulla giurisdizione e sulla competenza, assumendo che esse abbiano valenza esclusivamente endoprocessuale: CHIOVENDA,
op. cit., 345; HEINITZ, op. cit., 16 ss.; SALVANESCHI, L’interesse ad impugnare, Milano, 1990,
355 ss.; PROTO PISANI, Le tutele, cit., 316-317; MONTESANO, Sentenze endoprocessuali nei giudizi civili di merito, in Riv. dir. proc., 1971, 17 ss.; GARBAGNATI, Estinzione del processo ed
impugnazione delle sentenze non definitive, in Riv. dir. proc., 575 ss.; FAZZALARI, Il processo
ordinario di cognizione, I, Torino, 1989, 339; ID., Istituzioni di diritto processuale, 8a ed.,
Padova, 1996, 443; ANDRIOLI, Diritto, cit., 993-994; MENCHINI, Il giudicato, cit., 263 ss., specie 266-267, 286 ss., 314; TURRONI, op. cit., 221 ss., 232 ss. (questi due ultimi Autori, peraltro, affermano espressamente l’efficacia extraprocessuale delle pronunce della Cassazione su
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Ai nostri fini, è sufficiente rilevare che, ove si fosse disposti a riconoscere che le decisioni definitive di rito esplicano efficacia in successivi processi, in cui sia proposta la stessa domanda, le conclusioni esposte in ordine all’ordine decisorio delle questioni di rito dovrebbero subire alcuni
correttivi (41).
Se, infatti, si accoglie questa premessa, viene meno l’equivalenza tra
questioni processuali, anche diverse dalla competenza e dalla giurisdizione); in modo diverso, riconoscono in linea generale l’efficacia vincolante al di fuori del processo in cui sono
emesse delle decisioni definitive di rito, LUISO, Diritto, I, cit., 194 ss.; LIEBMAN, Giudicato,
cit., 9; TARZIA, op. cit., 255; PUGLIESE, Giudicato civile (dir. vig.), in Enc. dir., XVIII, Milano,
1969, 785 ss., specie 839 ss., 845; C. FERRI, Sentenze a contenuto processuale e cosa giudicata, in Riv. dir. proc., 1966, 419 ss.; FORNACIARI, Presupposti, cit., 45 ss., in nota 91. Altra
parte della dottrina ammette, in linea di principio, la possibilità che le sentenze di rito esplichino efficacia extraprocessuale, ma tuttavia nega che esse producano effetti in un secondo
giudizio, in ragione dei limiti oggettivi di efficacia delle decisioni de quibus (per gli opportuni riferimenti, v., infra, la nota 43). In Germania, invece, è consolidato l’orientamento per
il quale le sentenze di rito esplicano efficacia al di fuori del processo in cui sono emesse, riconoscendosi che esse, al pari delle pronunce di merito, assumono autorità di cosa giudicata
ai sensi del § 322 ZPO; per molti, confronta: HENCKEL, Parteilehre, cit., 194 ss. (di questo
Autore vedi, in seguito, in modo parzialmente diverso, Prozeßrecht und materielles Recht,
Göttingen, 1970, 227 ss.); HABSCHEID, Der Streitgegenstand im Zivilprozess und im Streitverfahren der freiwilligen Gerichtsbarkeit, Bielefeld, 1956, 140-141, 148; BLOMEYER, op. cit.,
479-480; ROSENBERG - SCHWAB - GOTTWALD, op. cit., 919-920; NIKISCH, Zivilprozeßrecht, cit., 410411; D. LEIPOLD, § 322, in STEIN - JONAS, Kommentar zur Zivilprozessordnung, IV, 22a ed., Tübingen, 2008, 1169 ss., specie 1190-1191, 1208-1209; Gottwald, § 322, in Münchener Kommentar zur Zivilprozeßordnung, I, 2a ed., München, 2000, 2092 ss., specie 2101, 2133-2134.
(41) Se si assume che la sentenza di rito ha efficacia extraprocessuale, occorre precisare che, secondo un insegnamento tradizionale, gli effetti vincolanti della pronuncia operano rispetto alla riproposizione della stessa domanda, vale a dire riguardo alla domanda
avente ad oggetto la medesima situazione giuridica soggettiva (per tutti, MENCHINI, Il giudicato, cit., 316; BLOMEYER, op. cit., 480; ROSENBERG - SCHWAB - GOTTWALD, op. cit., 540; LEIPOLD, op. cit., 1208; GOTTWALD, op. cit., 2134). Peraltro, può forse prospettarsi che l’efficacia
della sentenza processuale abbia effetti anche in giudizi aventi un oggetto diverso dal primo,
ma, tuttavia, a questo legato da uno di quei qualificati nessi, in presenza dei quali si riconosce che l’accertamento contenuto nella sentenza di merito fa stato anche in giudizi relativi a
diritti distinti da quello deciso. In tali casi, quando la sentenza di rito abbia riscontrato carente una condizione di decisione nel merito della domanda, la quale, in ragione della qualificata connessione sussistente tra il diritto fatto valere nel secondo processo e quello azionato
nel primo, si ripresenta identica nel secondo giudizio, essa può, forse, ritenersi vincolante all’interno di questo, quantunque la domanda proposta concerna un’altra situazione giuridica
sostanziale. Cosı̀, ad esempio, si potrebbe sostenere che, rigettata la domanda concernente un
effetto giuridico del contratto, in quanto opera una clausola compromissoria che deferisce ad
arbitri tutte le controversie derivanti dal titolo negoziale, sia incontestabile che il potere decisorio spetti agli arbitri, e non al giudice dello Stato, anche rispetto a pretese diverse, ma
derivanti dallo stesso contratto; ancora, dichiarata l’incompetenza del giudice adito in ragione
di un patto di deroga alla competenza ex art. 29 c.p.c., in forza del quale è istituito un foro
convenzionale per tutte le controversie derivanti dal contratto, potrebbe sostenersi che il
provvedimento esplica efficacia vincolante nel secondo processo concernente una pretesa diversa da quella già azionata, ma avente titolo nel medesimo negozio.
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i presupposti processuali: il difetto di una condizione della decisione nel
merito della domanda cagiona pur sempre l’emanazione di un provvedimento di absolutio ab instantia; tuttavia, nella misura in cui questo abbia
deciso una questione processuale suscettibile di riprodursi identica in occasione della riproposizione della domanda — il che avviene, quando la sentenza abbia statuito sui rapporti tra la lite ed il processo, quindi sulle condizioni della decisione nel merito (42) —, la pronuncia di rigetto è vincolante nel secondo giudizio (43).
Peraltro, l’efficacia della sentenza nel successivo processo è modulata
sul motivo fondante la decisione di rigetto: la portata delle pronuncia è diversa, a seconda di quale sia il presupposto processuale ritenuto carente (44).
In specie, in taluni casi il provvedimento di absolutio ab instantia è
fondato su un vizio processuale, il quale non è suscettibile di essere sanato
(42) LIEBMAN, Giudicato, cit., 9, il quale a tale categoria contrappone le pronunce che
decidono sul processo nella sua entità formale (cioè concernenti la validità o la nullità degli
atti del giudizio), le quali riguardano questioni che non si ripresentano mai in modo identico
in successivo processo, quantunque sia riproposta la medesima domanda, di guisa che le decisioni de quibus, in ragione del loro oggetto, non possono esplicare efficacia extraprocessuale; in modo analogo, MENCHINI, Il giudicato, cit., 266, 286; LUISO, Diritto, I, cit., 194; PUGLIESE, op. cit., 845-846; FERRI, op. cit., 437 ss.
(43) Affermano che le questioni concernenti i presupposti processuali sono suscettibili di ripresentarsi in modo identico in un successivo giudizio concernente la medesima domanda, LIEBMAN, Giudicato, cit., 9; FERRI, op. cit., 437 ss.; TURRONI, op. cit., 215 ss.; MONTESANO, op. cit., 20; LUISO, Diritto, I, cit., 194; MENCHINI, Il giudicato, cit., 266, 286-287. In
modo diverso, ALLORIO, Critica alla teoria del giudicato implicito, in Sulla dottrina della
giurisdizione e del giudicato, Milano, 1957, 215 ss., specie 225, in nota, per il quale la questione di rito non può presentarsi identica in un successivo giudizio, quantunque essa sia prospettata negli stessi termini in cui lo era stata precedentemente, atteso che la diversità del
procedimento porta con sé inevitabilmente la diversità della questione; ciò da cui consegue
che la pronuncia di rito non può esplicare effetti nel secondo giudizio, in ragione del suo oggetto (cosı̀, anche ATTARDI, La cosa giudicata, II, Il concetto e la natura, in Jus, 1961, 184
ss., specie 189-190). Ad analogo risultato perviene anche CONSOLO, Il cumulo, cit., 231 ss.,
specie 239 ss., secondo cui in ogni processo, oltre all’oggetto sostanziale, è presente un oggetto processuale, concernente il dovere dell’ufficio di decidere nel merito la domanda proposta; il giudice accerta il dovere di decidere nel merito, ma tuttavia tale accertamento non
ha efficacia in successivi giudizi: da un lato, il dovere di pronunciare è strettamente connesso
alla vicenda processuale in corso e non si riproduce identico in un successivo giudizio; dall’altro lato, la risoluzione della questione processuale impediente riscontrata sussistente ha
carattere pregiudiziale rispetto alla decisione emessa, la quale concerne la sussistenza del dovere decisorio nel merito; la risoluzione della singola questione processuale è quindi compiuta incidenter tantum, ed essa, conseguentemente, non è vincolante nel successivo giudizio
in cui pure si ripresenti la medesima questione.
(44) La dottrina tedesca insegna che l’efficacia vincolante della sentenza di rito è determinata dal presupposto processuale ritenuto carente: HENCKEL, Parteilehre, cit., 196 (di
questo Autore vedi, in seguito, in modo parzialmente diverso, ID., Prozessrecht, cit., 227 ss.);
HABSCHEID, op. cit., 148; BLOMEYER, op. cit., 228, 480; ROSENBERG - SCHWAB - GOTTWALD, op.
cit., 540; NIKISCH, Zivilprozeßrecht, cit., 410-411, 415; LEIPOLD, op. cit., 1208; P. GOTTWALD,
op. cit., 2101, 2133-2134.
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ad opera dell’attore, di guisa che risulta esclusa, in modo pressoché assoluto (salvo, cioè, il sopravvenuto mutamento della situazione di fatto o di
diritto), la possibilità di riproporre validamente la domanda; con la conseguenza che il giudice successivamente adito sarà vincolato dalla prima decisione a chiudere in rito il processo per il difetto del presupposto processuale de quo. In altri casi, invece, il vizio riscontrato dal primo giudice è di
natura tale per cui la domanda può essere riproposta validamente; in questa ipotesi, solo se l’attore non ottempera alla prima pronuncia, riproponendo in modo identico la domanda, il secondo giudice sarà vincolato dalla
prima decisione a chiudere in rito il processo, per difetto della condizione
di trattabilità nel merito già riscontrata dal precedente provvedimento.
Per maggiore chiarezza, prendiamo in esame la fattispecie decisa dalla
sentenza in commento.
Il rigetto fondato sull’accoglimento dell’eccezione di compromesso
preclude all’attore la possibilità di riproporre validamente la domanda di
fronte all’Autorità giudiziaria; il giudice successivamente adito, in assenza
di fatti sopravvenuti incidenti sull’efficacia della convenzione arbitrale, è
vincolato dalla prima pronuncia a declinare la propria competenza, senza
poter esaminare nuovamente la fondatezza dell’exceptio compromissi. D’altra parte, la prima decisione consente all’attore di riproporre validamente la
domanda di fronte agli arbitri, i quali, peraltro, saranno vincolati dalla precedente statuizione a ritenere sussistente la propria potestas iudicandi sulla
domanda (45); all’interno del processo arbitrale non potrà essere nuovamente esaminata e risolta la questione concernente l’efficacia della convenzione arbitrale, sia per i profili già esaminati dal giudice dello Stato, sia,
sembra opportuno precisare, per i profili non dedotti.
In modo diverso, il rigetto fondato sull’eccezione di giudicato — a
meno che non si siano verificati nuovi fatti rilevanti per l’esistenza o modo
d’essere del diritto accertato — impedisce all’attore di riproporre valida-
(45) LUISO, Rapporti, cit., 790-791; RUFFINI, Rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria, in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 364 ss., specie 382 ss.; CONSOLO, L’arbitrato
con sede estera, la natura della relativa eccezione e l’essenziale compito che rimane affıdato
al regolamento transnazionale della giurisdizione italiana (parte seconda), in Riv. trim. dir.
proc. civ., 2009, 955 ss., specie 970-971; IZZO, op. cit., 466 (ma in via dubitativa); contra,
CAPPONI, op. cit., 880; VERDE, Lineamenti, cit., 24-25 (del quale vedi, però, in seguito, Ancora
sulla pendenza del procedimento arbitrale, in questa Rivista, 2009, 219 ss., specie 225-226);
BOVE, Ancora sui rapporti tra arbitri e giudice statale, cit., 373 ss. (del quale vedi, però, in
seguito, Giurisdizione e competenza nella recente riforma del processo civile (Legge 18 giugno 2009, n. 69), in Riv. dir. proc., 2009, 1295 ss., specie 1305-1306 e Ricadute, cit., 84 ss.);
in giurisprudenza, Cass., 8 giugno 2007, n. 13508, per la quale la sentenza con cui il giudice
abbia declinato la propria competenza, accogliendo l’eccezione di compromesso, non è vincolante nel successivo processo arbitrale, di guisa che all’interno di questo può essere esaminata e risolta nuovamente la questione concernente la validità e l’efficacia del patto compromissorio.
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mente la domanda sia davanti all’Autorità giudiziaria, sia in sede arbitrale;
infatti, la presenza di una precedente statuizione non consente né al giudice
né agli arbitri (confronta l’art. 829, comma 1, n. 8, c.p.c.) di emettere una
valida decisione sul diritto già dichiarato.
Nella fattispecie in considerazione risulta quindi evidente che la pronuncia di rigetto in rito per l’uno o per l’altro motivo pregiudica più o
meno intensamente la possibilità per l’attore di riproporre la domanda e,
correlativamente, assicura al convenuto vincitore una tutela di grado differente. Infatti, solo nel secondo caso, e non anche nel primo, egli è posto al
riparo dalla riproposizione della domanda, atteso che la decisione di rigetto
fondata sull’accoglimento dell’eccezione di compromesso consente all’attore di riproporre la domanda in sede arbitrale.
Se questo è vero, a noi sembra, allora, che sia da ammettere la possibilità per il convenuto di proporre le eccezioni di rito in via graduata, subordinando l’esame dell’eccezione, che, se accolta, avrebbe portata meno
preclusiva, al rigetto di quella che, invece, se ritenuta fondata, gli garantirebbe maggiore tutela.
A queste condizioni, e in presenza dell’espressa manifestazione di volontà della parte, sembra da riconoscere, quindi, l’istituzione a carico del
giudice di un ben preciso ordine decisorio, da porsi in relazione con la
maggiore tutela assicurata al convenuto vincitore dalla decisione che rigetta
la domanda per l’eccezione proposta in via principale, rispetto alla pronuncia di absolutio ab instantia fondata sull’eccezione avanzata in via subordinata (46).
Ciò chiarito, prima di poter ritenere conclusa l’analisi, rimane da affrontare un ultimo problema (47).
Nella sentenza in commento, il Tribunale di Milano ha accolto l’eccezione di compromesso e, pur correttamente ritenendola assorbente ai fini
della decisione della controversia, ha comunque proceduto ad esaminare
l’eccezione di giudicato, accogliendola.
(46) A favore di un ordine di esame delle questioni di rito, in ragione della differente
efficacia extraprocessuale della pronuncia di rigetto per l’uno o l’altro motivo, TURRONI, op.
cit., 250 ss.; FORNACIARI, Presupposti, cit., 66 ss., 168 ss.; CONSOLO, Il cumulo, cit., 452-453,
459 (per il quale, tuttavia, l’ordine di esame dovrebbe essere informato ad un criterio opposto a quello adottato nel testo, in forza del quale è da privilegiare il rigetto per il motivo meno
preclusivo).
(47) Un tema che in questa sede non è possibile affrontare riguarda le conseguenze
dell’interpretazione proposta in sede di impugnazione; in specie, in ordine alla possibilità di
riconoscere al convenuto, che abbia legittimamente proposto le eccezioni pregiudiziali in via
graduata, il potere di impugnare in via principale la pronuncia di rigetto in rito, tutte le volte
che il giudice, violando l’ordine di esame delle questioni impostogli, abbia rigettato la domanda sulla base della questione avanzata in via subordinata, senza avere prima esaminato
quella proposta in via principale.
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Qualora si sia disposti ad accettare il presupposto che la pronuncia di
rito ha efficacia extraprocessuale, occorre precisare l’esatta portata precettiva del provvedimento declinatorio dell’osservanza del giudizio, il quale
sia basato non su un solo motivo, bensı̀ su due o più, essendo state ritenute
fondate più questioni litis ingressum impedientes (48).
Al riguardo, la risposta appare agevole: indubbiamente la decisione si
fonda su una ricognizione in parte superflua, atteso che la fondatezza di una
sola questione sarebbe stata di per sé sufficiente a rigettare la domanda;
tuttavia, la risoluzione di ciascuna delle più questioni è motivo portante
della statuizione, atteso che entrambe, in modo autonomo, condizionano
l’esito decisorio, nel senso del rigetto per difetto di una condizione della
decisione nel merito della domanda.
Se, dunque, la portata precettiva del provvedimento deve ricavarsi dai
motivi fondanti la statuizione, nel caso di specie dovrà riconoscersi sia che
la domanda proposta non è di competenza del giudice dello Stato per essere deferita in arbitri, sia che alla sua decisione nel merito osta l’autorità
di un precedente giudicato (49).
Si potrebbe obiettare che, in questo modo, viene data esclusiva rilevanza al secondo motivo di rigetto, privando di rilievo il primo.
Tuttavia, cosı̀ non è.
Al riguardo, è sufficiente pensare all’ipotesi in cui la domanda sia riproposta allegando a suo fondamento un nuovo fatto rilevante per l’esistenza del diritto deciso; in tal caso, il precedente accertamento non può
(48) Questo è solo un ambito di rilevanza del problema in esame, senza che con ciò
se ne vogliano escludere altri. Ad esempio, sotto il profilo del regime della sentenza ai sensi
dell’art. 819-ter, comma 1, c.p.c., la decisione di rigetto in rito fondata esclusivamente sull’eccezione di compromesso è impugnabile soltanto con il regolamento necessario di competenza, mentre avverso la pronuncia che ritenga fondate anche altre questioni pregiudiziali di
rito sono esperibili i mezzi di impugnazione ordinari (ciò è quanto sembra doversi ritenere,
facendo applicazione del principio giurisprudenziale per cui, ai fini degli artt. 42 e 43, per
« questione di merito », deve intendersi qualsiasi questione diversa dalla competenza, anche
di natura processuale; al riguardo, confronta: Cass., 30 ottobre 2007, n. 22948; Cass., 12
gennaio 2007, n. 563; Cass., 24 agosto 2006, n. 18425; Cass., 21 maggio 2004, n. 9799).
Questa notazione offre l’occasione per precisare, con specifico riferimento alla sentenza in commento, che, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, ad essa non è
applicabile ratione temporis l’art. 819-ter c.p.c., atteso che tanto l’arbitrato, quanto il processo ordinario, erano iniziati anteriormente alla data di entrata in vigore delle nuove norme
(confronta: Cass., Sez. un., 6 settembre 2010, n. 19047, in Corr. giur., 2011, 47 ss., con nota
di CASTAGNOLA - CONSOLO - MARINUCCI, Sul dialogo (impossibile?) fra cassazione e dottrina,
nella specie... sulla natura (mutevole?) dell’arbitrato e in questa Rivista, 2010, 463 ss., con
osservazioni di C. SANTINI, Regolamento di competenza avverso la pronuncia del giudice
sulla exceptio compromissi e procedimenti pendenti; Cass., 14 luglio 2011, n. 15474; Cass.,
29 agosto 2008, n. 21926; Cass., 20 maggio 2008, n. 12814); con la conseguenza che, nella
fattispecie in esame, in alcun caso sarebbe stato esperibile il regolamento di competenza, essendo ammesso esclusivamente l’appello.
(49) In modo conforme, quanto al principio enunciato, LEIPOLD, op. cit., 1208.
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operare, di guisa che l’eccezione di giudicato eventualmente proposta andrebbe incontro ad insuccesso. Tuttavia, in base alla prima pronuncia, la
quale ha rigettato la domanda accogliendo l’eccezione di compromesso, è
vincolante e non più discutibile che il potere di decidere la controversia de
qua spetta agli arbitri e non al giudice dello Stato.
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TRIBUNALE DI FROSINONE, sentenza 13 aprile 2010; IMPOSIMATO Est.; Sopin
S.p.a. (avv. Biasiotti Mogliazza) c. Telecom Italia S.p.a. (avv.ti Briguglio, Patini).
Giudizio civile - Arbitri - Autoliquidazione del compenso - Accettazione di una
delle parti - Silenzio dell’altra parte - Formazione del consenso - Silenzioassenso - Buona fede contrattuale.
La determinazione del compenso degli arbitri operata dal collegio arbitrale
vincola le parti se viene da loro accettata. L’accettazione può intervenire per fatti
concludenti. Tale è il silenzio serbato da una delle parti nel caso in cui il comune
modo di agire o la buona fede, nei rapporti che si sono instaurati tra loro, impongano l’onere o il dovere di parlare. Se ricorrono queste circostanze, il tacere di una
delle parti deve intendersi come assentimento alla proposta di compenso formulata
dagli arbitri. Non si applica, pertanto, in caso di assenso alla proposta degli arbitri, quanto dispone il secondo comma dell’art. 814 c.p.c., che riguarda il caso in
cui l’autoliquidazione delle spese e dell’onorario operata dagli arbitri non sia
stata accettata dalle parti.
CENNI DI FATTO. — Una società agisce in via monitoria nei confronti di un’altra per ottenere il rimborso della somma corrisposta ad un collegio arbitrale, a titolo di pagamento del compenso autoliquidato dagli arbitri.
La società propone opposizione avverso il decreto ingiuntivo concesso, eccependo di non aver accettato la proposta di liquidazione del compenso degli arbitri
e che non erano ripetibili le somme a loro versate, né, quindi, possibile chiedere ed
ottenere un decreto ingiuntivo.
L’opponente eccepisce, inoltre, che il procedimento da adottare per la determinazione del compenso era quello previsto dall’art. 814 c.p.c.
Il Tribunale di Frosinone, ritenendo l’opposizione infondata, la respinge, confermando il decreto ingiuntivo opposto.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — 1. La lite in decisione trae origine dalla notificazione del decreto ingiuntivo n. 701/2006, emesso su istanza della Telecom Italia
S.p.a. per ottenere il rimborso della somma di € 79.560,96, versata per conto della
opponente SOPIN, a tacitazione del credito per onorari e spese di funzionamento
vantato dal collegio arbitrale composto dal prof. Scoca, prof. Del Prato e avv. Orestano, in esito alla definizione di una lite insorta tra le medesime odierne parti, credito autoliquidato con ordinanza del presidente del collegio arbitrale del 29 agosto
2005.
2. Ad unico motivo di opposizione la SOPIN eccepisce che l’autoliquidazione
delle spettanze del collegio arbitrale, quale contenuta nella cosiddetta « ordinanza »
del presidente di quel collegio prodotta in allegato al ricorso monitorio, in quanto
non accettata dalla medesima opponente non sarebbe di per sé vincolante; invoca
allo scopo il disposto dell’art. 814 comma 2 c.p.c., che testualmente recita:
« quando gli arbitri provvedono direttamente alla liquidazione delle spese e dell’onorario, tale liquidazione non è vincolante per le parti se esse non l’accettano »;
conclude assumendo che, nel caso di specie, essendo stato omesso il ricorso alla
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speciale procedura di liquidazione descritta dal successivo periodo del cit. comma
2 art. 814 (« in tal caso l’ammontare delle spese e dell’onorario è determinato con
ordinanza dal presidente del tribunale indicato nell’art. 810 secondo comma, su ricorso degli arbitri sentite le parti »), mancherebbe un valido titolo a fondamento sia
del pagamento effettuato dalla Telecom, sia della conseguente azione di regresso (o
rivalsa che dir si voglia) da quest’ultima svolta in via monitoria.
3. L’opposizione è, nel merito, infondata e va pertanto respinta, cosı̀ da doversi confermare il decreto opposto.
Infatti, è ben vero che secondo il consolidato orientamento del Supremo Collegio, « la determinazione del proprio onorario direttamente ad opera del collegio
arbitrale è fonte di obbligazione, ai sensi dell’art. 814, secondo comma, cod. proc.
civ., soltanto per effetto dell’accettazione di tutte le parti del procedimento arbitrale
(in caso contrario occorrendo seguire la procedura prevista per la liquidazione giudiziale ») (queste le parole di Cass. n. 4741/1998, cui è conforme Cass. n. 8527/
1998), ma è altrettanto vero che, anche nel caso che oggi ne occupa [come in qualunque altro caso in cui la conclusione del negozio non necessiti di forma scritta],
l’accettazione possa essere espressa per fatti concludenti (cfr. in particolare Cass.
n. 6108/1994, nella cui motivazione si legge: « ... dandosi atto che l’indicata adesione è manifestabile anche implicitamente, si deve ritenere che l’insorgenza del
diritto degli arbitri a reclamare le spese e gli onorari da essi direttamente fissati
trova condizione nell’accettazione, esplicita o per “facta concludentia”, dei destinatari della relativa pretesa »; tra i giudici di merito v. Tribunale di Chieti, 18 febbraio 2008, n. 135, in P.Q.M. 2009, 1, 99, secondo cui « il secondo comma dell’art.
814 c.p.c., nel prevedere che l’autoliquidazione delle spese e dell’onorario da parte
degli arbitri non è vincolante per le parti se queste ultime non lo accettano, attribuisce alla predetta autoliquidazione il valore di una proposta contrattuale, la quale
è improduttiva di effetti ove non si traduca in contratto con la formazione del consenso, il quale può essere manifestato anche per facta concludentia »).
Nel caso di specie l’avveduta difesa della Telecom Italia ha ravvisato l’accettazione per facta concludentia della Sopin alla proposta contrattuale contenuta nell’ordinanza del presidente del collegio arbitrale del 29 agosto 2005: a) nello spontaneo pagamento della primiera determinazione dell’accordo degli arbitri, in un
ammontare pressoché pari al 50% di quello determinato della liquidazione emessa
a conclusione del procedimento arbitrale (cfr. il doc. 1 allegato alla sua comparsa
di risposta, contenente la « ordinanza di costituzione del fondo spese » del 20 settembre 2004); b) nel silenzio (contrario a buona fede) serbato dalla Sopin allorché
messa al corrente della liquidazione definitiva delle spettanze degli arbitri, delle
successive richieste di pagamento inoltratele dagli stessi professionisti, dalle diffide
e comunicazioni, pressoché inevase, rimessele dalla controparte Telecom allorché
si accingeva a versare anche la quota di spettanza altrui (corrispondenza tutta documentata agli all. 3 e 4 della comparsa di costituzione Telecom, nonché 3 e 5 all.
al ricorso monitorio).
Ebbene, lo spontaneo pagamento pro quota della somma indicata, in limine litis dagli arbitri a titolo di fondo spese di funzionamento (ed acconto degli onorari)
non dice nulla della volontà (futura) di accettare l’autoliquidazione emessa a chiusura del procedimento, non contenendo quella « ordinanza » (doc. 1 comparsa di
risposta Telecom) alcuna indicazione — salvo un generico richiamo al valore della
controversia « desumibile dagli atti » — sui criteri che sarebbero stati adottati dal
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collegio arbitrale per quantificare il saldo delle proprie spettanze; altro sarebbe stato
laddove, ad esempio, il provvedimento di costituzione del fondo spese avesse contenuto l’indicazione di un forfait ovvero di una percentuale sul valore della lite, assunto quale criterio di calcolo del totale dovuto. In mancanza, da quel pagamento
non può indirsi la volontà attribuita, dalla odierna convenuta, alla opponente Sopin.
Per contro il silenzio reiteratamente serbato, dalla Sopin, dapprima in ordine
alla richiesta di pagamento del saldo delle proprie spettanze (che di tanto si tratta)
da parte dei componenti del collegio arbitrale, poi a fronte delle successive missive
Telecom, integra — secondo buona fede — un comportamento concludente avente
il significato negoziale di accettazione, necessaria e sufficiente alla costituzione di
quel vincolo in virtù del quale la Telecom effettuava il pagamento di cui ha chiesto di essere rimborsata in via monitoria.
È infatti ribadito dalla Suprema Corte che « in materia contrattuale, il silenzio, che, di per sé, non costituisce manifestazione negoziale, può acquistare il significato di un fatto concludente o di manifestazione negoziale tacita (Cass. n.
3957/1983), tale da integrare consenso e determinare il perfezionamento di un rapporto contrattuale ed assume tale portata laddove si accompagni a circostanze e situazioni, oggettive e soggettive, che implichino, secondo il comune modo di agire,
un dovere di parlare, specie quando il silenzio stesso venga serbato a fronte di una
dichiarazione di altri, comportante, per chi tace, un obbligo » (queste le parole di
Cass. n. 25290/2007); analogamente, Cass. n. 6162/2007 afferma « affinché il silenzio possa assumere il valore negoziale di consenso, occorre o che il comune modo
di agire o la buona fede, nei rapporti instauratisi tra le parti, impongano l’onere o
il dovere di parlare, o che, secondo un dato momento storico o sociale, avuto riguardo alla qualità delle parti e alle loro relazioni di affari, il tacere di una possa
intendersi come adesione alla volontà dell’altra » (conf. Cass. n. 4303/2004; Cass.
n. 5363/1997; Cass. n. 3957/1983; Cass. n. 5743/1981).
Particolarmente illuminante è la massima tratta da Cass. n. 1326/1975: « il silenzio può valere come dichiarazione quando, data una certa relazione tra due persona. E il comune modo di agire imporrebbe il dovere di parlare. E soprattutto di
fronte alla dichiarazione di una parte, che implichi un obbligo per quella cui essa
è rivolta, il tacere di quest’ultima può intendersi come assentimento » (conformi
Cass. n. 126/1973; Cass. n. 190/1971).
Orbene, come segnalato dalla difesa Telecom, la Sopin restava completamente
inerte a fronte:
a) della richiesta di pagamento degli onorari degli arbitri, ivi specificamente
indicati nell’ammontare, inoltrata sia alla medesima opponente che alla Telecom,
con missiva del segretario del collegio del 16 dicembre 2005 (doc. 11 al fascicolo
Sopin);
b) della ulteriore richiesta di pagamento degli onorari inoltrata dal segretario
del collegio arbitrale, con lettera del 1o febbraio 2006 indirizzata ad entrambe le
odierne litiganti (doc. 3 al fascicolo del ricorso monitorio e doc. 12 fascicolo Sopin);
c) della diffida e comunicazione Telecom in data 27 febbraio 2006 (doc. 5 fascicolo monitorio) con cui quest’ultima invitava nuovamente la Sopin al versamento delle somme di sua spettanza, chiedendo di avere contezza sulle modalità e
tempistiche del pagamento, ed avvisandola esplicitamente che, laddove fosse stata
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nella necessità di pagare la quota Sopin in virtù del vincolo di solidarietà, avrebbe
agito in rivalsa.
In effetti, la primissima manifestazione, da parte della Sopin, della volontà di
non accettare la proposta contrattuale di cui alla c.d. « ordinanza presidenziale di
liquidazione definitiva » di che trattasi, « ordinanza » risalente al 29 agosto 2005
(che si presume comunicata a mezzo fax, come ivi testualmente prescritto, quindi
immediatamente), ma ancor prima la primissima « risposta » Sopin a tutte le missive inoltratele nei mesi precedenti è contenuta nella missiva del 18 aprile 2006
(doc. 14 fascicolo Sopin), missiva guarda caso successiva all’effettivo pagamento,
da parte della Telecom, della quota di spettanza Sopin (pagamento cui la Telecom
aveva dato corso a seguito dell’ultima precedente comunicazione in ordine di
tempo, del 27 febbraio 2006, rimasta senza riscontro). Dunque la Sopin evidenziava la sua volontà di non accettare l’onorario autoliquidatosi dagli arbitri sin dalla
fine dell’agosto 2005, solo allorché, a due mesi di distanza dall’ultimo preavviso
della Telecom, proprio condebitore solidale (27 febbraio 2006), le veniva rimessa
la fattura n. 4000390654, del 29 marzo 2006 (doc. 13 fascicolo Sopin) e comunicato l’avvenuto pagamento.
Orbene, da un lato va rimarcato che il rapporto obbligatorio di solidarietà esistente tra le odierne parti ex art. 814 comma 1 c.p.c., [come pure l’obbligo di pagare un corrispettivo purchessia per la prestazione professionale resa dagli arbitri
in virtù del mandato collettivo loro conferito con la clausola arbitrale], avrebbe imposto, secondo buona fede (art. 1375 c.c.), alla Sopin di manifestare a tempo debito la sua non accettazione delle richieste di pagamento svolte dal collegio arbitrale, ché tale inerzia indiceva il suo condebitore solidale a fare affidamento sulla
sua accettazione, ed a far seguito al pagamento; dall’altro è indubbio che il silenzio sia stato serbato, a fronte di una pluralità di proposte e missive (soprattutto
quelle della Telecom) da cui sarebbero comunque scaturiti degli obblighi (di pagamento) a carico della loro destinataria [ancorché per una somma asseritamente inferiore a quella richiesta dagli arbitri, che la opponente non ha però inteso indicare
nel quantum a chi scrive], quali derivanti sia dal contratto « stipite » (di mandato
collettivo conferito agli arbitri) concluso inter partes, sia dal conseguente vincolo
di solidarietà tra mandanti, sia dal diritto di surrogazione legale spettante al condebitore solidale (art. 1203 comma 1 n. 3 c.c.) che avesse adempiuto al pagamento
dell’intero.
E che si sia trattato di silenzio contrario a buona fede, in quanto tale avente
valore negoziale di accettazione (idonea a ritenere concluso il patto trilaterale sulla
quantificazione degli onorari del collegio arbitrale delineato nella giurisprudenza
invocata dalla opponente, quindi non revocabile ex post), è dimostrato dal fatto che
né nella corrispondenza intercorsa tra le parti a partire dall’aprile 2006 in poi (primissima epifania del « dissenso » della Sopin, manifestata solo successivamente
alla notizia dell’avvenuto pagamento anche della sua quota, da parte della Telecom), né nel presente giudizio la opponente si è soffermata minimamente sui motivi per cui ha ritenuto di non accettare e ritenere non congruo (quindi eccessivo)
l’onorario richiesto dagli arbitri.
In altri termini, dalla Sopin non viene spesa neppure una parola, in alcuno degli atti difensivi e della corrispondenza acclusa ai fascicoli, in merito alla erroneità
della somma complessivamente richiesta dal collegio arbitrale per onorari, a fronte
di un valore della controversia in arbitrato pari ad oltre 3 milioni di euro. Ciò com368
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prova ulteriormente che l’atteggiamento di inerzia tenuto sino all’effettivo pagamento delle spettanze del collegio da parte della Telecom, sia stato contrario a
buona fede e sia stato deliberatamente adottato per precostituirsi una eccezione anch’essa contraria a buona fede, ritenuta (da quella parte) idonea a paralizzare le
iniziative di controparte.
Ma quel che interessa ai fini del decidere, è che il silenzio serbato dalla Sopin, in quanto connotato dalla peculiarità dei rapporti (trilaterali) di mandato esistenti sia con la Telecom (co-mandante) che con i professionisti (mandatari), nonché dal rapporto di solidarietà nel pagamento del corrispettivo sussistente con la
Telecom, abbia assunto il valore negoziale (di accettazione) attribuitovi dalla convenuta opposta, cosı̀ da comportare la valida conclusione del negozio in virtù del
quale la Telecom effettuava il pagamento, ed ha successivamente agito in rivalsa.
L’opposizione va dunque respinta, e la soccombenza regola le spese di lite.
Il silenzio come manifestazione di consenso alla liquidazione del compenso degli arbitri. L’obbligo del comportamento in buona fede.
1. Concluso un arbitrato, quando gli arbitri hanno stabilito ed indicato alle parti la misura del loro onorario e delle spese, quale è il valore da
attribuire al silenzio di una di loro? La sentenza se ne occupa. La questione,
che il provvedimento risolve con una articolata motivazione, è se e quando
è possibile considerare il silenzio come un’accettazione della proposta degli arbitri.
L’autoliquidazione dei compensi da parte degli arbitri, è noto, ha il
valore di una proposta, che diviene accordo nel momento in cui viene accettata da tutte le parti (1), come enuncia, in negativo, l’art. 814, comma 2,
c.p.c. Se manca il consenso, la norma rimette la determinazione dell’ammontare delle spese e dell’onorario al presidente del tribunale. L’applicazione del procedimento speciale ex art. 814 c.p.c. presuppone, quindi, di
verificare se si è formato l’accordo tra arbitri e parti, sull’ammontare dei
compensi, sul presupposto che essi siano dovuti.
Il rapporto tra arbitri e parti (2) non pone problemi di forma ai fini
dell’accettazione della proposta di compenso formulata dagli arbitri, che,
(1) Principio chiaramente fissato nell’art. 814 c.p.c., su cui rinvio a FAZZALARI, L’arbitrato, 1997, Torino, 510. In giur., Cass., 24 giugno 1994, n. 6108; Cass., 11 maggio 1998,
n. 4741; Cass., 21 aprile 1999, n. 3945; Cass., 28 marzo 2003, n. 4743.
(2) In merito alla natura del rapporto tra gli arbitri e le parti, PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Tomo I, Padova, 2000, 405 ss., si riferisce al contratto avente ad oggetto la prestazione d’opera intellettuale. Ritengono invece si tratti di un di contratto tipico,
VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006, 80 ss.; MARULLO DI CONDOJANNI, Il
contratto di arbitrato, Milano, 2008, 70 ss.; BRIGUGLIO - CAPPONI (a cura di), Commentario
alle riforme del processo civile, Tomo II, Vol. III, Padova, 2009, 608; BOVE, La giustizia privata, Padova, 2009, 84 ss. riconduce il rapporto alla fattispecie del mandato.
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anche questo è noto, può essere espressa o tacita (3). È, quindi, agevole
comprendere che l’accertamento circa la conclusione del negozio, in caso
di lite, è rimessa alla libera valutazione del giudice. Decidere se vi sia stato
un comportamento concludente, costituito dal silenzio (da interpretare
come accettazione delle richieste di pagamento svolte dal collegio arbitrale), impone al giudicante di considerare se questo atteggiamento sia conforme alle regole non scritte, agli usi, alle consuetudini e, da ultimo, alla
buona fede (4).
Il Tribunale di Frosinone nella vicenda esaminata ritiene che il silenzio tenuto da una delle parti, prima in ordine alla richiesta di pagamento del
saldo delle spettanze del collegio arbitrale, poi rispetto alla comunicazione
adesiva dell’altra parte, coobbligata solidale, ex art. 1175 c.c., rappresentasse « secondo buona fede » una manifestazione « concludente » di accettazione negoziale.
Il provvedimento è tutto costruito sulla giurisprudenza della Suprema
Corte che attribuisce il valore di accettazione al silenzio, sulla base di
un’indagine dei comportamenti delle parti, nei casi in cui il giudice di legittimità vi individua la violazione di un obbligo di dichiarazione o di comunicazione, ricavabile da fatti concludenti (5). I precedenti richiamati non
si occupano però del significato da attribuire alla determinazione degli arbitri: se rappresenti una dichiarazione, una comunicazione o una proposta.
Mi pare utile ricordare che nella teoria del negozio giuridico il silenzio viene considerato nel procedimento di formazione del contratto come
un elemento che esclude l’accettazione della proposta, cioè come rifiuto (6),
perché, isolatamente considerato, non manifesta un consenso tacito. L’adesione si realizza se il silenzio è « circostanziato ». Si collegano al riserbo
ulteriori circostanze che, in senso positivo, lo rendono un « fatto concludente » equivalente, come valore, alla proposta. Per la conclusione del ne-
(3) Cass., 16 marzo 2007, n. 6162 individua l’accettazione tacita nel regolare pagamento, da parte di un soggetto, di un corrispettivo di molto superiore rispetto a quanto pattuito tra le parti senza obiezioni o riserve.
(4) Sulla buona fede, essenziali riferimenti in CORRADINI, Il criterio della buona fede
e la scienza del diritto privato, Milano, 1970, 46 ss.; FREZZA, Fides bona, in Studi sulla buona
fede, Milano, 1975, 2 ss.; ID., I doveri di buona fede e di diligenza nell’adempimento, sub
art. 1175 in Codice Civile, Commentario diretto da Schlesinger, 1990, 7; BENATTI, Delle obbligazioni in generale, Torino, Comm. c.c. diretto da CENDON, IV, 1999; BIGLIAZZI GERI, Buona
fede, in Dig. disc. priv., Torino; BRECCIA, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto
obbligatorio, Giuffrè, 1996, 83; NANNI, La buona fede contrattuale, ne I grandi orientamenti
della giurisprudenza civile e commerciale, diretto da GALGANO, Padova.
(5) Su cui, per un’impostazione generale, R. ACCO e G. DE NOVA, Il contratto, in
Trattato di diritto civile, Tomo I, Torino, 1993, 81 ss.
(6) Sul silenzio, da interpretare in primo luogo come rifiuto, v. Cass., 30 ottobre
1981, n. 5743; Cass., 9 giugno 1983, n. 3957; Cass., 14 giugno 1997, n. 5363; Cass., 4 dicembre 2007, n. 25290.
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gozio, l’accettazione deve avere la stessa « portata », l’identica valenza
giuridica della proposta. In sintesi, il silenzio produce gli effetti della manifestazione del consenso o quando esiste una fonte legale, un uso, una
consuetudine che stabilisce che questo « evento », giusta « inesperians »
(l’assenza di espressioni), produce gli effetti del consenso espresso, o
quando il comportamento omissivo è interpretabile come accettazione, se
ad esso si aggiungono fatti tali da renderlo significativo. Sono quelle vicende nelle quali, in base ai canoni di correttezza e buona fede, sussiste il
dovere di parlare, su cui fa leva la decisione esaminata.
Le indicazioni giurisprudenziali cui si riferisce la sentenza del Tribunale di Frosinone poggiano su questa base teorica, quando interpretano il
silenzio come accettazione tacita (7).
2. L’interesse per provvedimento in esame riguarda pertanto i fatti
da cui il giudice coglie l’atteggiamento in malafede di una delle parti e che
rendono condivisibile la soluzione offerta al caso: la proposta di liquidazione delle spese e degli onorari per l’attività svolta comunicata agli arbitri; l’adesione di una delle parti che accetta la proposta arbitrale e, nello
stesso tempo, si rivolge all’altra per chiedere quale sia il suo orientamento
in proposito; il pagamento effettuato dalla parte aderente, che viene comunicato alla parte silenziosa. Infine, il dissenso della parte silenziosa alla
proposta degli arbitri, manifestato solo dopo la notizia dell’avvenuto pagamento anche della sua quota da parte del coobbligato, che la sentenza considera, erroneamente, un fatto equiparabile agli altri, integrativo come
quelli, ma ex post, della fattispecie.
Sono elementi convergenti che consentono di dedurre che si fosse in
presenza di un atteggiamento contrario alle regole fissate dagli artt. 1175 e
1375 c.c.
Meno convincente è l’osservazione del Tribunale secondo cui la parte
inadempiente non avrebbe speso « neppure una parola, in alcuno degli atti
difensivi e della corrispondenza acclusa ai fascicoli in merito alla erroneità della somma complessivamente richiesta dal collegio arbitrale per
onorari ». Anche questo silenzio comproverebbe che l’atteggiamento di
inerzia era contrario alla buona fede. In realtà, per come è posta, la considerazione non è convincente, perché confonde una posizione processuale
difensiva con i comportamenti, prima descritti, che incidono sulla formazione del negozio, perché lo precedono e che, di conseguenza, anticipano
anche il processo.
(7) Per Cass. n. 25290/2007, non vi è valida accettazione, data in assenza di elementi, oggettivi e soggettivi, che potrebbero, in altro senso, valorizzare il silenzio.
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3. La sentenza muove dalla considerazione che era stato eccepito
dalla opponente, che il coobbligato in solido non avrebbe potuto agire per
la rivalsa, chiedendo (ed ottenendo) un decreto ingiuntivo, poiché si doveva
ricorrere alla procedura di liquidazione degli onorari e delle spese degli arbitri, di cui all’art. 814, comma 2, c.p.c.
Emerge in questa argomentazione difensiva un doppio errore: a) nel
caso in esame, il ricorso alla procedura speciale di cui all’art. 814 c.p.c.
presupponeva che non si fosse perfezionato l’accordo sul compenso degli
attori. Se al silenzio serbato doveva attribuirsi il valore di accettazione, non
era possibile ricorrere al presidente del tribunale per la determinazione di
un compenso che era già negozialmente intervenuta. Pertanto, l’azione di
rivalsa doveva svolgersi (come in effetti è stato) ricorrendo ai mezzi, ordinari o speciali come il procedimento monitorio; b) se al silenzio fosse stato
attribuibile l’opposto valore, di diniego, di assenza della adesione alla proposta degli arbitri, comunque, l’eccezione non poteva essere accolta. Ritengo, infatti, che in questo caso il ricorso da parte degli arbitri alla procedura dell’art. 814, comma 2, c.p.c. (8), non fosse obbligato.
Il procedimento delineato dall’art. 814 c.p.c. rappresenta uno tra i diversi strumenti processuali a disposizione degli arbitri ed è specificamente
rivolto ad assicurare loro la formazione in tempi brevi di un titolo esecutivo. La sua instaurazione viene subita soltanto dal soggetto contro cui converge. Non mi pare sia invece possibile pensare a questo procedimento
come ad un rito speciale esclusivo, alternativo al giudizio ordinario, che
vincoli, quanto alla sua introduzione, proprio gli arbitri, che sono i soggetti
che avanzano la pretesa creditoria. A loro, credo, sia rimesso di scegliere la
forma della tutela. L’introduzione di un procedimento diverso potrebbe, infatti, basarsi su valutazioni che riguardano il tipo di cognizione richiesto al
giudice, attinenti alla questione, non quantitativa, della sussistenza dello
stesso diritto al compenso con la necessità di indagini più complesse, per
la prova e la decisione di quelle che permette il rito camerale previsto dall’art. 814 c.p.c. (9). Penso, in conclusione, che meriti adesione l’opinione di
(8) Per BOVE, La giustizia privata, Padova, 2009, 94 ss., il procedimento di cui all’art. 814 c.p.c. non risolve la questione del riparto delle spese e dei compensi tra le parti, né
quella relativa all’an debeatur, perché le parti e gli arbitri potranno sempre instaurare un giudizio ordinario dichiarativo sulla spettanza dei compensi. Esso, tuttavia, definisce la questione della liquidazione, e cioè determina l’ammontare del compenso, se dovuto. CECCHELLA,
La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di MENCHINI, Padova, 2010, 159 ss., ritiene che,
nella stessa prospettiva, l’azione speciale di cui all’art. 814 c.p.c. non escluda comunque
l’esperimento dell’azione ordinaria, anche nelle forme monitorie dell’art. 633 nn. 2 e 3,
c.p.c., con l’uso di notula approvata dal competente ordine (purché la tariffa professionale
contenga il riferimento espresso all’onorario dell’arbitro).
(9) Sul punto non vi è dissenso. Per tutti v. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato,
Padova, 2000, 410 ss.; VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006, 80 ss.; BOVE,
La giustizia privata, Padova, 2009, 94 ss.; CECCHELLA, La nuova disciplina dell’arbitrato, a
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chi, prendendo spunto dal contenuto dell’ordinanza ex art. 814 c.p.c., ne ritiene la natura contenziosa (10).
DANTE GROSSI
cura di MENCHINI, Padova, 2010, 159 ss.; BRIGUGLIO e CAPPONI (a cura di), Commentario alle
riforme del processo civile, Padova, 2009, 653 ss. In giurisprudenza, sulla natura di volontaria giurisdizione del procedimento di cui all’art. 814 c.p.c., v. Trib. Prato 22 marzo 2011 in
www.dejure-giuffre.it. Secondo Cass., 3 luglio 2009, n. 15592 e Cass., 3 luglio 2009, n.
15586, il procedimento è di tipo camerale. Per Cass., 4 marzo 2011, n. 5264 il procedimento
svolge una funzione giurisdizionale non contenziosa: la sentenza utilizza in modo improprio
il termine giurisdizionale, perché ad esso aggiunge che il rito avrebbe natura non contenziosa
e « privatistica », sicché si può intendere che la sentenza lo ritenga di natura volontaria.
(10) Cosı̀ VERDE, Diritto dell’arbitrato, III ed., 2005, 146-147, ivi rif. ult.
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TRIBUNALE DI LIVORNO, sentenza 11 febbraio 2011; PASTORELLI Est.; Trasporti
Internazionali S.r.l. (avv.ti Impellizzeri e Minervini) c. Società Capital Logistic & Transport S.r.l. (avv.ti Menchini e Vincenzini).
Arbitrato - Competenza - Procedimento monitorio - Opposizione - Eccezione
di patto compromissorio - Accoglimento - Rinuncia ad avvalersi di clausola compromissoria - Insussistenza - Natura subordinata della domanda
riconvenzionale - Sussistenza - Revoca del decreto ingiuntivo opposto.
La previsione dell’art. 819-ter, comma 1, c.p.c., secondo cui la mancata proposizione dell’eccezione di patto compromissorio esclude la competenza arbitrale
limitatamente alla controversia decisa in quel giudizio, si applica anche nel caso
in cui fra due parti in lite si instaurino distinti e reciproci giudizi di opposizione a
decreto ingiuntivo. Ciò comporta non la rinuncia ad avvalersi della clausola compromissoria anche in relazione ad altri e diversi giudizi, che per ipotesi possano
sorgere, o siano già sorti, in relazione ad un medesimo contratto, bensı̀, unicamente, che alla convenuta nell’eventuale giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo sia preclusa, nel medesimo giudizio, la proposizione dell’eccezione di arbitrato, avendo essa rinunciato in tale procedimento a sollevarla proponendo ricorso
monitorio. Pertanto, solo la parte opponente è legittimata a far valere la sussistenza della convenzione arbitrale e, dunque, a chiedere la revoca del provvedimento monitorio.
CENNI DI FATTO. — Una società a responsabilità limitata ottiene l’emissione di
un decreto ingiuntivo per crediti derivanti da un rapporto contrattuale nei confronti
di altra società di capitali, essa stessa ricorrente in via monitoria nei suoi confronti
per altro e diverso credito derivante dal medesimo contratto. L’ingiunta propone
opposizione avverso il decreto ingiuntivo, eccependo, in via preliminare, l’incompetenza del Tribunale ordinario e la nullità del decreto opposto stante la sussistenza
di una clausola compromissoria stipulata fra le parti; nel merito, chiede la revoca
del provvedimento monitorio per infondatezza del diritto di credito oggetto di giudizio. La convenuta opposta chiede il rigetto della domanda avversaria e la conferma del provvedimento monitorio opposto, asserendo che l’attrice avrebbe implicitamente rinunciato ad avvalersi del suddetto patto compromissorio per aver introdotto altro procedimento per decreto ingiuntivo fra le medesime parti, contrattuali
e processuali, ma in qualità di creditrice. Entrambe le parti propongono domanda
riconvenzionale.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). — 1. La Trasporti Internazionali S.r.l. ha
proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 952/2009, emesso dal Tribunale di Livorno su ricorso della Società Capital Logistic & Transport S.r.l., chiedendo l’accoglimento delle conclusioni sopra trascritte in epigrafe.
Costituendosi la opposta ha contestato la fondatezza delle avverse eccezioni e
domande ed ha chiesto l’accoglimento delle sopra trascritte conclusioni.
2. Preliminarmente deve essere esaminata la questione relativa alla dedotta
improponibilità del presente giudizio di opposizione. La opposta, alla udienza del
14 ottobre 2010, ha infatti richiamato la pronuncia della Suprema Corte a Sezioni
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Unite n. 19246/2010 eccependo la improponibilità della opposizione per essere
stato l’atto di citazione, in opposizione, notificato il 30 ottobre 2009 e la causa
iscritta a ruolo il 6 novembre 2009.
Tale eccezione è palesemente infondata essendosi la notifica dell’atto di opposizione perfezionata in data 3 novembre 2009, come risulta dalla cartolina postale spedita ex art. 140 c.p.c.; poiché sicuramente il momento di perfezionamento
della notifica per il notificato va individuato in tale momento, alla luce della sentenza n. 3/2010 della Corte Costituzionale, con la conseguenza che il dies a quo per
il computo del termine di iscrizione a ruolo va individuato in tale data.
Del resto della infondatezza di tale eccezione si è resa conto la stessa parte
opposta, tanto che nella comparsa conclusionale non la ha in alcun modo coltivata.
Peraltro quand’anche il dies a quo per calcolare il termine per la tempestiva
iscrizione a ruolo della opposizione dovesse essere calcolato dal 31 ottobre 2009,
data di perfezionamento della notifica per il notificante, ciò tuttavia la opposizione
non potrebbe essere dichiarata inammissibile nonostante che la Suprema Corte, con
pronuncia a Sezioni Unite n. 19264/2010, depositata il 9 settembre 2010 fornendo
una esegesi assolutamente nuova dell’art. 645 c.p.c. abbia affermato che « ... non
solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente
ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del
solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede
che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà »;
Infatti in tal caso, come già più volte ritenuto da questo tribunale, la opponente dovrebbe essere rimessa in termini per proporre opposizione e dunque la opposizione de qua dovrebbe essere considerata tempestiva essendo detta attività già
stata compiuta. Infatti « alla luce del principio costituzionale del giusto processo
(art. 111 Cost), non sembra che l’errore della parte che abbia fatto affıdamento su
una consolidata (al tempo della proposizione della opposizione e della costituzione
in giudizio) giurisprudenza di legittimità sulle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, possa avere
rilevanza preclusiva, sussistendo i presupposti per la rimessione in termini (art.
153 c.p.c. nel testo in vigore dal 4 luglio 2009), alla cui applicazione non osta la
mancanza dell’istanza di parte, essendo conosciuta, per le ragioni evidenziate, la
causa non imputabile (cosı̀, Cass., Sez. II, ordinanze interlocutorie nn. 14627/2010,
15811/2010 depositate 17 giugno 2010 ed il 2 luglio 2010) » (cfr. tra le altre Trib.
Torino, 11 ottobre 2010 in Altalex.it).
Tale esegesi non solo infatti è imposta dal comune sentire cui ripugna che
possa essere sanzionato con la improcedibilità della opposizione il comportamento
dell’opponente che si sia conformato alla regola di diritto dettata dalle norme del
c.p.c., come costantemente interpretate per oltre un cinquantennio dalla Suprema
Corte, ma ciò contrasta anche con i principi del giusto processo, costituzionalizzato
dall’art. 111 Cost, e con i principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che impone la conoscibilità della regola di diritto (da intendersi nella lettura della Corte non solo quale norma di legge astratta ma anche
quale diritto vivente in ragione della sua interpretazione giurisprudenziale) e la ragionevole prevedibilità della sua applicazione (cfr. giurisprudenza della Corte a
partire da Sunday Times c. Regno Unito, sentenza del 29 aprile 1979, §§ 48-49).
3. Ancora in via preliminare deve essere esaminata la eccezione di nullità del
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decreto opposto per la sussistenza di una clausola arbitrale tempestivamente proposta dalla parte opponente nell’atto di citazione in opposizione.
Nel contratto concluso inter partes (cfr. doc. 7 della parte opposta) posto
quale causa petendi della domanda monitoria avanzata dalla opponente si legge:
Clausola Compromissoria: per controversia che dovesse sorgere in ordine all’interpretazione ed attuazione della presente scrittura la decisione sarà demandata
a giudizio insindacabile di un collegio di tre arbitri amichevoli compositori. Il
Collegio sarà composto da un arbitro nominato da ciascuna delle parti in lite e da
un arbitro nominato di comune accordo dagli arbitri di parte come sopra nominato, oppure in caso di disaccordo, su istanza della parte più diligente, dal Presidente del Tribunale di Livorno, che provvederà pure alla nomina dell’arbitro della
parte che non avesse a ciò provveduto nei termini di legge. Gli arbitri giudicheranno senza formalità di procedura e secondo diritto.
Alla luce della sopra trascritta clausola arbitrale la eccezione de qua è fondata.
Conseguentemente deve essere revocato il decreto ingiuntivo opposto e dichiarata
la competenza del collegio arbitrale previsto dalla sopra trascritta clausola del contratto concluso inter partes.
Infatti se è vero che la presenza di una clausola compromissoria non esclude
la possibilità di introdurre la domanda con ricorso per decreto ingiuntivo, né osta
all’adozione di tale provvedimento, tuttavia resta ferma la facoltà dell’intimato di
chiedere ed ottenere la revoca del decreto ingiuntivo qualora venga eccepita (come
avvenuto nel caso di specie) la incompetenza dell’ufficio giudiziario adito stante la
presenza di clausola compromissoria (cfr. tra le altre 28 luglio 1999 n. 8166; Cass.,
9 luglio 1989, n. 3246; Trib. Roma, 18 aprile 1994, in Gius, 1994, fasc. 12, 202).
L’esistenza di una clausola compromissoria non esclude la competenza del giudice
ordinario ad emettere un decreto ingiuntivo (atteso che la disciplina del procedimento arbitrale non contempla l’emissione di provvedimenti inaudita altera parte),
ma impone a quest’ultimo, in caso di successiva opposizione fondata sull’esistenza
della detta clausola, la declaratoria di nullità del decreto opposto e la contestuale
remissione della controversia al giudizio degli arbitri (cfr. da ultimo nella giurisprudenza di merito Trib. Modena sentenza n. 272 del 19 febbraio 2010).
Ne può dirsi, come invece sostenuto in comparsa conclusionale dalla parte
opposta, che la odierna opponente avesse rinunciato ad avvalersi della clausola
compromissoria sopra trascritta. Il fatto che la stessa Trasporti Internazionali S.r.l.
abbia chiesto, con ricorso depositato innanzi al Tribunale di Bologna il 23 settembre 2009, la emissione di decreto ingiuntivo per il pagamento di somme asseritamente dovute in relazione al contratto concluso inter partes, contenente la trascritta
clausola compromissoria non comporta la rinuncia implicita di tale parte ad avvalersi della clausola compromissoria anche in relazione ad altri e diversi giudizi,
quale quello di specie, che per ipotesi possano sorgere in relazione a tale contratto,
comportando, unicamente, che la stessa non possa nell’eventuale giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso sul suo ricorso sollevare la eccezione di arbitrato, avendo essa rinunciato in tale giudizio a sollevarla proponendo ricorso monitorio, nel quale soltanto la parte opponente può, ove lo voglia, far valere la sussistenza della clausola arbitrale e dunque chiedere la revoca del provvedimento
monitorio.
Infatti se la proposizione di un ricorso monitorio è comportamento incompatibile con la volontà di avvalersi della clausola compromissoria nell’eventuale giu377
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dizio di opposizione introdotto dalla controparte, che non abbia eccepito la sussistenza della clausola arbitrale, invece detto comportamento non è affatto incompatibile con la volontà di avvalersi della clausola compromissoria in un diverso giudizio introdotto dall’altra parte contrattuale, soprattutto se si considera che la richiesta di emissione di decreto ingiuntivo non può essere avanzata agli arbitri e che
dunque la proposizione di una domanda monitoria non è espressione inequivoca
della volontà di rinunciare, anche in riferimento a diversi giudizi, a far valere la
competenza arbitrale.
Conferma di ciò, e cioè che il comportamento tenuto da una parte in un giudizio, introducendo una domanda innanzi al giudice ordinario o non eccependo la
sussistenza di una clausola arbitrale, non comporta il venir meno del potere degli
arbitri di pronunciarsi su qualunque controversia che eventualmente dovesse sorgere tra le parti in relazione al contratto contenente la clausola arbitrale, non implicando una rinuncia implicita ad avvalersi, per sempre, di detta clausola si trova
nell’art. 819-ter comma 1 ultima parte che recita: « la mancata proposizione dell’eccezione esclude la competenza arbitrale limitatamente alla controversia decisa
in quel giudizio ».
Né può dirsi che la opponente abbia rinunciato alla clausola arbitrale per avere
proposto domanda riconvenzionale. Infatti la domanda riconvenzionale svolta da
parte attrice opponente ha necessariamente natura subordinata al mancato accoglimento dell’eccezione di arbitrato; in tal senso vedasi la sentenza della Suprema
Corte n. 12475 del 7 luglio 2004, che in motivazione ha chiarito: « Una volta, infatti, che il convenuto, nel resistere alla domanda attorea, abbia sollevato in via
principale l’eccezione di compromesso — id est abbia dedotto una clausola contrattuale per la quale il procedimento arbitrale si pone come ontologicamente alternativo alla giurisdizione statuale in ragione del consenso delle parti, la devoluzione della controversia in arbitri si configuri quale rinunzia all’azione giudiziaria
ed alla giurisdizione dello Stato e, correlativamente, si ponga quale patto di deroga
alla giurisdizione onde pervenire ad una soluzione della controversia sul piano
privatistico secondo il dictum di soggetti privati — l’eventuale domanda riconvenzionale ch’egli contestualmente proponga ha necessariamente natura subordinata
al mancato accoglimento dell’eccezione che, ove invece accolta, preclude ab origine la cognizione cosı̀ della domanda principale come della stessa riconvenzionale ».
4. In applicazione del principio stabilito dall’art. 91 c.p.c. la parte opposta va
condannata al rimborso delle spese processuali. Non sussistono infatti giusti motivi
di compensazione delle spese ex art. 92 c.p.c., avendo la opponente insistito nella
propria domanda, introdotta in via monitoria, pur a fronte della eccezione di competenza arbitrale tempestivamente proposta da parte opponente.
I controversi rapporti fra arbitrato e opposizione a decreto ingiuntivo.
1. Attraverso la sentenza in commento la giurisprudenza di merito
torna ad affrontare la questione, tutt’altro che pacifica, dell’interpretazione
dell’art. 819-ter, comma 1, c.p.c., per ciò che attiene la mancata proposizione dell’eccezione di patto compromissorio (nel caso di specie, di con378
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venzione arbitrale), nonché gli effetti che una simile omissione può avere
in un separato giudizio, tra le stesse parti, scaturente da un medesimo contratto.
In particolare, con la sua pronuncia il Giudice livornese approfondisce tre diverse questioni: in primis, si interroga sulla ben nota problematica
relativa alla proponibilità di un giudizio per emissione di decreto ingiuntivo
e della successiva fase di opposizione, in presenza di una clausola compromissoria; quindi, indaga sulla portata « in senso orizzontale » della convenzione arbitrale ove sorgano, fra le medesime parti contrattuali e processuali,
controversie plurime e differenti fra loro e si rinvenga una rinuncia all’arbitrato; infine, analizza i rapporti sussistenti fra l’eccezione di patto compromissorio e la proposizione, in via più o meno subordinata, di una domanda riconvenzionale.
Su ciascuno dei temi appena indicati si rendono opportune talune riflessioni.
Inoltre, seppure non sollevata esplicitamente nella sentenza in commento, tratteremo la questione del contrasto fra giudicati nei rapporti contrattuali che, come quello di specie, sono caratterizzati dalla corrispettività
delle prestazioni.
2. Seguendo l’ordine di trattazione offertoci dalla sentenza in esame,
ci occuperemo, innanzi tutto, della questione dei rapporti fra procedimento
monitorio, e sua conseguente fase di opposizione, e convenzione arbitrale,
il tutto alla luce dell’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale.
La questione è stata affrontata in molteplici occasioni dalla giurisprudenza di legittimità, chiamata a valutare se, in presenza di clausola compromissoria, vi sia la possibilità di azionare un credito mediante emissione
di decreto ingiuntivo o se, viceversa, l’instaurazione del procedimento monitorio, necessariamente innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria, sia preclusa per avere, le parti, concordemente deciso di devolvere qualunque
controversia tra loro insorta al giudizio degli arbitri.
La soluzione al quesito non può prescindere dall’analisi della struttura
del procedimento arbitrale, o, meglio, dall’individuazione dei limiti della
cognizione arbitrale. Agli arbitri, infatti, possono essere devolute le controversie aventi ad oggetto diritti disponibili che seguano il rito c.d. « di cognizione ordinaria »: un simile principio è esplicitato nell’art. 818 c.p.c.,
laddove si vieta agli arbitri di concedere provvedimenti cautelari, ma può
ben ritenersi applicabile, in via analogica, a tutti i procedimenti speciali di
cui al Libro IV c.p.c. e, dunque, anche a quel peculiare rito sommario di
cui agli artt. 633 c.p.c., che si conclude con l’emissione di un decreto ingiuntivo. Pertanto, le parti che stipulano una convenzione arbitrale sono
ben consapevoli che, per il solo fatto di essersi obbligate a far decidere da
arbitri le controversie fra loro insorte o insorgende, esse hanno in qualche
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modo rinunciato ad avvalersi della tutela monitoria o, per meglio dire,
hanno accettato di privarsi della suddetta forma di tutela.
Si è tuttavia obiettato che, ove si vietasse all’interessato di ricorrere
ex artt. 633 ss. c.p.c. a causa della stipula di un patto compromissorio, si
verrebbe a creare un vuoto di tutela incolmabile, dato che il « potenziale »
ricorrente in via monitoria, obbligato a seguire la via arbitrale, non avrebbe
modo di far valere il proprio diritto di credito attraverso il celere procedimento per decreto ingiuntivo, instaurabile esclusivamente innanzi alla giurisdizione ordinaria (1). La giurisprudenza, sia di merito (2) sia, soprattutto,
di legittimità, si è consolidata nell’asserire che non vi è incompatibilità fra
il procedimento monitorio per ingiunzione e quello arbitrale, posto che « la
disciplina di quest’ultimo non contempla l’emissione di provvedimenti
inaudita altera parte » (3). È proprio da questa mancanza di contraddittorio, caratterizzante il procedimento monitorio, che deriva, a nostro avviso,
la validità del decreto ingiuntivo emesso nonostante la convenzione arbitrale: infatti, sebbene la clausola compromissoria sia di per sé preclusiva
della possibilità di rivolgersi al giudice ordinario per avere tutela (a cognizione sia piena sia sommaria), è la natura stessa del rito monitorio, che si
caratterizza per essere inaudita altera parte, a privare il debitore ingiunto
dalla possibilità di sollevare l’eccezione (in senso stretto) di convenzione
arbitrale, con conseguente validità del decreto ingiuntivo emesso.
Tale ammissibilità è da considerarsi però limitata alla sola fase sommaria del procedimento di ingiunzione. Come è noto, infatti, qualora l’ingiunto abbia interesse ad opporsi al decreto emesso dall’autorità giudiziaria, egli potrà ben rivolgersi a quest’ultima instaurando un nuovo giudizio,
non più sommario bensı̀ di cognizione ordinaria e cosı̀ caratterizzato dal
principio del contraddittorio, che consentirà all’opponente di eccepire anche l’incompetenza del giudice adito a causa della avvenuta stipula di un
patto compromissorio. In altri termini, come chiarito da autorevole dottrina,
a tale conclusione si giunge attraverso due premesse, date dalla mancata
previsione per gli arbitri del potere di emanare decreti ingiuntivi e dalla
circostanza che la clausola compromissoria, prevedendo una deroga convenzionale alla cognizione dei giudici ordinari, spiega i suoi effetti all’interno del medesimo ambito giurisdizionale, cosı̀ regolando la risoluzione di
(1) Parimenti può dirsi per l’emissione di provvedimenti cautelari (artt. 669-bis ss.
c.p.c.) e per il procedimento di convalida di sfratto (artt. 675 ss. c.p.c.).
(2) Trib. Torino, Sez. III civ., 9 gennaio 2008, n. 165, in Lex 24 - Banca Dati; Trib.
Modena, Sez. I civ., 22 febbraio 2008, in www.iuraemilia.it; Trib. Monza, Sez. II civ., 3 settembre 2008, n. 2265, in Lex 24 - Banca Dati; Trib. Trento, 20 gennaio 2010, n. 49, in Il
Sole 24 Ore — Il Merito, 2010.
(3) Cass, Sez. I civ., 28 luglio 1999, n. 8166. In epoca più risalente, Cass., Sez. III
civ., 18 febbraio 1963, n. 365.
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una questione di competenza, peraltro di carattere derogabile (4) e, dunque,
riconducibile all’alveo delle eccezioni in senso proprio, cioè rilevabili solo
dalla parte e mai d’ufficio (5). È per quest’ultimo motivo che il Giudice,
seppur avvedutosi dell’esistenza della clausola compromissoria, non è tenuto ad astenersi dall’emissione del decreto ingiuntivo.
È proprio in riferimento al procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo che si pongono le principali questioni di compatibilità rispetto alla
sussistenza di una convenzione arbitrale. Al debitore ingiunto (attore opponente) si prospettano infatti due distinte opzioni.
In prima ipotesi, egli può rinunciare a far valere, nei limiti di legge,
l’eccezione di patto compromissorio, alla quale l’art. 819-ter, comma 1,
c.p.c. applica analogicamente la disciplina dell’eccezione di competenza
per territorio derogabile, imponendone la proposizione, a pena di decadenza, solo su istanza di parte nella comparsa di costituzione e risposta (6).
Ove ciò si verifichi, nulla quaestio: il giudizio di opposizione è e resterà
incardinato innanzi al giudice ordinario, e, in ragione della preclusione di
cui all’art. 819-ter c.p.c., non potrà essere riproposta l’eccezione di patto
compromissorio.
Si valuti, però, anche l’ipotesi inversa, ossia il caso in cui il debitore
proponga opposizione al decreto ingiuntivo e, nel farlo, sollevi l’eccezione
di convenzione arbitrale: è da chiedersi se la controversia debba restare incardinata innanzi al giudice ordinario, adito ex art. 645 c.p.c., o se, invece,
essa avrebbe dovuto, ab origine, essere instaurata di fronte all’arbitro,
unico o collegiale. Per dare risposta ad un simile interrogativo occorre analizzarlo attraverso i principi generali del processo civile e, in particolare,
alla luce dei c.d. presupposti processuali generali, ai quali il procedimento
sommario monitorio è comunque soggetto (7). Fra i presupposti processuali
rientra, come è noto, la competenza, nei cui termini si atteggiano, secondo
l’opinione prevalente, i rapporti fra arbitri e giudici. Pertanto, se con l’opposizione si contesta la sussistenza di tale presupposto processuale generale, in ragione della stipula di una clausola compromissoria con l’opposto,
il giudice dell’opposizione dovrà verificare, preliminarmente, l’esistenza e
la validità della convenzione arbitrale e, una volta riscontratele, dichiarare
la propria incompetenza attraverso una sentenza di rito di accoglimento
(4) Ad una simile conclusione si giunge in forza della natura di « contratto processuale » del patto compromissorio; v. PICOZZA, In tema di eccezione di compromesso, Nota a
Trib. Sciacca, 17 gennaio 2005, n. 9, in questa Rivista, 2006, 2, 339 ss.
(5) STORTO, La giurisdizione e la competenza, in CAPPONI (opera diretta da), Il procedimento d’ingiunzione, Torino, 2005, 189 s.
(6) Sui rapporti fra le due eccezioni, v. BOVE, Sul regime dell’eccezione di patto
compromissorio rituale, in questa Rivista, 2004, 2, 255 s.
(7) LUISO, Diritto processuale civile, vol. IV, Milano, 2011, 149.
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dell’opposizione (8). Con una simile pronuncia (in rito, lo si ribadisce), il
giudice non si preoccupa affatto di accertare il modo di essere del diritto
sostanziale, che potrà ben essere fatto valere ex novo nelle opportune sedi
arbitrali.
Resta infine da valutare quale sorte spetti al decreto ingiuntivo.
Se la parte non ha eccepito alcunché quanto all’esistenza di una clausola compromissoria, il decreto ingiuntivo resterà validamente emesso e ciò
non perché la clausola compromissoria ha perso di efficacia, bensı̀ per non
avere, la parte, sollevato l’eccezione (in senso stretto) di convenzione arbitrale. Se, invece, la suddetta eccezione viene proposta dall’opponente e accolta, essa precluderà l’esame nel merito e, a fortiori, « travolgerà » la fase
monitoria.
Mi spiego meglio. Si è già detto come la sentenza di accoglimento in
rito dell’opposizione venga pronunciata in seguito all’accertamento giudiziale della carenza di uno o più presupposti processuali generali (nella specie, la competenza), carenza che preclude qualsivoglia decisione nel merito;
il decreto ingiuntivo, invece, per sua stessa natura è un provvedimento di
merito, che si emette una volta verificata la fondatezza del credito azionato.
Se, però, interviene successivamente una pronuncia (quale è, appunto,
quella di rigetto in rito dell’opposizione) con la quale si statuisce che non
si può pronunciare nel merito per i motivi anzidetti, essa « accerta automaticamente l’invalidità del decreto ingiuntivo e quindi ad esso si sovrappone » (9).
La soluzione sopra descritta, secondo la quale la declaratoria dell’invalidità del decreto ingiuntivo opposto è conseguenza naturale e inevitabile
dell’accoglimento dell’eccezione di convenzione arbitrale, appare ancor più
condivisibile ove si supponga, per assurdo, di aderire all’opposto e minoritario orientamento, secondo cui l’incompetenza a decidere del giudizio di
opposizione non dovrebbe « travolgere » anche il provvedimento monitorio, correttamente emesso ab origine dall’unico Giudice a ciò designato.
Ciò darebbe luogo a non poche problematiche. Innanzi tutto, nel permanere
della validità del decreto ingiuntivo, quale autorità giudicante sarebbe chiamata a pronunciarsi circa la concessione o la sospensione dell’efficacia
esecutiva del suddetto provvedimento? E ancora, considerata l’incompetenza dell’autorità giurisdizionale a conoscere e decidere il merito della
controversia, potrebbe il giudizio di opposizione svolgersi innanzi agli arbitri? E dunque, più in generale, sarebbero concessi al giudice ordinario
(8) Giova richiamare, sul punto, la distinzione proposta da Trib. Modena, 22 febbraio 2008, cit., nell’accoglimento dell’eccezione di patto compromissorio per arbitrato rituale: a parità di declaratoria di nullità del decreto opposto, in caso di arbitrato rituale avremo
la contestuale rimessione della controversia al giudizio degli arbitri, mentre per l’arbitrato irrituale la domanda sarà dichiarata improcedibile.
(9) LUISO, op. cit., 150.
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poteri (e, se sı̀, di quale natura) per incidere sui provvedimenti arbitrali e
viceversa? A tali interrogativi, alla luce dei principi del nostro ordinamento
processuale, non si è in grado di dare risposta.
Si potrebbe, forse, al massimo, ipotizzare di « scindere » le due fasi,
giudizio monitorio e di opposizione, per ritenere rispettivamente competenti il Tribunale e gli arbitri, i quali potrebbero sı̀ decidere il merito della
controversia, ma non per questo anche invalidare il decreto ingiuntivo,
provvedimento tipicamente giurisdizionale sulla cui efficacia l’arbitro non
ha potere di incidere in alcun modo. Trattasi, come ben si comprende, di
una soluzione che non convince, né fornisce risposte concrete ai quesiti sopra enunciati, ma, anzi, rivela la fallacia di un sistema cosı̀ astrattamente
concepito.
Pertanto, aderendo alla impostazione maggioritaria, nel caso in esame
il Giudice livornese ha correttamente revocato il decreto ingiuntivo opposto, in ragione della sua dichiarata incompetenza a conoscere delle domande proposte nel giudizio di opposizione, per essere invece competente
il collegio arbitrale.
3. Un’ulteriore tematica affrontata nella sentenza in commento è
quella relativa alla portata « in senso orizzontale » della clausola compromissoria.
Tornando, per maggiore chiarezza, alla fattispecie in commento, la
convenuta opposta sosteneva che l’attrice opponente avesse rinunciato ad
avvalersi della clausola compromissoria già oggetto di pattuizione, inter
partes, poiché ella aveva a sua volta ottenuto l’emissione di decreto ingiuntivo nei confronti dell’odierna opposta per altro credito scaturente dal medesimo vincolo contrattuale. Il tutto, con un’« inversione » dei ruoli processuali e sostanziali, avente come unico elemento comune il contratto stipulato fra le parti, contenente il patto compromissorio.
Il Giudice è stato quindi chiamato a pronunciarsi sulla configurabilità
o meno di una rinuncia all’arbitrato per la sola instaurazione di procedimenti distinti, seppure aventi a fondamento il medesimo vincolo contrattuale. In altri termini: può, l’aver instaurato un procedimento di ingiunzione, costituire un fatto concludente ai fini della rinuncia ad avvalersi della
clausola compromissoria in un’altra lite, sempre fra le medesime parti sostanziali e processuali?
Occorre premettere che, come verosimilmente affermato da taluni Autori (10), le questioni inerenti l’eccezione di compromesso (11) presuppon-
(10) PICOZZA, In tema di eccezione di compromesso, Nota a Trib. Sciacca, 17 gennaio
2005, n. 9, in questa Rivista, 2006, 2, 339 ss.
(11) Non è certo questa la sede per indagare sull’acceso dibattito relativo alla natura,
di rito piuttosto che di merito, dell’eccezione di patto compromissorio. Fra i sostenitori della
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gono risolto il problema del rapporto intercorrente tra giudici e arbitri, che,
a sua volta, ha a monte la quaestio iuris relativa alla natura, contrattuale o
giurisdizionale, dell’istituto arbitrale. Quest’ultimo esercita la sua tipica
funzione di risoluzione della lite atteggiandosi non a perfetto sostituto dell’attività giudiziale (mancando, fra i due, una perfetta fungibilità) né a surrogato della medesima (presupponendo, tale concetto, un’insita inferiorità
dell’uno rispetto all’altra); piuttosto, l’arbitrato si configura come alternativo alla giurisdizione, « voltando radicalmente le spalle agli strumenti giudiziari » (12).
Muovendo da questa ricostruzione, che appare pacifica, è quindi da
chiedersi se, da un lato, la mancata proposizione dell’exceptio compromissi
e, dall’altro, l’instaurazione di un procedimento giurisdizionale comportino
una rinuncia alla tutela arbitrale.
Innanzi tutto, vi è chi esclude che il non aver proposto l’eccezione in
oggetto comporti la « rinuncia tacita » alla via arbitrale e la relativa perdita
di efficacia della clausola compromissoria, dato che le rinunce non possono
presumersi, ma devono essere sempre formulate espressamente; gli unici
effetti derivanti dalla mancata eccezione de qua sarebbero, perciò, di natura
processuale. Il giudice ordinario, cioè, potrebbe validamente emettere il suo
provvedimento in via parallela e cumulativa rispetto agli arbitri, la cui cognizione non verrebbe meno (13).
D’altro canto, un cospicuo filone giurisprudenziale e dottrinale sostiene che l’azione proposta innanzi alla giurisdizione ordinaria, nonostante
la stipula di una convenzione arbitrale, manifesti una volontà di rinuncia
della parte attrice ad avvalersi dell’arbitrato: dunque, la via arbitrale po-
prima impostazione, v. VERDE, Bastava solo inserire una norma sui rapporti fra giudici e arbitri, in Il Sole 24 Ore - Guida al Diritto, 2006, 8, 81 ss. In giurisprudenza, Cass., Sez. II
civ., 11 marzo 1997, n. 2175, con nota di D’ALESSANDRO, Eccezione di patto compromissorio
e vecchie questioni in materia di arbitrato rituale, in questa Rivista, 1997, 3, 574 ss.; Trib.
Perugia 14 novembre 2008, in Lex 24 - Banca Dati. Di opposte vedute, qualificano l’eccezione di compromesso fra quelle attinenti al merito della controversia NICOTINA, Eccezione di
compromesso e azione giudiziale, Nota a Trib. Messina, 5 ottobre 1982, in Giust. civ., 1983,
1635 ss.; FUSILLO, Relatio perfecta, obbligatorietà dell’arbitrato e natura dell’eccezione di
compromesso, Nota a Cass., Sez. I civ., 28 agosto 2000, n. 11218, in questa Rivista, 2001, 4,
693 ss.; GARUFI, L’eccezione di arbitrato nel rito civile — Come la Suprema corte mutò un
atavico orientamento, Nota a Cass., Sez. I civ., 30 dicembre 2003, n. 19865, in D&G., 2004,
5, 48 s. In giurisprudenza, ex multis, Cass., Sez. un., 25 giugno 2002, n. 9289; Cass., Sez. I
civ., 4 giugno 2003, n. 8910; Cass., Sez. I civ., 30 dicembre 2003, n. 9865; Cass., Sez. I civ.,
ord. 20 maggio 2008, n. 12814; Trib. Pavia, Sez. I civ., 26 gennaio 2009, n. 61, in Lex 24 Banca Dati.
(12) PICOZZA, op. cit., 344.
(13) Coll. arb. 30 novembre 2003 (Lucca), con nota di MARENGO, Conseguenze della
omissione dell’exceptio compromissi, in questa Rivista, 1994, 2, 343 ss. L’Autore connota la
rinuncia espressa al patto compromissorio di un particolare rigore formale: essa « deve rivestire la medesima forma scritta (ad substantiam) richiesta per quest’ultimo »; ibidem, 345.
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trebbe essere esclusa per semplice fatto concludente, con evidente favore
per la giurisdizione ordinaria e preclusione, per la parte convenuta in tale
altra lite, di far valere successivamente l’eccezione di compromesso (14).
Questo principio sarebbe applicabile anche nell’ipotesi in cui si agisca nelle
forme del ricorso per decreto ingiuntivo (15), quale è, appunto, il caso oggetto della sentenza in commento.
Il problema, di più agevole soluzione qualora fra le parti sorga
un’unica controversia, si complica nel caso in cui fra i medesimi soggetti
sorgano molteplici liti, tutte rientranti nella portata della convenzione di arbitrato, ma « a parti invertite », ossia qualora il creditore ricorrente in via
monitoria in un determinato procedimento sia a sua volta debitore resistente
in una diversa lite. Il Tribunale di Livorno, scegliendo di aderire al secondo
fra i due orientamenti sopra descritti, ha innanzi tutto ribadito che la rinuncia alla clausola compromissoria può manifestarsi sia espressamente sia
implicitamente. Ha quindi sostenuto che l’instaurazione di un procedimento
giurisdizionale, anche nelle forme dell’ingiunzione (quale è, appunto, il
caso di specie), comporta una rinuncia (tacita) ad avvalersi della convenzione arbitrale poiché trattasi di un comportamento incompatibile con la
volontà di avvalersi della clausola compromissoria, ma ciò, ed ecco il nodo
cruciale della questione, solo nell’eventuale giudizio di opposizione introdotto dalla controparte e non anche relativamente ad altri e diversi giudizi
sorti in riferimento allo stesso contratto.
Nel tentativo di ricostruire la ratio ispiratrice del giudicante, può soccorrere la lettera dell’art. 819-ter, comma 1, ultimo periodo, c.p.c., ai sensi
del quale « la mancata proposizione dell’eccezione esclude la competenza
arbitrale limitatamente alla controversia decisa in quel giudizio ». Sembra,
in sostanza, di avere una sorta di perfetta autonomia da un punto di vista
procedimentale fra le molteplici controversie originate da un identico contratto, senza che le vicende processuali (ma anche sostanziali) dell’una vadano in alcun modo ad interferire con quelle delle altre.
Tale principio di diritto, dettato in tema di omissione dell’exceptio
compromissi, può trovare applicazione anche nell’ipotesi di rinuncia alla
via arbitrale: se cosı̀ non fosse, il solo fatto di aver rinunciato al patto compromissorio in una singola occasione e per i motivi più disparati creerebbe
un legame perenne fra l’autore di tale decisione ed il conseguente venir
meno della tutela arbitrale (soluzione, peraltro, di dubbia compatibilità con
(14) LONGO, Eccezione di compromesso per arbitrato irrituale nel giudizio ordinario,
Nota a Cass., Sez. II civ., 29 gennaio 1993, n. 1142, in questa Rivista, 1993, 4, 632 ss.
(15) Cass., Sez. II civ., 29 gennaio 1993, n. 1142. I principi di diritto dettati nella
suddetta pronuncia, seppur in materia di arbitrato irrituale, possono trovare una valida applicazione anche per i giudizi arbitrali di tipo rituale, considerata l’unitarietà del fenomeno arbitrale rispetto alla problematica in esame.
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l’art. 24 Cost.), con una vera e propria, inaccettabile, paralisi della suddetta
forma di ADR.
Sul punto ha preso esplicita posizione anche taluna giurisprudenza di
merito, sebbene la controversia sottoposta al suo esame differisse in parte
da quella oggetto della pronuncia in commento. In particolare, è stato sostenuto che, seppure in un precedente giudizio « la stessa odierna convenuta non avesse obiettato sul compromesso, non per questo può condividersi che quella rinuncia valga anche nel presente giudizio, poiché la adesione alla giurisdizione pubblica anziché a quella arbitrale deve essere rinnovata ogni volta, a seconda delle domande svolte » (16).
Se la ricostruzione sopra delineata appare in linea di massima condivisibile, non si può tuttavia trascurare la problematica del contrasto fra giudicati derivanti dalle due pronunce, l’una arbitrale (da emettere in seguito
alla declaratoria di incompetenza del Tribunale di Livorno) e l’altra giurisdizionale, nelle forme del decreto ingiuntivo (17) emesso in seguito al distinto ricorso della parte opponente nel procedimento in commento. Si è già
detto, infatti, come entrambe le suddette controversie abbiano tratto origine
dal medesimo rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive, nell’ambito
del quale ciascuna parte aveva fatto valere, nel rispettivo giudizio, le proprie pretese creditorie.
Preliminarmente, è opportuno richiamare i due principi che caratterizzano l’essenza del giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c., cioè l’attitudine a
coprire il dedotto e il deducibile e la sua prevalenza rispetto allo ius superveniens retroattivo. Pertanto, « il risultato del primo processo non potrà essere rimesso in discussione e peggio diminuito o disconosciuto attraverso
la deduzione in un secondo giudizio di questioni [...] rilevanti ai fini dell’oggetto del primo giudicato e che sono state proposte (dedotto) o si sarebbero potute proporre (deducibile) nel corso del primo giudizio » (18). Si
aggiunga, inoltre, che l’ambito oggettivo del giudicato si identifica nell’oggetto del processo, a sua volta costituito dalla situazione giuridica soggettiva affermata dall’attore con la domanda introduttiva (19).
Nel caso di specie, la questione si fa però più complicata in quanto fra
le parti intercorre un rapporto giuridico complesso: infatti, le pretese fatte
valere da ciascuna di loro nei due separati giudizi si inseriscono in un rapporto giuridico più ampio, che si pone rispetto alle singole pretese come
(16) Trib. Milano, Sez. VIII civ., 28 marzo 2007, n. 3883, in Lex 24 - Banca Dati.
(17) Sull’idoneità del decreto ingiuntivo non opposto ad acquisire efficacia di giudicato, acquisendo, per l’effetto, la sostanza di una sentenza di condanna, v. Cass., Sez. II civ.,
12 maggio 2003, n. 7272. In tal senso è anche la dottrina pressoché unanime; per una disamina delle opinioni difformi, v. PROTO PISANI, Appunti sul giudicato civile e sui limiti oggettivi, in Riv. dir. proc., 1990, 411 s.
(18) PROTO PISANI, op. cit., 391.
(19) MENCHINI, I limiti oggettivi del giudicato, Milano, 1987, 45.
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mero fatto costitutivo da cui deriva il diritto di volta in volta fatto valere (20). Il problema è dunque il seguente: il giudicato si forma solo sulla
singola pretesa dedotta in giudizio (e al relativo obbligo) oppure si estende
al rapporto giuridico nel suo complesso?
La questione è di non scarsa rilevanza. Supponiamo di aderire alla
teoria per cui il giudicato si forma solo sulla domanda dell’attore, limitandosi alla singola pretesa oggetto del giudizio: cosı̀ facendo, si rischierebbe
di dare luogo a giudicati fra loro contraddittori, con una inevitabile lesione
del principio del giudicato sostanziale. Vale a dire che, nel caso di specie,
l’una società potrebbe vedere accertato, in un giudizio, il diritto al pagamento delle somme richieste e, viceversa, essere condannata a sua volta all’esito del processo avanzato, dalla controparte, sulla base del medesimo
rapporto contrattuale.
Non resta, dunque, che condividere la teoria per cui « quanto meno
nell’ipotesi di rapporti a prestazioni corrispettive (e di diritti contrapposti
incompatibili derivanti dallo stesso fatto storico), l’oggetto del processo e
del giudicato non è costituito solo dal diritto dedotto in giudizio dell’attore
ma anche dall’intero rapporto contrattuale (la rilevanza giuridica del contratto) su cui si fonda la prestazione chiesta dall’attore sia la controprestazione che spetta al convenuto » (21).
Cosı̀ delineata, la questione appare risolta. Invero, non può dimenticarsi che nella fattispecie in oggetto i due giudicati si formano l’uno su di
una pronuncia giudiziale e l’altro sul lodo arbitrale. Come conciliare i principi sinora esposti con questa ulteriore criticità? Analizziamo le due differenti ipotesi. Ove i due procedimenti siano contestualmente pendenti nel
merito e il giudizio ordinario raggiunga per primo il giudicato, l’arbitro non
potrà emettere una decisione in contrasto con esso: prevarrà, dunque, la
statuizione del giudice ordinario, idonea a fare stato fra le parti anche in
ordine al rapporto giuridico logicamente pregiudiziale. Ad analoghe conclusioni dovrebbe giungersi qualora sia la decisione arbitrale (rituale) ad acquisire per prima efficacia di giudicato. Infatti, riconoscendo al lodo la me-
(20) Ibidem, 83.
(21) PROTO PISANI, op. cit., 397. L’Autore riprende la teoria già di MENCHINI, op. cit.,
107 ss., che esclude l’applicabilità dell’art. 34 c.p.c. alle questioni pregiudiziali di tipo logico:
pertanto, non sarebbe necessaria un’esplicita domanda di parte o previsione di legge per consentire l’estensione del giudicato al diritto o al rapporto pregiudiziale che si configura come
elemento costitutivo del diritto fatto valere in giudizio. In giurisprudenza, ex multis, Cass.,
Sez. un., 14 giugno 1995, n. 6689. In senso parzialmente difforme, in dottrina, CONSOLO, Oggetto del giudicati e principio dispositivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, 233 ss, che
esclude un coinvolgimento « meccanicistico » e assoluto, nell’oggetto dell’accertamento stimolato dalla deduzione in giudizio del singolo effetto, del rapporto fondamentale da cui scaturisce una serie di altri effetti.
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desima attitudine di res iudicata sostanziale (22) che è propria della sentenza, il giudice non potrebbe né dovrebbe emettere alcuna pronuncia in
contrasto con quanto già deciso dall’arbitro. Non mancano, tuttavia, autorevoli opinioni dottrinali di segno opposto, a detta delle quali, nel caso in
cui sia la decisione arbitrale ad acquisire per prima efficacia di giudicato, il
giudice ordinario potrà comunque pronunciarsi, stante il mancato coordinamento fra i due processi e considerata altresı̀ l’assenza, per il giudice ordinario, di una norma che gli vieta di emettere una pronuncia in contrasto con
quella arbitrale (23); con l’ulteriore inconveniente che potranno aversi due
giudicati contrastanti proprio in ordine al rapporto sinallagmatico logicamente pregiudiziale.
4. Nella pronuncia in esame si affronta altresı̀ l’ulteriore problematica inerente la legittimazione a sollevare l’exceptio compromissi. In particolare, ci si è chiesti se solo all’attore opponente spetti la facoltà di proporre tale eccezione o se, viceversa, anche il convenuto opposto, ricorrente
in via monitoria, possa validamente avanzare l’eccezione de qua.
Il Giudice livornese aderisce alla prima impostazione, affermando
esplicitamente che soltanto l’attrice opponente « può, ove lo voglia, far valere la sussistenza della clausola arbitrale e, dunque, chiedere la revoca del
provvedimento monitorio ». Infatti, la convenuta opposta, ricorrendo per
ottenere l’emissione di un decreto ingiuntivo, ha già manifestato la volontà
di rinunciare ad avvalersi della clausola compromissoria, cosı̀ da cadere in
contraddizione laddove eccepisca l’improcedibilità dell’opposizione in ragione della scelta di ADR effettuata a monte dalle parti; pertanto, l’opposto
(convenuto in senso formale, ma attore in via sostanziale) non potrebbe
sollevare l’eccezione di arbitrato (24), neppure appellandosi al legittimo
esercizio di una sorta di ius poenitendi (25). Sembra, cioè, che quest’ultimo
soggetto si trovi di fronte ad una scelta irrevocabile: rispettare sin dall’origine la scelta per l’arbitrato, già posta in essere in via convenzionale, oppure optare definitivamente per la tutela giurisdizionale, che, appunto, è ad
essa alternativa.
Una simile conclusione non è del tutto condivisibile. Essa, infatti, disattende la circostanza per cui la richiesta di emissione di decreto ingiuntivo non può essere avanzata agli arbitri, venendosi cosı̀ a creare una scelta
(22) Ex multis, D’ALESSANDRO, Art. 824-bis, in BRIGUGLIO - CAPPONI (a cura di), Commentario alle riforme del processo civile, vol. III, Padova, 2009, 966 ss.
(23) RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato. Disciplina comune e regimi speciali, Padova, 2010, 70 s.
(24) In senso conforme, Cass., Sez. I civ., 29 gennaio 1993, n. 1142.
(25) Espressione che si deve a BRUNELLI, Provvedimento di ingiunzione e arbitrato:
alcune questioni vecchie e nuove, Nota a Cass., Sez. I civ., 29 gennaio 1993, n. 1142, in questa Rivista, 1994, 1, 91 ss.
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obbligata per la giurisdizione ordinaria. Ciò non dovrebbe, quindi, condurre
ad asserire che la proposizione del ricorso monitorio comporti in re ipsa la
rinuncia della parte ricorrente ad avvalersi della clausola compromissoria
nel giudizio di opposizione introdotto dalla controparte: cosı̀, infatti, non si
tiene conto delle intrinseche differenze, dal punto di vista della cognizione,
che intercorrono tra il procedimento sommario e quello arbitrale a cognizione piena, differenze che non rendono possibile una equiparazione dei
due riti e, conseguentemente, neppure consentono di operare una scelta alternativa tra di essi, nel senso che l’avere optato per l’uno esclude definitivamente l’instaurabilità dell’altro. Tale conclusione esce rafforzata ove si
ponga mente agli altri procedimenti sommari esclusi dalla cognizione arbitrale (tra cui, in particolare, il rito cautelare e quello per convalida di
sfratto), per i quali mai si è arrivati ad asserire che la loro proposizione
comporti un’implicita volontà di rinunciare alla via arbitrale.
Al contrario, tale effetto preclusivo si avrebbe, a ragione, ove la
« comparazione » avesse ad oggetto il giudizio ordinario a cognizione
piena e quello arbitrale (di tipo rituale) ma, stante l’ontologica alternatività
fra i suddetti procedimenti; in questo caso, ben diverso da quello oggetto
di studio, si potrebbe affermare che l’aver incardinato una lite innanzi all’autorità giudiziaria denoti un’implicita volontà di rinunciare alla via arbitrale.
Vi è poi un ultimo orientamento, di cui diamo conto per completezza,
che ravvisa nella domanda giudiziale, pur in presenza di convenzione arbitrale, non una rinuncia a quest’ultima, bensı̀ solo « una proposta di rinuncia alla convenzione, proposta che l’altra parte può accettare costituendosi
in giudizio senza eccepire l’esistenza della convenzione arbitrale » (26).
5. Da ultimo, il Tribunale di Livorno ha preso posizione sulla questione dell’(eventuale) incompatibilità fra la proposizione di una domanda
riconvenzionale e la rinuncia alla clausola compromissoria.
Nella fattispecie sottoposta al suo esame, infatti, veniva avanzata domanda riconvenzionale sia dall’opposta, sia dall’opponente, che, lo si ricorda, concludeva altresı̀ in via preliminare (ma, forse, sarebbe stato più
corretto riferirsi al concetto di pregiudizialità) per l’accoglimento dell’exceptio compromissi, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo opposto. Contrariamente a quanto sostenuto dalla convenuta, il Giudice ha
ravvisato il legame della subordinazione nelle domande di parte attrice:
pertanto, l’esame della riconvenzionale si troverebbe logicamente posposto
alla disamina delle questioni dapprima pregiudiziali e, se sussistenti, di
merito.
(26) RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato, Padova, 2006, 383. Del medesimo
avviso, CHIESA, Rinuncia alla clausola compromissoria per arbitrato irrituale. Il commento,
Nota a Cass., Sez. I civ., 29 gennaio 1993, n. 1142, ne I Contratti, 1993, 3, 277 ss.
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Tale soluzione appare condivisibile per vari ordini di ragioni, che succintamente spiegheremo.
Innanzi tutto, è opportuno tener conto che, in generale, qualunque
parte di qualunque procedimento svolgerà appieno le sue difese, sia in rito
sia in merito, sia in via pregiudiziale sia in via principale, senza che la sola
caratteristica di eterogeneità o, addirittura, di incompatibilità delle azioni ed
eccezioni di volta in volta proposte valga ad escludere le une o le altre.
Sotto un profilo più squisitamente pragmatico, la parte sceglierà come
« ordinare » le proprie argomentazioni posticipando quelle meno proficue a
quelle a lei più favorevoli, secondo un criterio decrescente in termini di
opportunità. Non sarà infrequente, dunque, che l’accoglimento della prima
difesa rivesta carattere assorbente rispetto alla trattazione delle altre, ad
essa subordinate; in ogni caso, laddove le difese più favorevoli per la parte
siano respinte, resteranno comunque in piedi quelle immediatamente successive, che saranno esaminate dall’organo giudicante e, ove meritevoli,
potranno trovare accoglimento.
È in quest’ottica che deve essere letto il legame fra l’eccezione di
compromesso (pregiudiziale o preliminare, a seconda dell’impostazione
che si predilige) e la domanda riconvenzionale (subordinata): ove la prima
sia accolta, saranno inevitabilmente precluse la trattazione della seconda e
la pronuncia su di essa.
Si riscontrano, sul punto, varie adesioni della giurisprudenza (27), concorde nell’affermare, soprattutto in tempi recenti, che la domanda riconvenzionale proposta dal convenuto innanzi al giudice ordinario contestualmente alla formulazione, in via principale, dell’eccezione di convenzione
arbitrale, è da ritenere proposta in via necessariamente subordinata rispetto
al rigetto dell’eccezione, la quale, se accolta, ne preclude la cognizione.
Del resto, il senso del carattere « preliminare », e, a maggior ragione,
« pregiudiziale » di un’eccezione sta proprio nella sua antecedenza logica
rispetto al merito della controversia: pertanto, il Tribunale di Livorno ha
correttamente vagliato l’esistenza e la validità della clausola compromissoria (ed i relativi effetti) prima di qualsivoglia esame del merito della causa
e, dunque, anche antecedentemente ad ogni valutazione sulla domanda riconvenzionale.
Non sono tuttavia mancati autorevoli orientamenti di segno contrario.
In particolare, vi è un’impostazione secondo cui, qualora il convenuto proponga una domanda riconvenzionale senza subordinarne la richiesta di
esame al rigetto dell’eccezione di arbitrato, saremmo di fronte ad un comportamento concludente in grado di rivelare l’intenzione di non avvalersi
(27) Trib. Modena, 24 maggio 2006, n. 949, in www.fondazioneforense.it; Trib. Modena, Sez. I civ., 22 febbraio 2008, cit.; Cass., Sez. II civ., 7 luglio 2004, n. 12475, peraltro
richiamata nella motivazione della sentenza in commento.
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dell’eccezione de qua, stante l’incompatibilità fra le due pretese menzionate (28). Un simile eccesso formale, però, rischia di far perdere di vista il
fondamentale principio dell’interpretazione teleologica: ossia, in mancanza
di un indice oggettivo ed esterno di gradazione delle difese, l’ordine dell’una rispetto all’altra « non potrà che essere ricercato “all’interno” dell’atto difensivo, indagando quale sia l’effettiva volontà della parte cosı̀
come oggettivamente cristallizzata » in esso (29).
6. In conclusione, la sentenza del Tribunale di Livorno offre molteplici spunti di riflessione circa i rapporti intercorrenti fra i procedimenti
monitorio e di opposizione a decreto ingiuntivo, da un lato, rispetto a
quello arbitrale, dall’altro.
Molte delle conclusioni a cui giunge sono, a nostro avviso, condivisibili: il riferimento va, in particolare, all’aver asserito che la rinuncia all’arbitrato deve essere rinnovata in ogni distinto giudizio, seppur scaturente dal
medesimo contratto ove è parimenti contenuta la clausola compromissoria,
nonché all’aver negato che una domanda riconvenzionale abbia effetto
escludente rispetto alla preliminare exceptio compromissi.
Tuttavia, essa omette completamente di considerare la questione del
contrasto fra giudicati sostanziali nelle liti che, come quella di specie, si instaurano nell’alveo dei rapporti contrattuali sinallagmatici, omissione che
assume un significato ancor più pregnante alla luce dei delicati rapporti
(tutt’oggi, forse, non ancora del tutto « paritari ») che intercorrono fra la
giurisdizione ordinaria e il procedimento arbitrale.
ALESSIA VANNI
(28) Cfr. Cass., Sez. III civ., 5 dicembre 2003, n. 18643. Per il caso in cui sia la convenuta a proporre domanda riconvenzionale, v. Cass., Sez. II civ., 16 dicembre 1992, n.
13317.
(29) PERRONE, I rapporti tra eccezione di arbitrato rituale e domanda riconvenzionale: la giurisprudenza di merito a confronto con gli orientamenti espressi dalla Corte di
cassazione, Nota a Trib. Bergamo, 22 aprile 2008, in Giur. merito, 2008, 12, 3105 ss.
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II) STRANIERA
Sentenze annotate
FRANCIA - COUR DE CASSATION, première chambre civile; sentenza 29 giugno 2011; CHARRUALT Pres., PASCAL Est. — Smeg c. La Pourpadine.
Arbitrato internazionale - Impugnazione del lodo - Poteri di controllo del lodo
- Norme di ordine pubblico - Diritto dell’Unione europea - Valutazione di
una violazione grave e manifesta.
Una corte d’appello adita per l’impugnazione di un lodo non ha il potere di
rivedere la decisione del merito stabilita dagli arbitri. In caso di censura di una
norma di ordine pubblico europeo, il giudice dell’impugnazione può controllare
solo le violazioni di diritto che costituiscono una violazione grave e manifesta.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — Sur le moyen unique, pris en ses trois branches:
Attendu que, par contrat du 11 août 2003, la société française Poupardine a
vendu 247 tonnes de bléfourrager à la société belge Smeg NV; que, le 12 novembre 2003, la société Poupardine a fait connaı̂tre à son cocontractant qu’elle ne livrerait pas la marchandise, la société belge s’étant vu retirer son agrément decollecteur-exportateur de céréales par décision du directeur général de l’Onic en date
du 3 juin 2003, en application des dispositions du code rural; que la société Smeg
a saisi la chambre arbitrale de Paris, par application de la clause compromissoire
prévue à l’article 33 des clauses RUFRA, en remboursement des marchandises
achetées pour remplacer celles non livrées; que, par sentence du 5 janvier 2005, le
tribunal arbitral, s’estimant incompétent pour apprécier la pertinence de la décision
de l’Onic, prise en application des règles de droit applicables sur le territoire français au moment de la conclusion du contrat et la conformité du droit français aux
dispositions du droit communautaire, a dit les demandes de la société Smeg mal
fondées; que celle-ci ayant formé un recours en annulation, la cour d’appel, par arrêt du 20 décembre 2007, a dit l’arbitrage international et a sursis à statuer en l’attente de l’issue de la procédure engagée par la Commission européenne contre la
France à la suite d’une plainte de la société Smeg; que, par avis du 12 décembre
2006, la Commission européenne a estimé que la réglementation française en matière de collecte et de commercialisation des céréales était contraire aux exigences
découlant de la liberté d’établissement et de la libre prestation de services; que par
décret no 2007-870 du 14 mai 2007, la réglementation française applicable aux collecteurs de céréales a été modifiée;
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Attendu que la société Smeg fait grief à l’arrêt attaqué (Paris, 17 décembre
2009) d’avoir rejeté son recours en annulation, alors, selon le moyen:
1o/ que l’arbitre tranche le litige conformément aux règles de droit, et doit à
cet égard statuer en respectant la primauté du droit communautaire sur la loi interne
pour exécuter sa mission, elle-même délimitée par l’objet du litige, tel que déterminé par les prétentions des parties; qu’en l’espèce et d’une part, la clause compromissoire stipulée par l’article 33 des règles « RUFRA » (Règles et usages français pour le commerce des grains, graines oléagineuses produits du dol et dérivés)
était applicable à « toute contestation entre acheteur, vendeur et/ou intermédiaire de
commerce survenant à l’occasion d’un contrat se référant aux presente règles RUFRA », et, d’autre part, le tribunal arbitral a, en vertu de cette clause, été saisi par
la société Smeg aux fins notamment de dire que la rupture unilatérale du contrat
litigieux par la société Poupardine, motivée par le retrait par l’Onic de l’agrément
de la société Smeg, en ce qu’elle résultait d’une restriction de la commercialisation
et de l’exportation décidée par un Etat membre, via des organes publics, était incompatibile avec les articles 30 à 34 du Traité CE, et aux fins, en conséquence, de
condamner la société Poupardine à payer à la société Smeg des dommages-intérêts
destinés à réparer le préjudice causé par la rupture de ce contrat; que dès lors en
déclarant que le tribunal arbitral n’avait pas méconnu sa mission, du fait que le litige était circonscrit aux relations contractuelles entre les parties et qu’il n’englobait donc pas l’examen du bien fondé du retrait d’agrément décidé par l’ONIC, qui
s’imposait à la société Poupardine, la cour d’appel a violé les articles 1474 et
1502-2o du code de procédure civile;
2o/ qu’au regard de la mission du tribunal arbitral, telle qu’elle était délimitée
par la clause compromissorie (applicable à « toute contestation entre acheteur, vendeur et/ou intermédiaire de commerce survenant à l’occasion d’un contrat se référant aux présentes règles RUFRA »), et par l’objet de la demande de la société
Smeg (tendant à voir dire que la rupture unilatérale du contrat litigieux par la société Poupardine était dépourvue de base légale au regard des règles communautaires applicables), en déclarant, pour exclure la violation de l’ordre public international invoqué par la société Smeg, qu’il n’entrait pas dans la mission du tribunal arbitral d’examiner la conformité de l’article L. 621-16 du code rural aux dispositions
du traité CE, la cour d’appel a violé les articles 1474 et 1502-5o du code de procédure civile;
3o/ qu’en matière d’arbitrage international, la méconnaissance, par l’arbitre,
d’une règle communautaire, porte atteinte à la conception française de l’ordre public international, dès lors que la règle méconnue est impérative et effectivement
applicable à la cause; qu’en l’espèce, la société Smeg, soulignant l’importance de
la politique agricole commune visant à faciliter l’intégration de l’agriculture dans
le marché commun, faisait valoir que les dispositions de l’article L. 621-16 du code
rural, tel qu’il existait au moment de l’exécution du contrat, avant que la Commission européenne ne juge les restrictions qui y étaient prévues incompatibles avec la
liberté d’établissement et de prestation de services, violaient plusieurs principes essentiels du droit communautaire, et en particulier, que ces dispositions étaient incompatibles avec le principe de liberté d’établissement et de prestation de services
(articles 43 et 49 du Traité CE), et le principe de libre circulation des marchandises (article 29 du Traité CE), applicable à la production et au commerce de produits agricoles (article 36 du Traité CE); que dès lors en se bornant à déclarer que
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la société Smeg ne démontrait pas en quoi la solution retenue par le tribunal arbitral, qui a validé l’éviction de la société Smeg fondée sur l’article L. 621-16 ancien
du code rural, violait de manière flagrante, effective et concrète l’ordre public international, sans expliquer en quoi la méconnaissance de ces principes essentiels du
droit communautaire, que la cour d’appel n’a par ailleurs pas contestée, n’affectait
pas, en contrariété avec l’ordre public international, les objectifs économiques et
financiers supérieurs de la politique agricole commune, et partant, une politique
économique fondamentale, la cour d’appel a privé sa décision de base légale au regard de l’article 1502-5o du code de procédure civile;
Mais attendu, d’une part, qu’ayant relevé que le litige soumis aux arbitres
avait pour objet l’appréciation du bien-fondé de la rupture unilatérale du contrat par
la société Poupardine, la cour d’appel, juge de l’annulation, qui n’avait pas le pouvoir de réviser la décision au fond, a pu en déduire que les arbitres, en se déclarant, fût-ce à tort, incompétents pour statuer tant sur la conformité au droit communautaire de la décision de refus d’agrément de la société Smeg, prise par l’ONIC
en application de la réglementation nationale alors en vigueur que sur la légalité de
l’article L. 211-16 du code rural au regard des règles communautaires, et en déclarant la résiliation fondée, s’étaient conformés à leur mission;
Et attendu, d’autre part, que la solution du litige, donnée par la sentence, selon laquelle la résiliation d’une vente de céréales était, en l’état des textes nationaux en vigueur, fondée, ne constitue pas une violation flagrante, effective et
concrète de l’ordre public international;
D’où il suit que le moyen n’est pas fondé.
Il controllo del lodo in caso di impugnazione per violazione di norme
di ordine pubblico europeo: la situazione in Francia.
1. La sentenza qui riportata è particolarmente interessante poiché
rafforza e precisa la tendenza della giurisprudenza francese a circoscrivere
l’ambito del controllo dei giudici d’impugnazione in caso di censura del
lodo per violazione di norme di ordine pubblico europee.
La vicenda va qui brevemente riassunta.
La società belga Smeg acquistava del grano dalla francese Poupardine, la quale tuttavia recedeva dal contratto in virtù della perdita della
qualità di esportatore in capo all’acquirente, a seguito di un provvedimento
di esclusione dell’autorità francese competente a sorvegliare sull’accreditamento dei venditori di grano (l’Onic). La società Smeg, in forza della clausola compromissoria presente nel contratto, citava la venditrice avanti la
Camera arbitrale di Parigi, lamentando che la decisione dell’Onic, presa in
vigenza del code rural e causa del recesso della venditrice, contrastasse con
il diritto dell’Unione, in particolare con la libertà di circolazione di beni e
servizi; chiedeva pertanto che la società francese venisse condannata al risarcimento della somma versata per la merce acquistata e non consegnata.
Il collegio arbitrale in via pregiudiziale si dichiarava incompetente a sta395
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tuire in merito alla conformità al diritto europeo di una decisione di un’autorità francese adottata in forza di una legge in vigore al momento di conclusione del contratto.
Parallelamente all’impugnazione del lodo avanti la Corte di Parigi,
tesa a censurare la dichiarazione sull’incompetenza resa dagli arbitri per
violazione della missione arbitrale e contrarietà con l’ordine pubblico europeo, la società Smeg ricorreva alla Commissione europea che, a seguito di
procedura d’infrazione nei confronti della Francia (proc. n. 2004/4422),
modificava con decreto del maggio 2007 la sua normativa del code rural in
materia di accreditamento dei venditori di grano. Nonostante la Corte d’appello avesse sospeso il procedimento in attesa che si concludesse quello di
infrazione e nonostante l’intervenuta modifica della legge francese, i giudici rigettavano l’impugnazione ritenendo, da un lato, che non fosse oggetto dell’incarico arbitrale esaminare la conformità europea di una decisione dell’Onic (e cosı̀ la conformità al diritto U.e.) di una norma francese
sull’agricoltura, e, dall’altro, che l’esclusione della società Smeg dagli enti
accreditati non costituisse una violazione grave e manifesta dell’ordine
pubblico (internazionale) francese.
Giunti in cassazione, i giudici della Suprema corte, con la sentenza
sopra riportata, rigettavano il ricorso proposto dalla società belga essenzialmente sotto due profili. Innanzitutto, stabilivano che il giudice dell’impugnazione avesse ben giudicato non essendo egli in grado di rivedere il merito della controversia, seppure a detta della Corte stessa rimanessero alcune riserve sul fatto che gli arbitri avessero « à tort » dichiarato la propria
incompetenza. In secondo luogo, veniva evidenziato che una violazione
d’ordine pubblico grave e manifesta — unico motivo censurabile in appello
— non sarebbe potuta sorgere in caso di rispetto degli arbitri di una normativa nazionale vigente al momento della stipula del contratto.
2. Come anticipato, la sentenza ha il pregio di mettere alla prova,
ancora una volta, le tesi dottrinali e giurisprudenziali circa l’estensione del
controllo sul lodo da parte del giudice dell’impugnazione sulle quali bisogna soffermarsi, in particolar modo sul fronte francese.
Come dimostrato dalla letteratura specialistica, il panorama europeo
(e non solo) (1) mostra una varietà di soluzioni in materia di intensità e di
(1) V. per gli Stati Uniti, la celebre decisione Mitsubishi Motors Corp. V. Soler
Chrysler-Plymouth Inc., 473 U.S. 614 (1985) 634 ss. e in Year. comm. arb., 1986, 555 ss. ove
la Suprema Corte americana evidenziò che « the efficacy of the arbitral process requires that
substantive review at the award-enforcement stage remain minimal, it would not require intrusive inquiry to ascertain that the tribunal took cognizance of the antitrust claims and actually decided them ». Su questa scia la Corte d’appello americana del 7o circuito, Westacre
Investments c. Jugoimport, [1999] EWCA Civ., 14. V. oltreoceano anche la Suprema Corte
della Nuova Zelanda, Gvt. of New Zealand c. Mobil Oil, in Year. comm. arb., 1988, 638 (per
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estensione del controllo del lodo da parte del giudice statale allorché si incorra in una violazione di norma di ordine pubblico: lo spettro dottrinale e
giurisprudenziale varia infatti tra i poli di un sindacato superficiale e quelli
di un controllo invasivo del lodo arbitrale. In letteratura si è parlato a proposito di tesi minimalista e di tesi massimalista a seconda che si volesse
contenere al massimo la possibilità di revisione, impugnazione, rifiuto di
riconoscimento/esecuzione del lodo o si volesse garantire la tutela degli interessi fondamentali oggetto delle norme di ordine pubblico (2).
Senza perseguire qui fini di completezza espositiva per i quali si rinvia a studi più approfonditi (3), basti ricordare che la tesi massimalista postula una visione dell’ordine pubblico a largo raggio in cui si attribuisce al
giudice un controllo incisivo del lodo che va oltre a quanto normalmente
previsto e giunge quasi ad essere un vero e proprio vaglio di merito, teso
a valutare se gli arbitri abbiano applicato bene le norme di ordine pubblico.
Tale scelta di campo viene giustificata quale contropartita dell’allargamento
della sfera dell’arbitrabilità, a seguito del riconoscimento della compromettibilità di liti che toccano norme di ordine pubblico, cosı̀ come è avvenuto
per quelle antitrust (ritenute arbitrabili dopo la nota sentenza americana
Mitsubishi) (4) La tesi massimalista trova conforto per lo più in seno a certa
dottrina d’oltralpe seppure, come vedremo, viene condivisa da alcune giurisprudenze nazionali (5). Essa è stata sottoposta a svariate critiche da altra
un approccio limitato del controllo del lodo) e, più di recente, Corte d’appello di Singapore,
22 agosto 2011, AJU c. AJT, [2011] SGCA 41, in Dir. comm. int., 2011, 1140 ss., con commento a seguire di MAGILLO e di CHAN, Singapore Court of Appeal re-affırms commitment to
minimal intervention of arbitral awards at the intersection of illegality and public policy, in
http://kluwerarbitrationblog.com.
(2) Cosı̀ RADICATI DI BROZOLO, Arbitrage commercial international et lois de police,
in Recueil des Cours, 2005, 35 ss.
(3) V., di recente, RASIA, Tutela giudiziale europea e arbitrato, Bologna, 2010,
209 ss.
(4) Sent. Misubishi, cit., ove la Corte, con una decisione di netto stampo liberista,
decideva che le controversie di diritto antitrust potessero essere sottoposte ad arbitrato internazionale « where the parties have agreed that the arbitral body is to decide a defined set of
claims which includes, as in these cases, those arising from the application of American antitrust law, the tribunal therefore should be bound to decide that dispute in accord with the
national law giving rise to the claim ». In Europa, segue questa impostazione, riconoscendo
indirettamente l’arbitrabilità delle liti antitrust, Corte di giustizia, C-126/97, Eco Swiss c. Benetton, in Racc., 1999, I, 3055 ss., su cui RADICATI DI BROZOLO, Arbitrato, diritto della concorrenza, diritto comunitario e regole di procedura nazionale, in questa Rivista, 2004, 9 ss.
(5) Per la dottrina v. MAYER, La sentence contraire à l’ordre public au fond, in Rev.
arb., 1994, 615 ss.; SERAGLINI, Lois de police et justice arbitrale internationale, Paris, 2001,
196 ss., il quale opta per tale via in ossequio di una visione statalista del controllo, spec. 208;
RACINE, Arbitrage commercial international et ordre public, Parigi, 1999, 505-509 e 538-555;
BLANKE, The Role of Ec Competition Law in International Arbitration: A playdoyer, in Europ. Business Law Rev., 2005, 169 ss.; DELANOY, Le contrôle de l’ordre public au fond par
le juge de l’annulation: trois constats, trois propositions, in Rev. arb., 2007, 178 ss.; HANO-
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parte della dottrina che ha ritenuto che essa si basi principalmente sulla sfiducia legislativa nutrita nei confronti degli arbitri e, al contempo, su postulati quali l’infallibilità del giudice e il monopolio statale nell’applicazione
del diritto che non trovano più ingresso nella concezione moderna di giurisdizione (6). Su tali critiche si è formata principalmente la tesi opposta,
quella minimalista, la quale privilegia, invece, un sindacato giudiziale limitato alla mera verifica della conformità del lodo con l’ordine pubblico, evitando di puntare ad una intrusione nella motivazione o nell’operato dell’arbitro (7). Seguendo questo ultimo approccio il giudice del controllo non può
quindi valutare il modo in cui l’arbitro ha trattato le diverse questioni né le
motivazioni sull’applicazione delle norme al caso concreto, trattandosi di
questioni di merito il cui esame rimane precluso (8). Ciò comporta anche
che il giudice non possa sindacare la mancata applicazione delle norme di
ordine pubblico in virtù, per esempio, del mancato collegamento con la fattispecie, quando l’arbitro si sia pronunciato sul punto in parte motivazionale. La tesi minimalista ha trovato non solo l’appoggio di parte della dot-
- CAPRASSE, Public Policy in International Commercial Arbitration, in GAILLARD - DI PIE(editors), Enforcement of Arbitration Agreements and International Arbitral Awards, Cameron May, 2009, 816, i quali ritengono che il controllo del lodo per ordine pubblico debba
essere pari nell’intensità alla verifica della competenza arbitrale.
Per la giurisprudenza, v. in Francia, Corte d’appello di Parigi, 30 settembre 1993, Westman, in Rev. arb., 1994, 359 ss., Corte d’appello di Parigi, 10 settembre 1998, Thomson, in
Rev. arb., 2001, 583 ss., con nota adesiva di RACINE; in Inghilterra, Court of Appeal, Soleimany v. Soleimany, in The Weekly Law Reports, 1998, 811 ss.; nei Paesi Bassi, Corte d’appello dell’Aja, 24 marzo 2005, Marketing Displays International, in Stockholm Internat. Arb.
Rev., 2006, 201 ss.; in Belgio, Tribunal de Premiere Instance de Bruxelles, 8 marzo 2007,
SNF c. Cytec, in Rev. arb., 2007, 303 ss.; in Germania (seppure in sede di controllo d’exequatur) Oberlandesgericht Düsseldorf, 21 giugno 2004, Regenerative Warme, in Wirtschaft
und Wettbewerb, 2006, 281 ss., seppure contra — per la tesi minimalista — Oberlandesgericht Thüringen, 8 agosto 2007, Schott, in Schieds VZ, 2008, 44 ss.
(6) Su questi temi, con più ampio respiro, BIAVATI, Giurisdizione civile, territorio e
ordinamento aperto, Milano, 1997, passim.
(7) A parte RADICATI DI BROZOLO, Controllo del lodo internazionale e ordine pubblico,
in questa Rivista, 2006, 633 ss. a favore di un’interpretazione restrittiva dell’ordine pubblico,
v., tra gli altri, ARFAZEDH, Ordre public et arbitrage international à l’épreuve de la mondialisation, Zurigo, 2005, 207 ss.; VAN DEN BERG. The New York Arbitration Convention of 1958.
Towards a Uniform Judicial Interpretation, Deventer, 1981, 267-268, ove si evidenzia che,
in sede d’exequatur, la convenzione di New York impone un’interpretazione restrittiva della
nozione di ordine pubblico tenuto conto dell’esigenza di un’applicazione uniforme degli obblighi internazionali dello Stato e dell’obiettivo del testo convenzionale di favorire la circolazione dei lodi. Condividendo la tesi minimalista, provocatoriamente, MOURRE (in Le libre
arbitre, ou l’aveuglement de Zaleucus (variations sur l’arbitrage, l’ordre public et le droit
communautaire), in Mélange François Knoepfler, Ginevra, 2005, 283 ss.) che, nel mettere in
luce il rischio che il vaglio dell’ordine pubblico porti ad una revisione del merito, auspica
piuttosto una soppressione totale del controllo dei lodi per violazione d’ordine pubblico.
(8) Non si può sindacare, per esempio, in materia antitrust, la definizione di « mercato rilevante » data dagli arbitri o rivalutare il carattere restrittivo di un’intesa.
TIAU
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trina ma anche ampio accoglimento fra le giurisprudenze nazionali, sia in
occasione di controllo di norme di ordine pubblico interno che di ordine
pubblico europeo (9).
3. Limitandoci in questa sede all’ordinamento francese, quello che si
ravvisa è un’evoluzione della giurisprudenza dalla concezione massimalista
a quella minimalista. Se infatti in un primo tempo, la Corte d’appello di
Parigi ha adottato un controllo incisivo sul lodo (Corte d’appello di Parigi,
30 settembre 1993, Westman; Corte d’appello di Parigi, 10 settembre 1998,
Thomson) (10), è con la sentenza Thalès Air Defence c. Euromissile (Corte
d’appello di Parigi, 18 novembre 2004) (11) che i giudici parigini, proprio
(9) A parte la giurisprudenza francese, che esamineremo più approfonditamente fra
poco, condivide una tesi minimalista la giurisprudenza italiana in sede di riconoscimento del
lodo straniero (Corte d’appello di Firenze, 21 marzo 2006, Nuova Pignone c. Schlumberger,
in questa Rivista, 2006, 741 ss.; Corte d’appello di Milano, 15 luglio 2006, Tensacciai c.
Terra Armata, ivi, 744), quella svizzera (nella medesima vicenda Tensacciai ma nel giudizio
d’impugnazione del lodo, v. la pronuncia del Tribunale federale svizzero, 8 marzo 2006, in
Rev. arb., 2006, 763, con nota di RADICATI DI BROZOLO, L’insoutenable légèreté de l’ordre public: encore à propos du droit de la concurrence), quella svedese (Corte d’appello di Svea,
4 maggio 2005, Republic of Latvia c. Latvijaes Gaze, in Sans Frontières, 3, 2006, 7 con
commento di RUNELAND, Svea Court of Appeal’s Dismissal of Challenge of Award in Latvijas
Gaze Arbitration; Useful Pronouncement on European Competition Law as Swedish Order
Public), quella inglese (High Court, Commercial division, 3 luglio 2008, R. c. V., in EWCH,
2008, 1531), spagnola (Audencia Provincial de Madrid, 11a camera, 12 gennaio 2005, e 12a
camera, 25 ottobre 2005, menzionate da DE PAREDES, L’annulation des sentences arbitrales
en Espagne: à propos de la non-révision au fond des sentences et du contrôle du respect de
l’ordre public en droit espagnol, in Cah. arb., 2007, 3, 27 ss.).
(10) Corte d’appello di Parigi, 30 settembre 1993, European Gas Turbines c. Westman International, in Rev. arb., 1994, 359, con nota di BUREAU; Corte d’appello di Parigi,
10 settembre 1998, Thomson CSF c. Sociétés Brunner et Frontier, in Rev. arb., 2001, 583
ss., con nota di RACINE.
(11) Si tratta della sent. della Corte d’appello di Parigi, 18 novembre 2004, Thalès
Air Defence c. Euromissile e a., in La Semaine Juridique, 12-23 marzo 2005, n. 12, 571 (con
nota adesiva di CHABOT); in Jour. dr. internat., 2005, 357 ss. (con nota di MOURRE); in Rev.
arb., 2005, 751 ss., con nota di RADICATI DI BROZOLO, L’illicéité « qui crève les yeux »: critère
de contrôle des sentences au regard de l’ordre public international (à propos de l’arrêt Thales de la Cour d’appel de Paris), 529 ss.; BENSAUDE, Thalés air Defence BV v. GIE Euromissiles: Defining the limits of scrutiny of awards based on alleged violations of european competition law, in Jour. intern. arb., 2005, 239 ss., BLANKE, Defining the limits of scrutiny of
awards based on alleged violations of european competition law. A réplique to Denis Bensaude’s « Thalès air defence BV v. GIE Euromissile », ivi, 2006, 249 ss.; TAMPIERI, Poteri del
giudice nazionale, compatibilità con l’ordine pubblico e divieto di riesame nel merito nel riconoscimento di lodi arbitrali stranieri, in questa Rivista, 2005, 637 ss.; SERAGLINI, L’affaire
Thalés et le non-usage immodéré de l’exception d’ordre public (ou les dérèglements de la
déréglementation), in Cah. arb., 2005, 2, 5 ss.; BOLLÉE, Note in Rev. crit. droit inter. privé,
2006, 111 ss.; RASIA, La sorte del lodo contrario al diritto comunitario: una prima applicazione dei principi stabiliti dalla Corte di giustizia nella sent. Eco Swiss-Benetton, in Int’l Lis,
2, 2006, 87 ss.
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nell’ambito del diritto europeo, seguendo le linee lasciate incomplete della
sentenza della Corte di giustizia di Lussemburgo del caso Benetton del
1999, cominciano a condividere un approccio minimalista al problema, individuando un sottile equilibrio tra la necessaria applicazione delle norme
imperative dell’Unione e il controllo limitato del lodo da parte del giudice
d’annullamento (12).
Il nocciolo della vicenda Thalès ruota infatti intorno al tema dell’intensità del controllo del lodo da parte del giudice dell’impugnazione in un
arbitrato in cui non era stata sollevata la nullità del contratto per violazione
di norme di ordine pubblico europeo (antitrust), questione sollevata per la
prima volta solo davanti al giudice statale.
Secondo il collegio parigino, pur non avendo le parti eccepito la violazione del diritto europeo nel corso dell’arbitrato, la questione della validità del contratto di licenza, per violazione di norme sulla concorrenza, rimasta estranea al dibattito tra le parti, poteva tranquillamente essere sollevata per la prima volta nel corso del giudizio d’impugnazione e quindi costituirne l’oggetto. Tuttavia il giudice francese, condividendo un’interpretazione restrittiva dell’ordine pubblico, limitava il controllo del lodo ai casi
in cui la violazione dell’ordine pubblico fosse « flagrante, effective, concrète », ossia dovesse « crever les yeux » del giudice. In altre parole, la
violazione dedotta doveva avere connotati di evidenza e concretezza, non
potendo coincidere con una violazione solamente affermata dalle parti (13).
In questo quadro, l’annullamento del lodo per violazione dell’ordine pubblico europeo si palesava come un fatto eccezionale e non poteva realiz(12) È noto, infatti, che l’impugnazione per nullità è un’impugnazione a critica vincolata e pertanto limitata all’accertamento dei vizi previsti dalla legge. In particolare, limitandoci ai casi di sindacato per violazione di legge, basti pensare che, in caso di impugnazione, è quasi totalmente scomparsa negli Stati europei la censura dell’error in iudicando (v.
in caso italiano nel 2006; tale censura rimane vigente in certe circostanze solo in Inghilterra
attraverso l’art. 69(1), Arbitration Act); quanto poi al riconoscimento/exequatur, non si rinviene negli Stati membri tra i motivi ostativi la violazione di norme di diritto né in caso di
riconoscimento del lodo straniero (lettura confermata dall’art. V, comma 1, lett. e) conv. di
New York), né in caso di lodo interno.
(13) I giudici francesi stabilivano pertanto, da una parte, che la violazione dovesse
essere effettiva (ovvero con conseguenze significative) e concreta (ovvero la sua soluzione
era materialmente incompatibile con le esigenze di ordine pubblico), con ciò rifiutando di
censurare una illiceità che non avesse conseguenze reali sul piano dei risultati e dell’oggetto
perseguito dall’ordine pubblico; dall’altra, esigendo che la violazione dovesse essere manifesta, questi volevano che la stessa non avesse ad oggetto solamente una norma di ordine pubblico, ma che tale illiceità dovesse « crever les yeux ».
Prima di Thalés, la giurisprudenza francese aveva già applicato tale criterio in un caso
(passato per lo più in sordina e ricordato solo da BENSAUDE, Thalés Air Defence SV, cit., 242,
nota 9), quale Cass., 21 marzo 2000, Verhoeft c. Moreau, in Rev. arb., 2001, 804, in cui era
stato rilevato che « la violation de l’ordre public au sens de l’article 1502, comma 5, apprécié au moment de la reconnaissance et de l’exécution de la sentence, doit être fragrante, effective et concrète ».
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zarsi se non in presenza di una violazione « manifesta » dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, in quanto la mancata considerazione
dell’applicabilità delle norme europee da parte degli arbitri non giustificava, per i giudici francesi, l’annullamento sic et sempliciter del lodo.
Come ho già rilevato in altra sede, con tale decisione passa il principio secondo cui la sola allegazione della parte di una violazione dell’ordine
pubblico europeo non è sufficiente per scoperchiare il prodotto finito del
procedimento arbitrale: serve qualcosa in più che renda erroneo persino
prima facie il ragionamento degli arbitri (14). Non c’è dubbio che il discorso nella pratica si faccia a volte abbastanza complesso soprattutto per
quanto riguarda la valutazione del parametro dell’evidenza: in caso, per
esempio, di violazione di norme sulla concorrenza, bisognerebbe condurre
un esame analitico (in fatto e in diritto) delle complesse relazioni industriali
che sono sorte tra le parti, vagliare la loro posizione sul mercato e quelle
dei loro concorrenti del settore, verificando anche se gli accordi che si assumono invalidi abbiano impedito o falsato il gioco della concorrenza.
L’esame di tutte queste circostanze sembra necessitare « a monte » di
un’analisi sempre approfondita che si pone in antitesi con la necessità di
utilizzare un parametro di « evidenza » della violazione: ciò porta, senza
dubbio, a ritenere alquanto rara l’applicazione del parametro stabilito nel
caso Thalés (15). Ecco che, dal canto suo, la corte parigina cerca di ricostruire il parametro della « violazione manifesta » ricavandolo — seppure
in maniera discutibile — da elementi più probabilistici che giuridici: innanzitutto dalla competenza delle parti e dei propri legali, poi da quella degli
arbitri e dalla notorietà dell’istituzione d’arbitrato. A ciò si aggiunga che,
per la Corte, un ulteriore indice per testare l’evidenza della violazione è offerto dalla condotta delle parti e degli arbitri nel sollevare la questione di
ordine pubblico europeo. Per i giudici francesi, la mancata rilevazione della
questione europea da parte degli arbitri e delle parti non costituisce di per
sé motivo della « non evidenza » della questione, ma dimostra comunque
di essere un indice rilevante per rigettare l’impugnazione (16).
Mi sembra che la ratio sottesa alla decisione Thalés della Court sia
questa: una volta concessa l’arbitrabilità delle liti antitrust, il controllo delle
(14) Per un approfondimento, v. RASIA, La sorte del lodo, cit., 91.
(15) È fondata pertanto l’osservazione di BENSAUDE, Thalés, cit., 243 che evidenzia
che « alleged violations of competition law are by their very nature rarely blatant ».
(16) Ciò almeno fintantoché non si giunga ad una situazione (limite) di « frode processuale », ovvero quando sia le parti che gli arbitri abbiano volutamente deciso di eludere
l’applicazione delle norme imperative non sollevandone la questione, nel qual caso una declaratoria di annullamento dovrebbe sempre aversi. Più di recente, sempre in materia di controllo del lodo in caso di mancata eccezione della violazione di ordine pubblico europeo,
come nel caso Thalés, v. Corte d’appello di Parigi, 22 ottobre 2009, Sté Linde Aktiengesellschaft et autres c. sté Halyvourgiki, in Rev. arb., 2010, 124, con nota di TRAIN.
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norme di ordine pubblico resta nelle mani del giudice statale, seppure tale
vaglio ne esca depotenziato nei casi in cui la sua violazione non risulti manifesta, ovvero — in definitiva — quando il comportamento tenuto dalle
parti processuali nel procedimento arbitrale (nel fornire allegazioni e
prove), non permetta di rilevare una violazione delle suddette norme di ordine pubblico. Questa costituisce una soluzione equilibrata per evitare che
le decisioni in materia antitrust da parte degli arbitri vengano ripetutamente
travolte de plano in sede d’impugnazione, essendo evidente che, nella pratica, tale tipo di violazione si palesa a volte come l’ultima spiaggia per le
parti soccombenti che si vogliono sottrarre all’adempimento del lodo.
4. Il caso Thalés sottoposto alla Corte parigina ha trovato importanti
conferme giurisprudenziali.
Si pensi al caso SNF-Cytec, il quale peraltro evidenzia in modo netto
le differenti conclusioni cui giungono la giurisprudenza francese e quella
belga, nonostante la prima si occupi del riconoscimento e la seconda dell’impugnazione del lodo (17). Dapprima la Corte d’appello di Parigi nel
2006 e poi, per la prima volta, la Corte di cassazione nel 2008, confermano
la tesi minimalista ed affermano la necessità di controllo sul lodo solo da
un punto estrinseco, tale da non riesaminare il merito della lite, applicando
cosı̀ anche in sede di exequatur del lodo estero la giurisprudenza francese
formatasi in sede d’impugnazione del lodo con Thalés (18). In particolare,
la sentenza della Suprema Corte francese costituisce oggi un punto fisso su
come l’ordinamento francese intenda, appunto in senso restrittivo, il vaglio
dell’ordine pubblico europeo sia nel caso in cui tale controllo venga effettuato in sede di annullamento del lodo (caso Thalès), sia nel caso in cui avvenga in sede di riconoscimento/exequatur di lodo straniero (caso SNFCytec).
Anche in tempi più recenti tale decisione ha trovato conferma nella
giurisprudenza di merito e di legittimità (19), ove è stato ulteriormente spe-
(17) Cfr. RASIA, Tutela giudiziale europea e arbitrato, cit., 228. Per un approfondimento di quanto si dirà nel testo, in particolare per le differenti soluzioni in terra francese e
belga, v. anche RASIA, L’ordine pubblico comunitario e i poteri del giudice d’impugnazione
del lodo nella recente esperienza belga, in Int’l Lis, 1, 2008, 15 ss.
(18) Con la differenza che nel caso in questione rispetto a quello Thalés, la questione
di ordine pubblico europeo era stata rilevata, discussa ed applicata dagli arbitri nel procedimento avanti a loro e pertanto il giudice statale doveva solo controllare la corretta applicazione della norme europee di ordine pubblico.
(19) Tale giurisprudenza trova riprova anche nella decisione della Cassazione, 11
marzo 2009, Mr X. c. Trioplast AB (che si può leggere in www.kluwerarbitration.com), ove
la Corte conferma la sentenza dei giudici d’appello di Parigi (sent. 6 dicembre 2007), in merito ad una vicenda che aveva visto un arbitro unico, sotto l’egida della Icc, decidere una
controversia tra un agente (Mr. X) e una società svedese (Trioplast) a seguito della risoluzione del contratto di agenzia. L’agente aveva lamentato in sede d’impugnazione per viola-
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cificato che la violazione grave e manifesta deve sussistere nel momento in
cui opera il controllo del giudice, in conformità a un principio di attualità
dell’ordine pubblico (20).
5. In questo contesto si colloca il caso Smeg del 2011, nel quale si
possono ritrovare, da un lato, le scelte già delineate dalla moderna giurisprudenza francese in materia di controllo del lodo — e sopra già esposte (21) — e, dall’altro, alcune precisazioni in ordine al potere degli arbitri
nell’applicazione del diritto dell’Unione.
Sotto il primo profilo, vi è innanzitutto la conferma della scelta minimalista del controllo del lodo perseguita dai giudici parigini, scelta che, a
mio parere, è quella più coerente sul piano delle conseguenze: evita di
mettere in gioco tutto l’operato degli arbitri, scongiurando che lo strumento
della censura dell’ordine pubblico europeo divenga un mezzo pretestuoso e
dilatorio per evitare l’esecuzione dei lodi. Il principio del « dare efficacia »
al lodo trova ancora una volta conferma nel sistema arbitrale: si colloca al
contempo dunque, da un lato, a garanzia delle parti di beneficiare di un dovere arbitrale nell’applicazione delle norme di ordine pubblico, ma dall’altro a tutela degli arbitri che vedranno solo in casi limitati (e sostanzial-
zione dell’ordine pubblico europeo la mancata considerazione dell’arbitro della direttiva 86/
653 in materia di indennità degli agenti. Qui la Corte di cassazione ribadisce il principio
consolidato del « caractère fragrant, effectif et concret de la violation alléguée ». In materia
di rapporti tra arbitrato e corruzione, anche Corte d’appello di Parigi, 10 settembre 2009,
Schneider Scaltgeratebau c. CPL Indutries Ltd, in Cah. arb., 4, 2009, 61, ove si fa nuovamente uso del parametro della violazione « concréte, effective et flagrante ». Un passo indietro viene fatto solo dalla Cassazione (Ch. com.), 17 gennaio 2006, Société Varassedis c. société Prodim, in Rev. arb., 2007, 97 ss., dove la Corte d’appello di Caen — seguita dalla Suprema corte — ha proceduto ad un esame scrupoloso del lodo prima di ritenere che non violasse norme di ordine pubblico.
(20) In questo senso, v. Corte d’appello di Parigi, 22 ottobre 2009, Sté Linde Aktiengesellschaft et autres c. sté Halyvourgiki, cit., dove peraltro la Corte ha rigettato l’impugnazione proposta per violazione di norme di ordine pubblico europeo, in un contesto in cui, al
pari del caso Thalés, le parti e gli arbitri, cosı̀ come la corte d’arbitrato della Icc (in sede di
controllo del progetto del lodo), non hanno sollevato tale questione nel corso dell’arbitrato,
cosı̀ privando del requisito dell’evidenza la violazione dedotta. In giurisprudenza già precedentemente nello stesso senso, Cass., 21 marzo 2000, Verhoeft c. Moreau, in Rev. arb., 2001,
804, nella quale era stato rilevato che « la violation de l’ordre public au sens de l’article
1502, comma 5, apprécié au moment de la reconnaissance et de l’exécution de la sentence,
doit être fragrante, effective et concrète ».
(21) La scelte della giurisprudenza francese (« violation flagrant, effectif et concret »)
in ordine al controllo del lodo per violazione di norme di ordine pubblico non sono state cristallizzate dal legislatore francese a seguito dell’ultima riforma francese dell’arbitrato intervenuta con decreto del 13 gennaio 2011. Il nuovo art. 1520, comma 5 non ha subito variazioni sul punto rispetto al precedente art. 1502, comma 5, n.c.p.c. V. ex multis, GAILLARD, Réflexions sur le nouveau droit français de l’arbitrage international, in questa Rivista, 2011,
525 ss.
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mente gravi, effettivi e concreti) una revisione della soluzione adottata, essendo interesse di ogni sistema processuale degli Stati membri, una volta
che si riconosca l’arbitrato, auspicare l’effettività e la circolazione dei lodi (22).
Sotto il secondo profilo, la Corte, seppure con un limitato ma significativo inciso, ha modo di sottolineare che « à tort » gli arbitri si sono ritenuti incompetenti a statuire in merito alla conformità al diritto europeo di
una decisione di un’autorità francese emessa in forza di una legge vigente
al momento della stipulazione del contratto.
Condividendo tale (seppure solo accennata) valutazione della Corte,
mi sembra evidente che il risultato degli arbitri nel dichiarare la propria incompetenza a decidere abbia creato una situazione di vuoto di tutela giurisdizionale.
Se è vero, da un lato, che davanti al giudice dell’impugnazione l’operato degli arbitri francesi non avrebbe potuto costituire una violazione
grave e manifesta (le parti e gli arbitri erano infatti sottoposti alla normativa vigente in materia di vendita di grano al momento della stipula del
contratto) — e pertanto tale condotta non avrebbe potuto essere oggetto di
sindacato del giudice nazionale —, certamente, dall’altro, è compito dell’arbitro, cosı̀ come del giudice nazionale, risolvere il conflitto tra una
norma nazionale o un atto amministrativo e la norma U.e., attraverso la disapplicazione della norma o dell’atto contrastante.
In realtà, come è noto, la grande maggioranza della normativa dell’Unione, primaria e derivata, proprio per la sua efficacia diretta e per la sua
primauté sul diritto interno, impone agli organi nazionali, giudici e pubbliche amministrazioni, la disapplicazione delle disposizioni interne con questa confliggenti (23). Inoltre, a fronte del fatto che gli atti dell’amministrazione sono sempre sottoposti al vaglio dei giudici dell’ordinamento cui ap-
(22) La necessità di dare efficacia alle decisioni arbitrali, come dovere innanzitutto
per gli arbitri, è un principio che si può ricavare non solo dai regolamenti d’arbitrato amministrato (art. 41 reg. Icc versione 2012 e art. 32, comma 2, reg. Lcia) e dalle giurisprudenze
nazionali europee (che condividono un approccio minimalista), ma anche dalla giurisprudenza statunitense che, attraverso l’elaborazione della teoria del « Manifest Disregard of the
Law » in campo arbitrale (su cui v. funditus, WILSKE-MACKAY, The Myth of the « manifest Disregard of the Law » Doctrine: Is the Challenge to the Finality of Arbitral Awards Confined
to U.S. Domestic Arbitrations or Should International Arbitration Practitioners be concerned?, in ASA Bull., 2006, 216 ss.), vuole perseguire lo stesso scopo. Ciò si collega ad una
nozione ristretta dell’ordine pubblico la cui violazione trova un sindacato solo se colpisce in
maniera evidente principi cardine dell’ordinamento. V. LAZAREFF, Arbitrage et ordre public:
priorité à l’exécution des sentences, in Cah. arb., 2006, 2, 4.
(23) Cfr. Corte giustizia, sent. 22 giugno 1989, causa 103/88, Fratelli Costanzo
S.p.a., in Foro it., 1991, IV, 129 ss., con nota di BARONE e Corte giustizia, sent. 29 aprile
1999, causa C-224/97, Erich Ciola, in Racc., 1999, I, 2517 ss.
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partengono, avviene che in ultima istanza siano sempre i tribunali statali a
doversi occupare del diritto europeo.
L’arbitro, al pari del giudice, deve applicare il diritto europeo quando
applica la normativa di uno Stato membro, in virtù dell’effetto diretto che
caratterizza il diritto dell’Unione. Ciò vale anche quando le norme di diritto
europeo hanno carattere di « ordine pubblico » sia quando l’arbitro decide
la lite secondo diritto, sia quando lo deve fare secondo equità (24). Tuttavia,
ogniqualvolta l’arbitro si trovi di fronte a norme di ordine pubblico, egli
non le applica solo in forza del loro effetto diretto (cosı̀ come fa il giudice
che peraltro è custode di un ordinamento), ma anche per il fine, più pratico
che giuridico, di « garantir la pleine efficacité de sa sentence » (25), cioè
quello di rendere una decisione che, in caso di mancata spontanea ottemperanza, possa effettivamente essere riconosciuta in quegli ordinamenti ove
presumibilmente possa trovare utilizzo e che si presentino in qualche modo
collegati alle parti. In questo quadro, dunque, l’arbitro non è totalmente libero ma vive in una sorta di « libertà vigilata », nella quale deve tutelare
esso stesso — al pari del giudice — il rispetto delle norme di ordine pubblico di un ordinamento: tale atteggiamento, infatti, riduce i rischi di un
contenzioso post-arbitrale e al contempo sprona al rispetto di un’esecuzione
spontanea del lodo (26).
Come ho avuto modo di approfondire in altra sede, mi sembra coerente la conclusione secondo cui, pur non sussistendo un obbligo giuridico
in capo agli arbitri di rilevare d’ufficio la questione europea, tuttavia esista
un dovere di opportunità, volto a garantire l’effettività dell’arbitrato (e del
lodo), nel sollevare la questione d’ordine pubblico, purché essa venga sottoposta al contradditorio delle parti: una sorta di « invito al dibattito » sulla
questione di ordine pubblico in vista del controllo e del riconoscimento del
lodo (27).
Nel caso Smeg, ciò non è avvenuto. Gli arbitri hanno deciso di non
disapplicare la norma e ciò ha fatto perdere alle parti la possibilità di ricor-
(24) A tale conclusione giunge chiaramente anche il lodo Icc n. 7097 del 1993, citato da VERBIST, L’application du droit communautaire dans les arbitrage de la CCI, Icc Bulletin, suppl. special, novembre 1994, 39. Tale è l’orientamento della Corte di giustizia che
nel noto caso Comune di Almelo (Corte giust., 27 aprile 1994, causa C-393/92, Comune di
Almelo, in Racc., 1994, I, 1477 ss.) riteneva che il giudice dell’impugnazione del lodo dovesse applicare la normativa antitrust europea anche se il lodo avesse deciso per equità. Sul
punto anche la giurisprudenza francese, v. Corte d’appello Parigi, 16 marzo 1995, in Rev.
arb., 1996, 146 ss., con nota di DERAINS.
(25) Cosı̀ il lodo Icc del 1990 nella causa n. 5514, in Jour. droit int., 1992, 1028.
(26) Sul punto FOUCHARD, Les conflits de lois en matière d’arbitrabilité des litiges de
propriété industrielle, in Rev. arb., 1977, 66, afferma che gli arbitri « se préoccupent au premier chef d’apprécier les chances d’exequatur de leurs sentences, car si celles-ci sont sérieuses, la tendance des parties à les exécuter spontanément s’en trouvera encouragée ».
(27) V. funditus, RASIA, Tutela giudiziale europea, cit., 189 ss.
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rere per tale motivo in sede d’impugnazione. In effetti, se l’arbitro non applica la norma europea di ordine pubblico disapplicando quella interna e
tale violazione non configura le caratteristiche dell’evidenza e dell’effettività, si emette un lodo inimpugnabile che, seppure ingiusto, è efficace e
circola nello spazio europeo. Qui risiede il vuoto di tutela giurisdizionale
che si accennava.
Ecco che nel caso in commento i giudici di legittimità (incisivamente,
ma non troppo) hanno soltanto la possibilità di richiamare gli arbitri al loro
dovere: essi non avrebbero dovuto dichiararsi incompetenti ma decidere in
merito al recesso posto in essere dalla società Poupardine. Gli arbitri hanno
il dovere (pratico più che giuridico) di porre in essere un lodo che sia « comunitariamente » efficace e che possa circolare, applicando a monte il diritto dell’Unione e disapplicando la normativa/la decisione contrastante.
6. Cosa fare tuttavia se gli arbitri, come nel caso Smeg, pur rilevando la questione di diritto europeo non la risolvono dichiarandosi incompetenti e tale circostanza non può più costituire oggetto di giudizio d’impugnazione?
Il tema è complesso e non facilmente risolvibile in quanto riapre una
vecchia ferita: quella del divieto per gli arbitri di sottoporre la questione di
diritto europeo all’interpretazione autentica della Corte di giustizia (28). Ed
è solo qui che risiede la soluzione alla questione appena posta.
Come evidenziato altre volte, l’utilizzo del rinvio ex art. 267 tr. Fue
diminuirebbe la probabilità di rendere un lodo viziato allorché esso abbia
applicato una disposizione o un atto amministrativo contrario ai trattati (29).
Ciò assume ancora più rilevanza se vi è, come vi è, una generale tendenza
degli ordinamenti nazionali a preservare il prodotto arbitrale tramite la limitazione dei motivi di impugnazione, in particolare degli errores in iudicando, circoscrivendo innanzitutto il sindacato per violazione di legge sostanziale. Se è vero, infatti, che gli arbitri non possono rivolgersi alla Corte
di giustizia per assicurarsi la correttezza dell’interpretazione delle norme
(28) Si tratta della giurisprudenza della Corte di giustizia di Lussemburgo che ha
vietato agli arbitri di fonte convenzionale l’uso dello strumento del rinvio pregiudiziale: v.
sentenza 23 marzo 1982, C-102/81, Nordsee, in Racc., 1982, 1095 ss., su cui v. i commenti
di TIZZANO, Arbitrato privato e competenza pregiudiziale della Corte comunitaria, in Rass.
arb., 1983, 153 ss.; sentenza 27 aprile 1994, causa C-393/92, Comune di Almelo, in Racc.,
1994, I, 1477 ss., su cui v. BIAVATI, Pregiudiziale comunitaria e arbitrato, in questa Rivista,
1995, 421 ss.; sentenza 1o giugno 1999, C-126/97, Eco Swiss c. Benetton, cit.; sent. 27 gennaio 2005, C-125/04, Denuit & Corner c. Transorient, in Rev. arb., 2005, 765 ss. (con nota
a seguire di IDOT), per un cui commento v. le postille di E.F. RICCI e CONSOLO, Arbitrato rituale, giurisdizioni statali e art. 234 Tr CE, in Intl’l Lis 2005, 2, 61 ss., nonché RASIA, Pregiudiziale comunitaria e giudizio arbitrale: nuovo confronto tra gabbie ideologiche, funzionalità degli scambi, esigenze di tutela effettiva, ivi, 2006, 1, 21 ss.
(29) RASIA, Tutela giudiziale, cit., 87 ss.
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europee che applicano, allora esiste un rischio concreto che gli arbitri stessi
pronuncino un lodo (inimpugnabile) che violi una norma di diritto (sostanziale) interno europeo. Rimane salva solo la possibilità della censura per
violazione di ordine pubblico, peraltro prevista normativamente o giurisprudenzialmente nella generalità degli ordinamenti, ma sempre che si incorra in una norma europea di tale natura e con i limiti posti dalla stessa
giurisprudenza degli Stati membri nell’ottica di preservazione del prodotto
arbitrale.
In realtà bisognerebbe riconoscere agli arbitri privati la facoltà del rinvio
pregiudiziale europeo. La sentenza Smeg è la dimostrazione più lampante di
quale sia la situazione di impasse giurisdizionale in cui si può trovare il cittadino o l’impresa europea che ricorre alla giustizia privata.
Attraverso la legittimazione al rinvio si verrebbe a recuperare ex ante
quell’applicazione di norme imperative che l’impugnazione del lodo concederebbe solo (ed eventualmente) ex post al cittadino europeo attraverso il
controllo in sede d’impugnazione e di exequatur. Se nel caso in commento
fosse stato possibile utilizzare il rinvio pregiudiziale forse si sarebbe potuto
evitare l’errore in cui sono incorsi gli arbitri.
Ad ogni modo, visto il tenore in cui si è risolta la vicenda, due sono
le considerazioni finali che permettono di tranquillizzare gli animi degli
studiosi europei che non dovranno temere effetti negativi dal caso Smeg. Lo
stesso non si potrà dire per le sorti dei contendenti coinvolti.
Da un lato, grazie alla vicenda in commento, nell’interesse dell’Unione, il code rural francese è stato modificato ed è stato allineato alla
normativa europea: purtroppo la società Smeg, nonostante sia causa del
procedimento d’infrazione che ha indotto la Francia a cambiare la propria
normativa, non ha potuto però beneficiare del cambiamento. Dall’altro, il
rigetto dell’impugnazione, non portando ad una decisione positiva della vicenda (ma confermando un’incompetenza), non ha provocato la circolazione di un lodo che crea effetti (positivi reali) di contrasto con il diritto
dell’Unione: la società Smeg invece si è vista negare un proprio diritto tutelato dalla normativa europea. Gli effetti sono però limitati alla singola vicenda senza ricadute su un generale piano europeo.
In conclusione, mi sembra che sia lecito constatare come rimanga
aperta la questione sulle modalità di estensione del controllo del lodo per
violazione di norme di ordine pubblico europeo. Ciò avverrà almeno fintantoché le istituzioni europee non creeranno un parametro sovranazionale
dell’intensità del controllo del lodo, uno standard processuale minimo comune, onde permettere all’utente dell’ordinamento dell’U.e. (cittadino o
impresa), anche nell’ottica di una filosofia di armonizzazione, il raggiungimento di un accettabile livello di effettività che non permetta l’applicazione
di norme nazionali in contrasto con il diritto dell’Unione, ma che al contempo nemmeno stravolga il risultato degli arbitri.
CARLO RASIA
407
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GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I)
ITALIANA
Sentenze annotate
ARBITRATO UNICO (Del Carlo), nella controversia fra X ed altri (avv. Taponeco)
c. Y S.r.l. (avv. Zipolini); lodo reso in Lucca il 5 maggio 2011.
Arbitrato - Impugnazione delibera assembleare - Mancata convocazione Indisponibilità - Arbitrabilità - Esclusione.
Non può condividersi l’opinione secondo cui il limite della disponibilità del
diritto non troverebbe applicazione relativamente alle impugnative avverso le delibere assembleari. L’indisponibilità deve essere in proposito specificamente desunta
dalla sanzione — la nullità ex art 2479-ter e 2379 c.c. — ad essa correlata, quale
sicuro indice della volontà legislativa di presidiare con norme inderogabili esigenze che trascendano i soci sia uti singuli sia quale gruppo organizzato e personificato e perciò avente una rilevanza anche esterna all’ente societario.
CENNI DI FATTO. — I soci di minoranza di una società a responsabilità limitata
impugnano davanti all’arbitro la delibera assembleare di approvazione del bilancio
assunta a seguito di una assemblea svolta in mancanza di loro formale convocazione. I ricorrenti deducono altresı̀ la falsità del verbale attestante la presenza all’adunanza dell’intero capitale sociale ed imputano all’amministratore la responsabilità per atti gestori compiuti in danno della società. Il collegio, senza entrare nel
merito dei fatti, rileva la incompetenza del giudice privato a decidere la controversia per l’indisponibilità dell’oggetto desumibile dalla sanzione di nullità posta a
presidio dei vizi denunciati.
MOTIVI
1.
1.1.
DELLA DECISIONE.
Questioni pregiudiziali.
Non arbitrabilità della domanda diretta ad accertare e sanzionare la violazione dell’art. 2631 c.c.
I soci attori, in sede di precisazione delle conclusioni, hanno insistito nella ri409
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chiesta di condanna del « (omissis) nella sua qualità di Amministratore Unico della
Società Y S.r.l. all’epoca dei fatti per cui è causa, al pagamento delle sanzioni previste dall’art. 2631 c.c., per le causali esposte nella memoria integrativa datata 7
luglio 2010 ». Com’è noto, l’art. 2631 cc. (come modificato dal D.Lgs. n. 61/2002)
assoggetta a sanzione amministrativa pecuniaria gli amministratori ed i sindaci che
omettano di convocare l’assemblea, nei casi previsti dalla legge o dallo statuto e
nei termini ivi previsti.
È parimenti noto che, in materia di illecito amministrativo, come può desumersi dagli artt. 13-31, L. n. 689/1981, l’autorità giudiziaria interviene, in linea di
principio (salve le eccezioni infra ricordate), soltanto successivamente all’irrogazione della sanzione ed in via meramente eventuale, ove cioè sia proposta opposizione al provvedimento (ordinanza-ingiunzione) sanzionatorio emesso dall’autorità
amministrativa (artt. 22 ss., L. n. 689 cit.): s’insegna, infatti, che il principale elemento di differenziazione delle sanzioni amministrative dalle sanzioni penali o civili risiede nell’essere esse irrogate « nell’esercizio di una potestà amministrativa »
(Elio CASETTA, Sanzione amministrativa, in Digesto disc. pubbl., Utet, 1997) e
quindi fuori da un procedimento giurisdizionale.
Posto dunque che (ad accezione dei casi tassativamente previsti dalla legge,
ad esempio l’art. 24, L. n. 689 cit., e l’art. 36, D.Lgs. n. 231/2001) l’autorità giudiziaria non ha il potere di irrogare sanzioni amministrative, se la superiore domanda fosse stata posta all’A.G.O., il giudice adito avrebbe senz’altro dovuto dichiarare il proprio « difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione », a norma dell’art. 37 c.p.c.
Essendo stata proposta davanti ad un arbitro, la domanda in questione, analogamente, non può essere decisa nel merito, vertendo su materia non arbitrabile, a
norma dell’art. 819 c.p.c.
L’Arbitro deve pertanto declinare la propria competenza a norma dell’art. 817
c.p.c.
1.2.
Non arbitrabilità delle impugnative avverso le deliberazioni di approvazione
dei bilanci degli esercizi 2005, 2006, 2007 e 2008.
I soci attori hanno impugnato le deliberazioni assembleari con cui sarebbero
stati approvati i bilanci degli esercizi 2005, 2006, 2007 e 2008. Nello specifico, è
stata prospettata la nullità « per assenza assoluta di informazione », ai sensi dell’art. 2479-ter, comma 3, c.c.
Ciò posto, reputa l’Arbitro — la questione dev’essere rilevata d’ufficio — che
la controversia sul punto non sia decidibile nel merito, vertendo su materia sottratta
alla disponibilità delle parti, a norma dell’art. 34, comma 1, D.Lgs. n. 5/2003.
Non si ignora che, secondo autorevole dottrina, la riforma del 2003 avrebbe
inteso eliminare ogni distinguo ed ogni incertezza — « tagliar corto », insomma —
sancendo, finalmente, la generale arbitrabilità delle impugnative avverso deliberazioni assembleari, indipendentemente dalla natura disponibile od indisponibile dell’interesse protetto; tale è, ad esempio, l’opinione di F.P. LUISO, Appunti sull’arbitrato societario (reperibile all’indirizzo http://judicium.it/news/ins_28_03_03/):
« In riferimento all’impugnazione delle delibere, credo che si possa sostenere l’irrilevanza dei vari distinguo fino ad ora operati in dottrina e giurisprudenza. Il le410
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gislatore, infatti, da un lato richiama ripetutamente e in via generale l’impugnazione delle delibere come possibile oggetto di arbitrato, senza mai fare riserve;
dall’altro loto, in base l’art. 36, primo comma, è sempre possibile l’impugnazione
di merito ex art. 829, secondo comma, c.p.c., sia del lodo che abbia conosciuto di
questioni pregiudiziali non arbitrabili, sia del lodo che abbia deciso dell’impugnazione di una delibera. Mi rendo conto che non si tratta di argomenti insuperabili:
mi sembrano, però, indizi non trascurabili di una volontà legislativa di “tagliar
corto” per quanto riguarda l’arbitrabilitò dell’impugnazione delle delibere ». Sulla
stessa linea di pensiero si collocano anche taluni arresti giurisprudenziali, ad esempio Trib. Napoli, Sez. VIII, 8 marzo 2010, in Società, 2010, 5, 643: « Ai sensi delle
norme del D.Lgs. n. 5/2003, sono deferibili agli arbitri tutte le controversie in tema
di invalidità delle delibere assembleari, incluse quelle di approvazione del bilancio
e in generale quelle nelle quali è dedotta la nullità della delibera. In tali casi, agli
arbitri compete altresı̀ il potere di pronunciarsi sull’istanza di sospensione dell’efficacia della delibera impugnata ».
Altri Autori, tuttavia, ed un numero consistente di decisioni, sostengono che il
legislatore delegato non avrebbe inteso avvalersi della facoltà, pur espressamente
concessa dalla legge-delega (art. 12, comma 2, L. n. 366/2001), di estendere l’arbitrabilità delle controversie societarie, particolarmente di quelle di cui qui si tratta,
oltre i preesistenti limiti fissati dalle norme di diritto comune (artt. 806 e 808
c.p.c.): la generale (ri-)affermazione, nel nuovo art. 34, comma 1, D.Lgs. n. 5 cit.,
del criterio della disponibilità del diritto in contesa, senza alcun distinguo neppure
limitatamente alle impugnative in discussione, sottintenderebbe infatti la scelta del
legislatore-delegato « di attestarsi sulla linea degli orientamenti tradizionali, sicché
lo conformazione dell’oggetto dell’arbitrato in materia societaria [sarebbe] rimasta correlata alle materie dei diritti disponibili relativi al rapporto sociale: da qui
si [desumerebbe] — secondo Trib. Lucca, 11 gennaio 2005, in Vita notar., 2007, 2,
756 (a quanto consta, la prima pronuncia post riforma sull’argomento) — ché [dovrebbero] ritenersi perpetuati, in materia, i principi tratti dagli antecedenti arresti
giurisprudenziali ». Da queste premesse muovono, ad esempio: Trib. Novara, 20
aprile 2010, in Società, 2010, 7, 909; Trib: Bologna, Sez. III, 17 giugno 2008, in
Sistema Leggi d’Italia (banca dati); Trib. Napoli, 25 ottobre 2006, in Corriere del
merito, 2007, 1, 32.
Tali sono le due tesi che attualmente si contrappongono sull’argomento: ritiene l’Arbitro di dover aderire alla seconda, ritenendo non persuasiva — in quanto
non supportata da alcun preciso e dirimente elemento di diritto positivo l’opinione
secondo cui il limite della disponibilità del diritto; pur indiscriminatamente ribadito
dall’art. 34, comma 1, D.Lgs. n. 5 cit., non troverebbe tuttavia applicazione relativamente alle impugnative avverso le deliberazioni assembleari.
Ciò posto, dev’essere quindi spiegato per quale ragione si reputa che un’impugnativa fondata sul vizio di « assenza assoluta di informazione » (art. 2479-ter,
comma 3, c.c.) — quale quella proposta, per l’appunto, dai soci X ed altro — verta
su materia sottratta alla disponibilità delle parti.
Prima di interrogarci sulla disponibilità/indisponibilità dell’interesse protetto
dalla fattispecie in esame, giova tuttavia sgombrare il campo da un possibile equivoco: l’indisponibilità non è una caratteristica immancabile di qualunque interesse
« sociale », ossia riferibile alla Società e quindi trascendente i soci uti singuli; ben
possono esservi — e certamente vi sono (ad esempio, quelli protetti dall’azione so411
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ciale di responsabilità, la quale, com’è noto, può formare oggetto di rinuncia e
transazione ex artt. 2393 e 2476 c.c.) — interessi « sociali » disponibili ed interessi
« sociali » indisponibili, proprio come accade per qualunque altro soggetto giuridico, persona fisica o ente diverso. Si ricordi, a tale riguardo, l’opportuno rilievo di
Cass. n. 3772/2005 cit., secondo cui « l’area dell’indisponibilità è più ristretta di
quella degli interessi genericamente “superindividuali” e, pertanto, la natura “sociale” o “collettiva” dell’interesse non [può] valere ad escludere la deferibilità
della controversia al giudizio degli arbitri, poiché la presenza di tale carattere denota soltanto che l’interesse è sottratto alla volontà individuale dei singoli soci, ma
non implica che eguale conseguenza si determini anche rispetto alla volontà “collettiva” espressa dalla società (o da altro gruppo organizzato), secondo le regole
della rispettiva organizzazione interna, la cui finalità è proprio quella di assicurare
la realizzazione più soddisfacente dell’interesse comune dei partecipanti ».
Orbene, che quello presidiato dalla fattispecie in commento sia un interesse
« sociale », nel senso detto, è fuori discussione, ma si è visto che tanto non basta
per affermarne l’indisponibilità: qual è dunque il più sicuro indice dell’indisponibilità dell’interesse sotteso alla nullità per « assenza assoluta di informazione » ex
art. 2479-ter, comma 3, c.c.
« Perché l’interesse possa essere qualificato come “indisponibile” — insegna
la già ricordata Cass. n. 3772/2005 — è necessario che la sua protezione sia assicurata mediante la predisposizione di norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento svincolata da una qualsiasi iniziativa di parte,
come, ad esempio, nel caso delle norme dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio di esercizio, la cui inosservanza rende la delibera di approvazione illecita e, quindi, nulla ». (Omissis).
Ebbene alla luce dei ricordati principi, l’indisponibilità dell’interesse sotteso
al vizio di « assenza assoluta di informazione » dev’essere specificamente desunta
dalla sanzione — la nullità, per l’appunto, ex artt. 2479-ter, comma 3, e 2379 c.c.
— ad esso correlata, quale sicuro indice della volontà legislativa di presidiare con
norme inderogabili esigenze che trascendono i soci sia uti singuli sia quale gruppo
organizzato e personificato e perciò aventi una rilevanza anche esterna all’ente societario.
Concludendo, le impugnative in questione non sono decidibili nel merito, vertendo su materia che non può formare oggetto di clausola compromissoria statutaria, a norma dell’art. 34, comma 1, D.Lgs. n. 5 cit.
1.3.
Dell’eccezione di incompetenza opposta dal convenuto.
L’eccezione riguarda l’azione sociale di responsabilità promossa dai soci X ed
altri contro il signor (omissis) ex amministratore.
Si sostiene (omissis) che controversie siffatte esorbiterebbero dai limiti della
clausola compromissoria statutaria.
L’eccezione è chiaramente priva di fondamento, poiché il tenore letterale della
convenzione di arbitrato (« qualunque controversia... sorga fra i soci o i soci e la
società, l’organo amministrativo e l’organo di liquidazione o fra detti organi o i
membri di tali organi o fra alcuni di tali soggetti od organi, in dipendenza dell’attività sociale... »), soprattutto se letto alla luce dell’art. 34, comma 4, D.Lgs. n.
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5/2003 (« gli atti costitutivi possono prevedere che la clausola abbia ad oggetto
controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro
confronti »), non può ragionevolmente indurre alcun dubbio circa la comprensione,
nel suo ambito di applicazione, delle controversie ex art. 2476, comma 3, c.c.
(omissis).
2.
Merito. L’azione sociale di responsabilità.
2.1. I signori X ed altri hanno addebitato all’ex amministratore plurime violazioni di legge:
— egli, dopo avere omesso la convocazione dei soci attori alle assemblee per
l’approvazione dei bilanci degli esercizi 2005, 2006 e 2007, ne avrebbe addirittura
falsamente attestato, a verbale, l’intervento e l’espressione del voto (dal che « assenza assoluta di informazione » che — secondo gli stessi soci — inficerebbe le
deliberazioni di approvazione dei predetti bilanci, vizio sul quale tuttavia l’Arbitro
— come spiegato.— non può pronunciarsi, ai fini dell’art. 2479-ter, comma 3, c.c.);
— il signor (omissis) avrebbe altresı̀ omesso la Convocazione dell’assemblea
nonostante la ricorrenza della fattispecie di cui all’art. 2482-bis c.c.;
— et cetera.
Per queste ragioni, i signori X ed altri avevano richiesto la condanna dell’ex
amministratore « al risarcimento dei danni... la cui quantificazione verrà effettuata
in corso di giudizio a seguito dell’espletanda istruttoria ».
L’incolpato si è difeso eccependo la prescrizione dell’azione, nonché la sopravvenuta (in corso di causa) rinuncia alla stessa da parte della società (omissis).
2.2. Il rigetto della domanda va (omissis) pronunciato per una ragione avente
carattere preliminare; la già ricordata rinuncia all’azione sociale di responsabilità.
A tale riguardo, va detto che il signor (omissis) ha prodotto un verbale, dal
quale risulta che, (omissis) i soci riuniti in assemblea avrebbero deliberato « di dare
mandato all’amministratore di firmare il seguente atto di transazione », nello specifico: un accordo fra la Y S.r.l. e l’ex amministratore (omissis) in virtù del quale
la prima avrebbe rinunciato all’azione sociale di responsabilità di cui si controverte
in questo processo ed il secondo, a sua volta, ai compensi che avrebbe maturato
nell’esercizio delle funzioni gestorie.
Unitamente al verbale, il convenuto costituito ha pure prodotto la transazione
con la società avvenuta immediatamente dopo l’adunanza. — (Omissis).
La convocazione della assemblea di società, l’approvazione del bilancio
e l’arbitrato.
Il lodo in commento analizza la problematica della arbitrabilità delle
controversie societarie in materia di impugnativa delle delibere assembleari
di approvazione del bilancio sotto il profilo specifico della invalidità per
mancata convocazione del socio, per aderire all’interpretazione che ne
esclude la competenza arbitrale.
La soluzione preferita dal decidente, pur seguita anche in una recente
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giurisprudenza (1), presenta tuttavia alcune criticità che si manifestano sia
avuto riguardo al solo vizio di convocazione, sia nel più ampio contesto
della votazione sul documento contabile.
Sembra opportuno, allora, procedere ad una analisi della questione
iniziando dall’esame della disciplina di diritto sostanziale, per affrontare
poi le problematiche processuali afferenti alla arbitrabilità delle controversie.
1. È noto che, sotto la disciplina previgente, la giurisprudenza (2)
qualificava l’avviso di convocazione come un elemento costitutivo del procedimento di formazione della deliberazione, la cui assenza determinava
una “inadeguatezza strutturale e funzionale rispetto alla fattispecie normativa” (3).
In mancanza di una fattispecie di invalidità ad hoc, si determinava una
pronuncia di inesistenza della deliberazione stessa (4).
La logica conseguenza di tali premesse era che il requisito procedimentale indispensabile al fine della costituzione dell’assemblea poteva qualificarsi come diritto indisponibile presidiato da una normativa inderogabile.
Ed esaminando le decisioni ante riforma si osserva, infatti, come l’indisponibilità è giustificata proprio dalla gravità del vizio per sua natura insanabile, imprescrittibile, da chiunque opponibile e tale addirittura da inficiare la giuridica esistenza dell’adunanza (5).
2. Il quadro normativo è tuttavia mutato in modo radicale, essendo
oggi previste espressamente le fattispecie di invalidità della convocazione (6) e le relative modalità di sanatoria, cosı̀ che si impone una riconsiderazione critica della questione de qua.
(1) Trib. Milano, 12 gennaio 2010, in Giur. it., 2010, 1321; Cass., 23 gennaio 2004,
n. 1148.
(2) Cass., 23 gennaio 2004, n. 11481.
(3) Cass., 22 agosto 2001, n. 1186, in Giur. it., 2002, 550 e in Foro it., 2002, I, 1483;
1768/86.
(4) Cass., 11 giugno 2003, n. 9364; Cass., 22 agosto 2001, n. 1186, in Foro it., 2002,
I, 1483; Cass., 15 marzo 1986, n. 1768; FERRI, Le impugnazioni di delibere assembleari. Profili processuali, in Riv. trim. dir. proc., 2005, suppl. fasc. 1,55; ZUCCONI GALLI FONSECA, La
compromettibilità delle impugnative di delibere assembleari dopo la riforma, in Riv. trim. dir.
proc., 2005, 156.
(5) Occorre segnalare semmai la tendenza a richiamare a sostegno della tesi anche
decisioni che sono inconferenti con il tema ovvero che non trattato dello specifico vizio di
cui si discute. Cosı̀ Cass., 19 settembre 2000, n. 12412 avente ad oggetto una controversia
sulla qualità di socio; Cass., 30 marzo 1998, n. 3322 sulla ripartizione degli utili; Cass., 18
febbraio 1988, n. 1739 che tratta della revoca dell’amministratore.
(6) Trib. Milano, 12 marzo 2009, n. 3396; Trib. Milano, 19 dicembre 2008, n. 15120.
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La legge prevede, infatti, che l’organo amministrativo informi preventivamente i soci “sul luogo, sull’ora e sull’oggetto della assemblea” (7).
In difetto di tali elementi informativi si manifesta un vizio di mancanza o irregolarità dell’avviso (8), declinabile sub specie di nullità o di annullabilità della deliberazione.
L’art. 2379-bis precisa però che in caso di mancanza assoluta di avviso di convocazione, l’impugnazione è preclusa per “chi anche successivamente abbia dichiarato il suo assenso allo svolgimento della assemblea”.
La previsione di rigorose formalità di convocazione garantisce, infatti,
che il socio giunga in assemblea informato sull’oggetto all’ordine del
giorno e sia quindi nelle condizioni contribuire alla discussione e di votare
con piena consapevolezza.
Il socio, dunque, ha facoltà di disporre del proprio diritto ad essere
informato su modalità ed oggetto della riunione sociale, esprimendo il suo
consenso, ex post o anche a priori (9), allo svolgimento della medesima. La
stessa manifestazione di volontà deve inoltre ritenersi espressa attraverso la
mera partecipazione all’adunanza senza nulla eccepire in quella sede né
sulla formalità, né sull’oggetto della convocazione, consentendone lo svolgimento nonché la votazione sugli argomenti in discussione (10).
Lo scopo precipuo della novella è, perciò, quello di semplificare l’iter
procedimentale della assemblea di società in presenza della volontà dei soci (11), ovvero di evitare facili azioni di disturbo della minoranza che pure
abbia esercitato i propri diritti, (12) nel pieno rispetto del generale principio
di divieto di venire contra factum proprium (13).
(7) Cfr. CENTONZE, La delibera nulla: nuove tendenze interpretative e profili di disciplina, in Il nuovo diritto delle società, Torino, 2006, 334, ritiene non necessario un avviso
preventivo né l’indicazione del luogo osservando come “l’interesse protetto dalla disposizione non sia quello di ciascun avente diritto all’intervento a che non siano adottate decisioni
cui questi non abbia potuto partecipare, ma, prima ancora e soltanto, l’interesse a che non
siano adottate decisioni a sua insaputa”.
(8) GUERRIERI, La nullità delle deliberazioni assembleari di S.p.a.: la fattispecie, in
Giur. comm., 2005, 60.
(9) Contra BERNABEI, Le impugnative di delibere assembleari e degli atti di amministrazione (I parte), in Soc., 2006, 154.
(10) PIAZZA, L’impugnativa delle delibere nel nuovo rito societario: prime riflessioni
di un civilista, in Corr. giur., 2003, 968.
(11) IANNICELLI, (sub) art 2479-bis c.c., in Codice commentato delle società, Torino,
2007, 609.
(12) MUSCOLO, Il nuovo regime dei vizi delle deliberazioni assembleari nelle S.p.a.
(prima parte): cause ed effetti dell’invalidità dell’atto, in Soc., 2003, 542.
(13) ANGELICI, Note in tema di procedimento assembleare, in Riv. notariato, 2005,
707; ASTONE, Venire contra factum proprium. Divieto di contraddizione e dovere di coerenza
nei rapporti tra privati, Napoli, 2006, 57; PROCCHI, L’exception doli generalis e il divieto di
venire contra factum proprium, in L’eccezione di dolo generale, a cura di GAROFALO, Padova,
2006, 131.
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Il fine della normativa è raggiunto ogni qual volta il socio, anche per
facta concludentia, confermi la validità dell’adunanza.
Sembrano allora scomparse le caratteristiche che consentivano di qualificare il diritto come indisponibile (14).
La dichiarazione preventiva di rinuncia alla convocazione, sotto un
primo profilo, rende quindi la delibera, relativamente al vizio di cui si
tratta, ex se valida a tutti gli effetti, e senza possibilità di contestazione
nemmeno da parte di terzi.
Il terzo che volesse imporre il rispetto delle regole formali non ha, infatti, alcuna facoltà di azione, al pari di quanto avviene nella ipotesi di assemblea totalitaria, e di conseguenza, in conformità al dictum della Suprema Corte, l’invalidità sfugge dal novero di quelle “svincolate da ogni
iniziativa di parte” (15).
La rinuncia dei soci a far valere il vizio non può peraltro essere configurata come mera rinuncia all’azione perché, in ipotesi di consenso del
socio, la stessa astratta facoltà nemmeno sorge, stante il legittimo esercizio
del diritto, ergo disposizione del medesimo.
Cosı̀ impostato il ragionamento, l’ulteriore conseguenza è, in secondo
luogo, che la fattispecie prevista dalla legge a pena di nullità costituisce una
norma sı̀ imperativa, ma al tempo stesso disponibile, grazie all’autonomia
privata.
La legge cioè garantisce ai soci il diritto ad essere informati secondo
regole procedimentali predeterminate, ma ciò non impedisce che il medesimo fine sia realizzato con modalità diverse, in presenza di accordo degli
interessati (16).
3. Spostando l’attenzione sugli aspetti ancora più strettamente processuali, non sembra che si possa giungere alla medesima conclusione di escludere la competenza arbitrale, sostenendo che tutte le impugnazioni delle deliberazioni per vizi di nullità devono essere decise da giudici togati (17).
(14) MONTEVERDE, Deliberazioni assembleari e arbitrato societario: questioni ancora
aperte, in Giur. it., 2011, 2320; GUIZZI, Note minime in punto di deliberazioni assembleari,
invalidità del bilancio e compromettibilità in arbitri, in Le Società, 2011, 341.
(15) Cass., 23 febbraio 2005, n. 3772, in Società, 637; Cass., Sez. un., 21 febbraio
2000, n. 427, in Giur. it., 2000, 1209.
(16) ANGELICI, La riforma delle società, Padova, 2006,139 precisa che “la disciplina
della convocazione è, in effetti, una disciplina imperativa... ma... non nel senso di impedire
che il singolo possa rinunciare nello specifico caso concreto alla tutela dei suoi interessi individuali”.
(17) Trib. Novara 20 aprile 2010, in Società, 2010, 909; Trib. Milano, 20 gennaio
2010, in Giur. it., 2010, 321; Trib. Prato 19 marzo 2009, in questa Rivista, 2009, 323; Trib.
Bologna, 17 giugno 2008; Trib. Napoli, 25 ottobre 2006; Contra Trib. Milano, 30 aprile
2008, in Giur. it., 2009, 1446; Trib. Napoli, 9 giugno 2010, in Le Società, 2010, 355 con nota
di GUIZZI, Note minime in punto di deliberazioni assembleari, invalidità del bilancio e com-
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La ratio della novella degli artt. 2377 e 2379 c.c. consiste, infatti, nel
rafforzamento della stabilità delle decisioni assunte dai soci, anche a fronte
di vizi procedimentali che abbiano colpito l’atto, privilegiando, quindi, il
valore della certezza su quello della mera legalità formale.
Vengono ridefiniti, da una parte, i confini delle cause di nullità ed annullabilità per ottenere una elencazione tassativa delle fattispecie illecite, in
modo da assorbire anche le ipotesi prima qualificate dalla giurisprudenza di
inesistenza (18).
La stessa nullità, dall’altra parte, viene degradata a vizio sanabile e
l’azione sottoposta al termine decadenziale di tre anni, con la sola eccezione della delibera che modifica l’oggetto sociale prevedendone uno illecito od impossibile.
Nelle ipotesi di mancata convocazione dell’assemblea, e di mancanza
del verbale i soci possono, infatti, eliminare ab origine il vizio rispettivamente esprimendo il proprio consenso allo svolgimento della assemblea,
come esposto, ovvero redigendo il verbale prima della adunanza successiva.
È inoltre sempre concessa la facoltà della società sostituire la delibera
viziata con altra valida, in forza del combinato disposto dell’art. 2379, ult.
comma, e dell’art. 2377 c.c.
E l’art 2434-bis impedisce, infine, l’impugnazione delle delibere di
approvazione del bilancio quando sia stata approvata quella relativa all’anno successivo, la quale ultima semmai sarà impugnabile per vizi derivati che abbia assorbito in sé.
Il risultato di siffatta disciplina è, con l’eccezione indicata, che il sistema della nullità sfuma le proprie caratteristiche peculiari conosciute nel
diritto civile, per affiancarsi a quello della annullabilità rimessa cioè all’esercizio dell’azione del socio.
L’invalidità, infatti, viene ancorata, almeno per le nullità procedimentali, alla volontà dei soci stessi di eccepire tempestivamente i vizi in cui il
procedimento stesso possa essere incappato, escludendosi però ogni autonomo potere di rilevazione officioso del giudice o di terzi qualora il gruppo
endosocietario sia unanime nel volerne prescindere.
promettibilità in arbitri, il quale peraltro distingue nel merito delle impugnative e precisa
nota 9, che “un problema di non arbitrabilità senz’altro non si pone rispetto a tutte le ipotesi
in cui si deducono vizi dell’iter deliberativo”... ritenendo espressamente che la convocazione
sia elemento disponibile; pur contrario ad una generale arbitrabilità della impugnativa di delibere sostiene la tesi anche, SALAFIA, L’arbitrato societario: contrasti interpretativi, in Le
Società, 2011, 467.
(18) ZUCCONI GALLI FONSECA, La compromettibilità delle impugnative di delibere assembleari dopo la riforma, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 456; IZZO, Disponibilità del diritto e limiti alla compromettibilità per arbitri della delibera di approvazione del bilancio, in
Le Società, 2010, 1517.
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4. A conferma del nuovo rapporto che intercorre tra nullità ed annullabilità in questo specifico contesto occorre anche, ai nostri limitati fini,
coordinare l’art 2379-bis sopramenzionato con il regime della annullabilità
della delibera viziata.
La disposizione de qua si riferisce, infatti, nella sua collocazione sistematica soltanto alla mancanza della convocazione e quindi sembra, a
prima lettura, non essere applicabile alle ipotesi di mera irregolarità (19)
che pertanto non potrebbe essere sussunta nella fattispecie di cui si tratta.
Si arriverebbe, tuttavia, alla illogica conclusione di impedire la sanatoria del vizio più lieve e non di quello più grave.
Appare corretto, invece, pensare che la legge conferisca sul piano sostanziale la facoltà ai soci di manifestare il proprio consenso allo svolgimento della assemblea o di regolarizzare ex post tutte le irregolarità procedimentali che la manifestazione di volontà stessa rende ininfluenti rispetto
all’esercizio dei diritti sociali.
Cosı̀ ricostruito il sistema si determina, inoltre, una perfetta simmetria
tra i vizi di convocazione ed i meccanismi di sanatoria applicabile ad entrambe le situazioni.
5. Se quanto esposto corrisponde ad una ricostruzione corretta, cadono dunque i pilastri del ragionamento che vuole la delibera assembleare
viziata per mancata convocazione di un socio come non deferibile alla decisione di un arbitro perché avente ad oggetto materia indisponibile (20).
La decisione del collegio sul punto appare dunque non soddisfacente
e ripetitiva di una giurisprudenza che spesso tende a trascinare la decisione
sul motivo di impugnazione in esame nel più ampio, ma diverso, contesto
della compromettibilità della delibera di approvazione del bilancio che,
nella maggioranza dei casi, è quella di cui si chiede la dichiarazione di
inefficacia.
6. Il lodo in commento però affronta anche de visu proprio il tema
da ultimo richiamato, essendo l’impugnazione fondata nel merito sulla denunciata violazione dei criteri legali di redazione del bilancio.
È noto che prima della riforma del diritto societario prevaleva la tesi
che riteneva la materia indisponibile in considerazione della inderogabilità
della normativa dettata a tutela dei soci e dei terzi, da cui emergeva un in-
(19) Cass., 17 giugno 2007, n. 1034, in Foro it., 2007, I, 3501 qualifica come annullabile e non nulla la convocazione proveniente da un componente dell’organo amministrativo. Ma anche qualificandola come nulla rimane una nullità sanabile.
(20) Trib. Catanzaro 20 maggio 2009, in Giur. merito, 2010 con nota di GAETA;
MONTEVERDE, op. ult. cit.; GUIZZI, op.ult. cit.
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teresse pubblico extra individuale, oltre alla previsione della azione di nullità (21).
È altrettanto pacifico che il dato testuale del rinnovato arbitrato societario apre alla impugnabilità con il mezzo non giurisdizionale del genus
deliberazione assembleare, restando però ancora fortemente controverso se
la stessa soluzione liberale valga anche per le species delle delibere di approvazione del bilancio (22) o meno (23).
Il collegio aderisce alla soluzione negativa giustificata, da un lato,
dalla natura del vizio, la nullità; e, dall’altro lato, dalla supposta indisponibilità dei criteri di veridicità che devono guidare la redazione del bilancio
da cui si deduce la non arbitrabilità dell’oggetto.
7. Si è già messo in luce come il primo pilastro del ragionamento
non abbia solide fondamenta nella disciplina positiva, almeno per quanto
attiene ai vizi procedimentali, occorre valutare se ciò valga anche per quelli
di merito e resta, soprattutto, da affrontare il secondo e più articolato argomento.
È diffusa, sotto il primo profilo, la tesi che per le impegnative di delibere ad oggetto illecito la nullità sia dettata a presidio della indisponibilità della materia.
L’impostazione sconta però il venir meno nella disciplina arbitrale di
ogni riferimento alla transazione e quindi non considera l’emancipazione
dell’arbitrato dalla disciplina del contratto.
L’unico parametro di riferimento per valutare la compromettibilità resta infatti la disponibilità del diritto oggetto del processo privato (24) che,
proprio in quanto processo (25), garantisce in sé e per sé la validità della
pronuncia. Per ottenere il rispetto delle regole all’ordinamento basta imporre che quando il lodo, applicando regole imperative, decida su delibere
ad oggetto illecito (26), sussista la facoltà di controllo giurisdizionale della
giustizia della decisione.
(21) Cass., Sez. un. 21 febbraio 2000, n. 27; 22 gennaio 2003, n. 928; 29 aprile 2004,
n. 8204; Cass., 7 febbraio 1968, n. 404; GROPPOLI, L’incidenza dell’interesse « sociale » sull’arbitrabilità, in questa Rivista, 2006, 297; CORSINI, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in Giur. it., 2003, 1288.
(22) Trib. Napoli, 8 marzo 2010.
(23) Trib. Milano, 10 dicembre 2010, in Le Società, 2010, 715.
(24) RICCI, Dalla transigibilità alla disponibilità del diritto. I nuovi orizzonti dell’arbitrato, in questa Rivista, 2006, 265; MOTTO, sub art. 806 c.p.c., in Commentario alla riforma
del processo civile, a cura di BRIGUGLIO - CAPPONI, Padova, 2006, 476.
(25) FAZZALARI, L’Arbitrato, Milano, 1997, 15.
(26) Cfr. GALGANO, La società per azioni, Milano, 1988, 348 sotto la disciplina previgente contestava la qualificazione della delibera ad oggetto illecito come nulla, ritenendola
annullabile.
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8. Occorre, sotto il secondo profilo, evidenziare anzitutto come competa agli amministratori la redazione del progetto di bilancio che è la sintesi della attività gestoria ed è sottoposto prima alla valutazione del collegio sindacale, se previsto, e poi alla approvazione della assemblea dei soci.
I criteri che guidano l’organo amministrativo nella stesura del documento sono la chiarezza, veridicità e correttezza (27) al fine di manifestare
la situazione patrimoniale e finanziaria della società e, dunque, di fornire
una “informazione precisa ed oggettiva dei fatti di gestione” (28).
Il socio ed i terzi hanno perciò diritto di essere informati sull’andamento della gestione societaria, il primo dalla relazione degli amministratori prodromica alla votazione assembleare, ed i secondi dall’esame dell’atto depositato nei registri pubblici.
L’indisponibilità dell’oggetto della delibera de qua viene allora sostenuta a causa dell’interesse generale a vedere rispettati i criteri oggettivi di
redazione del documento contabile non rinunciabili dai soci (29).
9. Come già in altra sede evidenziato (30), bisogna però mettere in
luce, da un lato, che le cause de quibus sono passibili di rinuncia e transazione e, dall’altro lato, che nessun pregiudizio può derivare alla collettività
dalla decisione arbitrale, poiché gli intranei si limitano a scegliere la forma
di risoluzione della controversia affidandone ad un privato la decisione
senza pregiudizio alcuno per i terzi.
Il socio, o il collegio sindacale, che infatti lamentino l’inadempimento
degli amministratori, ergo una mala gestio dei medesimi, esercitano le proprie prerogative sociali e tutelano il proprio diritto ad essere informati
prima di impegnare la società sul documento che ne rende pubblico lo stato
economico, onde prevenire responsabilità dell’ente e di loro stessi (31).
L’oggetto dell’impugnativa è perciò costituito dal diritto dei soci ad
(27) Art. 2423 c.c.
(28) Cass., 28 agosto 2004, n. 17210.
(29) Cass., 23 febbraio 2005, n. 3772; Cass., 12 settembre 2011, n. 18600; Cass., 14
marzo 1992, n. 3132, in Giust. civ., 1992, I, 3070.
(30) Per un più approfondito esame della questione sia consentito rinviare a quanto
già osservato in Note su indisponibilità dei diritti, inderogabilità della normativa ed impugnazione delle delibere assembleari, in questa Rivista, 2009, 325.
(31) Cass. 12 settembre 2011, n. 18600 ritiene invece che “non è compromettibile in
arbitri l’azione di revoca per giusta causa di un amministratore... fondata sulla violazione da
parte dell’amministratore medesimo delle disposizioni che prescrivono la precisione e la
chiarezza dei bilanci nonché dell’obbligo di consentire ai soci il controllo della gestione sociale trattandosi di disposizioni preordinate alla tutela di interessi non disponibili”. Occorre
rilevare però che trattasi di azioni che possono essere oggetto di transazione e pertanto i diritti sottostanti sembrano disponibili.
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essere informati sull’agire societario, secondo parametri indicati da regole
imperative, al fine di deliberare consapevolmente (32).
Il socio e gli altri legittimati agiscono quindi in giudizio per difendere
l’integrità del patrimonio sociale e per evitare alla società, ed a loro stessi,
di subire azioni risarcitorie da parte di terzi ai quali è riservata una tutela
obbligatoria.
Il senso profondo del rinnovato controllo endosocietario sembra presupporre cosı̀ un equilibrio che si fonda sulla potenziale conflittualità tra i
soggetti intranei sui quali in ipotesi di agire illecito ricade, o può ricadere,
una responsabilità, quanto meno per mancata diligenza nell’esercizio dei
propri poteri di controllo.
È chiaro allora che l’oggetto del giudizio non può considerarsi indisponibile ma attiene al novero dei diritti sociali restando nell’alveo della
inderogabilità i criteri di chiarezza e veridicità (33).
Occorre mettere in luce inoltre che, anche qualificando diversamente
la situazione sostanziale, sussistono meccanismi di sanatoria per mancata
impugnazione nei termini (34) ed è sempre concessa la facoltà di transigere
la controversia de qua e di sostituire la delibera viziata con altra (35), ovvero con la approvazione del bilancio successivo.
I diritti azionati con l’impugnazione per nullità della delibera di approvazione del bilancio sono, infatti, ex littera legis transigibili, rinunciabili e quindi disponibili anche se la disciplina applicata è imperativa, a prescindere dal giudice chiamato a decidere.
Si consideri, inoltre, che potrebbe mancare una qualsivoglia impugnazione dei consociati, pur in presenza di documentazione non veritiera, con
conseguente loro rinuncia ad esercitare le proprie funzioni di controllo (36).
E si noti che l’approvazione del bilancio non consente di farlo divenire atto
imputabile alla assemblea, perché redatto dagli amministratori, né attribuisce ad esso una patente di veridicità che ontologicamente non abbia, impo-
(32) Tribunale Milano 22 febbraio 2011, in Arch. Juris Data, mutando la propria
giurisprudenza afferma che “si deve riconoscere che il giudizio arbitrale non riguarda il generale obbligo di redazione del bilancio secondo il canone di verità, bensı̀ la sola posizione
del socio in ordine alla approvazione di quella delibera, in definitiva concernendo dunque il
diritto del socio a non essere soggetto agli effetti della approvazione di un documento contabile incidente sulla configurazione della sua partecipazione sociale, id est riguardante un
suo diritto patrimoniale, come tale per definizione disponibile”.
(33) Contra BALZARINI, Disponibilità del diritto e compromettibilità in arbitri delle
controversie in tema di delibere di approvazione del bilancio, in Le Società, 2011, 722.
(34) FERRI, op. ult. cit., 52.
(35) Art. 2377, 7o comma applicabile anche alle impugnative per nullità per
l’espresso richiamo delle art. 2379, ultimo comma.
(36) COSTI, Arbitrato societario e impugnativa delle delibere di bilancio, in Riv. trim.
dir. pubbl., 2011, 129; contra GUIZZI, op. ult. cit., 344.
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nendo invece all’ente ed ai singoli organi di assumersi la responsabilità di
quanto deliberato.
I terzi legittimati che impugnino la delibera de qua, infatti, restano
comunque soggetti alle decisioni del gruppo societario sul documento,
salva la facoltà di chiedere il risarcimento dei danni eventualmente subiti
per effetto di una condotta illecita.
Ritenere allora che sussista il monopolio statuale soltanto poiché devono essere applicate regole inderogabili (37) appare conclusione che non
tiene conto delle osservazioni sopra indicate e confonde la nozione di inderogabilità della normativa con quella diversa, e meno estesa, di indisponibilità del diritto (38).
L’inderogabilità è infatti concetto che comprende in sé anche situazioni giuridiche disponibili imponendo soltanto all’autonomia privata di rispettare le regole ritenute imprescindibili dall’ordinamento.
Nulla vieta, quindi, che il risultato predefinito dalla legge sia raggiunto dalle parti attraverso una via alternativa a quella giurisdizionale, rimanendo la giustizia del lodo soggetta all’eventuale vaglio del giudice ordinario.
10. Bisogna infine mettere in luce come non vi sia alcun pregiudizio
né per i terzi né per l’ordinamento nel suo complesso a fronte di una decisione rimessa ad un giudice privato.
Occorre rilevare, anzitutto, che l’arbitrato è un processo svolto davanti
ad un soggetto terzo ed imparziale che ex lege dovrà applicare le regole di
diritto ed il cui lodo sarà passibile di impugnazione davanti all’autorità statuale. L’impugnazione della delibera di approvazione del bilancio, inoltre,
è soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese e soltanto l’eventuale accoglimento della domanda determina la caducazione dell’atto con efficacia
erga omnes.
I terzi, quindi, possono beneficiare dell’efficacia del giudicato che travolga la delibera, ma non subiscono alcuna menomazione nei loro diritti
dal rigetto dell’istanza, avendo facoltà di adire in via autonoma il giudice
statuale ovvero impugnare il lodo e chiedere la giusta applicazione delle
disposizioni di legge.
Restano ferme, sotto diverso profilo, sia la disciplina penale che
quella amministrativa, dirette a sanzionare condotte lesive del bene giuridico protetto dall’ordinamento e non disponibile dai soci.
(37) SALAFIA, L’arbitrato societario: contrasti interpretativi, in Le Società, 2011, 468.
(38) LUISO, Diritto processuale civile, 2011, V, 79 ss.; GALLETTO, Linee evolutive dell’arbitrato societario, in Nuova giur. civ. com., 2010, II, 494; COSTI, op. ult. cit.
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Appare quindi, in conclusione, che non sussistano insormontabili ragioni ostative alla arbitrabilità anche delle delibere di approvazione del bilancio.
FEDERICO UNGARETTI DELL’IMMAGINE
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RASSEGNE E COMMENTI
L’ambito di applicazione dell’arbitrato Consob
VALERIO SANGIOVANNI
1.
Introduzione.
Come è noto, il D.Lgs. n. 179/2007 ha istituito una doppia procedura,
la prima di « conciliazione » e la seconda di « arbitrato », presso la Consob, in attuazione della l. n. 262/2005 (1). In questo articolo tralasceremo
l’analisi della regolamentazione della procedura conciliativa (2), per occuparci invece di alcuni profili della disciplina dell’arbitrato presso la Consob
(che, nel prosieguo, denomineremo — per semplicità di esposizione « arbitrato Consob ») (3).
La nostra analisi non sarà peraltro indirizzata a esaminare la disciplina
(1) La disciplina dell’arbitrato Consob è ripartita su due livelli: il D.Lgs. n. 179/2007
demanda difatti a un regolamento Consob la regolamentazione dettagliata di tale materia. Il
regolamento attuativo è il reg. Consob n. 16763/2008. Su questo regolamento cfr. T. MANCINI, Sul regolamento di attuazione del D.Lgs. 8 ottobre 2007, n. 179 (Camera di conciliazione e arbitrato presso la Consob), in questa Rivista, 2008, 347 ss.
(2) Specificamente in materia di conciliazione davanti alla Consob sia consentito il
rinvio a V. SANGIOVANNI, La conciliazione stragiudiziale presso la Consob, in questa Rivista,
2010, 213 ss.
(3) In materia di arbitrato Consob cfr. BASTIANON, La tutela dell’investitore (non professionale) alla luce delle nuove disposizioni in materia di conciliazione ed arbitrato presso
la Consob, in Resp. civ. prev., 2010, 4 ss.; CAVALLINI, La Camera di conciliazione e di arbitrato della Consob: « prima lettura » del D.Lgs. 8 ottobre 2007, n. 179, in Riv. soc., 2007,
1445 ss.; COLOMBO, La Consob e la soluzione extragiudiziale delle controversie in materia di
servizi di investimento, in Società, 2007, 8 ss.; CORSINI, L’arbitrato in materia finanziaria,
Relazione al convegno « L’arbitro nella moderna giustizia arbitrale », Camerino, 24-25 settembre 2010, in corso di pubblicazione negli atti del convegno; CUOMO ULLOA, La camera di
conciliazione e di arbitrato istituita presso la Consob, in Contratti, 2008, 1178 ss.; GASPARRI,
La Camera di conciliazione e arbitrato presso la Consob. Quadro normativo d’insieme e
sintesi applicativa, in Rass. avv. stato, 2010, fasc. 3, 304 ss.; GUERINONI, La conciliazione e
l’arbitrato per le controversie nell’intermediazione finanziaria, in Contratti, 301 ss.; MANCINI, I nuovi strumenti processuali di tutela degli investitori: l’arbitrato amministrato dalla
Consob, in questa Rivista, 2007, 665 ss.; NASCOSI, La nuova Camera di conciliazione e arbitrato presso la Consob, in Nuove leggi civ. comm., 2009, 963 ss.; SERRA, Brevi note sulla disciplina istitutiva della Camera di conciliazione e di arbitrato presso la Consob, in Studium
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dell’arbitrato Consob in maniera sistematica quanto piuttosto a evidenziare
che alcuni passaggi della normativa rischiano di rendere tale strumento arbitrale poco appetibile, soprattutto per gli investitori (ma anche, per altri
profili, per gli intermediari finanziari). Considerato che i risparmiatori — in
forza di espressa previsione di legge (art. 6 D.Lgs. n. 179/2007) — non
sono vincolati alla clausola compromissoria (salvo il caso di trattativa diretta), il rischio è quello che l’arbitrato Consob finisca con l’avere uno
scarso successo pratico.
Il fine principale perseguito dal regolatore, nell’istituire l’arbitrato
Consob, è quello di tutelare l’investitore nei confronti degli intermediari finanziari (4). L’obiettivo è degno di tutela, attesa la situazione di tendenziale
debolezza economica e informativa in cui si trova il risparmiatore. Al fine
di compensare tale inferiorità dell’investitore il legislatore, sulla scorta
delle indicazioni provenienti dal diritto comunitario, cerca — sia con strumenti di diritto sostanziale sia con normative di carattere processuale — di
rafforzarne la posizione. L’istituzione dell’arbitrato Consob, all’interno di
un sistema più ampio di riforme, risponde a quest’ottica. In questo articolo
evidenzieremo tuttavia come la disciplina attuale dell’arbitrato Consob presenti caratteristiche tali da far dubitare che sia in grado di assicurare la realizzazione di quegli obiettivi di tutela che, astrattamente, si propone.
In particolare ci soffermeremo sui seguenti aspetti, che potrebbero —
in definitiva — portare a uno scarso successo pratico dell’istituto:
1) evidenzieremo come la nozione di investitore, cosı̀ come delineata
dalla legge (art. 1 D.Lgs. n. 179/2007), sia eccessivamente restrittiva, escludendo i clienti professionali;
2) l’intermediario assume nel procedimento arbitrale sempre il ruolo
di convenuto; per questa ragione le banche non hanno generalmente (5) interesse a predisporre contratti con clausole compromissorie, dal momento
che l’arbitrato può condurre più velocemente a una loro condanna;
Iuris, 2009, 262 ss.; SOLDATI, La camera arbitrale presso la Consob per le controversie tra
investitori ed intermediari, in Società, 2009, 423 ss.
(4) In tema di tutela degli investitori cfr., sotto vari profili, FAUCEGLIA, La class action nel diritto degli strumenti finanziari e delle società: è possibile una via italiana alla tutela collettiva degli investitori?, in Riv. dir. impr., 2009, 261 ss.; MUNHOZ DE MELLO, Brevi
osservazioni in tema di tutela degli interessi collettivi degli investitori ex art. 32-bis, T.U.F.,
in Riv. dir. proc., 2009, 931 ss.; PARACAMPO, Educazione finanziaria e protezione dei risparmiatori: miti e realtà, in Analisi giur. econ., 2010, 535 ss.; SABATELLI, Validità del prodotto
finanziario My Way e tutela dell’investitore, in Banca, borsa e tit. cred., 2010, II, 356 ss.;
SANGIOVANNI, Class action e tutela contrattuale degli investitori, in Obbl. contr., 2010, 611 ss.
(5) Esistono naturalmente altre ragioni per le quali gli intermediari finanziari potrebbero preferire il ricorso all’arbitrato rispetto alla giustizia statale, fra le quali — a titolo
esemplificativo — si può menzionare il più elevato livello di specializzazione dell’arbitro
Consob rispetto alla magistratura ordinaria. Anche sul punto non si può tuttavia generalizzare
e, nel prosieguo, prescinderemo da un’analisi approfondita dei vantaggi e degli svantaggi
dell’opzione arbitrale.
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3) osserveremo come il ricorso pratico all’arbitrato Consob potrebbe
risultare scarso, avendo l’investitore — pur in presenza di una clausola
compromissoria — la possibilità di rifiutare la via arbitrale e di avvalersi
del giudice ordinario (art. 6 D.Lgs. n. 179/2007);
4) rileveremo come l’oggetto dell’arbitrato Consob sia formulato in
modo troppo restrittivo nel testo legislativo (art. 2 D.Lgs. n. 179/2007), con
l’effetto che rimane fuori dal suo ambito di applicazione un numero elevato
di potenziali controversie fra investitori e intermediari finanziari;
5) sottolineeremo infine come agli arbitri Consob sia riconosciuto un
potere troppo ristretto: solo quello di condannare l’intermediario al pagamento di un indennizzo (rimedio risarcitorio), senza possibilità di pronunciare la nullità o la risoluzione (rimedi restitutori) del contratto d’intermediazione finanziaria (6).
2.
L’esclusione degli investitori professionali dall’ambito di applicazione dell’arbitrato Consob.
Una prima critica di fondo che può essere mossa all’istituto dell’arbitrato Consob, quale risultante dall’attuale normativa, è quella di aver fatto
propria una nozione eccessivamente ristretta d’investitore.
Allo stato attuale della disciplina legislativa e regolamentare, gli investitori vanno distinti in tre categorie: 1) gli investitori al dettaglio; 2) i
clienti professionali; 3) le controparti qualificate. La ratio di questa distinzione è, in prima istanza, di carattere sostanziale (e non processuale): modulare le norme di comportamento degli intermediari finanziari a seconda
della minore o maggiore competenza ed esperienza dei soggetti con cui si
(6) Sul contratto d’intermediazione finanziaria v. ACHILLE, Contratto d’intermediazione finanziaria e violazione degli obblighi d’informazione: tra nullità del contratto e responsabilità dell’intermediario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, 1451 ss.; CALISAI, La violazione degli obblighi di comportamento degli intermediari finanziari - Il contratto di intermediazione davanti ai giudici, fino alla tanto attesa (o forse no) pronuncia delle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione, in Riv. dir. comm., 2008, II, 155 ss.; GUADAGNO, I confini dell’informazione precontrattuale e la « storia infinita » dei contratti di intermediazione finanziaria, in Riv. dir. comm., 2009, I, 241 ss.; GUERINONI, Le controversie in tema di contratti di investimento: forma, informazione, ripensamento e operatore qualificato, in Corr. giur., 2011,
35 ss.; LA ROCCA, Il contratto di intermediazione mobiliare tra teoria economica e categorie
civilistiche, in Riv. crit. dir. priv., 2009, 107 ss.; MICHIELI, Principi generali del contratto di
attività di intermediazione finanziari: limiti alla risarcibilità del danno non prevedibile, in
Giur. comm., 2009, II, 416 ss.; MIRIELLO, Intermediazione finanziaria: inquadramento contrattuale e conseguenze dell’inosservanza degli obblighi informativi. Prime note, in Resp.
civ., 2008, 451 ss.; ROPPO, Sui contratti del mercato finanziario, prima e dopo la Mifid, in Riv.
dir. priv., 2008, 485 ss.; SANGIOVANNI, Il contratto d’intermediazione finanziaria, in Obbl.
contr., 2011, 770 ss.; SANGIOVANNI, La nuova disciplina dei contratti di investimento dopo
l’attuazione della Mifid, in Contratti, 2008, 173 ss.
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interfacciano. L’obiettivo del legislatore, che segue sul punto le indicazioni
del diritto comunitario, è quello di offrire una maggiore tutela agli investitori al dettaglio, che si presumono avere scarsa competenza ed essere poco
esperti dei mercati mobiliari. Al fine di rimuovere tale debolezza i piccoli
investitori sono destinatari di stringenti norme di comportamento, alla cui
osservanza sono tenuti gli intermediari finanziari. Per quanto riguarda le altre categorie (clienti professionali e operatori qualificati), esse vengono invece presunte avere competenze ed esperienze tali da necessitare di minor
tutela quando interagiscono con gli intermediari.
Cerchiamo di comprendere meglio cosa si intenda con « cliente al
dettaglio », dovendosi peraltro premettere che — purtroppo — la ricostruzione della nozione legislativa e regolamentare di cliente al dettaglio rilevante ai fini dell’arbitrato Consob si rivela piuttosto complessa, basandosi
su di un meccanismo di rinvii multipli fra leggi e regolamenti.
La definizione di investitore non è contenuta direttamente nel D.Lgs.
n. 179/2007, bensı̀ in un allegato al reg. Consob n. 16190/2007 (7). Il
D.Lgs. in materia di arbitrato Consob si limita a dire che per investitori si
intendono gli « investitori diversi dai clienti professionali di cui all’art. 6,
commi 2-quinquies e 2-sexies, del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 » (art. 1,
lett. a, D.Lgs. n. 179/2007). I commi 2-quinquies (8) e 2-sexies (9) dell’art.
6 T.U.F. non danno direttamente la nozione di investitore professionale, ma
rinviano — a loro volta — a dei regolamenti (10).
(7) Il reg. Consob n. 16190/2007 è riprodotto, ad esempio, in DE IULIIS, Principi di
diritto del mercato finanziario, Torino, 2008, 240 ss. Sui regolamenti attuativi della Consob
cfr. DURANTE, Con il nuovo regolamento intermediari, regole di condotta « flessibili » per la
prestazione dei servizi di investimento, in Giur. mer., 2008, 628 ss.; RINALDI, Il decreto Mifid
e i regolamenti attuativi: principali cambiamenti, in Società, 2008, 12 ss.; SANGIOVANNI, Informazioni e comunicazioni pubblicitarie nella nuova disciplina dell’intermediazione finanziaria dopo l’attuazione della direttiva Mifid, in Giur. it., 2008, 785 ss.
(8) L’art. 6, comma 2-quinquies, T.U.F. prevede che « la Consob, sentita la Banca
d’Italia, individua con regolamento i clienti professionali privati nonché i criteri di identificazione dei soggetti privati che su richiesta possono essere trattati come clienti professionali
e la relativa procedura di richiesta ».
(9) L’art. 6, comma 2-sexies, T.U.F. stabilisce che « il Ministro dell’economia e delle
finanze, sentita la Banca d’Italia e la Consob, individua con regolamento i clienti professionali pubblici nonché i criteri di identificazione dei soggetti pubblici che su richiesta possono
essere trattati come clienti professionali e la relativa procedura di richiesta ».
(10) Per quanto riguarda le controparti qualificate la legge (art. 6, comma 2-quater,
T.U.F.) le definisce come: « 1) le imprese di investimento, le banche, le imprese di assicurazione, gli OICR, le SGR, le società di gestione armonizzate, i fondi pensione, gli intermediari finanziari iscritti negli elenchi previsti dagli artt. 106, 107 e 113 del testo unico bancario, le società di cui all’art. 18 del testo unico bancario, gli istituti di moneta elettronica, le
fondazioni bancarie, i Governi nazionali e i loro corrispondenti uffici, compresi gli organismi
pubblici incaricati di gestire il debito pubblico, le banche centrali e le organizzazioni sovranazionali a carattere pubblico; 2) le imprese la cui attività principale consista nel negoziare
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Il regolamento Consob cui fare riferimento è il reg. n. 16190/2007, il
quale contiene diverse definizioni d’investitore; tale regolamento distingue
inoltre, letteralmente, fra « cliente » (nella gestione individuale del risparmio) e « investitore » (nella gestione collettiva del risparmio). Le disposizioni che rilevano sono l’art. 26 reg. n. 16190/2007 per la gestione individuale e l’art. 64 per quella collettiva. L’art. 26, lett. d, reg. n. 16190/2007
definisce come cliente professionale « il cliente professionale privato che
soddisfa i requisiti di cui all’allegato n. 3 al presente regolamento e il
cliente professionale pubblico che soddisfa i requisiti di cui al regolamento
emanato dal Ministro dell’economia e delle finanze » (11). Il cliente al dettaglio può essere identificato per esclusione rispetto alle altre categorie,
trattandosi del « cliente che non sia cliente professionale o controparte qualificata » (art. 26, lett. e, reg. n. 16190/2007). L’art. 64 reg. n. 16190/2007
definisce come « investitore al dettaglio » « l’investitore che non sia in
possesso dei requisiti previsti per i clienti professionali privati dall’allegato
n. 3 al presente regolamento e per i clienti professionali pubblici dal regolamento emanato dal Ministro dell’economia e delle finanze ». In definitiva
la definizione di cliente professionale privato è rinvenibile nell’allegato n.
3 al reg. n. 16190/2007. Per cliente professionale si intende « un cliente che
possiede l’esperienza, le conoscenze e la competenza necessarie per prendere consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti e per
valutare correttamente i rischi che assume ». L’allegato distingue poi fra
clienti professionali di diritto e clienti professionali su richiesta.
I clienti professionali (e le controparti qualificate) non sono menzionati fra i soggetti che possono avvalersi dello strumento dell’arbitrato Consob. Ad avviso di chi scrive l’esclusione dei clienti professionali da questa
forma di soluzione delle controversie non ha una convincente ragion d’essere. Una volta che si è creata una struttura apposita specializzata nella soluzione delle liti in materia di gestione individuale e collettiva del risparmio, non si vede per quale motivo la camera arbitrale presso la Consob non
possa essere utilizzata anche dai clienti professionali. Secondo chi scrive
sarebbe pertanto opportuno modificare l’art. 1 del D.Lgs. n. 179/2007, al
fine di consentire l’accesso all’arbitrato Consob a tutti gli investitori, senza
per conto proprio merci e strumenti derivati su merci; 3) le imprese la cui attività esclusiva
consista nel negoziare per conto proprio nei mercati di strumenti finanziari derivati e, per
meri fini di copertura, nei mercati a pronti, purché esse siano garantite da membri che aderiscono all’organismo di compensazione di tali mercati, quando la responsabilità del buon
fine dei contratti stipulati da dette imprese spetta a membri che aderiscono all’organismo di
compensazione di tali mercati; 4) le altre categorie di soggetti privati individuati con regolamento della Consob, sentita Banca d’Italia, nel rispetto dei criteri di cui alla direttiva 2004/
39/CE e alle relative misure di esecuzione; 5) le categorie corrispondenti a quelle dei numeri
precedenti di soggetti di Paesi non appartenenti all’Unione europea ».
(11) Nel prosieguo ometteremo di occuparci dei clienti professionali pubblici, per
concentrarci su quelli privati.
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operare distinzioni a seconda del criterio della natura (professionale o
meno) del risparmiatore.
3.
Lo scarso interesse dell’intermediario finanziario a inserire nei contratti clausole compromissorie per arbitrato Consob.
La prassi evidenzia come il contratto d’intermediazione finanziaria sia
predisposto dall’intermediario; esso viene poi sottoscritto, sostanzialmente
per adesione, dall’investitore. Si tratta generalmente di un modello predisposto dalla banca, rispetto al quale il risparmiatore non ha alcuna realistica
possibilità di negoziazione. In linea di principio dunque l’intermediario può
dare al contratto il contenuto che preferisce e, nella scelta delle clausole,
tenderà a privilegiare quelle a proprio vantaggio.
A beneficio dell’investitore bisogna però evidenziare che il contenuto
minimo del contratto d’intermediazione finanziaria è già per ampia parte
(pre-)determinato da un regolamento Consob. L’art. 37 reg. n. 16190/2007
prevede in dettaglio quale debba essere il contenuto di tale contratto. In
forza di regolamento il contratto deve pertanto regolare alcuni aspetti, e si
tratta dei profili in cui sono maggiori le esigenze di tutela dell’investitore.
Con riferimento al contenuto minimo del contratto d’intermediazione finanziaria, ai fini che qui interessano basta rilevare come esso debba — fra le
altre cose — indicare le eventuali procedure di arbitrato per la risoluzione
di controversie (art. 37, comma 2, lett. i, reg. n. 16190/2007).
Viene allora da chiedersi se gli intermediari finanziari abbiano realmente interesse a inserire nei contratti delle clausole compromissorie che
devolvono le future controversia all’arbitrato Consob. Le banche si trovano
di fronte alla necessità di operare una valutazione anticipata di quelli che
sono i potenziali benefici di tale scelta. Si afferma in modo ricorrente che
uno dei vantaggi principali dell’arbitrato rispetto alla giustizia statale è la
velocità con cui si giunge a una decisione definitiva. Il problema è che,
nell’arbitrato Consob, l’investitore assume sempre il ruolo di attore e l’intermediario di convenuto: l’unico esito possibile è una condanna della
banca, non del risparmiatore. Questa predeterminazione dei ruoli che ciascuna parte può assumere (investitore solo attore e banca solo convenuta)
si riflette sulle domande che le parti possono presentare. In virtù del principio del contraddittorio, l’intermediario finanziario può naturalmente sollevare ogni genere di eccezione rispetto alle pretese avanzate del risparmiatore. Tuttavia, verosimilmente, all’intermediario convenuto in giudizio arbitrale Consob non dovrebbe essere consentito proporre domande riconvenzionali (12). Il ragionamento è nel senso che se la banca non può agire in
(12)
In questo senso CORSINI, op. cit., 4.
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arbitrato nei confronti dell’investitore, allo stesso modo non dovrebbe avere
il potere di estendere l’oggetto del contendere sottoponendo agli arbitri
Consob domande (riconvenzionali) che non sono state presentate dal risparmiatore.
Anche sotto questo profilo l’arbitrato Consob appare avere un oggetto
eccessivamente limitato e, per questa ragione, sussiste il rischio che sia destinato all’insuccesso pratico. Gli intermediari, sotto il profilo della celerità
della soluzione della controversia e dell’ampiezza delle questioni che possono essere oggetto di giudizio (riconvenzionali), non hanno realisticamente interesse a devolvere ad arbitrato Consob le loro liti con gli investitori. Per tali ragioni le banche possono essere indotte a evitare l’inserimento
nei contratti di clausole compromissorie, in quanto — cosı̀ facendo — rischiano di essere condannati velocemente senza possibilità di presentare
domande riconvenzionali.
4.
La facoltatività dell’arbitrato Consob per l’investitore, salvo il caso
della trattativa diretta.
Altri dubbi di fondo sul rilievo che l’arbitrato Consob potrà effettivamente assumere nella prassi emergono per il fatto che la legge consente all’investitore, pur in presenza di apposita clausola compromissoria, d’ignorare tale pattuizione e di adire direttamente la giustizia ordinaria evitando il
procedimento arbitrale. La disposizione sulla quale soffermarci è quella che
prevede la sostanziale facoltatività dell’arbitrato Consob per il risparmiatore: l’art. 6 D.Lgs. n. 179/2007 consente sı̀ di prevedere che venga inserita
nei contratti d’intermediazione finanziaria una clausola compromissoria,
ma statuisce altresı̀ che tale clausola è vincolante solo per l’intermediario
(salvo il caso della trattativa diretta).
Con riferimento al testo contrattuale in cui deve essere inserita la
clausola compromissoria, la disposizione si riferisce alle clausole inserite
« nei contratti stipulati con gli investitori relativi ai servizi e attività di investimento ». Tali contratti vanno debitamente qualificati come « contratti
d’intermediazione finanziaria ». La norma di legge vuole fare riferimento
alla materia della intermediazione finanziaria in senso lato. Il legislatore ricomprende sia i contratti relativi alla prestazione di servizi e attività di investimento (gestione individuale) sia i contratti concernenti la gestione collettiva del risparmio. Sotto questo profilo non è dunque certo possibile
contestare all’attuale disciplina dell’arbitrato Consob di avere un campo di
applicazione eccessivamente limitato.
In questo contesto è utile una notazione in riferimento alla distinzione
fra clausola compromissoria e compromesso. Come è noto, secondo le regole generali l’accordo arbitrale può risultare — oltre che da una clausola
compromissoria — anche da un compromesso (art. 807 c.p.c.). Nel conte431
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sto invece dell’arbitrato Consob ci si riferisce solo alla « clausola compromissoria » (art. 6 D.Lgs. n. 179/2007). Pare tuttavia che, sotto questo profilo, non possano farsi eccezioni alla regola generale: non si vedono ostacoli di fondo alla possibilità che le parti di un contratto d’intermediazione
finanziaria, dopo che è nata la controversia, si accordino per devolverla a
giudizio arbitrale avvalendosi di un compromesso ad hoc. Tuttavia, dal
punto di vista pratico, per le ragioni che si stanno esponendo in questo articolo, è improbabile che vi sia la disponibilità delle parti alla sottoscrizione
di un apposito compromesso una volta che la lite è sorta. Rimane da chiarire per quale ragione il legislatore, nell’art. 6 D.Lgs. n. 179/2007, faccia
riferimento alla sola clausola compromissoria omettendo ogni riferimento
al compromesso: verosimilmente, a fronte di un compromesso, la scelta in
favore dell’arbitrato deve considerarsi vincolante per le parti. Mentre nel
caso di clausola compromissoria (quando la controversia è futura ed eventuale) il legislatore non ha voluto che l’investitore potesse reputarsi definitivamente vincolato alla scelta originariamente effettuata, la prospettiva è
diversa nel caso di compromesso. In questa ipotesi la lite già sussiste e chi
firma un apposito atto di devoluzione ad arbitrato ben sa quali sono le conseguenze immediate del suo comportamento e non può, pertanto, revocare
la propria scelta.
Abbiamo detto che la caratteristica peculiare della clausola compromissoria per arbitrato Consob è la sua vincolatività solo per l’intermediario. In altre parole, una volta che è sorta la lite, mentre la banca che voglia
agire in giudizio deve necessariamente instaurare un procedimento arbitrale, ciò non vale per l’investitore, il quale potrebbe invece adire direttamente l’autorità giudiziaria, saltando il percorso arbitrale. La legge prevede
peraltro un’eccezione alla facoltatività dell’arbitrato Consob: il ricorso all’arbitrato è obbligatorio (anche per l’investitore, e non solo per l’intermediario) se la clausola compromissoria è stata oggetto di trattativa diretta.
Bisogna allora capire cosa intenda in questa sede il legislatore per
« trattativa diretta ». La considerazione di fatto da cui partire è che, nella
quasi totalità dei casi, il contratto d’intermediazione finanziaria è predisposto dall’intermediario; esso viene poi sottoscritto, sostanzialmente per adesione, dall’investitore. Il mero fatto che nel contratto sia prevista la clausola per arbitrato Consob non basta certo per affermare che essa sia stata
oggetto di trattativa diretta. In merito alla nozione di « trattativa diretta » si
potranno fare strada in sostanza, nell’applicazione giurisprudenziale, due
possibili interpretazioni.
Secondo una prima interpretazione, si potrà parlare di trattativa diretta nel caso in cui la clausola è stata oggetto di specifica approvazione per
iscritto da parte dell’investitore: si tratta del modello previsto dall’art. 1341,
comma 2, c.c. per le clausole particolarmente favorevoli per colui che le ha
predisposte. L’intermediario che desidera l’uso dello strumento arbitrale fa
dunque bene ad assicurarsi che la clausola compromissoria contenuta nel
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contratto venga firmata per una seconda volta dall’investitore, altrimenti si
trova esposto all’accezione che la devoluzione ad arbitrato non è validamente avvenuta.
Si potrebbe peraltro fare strada una seconda interpretazione, più restrittiva e favorevole per l’investitore, secondo la quale nemmeno la specifica sottoscrizione per iscritto è sufficiente. L’espressione « trattativa diretta » pare indicare la necessità che la clausola arbitrale debba essere stata
oggetto di vere e proprie apposite negoziazioni fra le parti. Di trattativa diretta (o, più precisamente, di trattativa « individuale ») parla anche il codice
del consumo per stabilire, all’art. 34, comma 4, che non sono vessatorie le
clausole che sono state oggetto di trattativa individuale (13). La ratio di
queste disposizioni è quella di far sı̀ che i « consumatori » (nell’arbitrato
Consob gli « investitori », da considerarsi un sottoinsieme dei consumatori;
del resto, come abbiamo visto, gli investitori professionali sono esclusi dal
suo ambito di applicazione) acquisiscano piena contezza del significato
della clausola che sottoscrivono. Se la clausola è oggetto di trattativa diretta
(o individuale, che dir si voglia) è difficile che la parte debole del rapporto
contrattuale non abbia compreso quali siano il suo significato e i suoi effetti.
Se dovesse prevalere questa seconda interpretazione (trattativa diretta
da intendersi come vera e propria negoziazione ad hoc, e non come mera
sottoscrizione specifica della clausola), è consigliabile che il testo contrattuale specifichi — con un minimo di dettaglio — come siano avvenute tali
trattative. Si può ipotizzare che la clausola sia preceduta da una sorta d’introduzione nella quale si specifica che si è raggiunto pieno e consapevole
accordo sul punto: si immagini una formulazione del tipo « le parti, dopo
accurate discussioni in merito, concordano liberamente sulla volontà di devolvere ad arbitrato amministrato dalla Consob le controversie che dovessero insorgere fra di loro ». Anche una clausola del genere potrebbe però
essere ritenuta di stile. Se dovesse farsi strada questa seconda interpretazione più restrittiva, l’intermediario finanziario potrebbe insomma incontrare delle difficoltà a dimostrare la trattativa diretta (14).
Esaminata la regola (facoltatività dell’arbitrato per l’investitore) e
l’eccezione (obbligatorietà quando la clausola compromissoria sia il risultato di trattativa diretta) in materia, possiamo ora comprendere meglio la
ratio di queste disposizioni. Il legislatore teme che l’investitore, nel firmare
il contratto d’intermediazione finanziaria, non abbia piena consapevolezza
della presenza — e soprattutto degli effetti — di una clausola compromis-
(13) Sulla nozione di « trattativa » nel codice del consumo cfr. TRIPODI, in Commento
agli artt. 33-38, Codice del consumo, a cura di E. TRIPODI - C. BELLI, II ed., Santarcangelo di
Romagna, 2008, 198 ss.
(14) CORSINI, op. cit., 5.
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soria e si trovi successivamente costretto a « subire » un procedimento arbitrale senza possibilità di rivolgersi all’autorità giudiziaria. Laddove invece proprio la clausola compromissoria sia stato oggetto di specifica trattativa, allora il risparmiatore — avendo operato una scelta consapevole —
non si può sottrarre alla procedura arbitrale. Lo scopo perseguito dalla
norma pare complessivamente convincente. Non si deve dimenticare che il
contratto ha forza di legge fra le parti (art. 1372 c.c.) e che la possibilità,
prevista per l’investitore, di sottrarsi alla clausola compromissoria nonostante la sottoscrizione del contratto rappresenta una deroga a tale principio
e un indubbio rafforzamento della sua posizione. D’altro canto, quando il
consenso del risparmiatore è stato debitamente prestato in modo informato,
non si vedono motivi sostanziali ostativi al ricorso all’arbitrato.
La previsione attuale della facoltatività del ricorso all’arbitrato pur in
presenza di clausola compromissoria nel contratto non rappresenta certo un
profilo di scarsa tutela dell’investitore. Al contrario, il risparmiatore è fortemente protetto in quanto, nonostante la propria originaria dichiarazione di
volontà, può sottrarsi alla necessità di percorrere la via arbitrale. Si tratterà
allora di vedere, nella prassi, con quale frequenza gli investitori vorranno
richiamarsi alla facoltatività del procedimento arbitrale ed evitarlo. Si può
pronosticare che un buon numero di risparmiatori preferirà rivolgersi all’autorità giudiziaria. Questo possibile esito (tendenziale fuga dall’arbitrato
Consob) è riconducibile anche alla circostanza che, nelle controversie in
materia d’intermediazione finanziaria, quasi sempre l’investitore assume il
ruolo di attore, citando in giudizio l’intermediario. Per questa ragione, mirando a ottenere una condanna della banca, il risparmiatore potrebbe avere
generalmente maggiore fiducia nella giustizia ordinaria rispetto a quella arbitrale. In secondo luogo, e mi pare l’aspetto più rilevante (di cui andiamo
a occuparci nei paragrafi successivi), non tutti gli aspetti che caratterizzano
comunemente le controversie fra investitori e intermediari rientrano nella
nozione di controversie arbitrabili di cui all’art. 2, comma 1, D.Lgs. n.
179/2007.
5.
Le norme di comportamento degli intermediari finanziari.
Una critica di base all’attuale disciplina dell’arbitrato Consob può essere mossa con riferimento alle controversie arbitrabili. La legge prevede
difatti che la camera arbitrale Consob si occupi delle controversie insorte
fra gli investitori e gli intermediari per la violazione da parte di questi degli « obblighi di informazione, correttezza e trasparenza previsti nei rapporti contrattuali con gli investitori » (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 179/
2007). Tale oggetto appare eccessivamente limitato e non idoneo a comprendere tipologie di controversie che sono invece del tutto caratteristiche
dell’intermediazione finanziaria. L’analisi del contenzioso che ha occupato
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negli ultimi anni i giudici italiani mostra che esistono categorie di controversie ulteriori rispetto a quelle tipizzate dalla legge che disciplina l’arbitrato Consob. La conseguenza di questa divergenza fra le controversie tipiche in ambito d’intermediazione finanziaria e la descrizione che ne fa la
legge è che la domanda di arbitrato predisposta dall’investitore potrebbe,
frequentemente, toccare aspetti che — a rigore — non sono coperti dall’oggetto dell’arbitrato Consob cosı̀ come descritto dalla legge. Ciò porterà verosimilmente i risparmiatori a evitare tale arbitrato speciale per adire immediatamente l’autorità giudiziaria, non ponendosi — dinanzi a questa —
limiti particolari con riferimento all’oggetto della domanda.
Per capire la portata della problematica cui sto alludendo è necessario
analizzare in via preliminare, seppur solo per sommi capi, le diverse tipologie di contenzioso in ambito d’intermediazione finanziaria quale risultante dalla prassi dei tribunali italiani degli ultimi anni.
Una prima parte del contenzioso cui si è assistito negli ultimi anni
concerne i doveri informativi degli intermediari finanziari (15). Il presupposto della disciplina legislativa è la sussistenza, fra le parti del contratto, di
profonde asimmetrie: mentre l’intermediario è un soggetto professionale,
competente ed esperto di mercati finanziari, l’investitore non dispone di
corrispondenti competenze ed esperienze. Al fine di rimuovere tali diffe(15) In tema di doveri informativi degli intermediari finanziari cfr. la recente monografia di F. GRECO, Informazione pre-contrattuale e rimedi nella disciplina dell’intermediazione finanziaria, Milano, 2010. V. inoltre ALPA, Gli obblighi informativi precontrattuali nei
contratti di investimento finanziario. Per l’armonizzazione dei modelli regolatori e per l’uniformazione delle regole di diritto comune, in Econ. dir. terz., 2009, 395 ss.; BERTOLINI, Problemi di forma e sanzioni di nullità nella disciplina a tutela dell’investitore. Perequazione
informativa o opportunismo rimediale?, in Resp. civ. prev., 2010, 2333; BRUNO, L’esperienza
dell’investitore e l’informazione « adeguata » e « necessaria », in Giur. comm., 2008, II, 391
ss.; FRUMENTO, Le informazioni fornite ai clienti, in La Mifid in Italia, a cura di L. ZITIELLO,
Torino, 2009, 279 ss.; GOBIO CASALI, Prodotti assicurativi finanziari: disciplina normativa,
qualificazione giuridica e tutela informativa del risparmiatore, in Giust. civ., 2010, II, 301
ss.; GRECO, Intermediazione finanziaria e regole d’informazione: la disomogeneità del quadro rimediale e la « tranquillità » della tradizione, in Resp. civ. prev., 2010, 2561 ss.; GRECO,
Obbligazioni Cirio e violazione dell’obbligo di informazione: un ulteriore tassello sul tavolo
della roulette della giurisprudenza, in Resp. civ. prev., 2010, 428 ss.; MARAGNO, L’orientamento del Tribunale di Venezia in tema di sanzioni degli inadempimenti ai doveri informativi a carico degli intermediari finanziari, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 1280 ss.; MUSCO CARBONARO - PANTALEO, Impatto della Mifid sul contenzioso tra banche e clienti — Gli
obblighi informativi, in La Mifid, cit., 917 ss.; NATOLI, Le informazioni dei risparmiatori nella
formazione del contratto « di risparmio », in Contratti, 2010, 67 ss.; PURPURA, Strumenti finanziari e dovere di informazione degli intermediari: un « moderno » approccio giurisprudenziale a confronto con la normativa post Mifid, in Banca, borsa e tit. cred., 2010, I, 609
ss.; ROMEO, Informazione e intermediazione finanziaria, in Nuove leggi civ. comm., 2010, 647
ss.; SANGIOVANNI, Omessa informazione sulla rischiosità dell’investimento e risoluzione del
contratto, in Corr. mer., 2009, 973 ss.; SARTORI, Violazione delle regole informative e modelli
di responsabilità, in L’attuazione della Mifid in Italia, a cura di R. D’APICE, Bologna, 2010,
615 ss.
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renze, il legislatore impone la comunicazione di informazioni dalla banca
al risparmiatore. Il principio è espresso a livello normativo nell’art. 21
T.U.F., nel passaggio in cui si afferma che, nella prestazione dei servizi e
delle attività di investimento, i soggetti abilitati devono acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre
adeguatamente informati.
Va subito precisato che la materia dei doveri informativi degli intermediari finanziari è espressamente ricompresa nell’ambito di applicazione
dell’arbitrato Consob. Tuttavia sussistono altri aspetti che la disciplina normativa di tale arbitrato appare ignorare: il riferimento è alla regola c.d. di
« adeguatezza » delle operazioni d’investimento, alla regola che impone
d’identificare e gestire i conflitti d’interessi e all’eccezione di nullità del
contratto-quadro per assenza di forma. Analizziamo separatamente questi
aspetti.
In aggiunta al dovere d’informare gli investitori, una seconda importante regola di comportamento degli intermediari finanziari è quella che
viene definita di « adeguatezza » delle operazioni di investimento (16). Stranamente tale regola non ha una base normativa primaria: in particolare
l’art. 21 T.U.F. non se ne occupa. La regola di adeguatezza trova invece
espresso riscontro nella normativa secondaria: ne trattano gli artt. 39-40
reg. n. 16190/2007. Con il nuovo regolamento intermediari n. 16190/2007,
che ha abrogato e sostituito il precedente regolamento n. 11522/1998, la regola di adeguatezza si è ora sdoppiata in « adeguatezza » e « appropriatezza » (artt. 41-42 reg. n. 16190/2007) (17). Senza entrare in eccessivo dettaglio nell’analisi della normativa regolamentare, basta qui ricordare che il
principio di adeguatezza impone agli intermediari di valutare che « la specifica operazione consigliata o realizzata nel quadro della prestazione del
servizio di gestione di portafogli soddisfi i seguenti criteri: a) corrisponda
agli obiettivi di investimento del cliente; b) sia di natura tale che il cliente
(16) Sulla regola di adeguatezza degli investimenti finanziari cfr. ANTONUCCI, Declinazioni della suitability rule e prospettive di mercato, in Banca, borsa e tit. cred., 2010, I,
728 ss.; FIORIO, Onere della prova, nesso di causalità ed operazioni non adeguate, in Giur.
it., 2010, 343 ss.; GRECO, Intermediazione finanziaria: rimedi e adeguatezza in concreto, in
Resp. civ. prev., 2008, 2556 ss.; GUADAGNO, Inadeguatezza e nullità virtuale, in Nuova giur.
civ. comm., 2010, I, 460 ss.; MALERBA - BENTOGLIO, Impatto della Mifid sul contenzioso tra
banche e clienti — I profili di adeguatezza e appropriatezza, in La Mifid, cit., 939 ss.; SANGIOVANNI, L’adeguatezza degli investimenti prima e dopo la Mifid, in Corr. giur., 2010, 1385
ss.; SANGIOVANNI, Informazione sull’adeguatezza dell’operazione finanziaria e dovere di astenersi, in Corr. giur., 2009, 1257 ss.; SANTOCCHI, Le valutazioni di adeguatezza e di appropriatezza nei rapporti contrattuali fra intermediario e cliente, in I contratti del mercato finanziario, a cura di GABRIELLI - LENER, 1o vol., Torino, 2011, 281 ss.; SARTORI, Le regole di adeguatezza e i contratti di borsa: tecniche normative, tutele e prospettive Mifid, in Riv. dir. priv.,
2008, 25 ss.; SPREAFICO - PENNATI, L’adeguatezza e l’appropriatezza, in La Mifid, cit., 327 ss.
(17) Cui bisogna aggiungere la disciplina della mera esecuzione o ricezioni di ordini
(artt. 43-44 reg. n. 16190/2007).
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sia finanziariamente in grado di sopportare qualsiasi rischio connesso all’investimento compatibilmente con i suoi obiettivi di investimento; c) sia
di natura tale per cui il cliente possieda la necessaria esperienza e conoscenza per comprendere i rischi inerenti all’operazione o alla gestione del
suo portafoglio » (art. 40, comma 1, reg. n. 16190/2007). La ratio della regola di adeguatezza è quella di assicurare che l’intermediario finanziario
compia solo operazioni « adatte » sotto ogni profilo per l’investitore. L’affermazione di un principio del genere è importante in quanto la banca si
trova a compiere operazioni su di un patrimonio che non le appartiene.
L’adeguatezza degli investimenti è espressione della diligenza particolarmente elevata (e sicuramente di natura professionale: v. l’art. 1176, comma
2, c.c.) che l’intermediario finanziario deve porre nell’investire un patrimonio altrui.
Cosa succede se un investitore mette in dubbio l’osservanza della regola di adeguatezza e intende procedere nei confronti dell’intermediario finanziario per ottenere un risarcimento del danno (o far valere un altro rimedio) in conseguenza della violazione di tale norma di comportamento?
Le questioni concernenti l’inosservanza della regola di adeguatezza, se ci
limitiamo a un’analisi del testo della legge, non paiono ricomprese nell’elenco delle controversie devolvibili all’arbitrato Consob, con la conseguenza che la camera arbitrale potrebbe essere ritenuta non dotata — ex
lege — del potere di giudicare in merito.
Si potrebbero tentare interpretazioni estensive atte a comprendere nel
potere decisionale della camera arbitrale anche la regola di adeguatezza. Si
potrebbe difatti argomentare nel senso che i termini « correttezza » e « trasparenza », utilizzati dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 179/2007, debbano ritenersi — per la loro ampiezza — idonei a ricomprendere anche la regola
di adeguatezza (e, in senso ancora più esteso, tutte le norme di comportamento degli intermediari finanziari). Non è al momento dato sapere se si
farà strada un’interpretazione cosı̀ ampia del testo legislativo. Chi scrive ritiene che una soluzione del genere sarebbe astrattamente auspicabile, al fine
di garantire piena operatività alla camera arbitrale presso la Consob: non
pare sensato istituire un organo apposito, dotato di alta specializzazione,
per poi limitare — in maniera ingiustificata — l’ambito delle materie in cui
può rendere giudizio. Rimane però ferma la sensazione che il legislatore
non sia stato preciso nel definire l’ambito di applicazione oggettivo dell’arbitrato Consob, limitandolo eccessivamente: un riferimento a tutte le norme
di comportamento degli intermediari finanziari (o, meglio ancora, a tutti i
rapporti contrattuali intercorrenti fra intermediari e clienti), senza limitazione alcuna, avrebbe tolto qualsiasi dubbio e attribuito un potere decisionale più ampio agli arbitri Consob.
Una situazione analoga a quella prospettata in relazione alla regola di
adeguatezza appena esaminata si pone con riferimento alla terza norma di
comportamento degli intermediari finanziari, quella concernente i conflitti
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d’interessi (18). Al riguardo la legge prevede che, nella prestazione dei servizi d’investimento, gli intermediari: « a) adottano ogni misura ragionevole
per identificare i conflitti di interesse che potrebbero insorgere con il cliente
o fra clienti, e li gestiscono... b) informano chiaramente i clienti, prima di
agire per loro conto, della natura generale e/o della fonti dei conflitti di interesse quando le misure adottate ai sensi della lettera a) non sono sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere agli
interessi dei clienti sia evitato » (art. 21, comma 1-bis, T.U.F.). Anche nel
caso del conflitto d’interessi, l’investitore potrebbe contestare il rispetto
della regola e agire nei confronti dell’intermediario finanziario. Tuttavia, a
limitarsi al tenore letterale del testo della legge, questo tipo di controversia
non pare compresa nell’oggetto dell’arbitrato Consob, salvo considerarla —
come accennato sopra — parte dei più ampi obblighi di « informazione,
correttezza e trasparenza » cui sono tenuti gli intermediari finanziari.
A ciò si aggiunga che, esaminando il regolamento Consob, si possono
individuare altri comportamenti cui sono tenuti gli intermediari finanziari e
la cui violazione non pare possa essere assoggettata all’arbitrato Consob. In
dottrina si è in particolare evidenziato il caso della regola della c.d. « best
execution » (19): l’art. 45 reg. n. 16190/2007 impone agli intermediari di
adottare tutte le misure ragionevoli per ottenere, allorché eseguono ordini,
il miglior risultato possibile per i loro clienti. Se un investitore contesta che
questa regola non è stata osservata, il testo della legge non pare consentire
la rimessione della controversia a decisione arbitrale Consob. Non si tratta
difatti certamente di un dovere informativo della banca; bisognerebbe, con
notevole flessibilità interpretativa, ricondurre tale comportamento a una
condotta in violazione della regola di correttezza, al fine di farlo ricadere
tra i comportamenti di cui può occuparsi l’arbitro Consob.
Complessivamente rimane la sensazione di un’elencazione delle controversie arbitrabili operata dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 179/2007 non
ben riuscita (per difetto). Fra l’altro tale formulazione eccessivamente restrittiva stride con quella usata nel successivo art. 8 D.Lgs. n. 179/2007.
Disciplinando difatti il fondo di garanzia per i risparmiatori e gli investitori, la legge si riferisce a danni patrimoniali causati dalla violazione delle
(18) In materia di conflitto d’interessi nella prestazione dei servizi d’investimento cfr.
CALLEGARO, Validità del contratto, conflitti di interesse e responsabilità nell’intermediazione
finanziaria, in Contratti, 2010, 605 ss.; INZITARI, Violazione del divieto di agire in conflitto
d’interessi nella negoziazione di strumenti finanziari, in Corr. giur., 2009, 976 ss.; LENER,
Conflitti di interesse fra intermediario e cliente, in I contratti, cit., 313 ss.; MARIANI - ZANIN,
Impatto della Mifid sul contenzioso tra banche e clienti — Il conflitto di interessi, in La Mifid, cit., 957 ss.; MOCCI, Il conflitto di interessi: mappatura dei conflitti, costruzione della
conflict policy, registro dei conflitti di interessi, in La Mifid, cit., 170 ss.; ROMEO, Il conflitto
di interessi nei contratti di intermediazione, in Contratti, 2009, 441 ss.
(19) Cosı̀ BASTIANON, op. cit., 13.
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norme che disciplinano le attività di cui alla parte II del T.U.F. La parte II
del T.U.F. è tutta la disciplina degli intermediari (artt. 5-60-bis T.U.F.): vi
rientrano, fra gli altri, l’art. 21 (che detta le norme di comportamento) e
l’art. 23 (sui contratti di intermediazione finanziaria). Ad avviso di chi
scrive si sarebbe potuta utilizzare una terminologia simile nell’art. 2,
comma 1, D.Lgs. n. 179/2007. In questo modo si sarebbero evitati quei
dubbi interpretativi che purtroppo sussistono e che si è cercato di evidenziare in questo scritto.
6.
La nullità per difetto di forma scritta.
Dobbiamo poi soffermarci sulla possibile nullità del contratto-quadro
per inosservanza di forma (20). L’art. 23, comma 1, T.U.F. prescrive che il
contratto d’intermediazione finanziaria debba rivestire la forma scritta e
può ben capitare che l’investitore eccepisca il difetto di tale requisito formale. Il problema è che l’oggetto dell’arbitrato Consob, cosı̀ come attualmente formulato dalla legge, non pare consentire la trattazione della questione della possibile invalidità del contratto d’intermediazione finanziaria
per difetto di forma.
La previsione della forma scritta del contratto d’intermediazione finanziaria mira a realizzare una serie di importanti finalità. Una prima funzione del requisito della forma scritta è quella di assicurare la trasmissione
d’informazioni. Le circostanze di cui si dà atto nel testo scritto del contratto
sono a conoscenza di entrambe le parti che lo sottoscrivono (21). Il secondo
(20) Fra i contributi che si occupano di forma del contratto d’intermediazione finanziaria cfr. BARATELLA, La forma scritta e i c.d. contratti di intermediazione finanziaria nella
ricostruzione giurisprudenziale, in Resp. civ., 2010, 688 ss.; BARENGHI, Disciplina dell’intermediazione finanziaria e nullità degli ordini di acquisto (in mancanza del contratto-quadro):
una ratio decidendi e troppi obiter dicta, in Giur. mer., 2007, 59 ss.; DELLA VEDOVA, Sulla
forma degli ordini di borsa, in Riv. dir. civ., 2010, II, 161 ss.; MARAGNO, La nullità del contratto di intermediazione di valori mobiliari per difetto di sottoscrizione dell’intermediario,
in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 932 ss.; SANGIOVANNI, Mancata sottoscrizione e forma del
contratto d’intermediazione finanziaria, in Corr. mer., 2011, 140 ss.; SANGIOVANNI, Mancato
aggiornamento del contratto-quadro e « nullità sopravvenuta », in Contratti, 2008, 653 ss.
(21) Il contratto d’intermediazione finanziaria viene predisposto dall’intermediario e
viene fatto sottoscrivere dall’investitore. Questi non può fare altro che accettarlo totalmente
oppure rifiutarne la sottoscrizione, potendo al più negoziare alcuni marginali aspetti di tipo
economico. Si tratta sostanzialmente di un contratto per adesione. Ecco allora l’importanza
di trasmettere — mediante il contratto — informazioni dall’intermediario al risparmiatore,
finalità particolarmente rilevante in un’area tecnicamente cosı̀ complessa come quella degli
investimenti. Tanto più esteso è il contratto, tanto maggiore è la quantità di dati e notizie che
viene comunicata. Tanto più ampio è l’obbligo risultante da legge e da regolamento d’inserire nel testo contrattuale certe informazioni (= prescrizione del contenuto minimo del contratto d’intermediazione finanziaria), tanto maggiore è la quantità di dati e notizie che giunge
al cliente. Sotto questo profilo la forma scritta svolge una funzione di protezione informativa
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importante obiettivo della forma scritta del contratto d’intermediazione finanziaria è quello di far riflettere l’investitore sul significato dell’atto che
sta per compiere. Apporre una sottoscrizione richiede più tempo di quanto
serva a dare il proprio consenso oralmente. Si deve tenere presente che i
contratti relativi alla prestazione dei servizi d’investimento incidono sul
patrimonio degli investitori: talvolta una parte considerevole delle ricchezze del soggetto interessato può essere coinvolto nell’operazione. Di qui
la necessità di un’appropriata riflessione preventiva sugli effetti dell’atto
che si sta per compiere (22). Sotto un terzo profilo, il requisito della forma
scritta dovrebbe facilitare fra le parti la negoziazione del testo contrattuale.
Le condizioni del contratto d’intermediazione finanziaria possono, teoricamente, essere negoziate con l’intermediario, anche se — nella realtà dei
fatti — spesso gli investitori non si premurano nemmeno di leggere attentamente i contratti; ancor meno di trattarne le condizioni. Quasi sempre il
testo contrattuale viene predisposto dalla banca e capita non di rado che gli
investitori si limitino a farsi spiegare velocemente i termini essenziali del
rapporto, per poi firmare un lungo testo, senza avere realmente preso conoscenza di tutte le condizioni che regolano la relazione (e, dunque, senza
nemmeno negoziarle). Vista da una quarta prospettiva, la forma scritta —
richiesta dalla legge per il contratto d’intermediazione finanziaria — può
essere utile a fini probatori. Nel caso in cui sorgano contestazioni fra le
parti, il fatto di avere un testo scritto consente di ricostruire quelle che sono
state le pattuizioni fra i contraenti. La forma scritta può dunque giocare un
dell’investitore che, di regola, è il soggetto debole del rapporto contrattuale. Mettere nero su
bianco significa per il cliente conoscere prima, e con certezza, le condizioni che regoleranno
il rapporto.
(22) Prima di firmare il testo contrattuale, sarebbe auspicabile che l’investitore lo
leggesse attentamente. Al fine di garantire un consenso realmente informato del cliente bisognerebbe consegnargli il testo in anticipo rispetto alla firma, per lasciargli il tempo di studiarselo con attenzione (cfr. PONTIROLI - DUVIA, Il formalismo nei contratti dell’intermediazione finanziaria ed il recepimento della Mifid, in Giur. comm., 2008, I, 159). È dubbio che
ciò avvenga sempre nella prassi e non risulta che ci sia della giurisprudenza che abbia affermato un dovere di consegna anticipata. Un obbligo di consegna anticipata rispetto alla firma
non è statuito dall’art. 23, comma 1, T.U.F., che si limita a prescrivere che un esemplare del
contratto sia consegnato al cliente: probabilmente questa disposizione si riferisce alla consegna di una copia già firmata dalle parti. Ciò nonostante, mi pare che una giurisprudenza lungimirante potrebbe ricavare l’obbligo di consegna anticipata del contratto dai principi che
devono governare l’operato degli intermediari finanziari. Mi riferisco a quanto dispone l’art.
21, comma 1, T.U.F. sia alla lettera a sia alla lettera b: la lettera a impone ai soggetti abilitati di « comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse
dei clienti e per l’integrità dei mercati », mentre la lettera b impone ai medesimi soggetti di
« acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre
adeguatamente informati ». Nell’ipotesi in cui si potesse ricavare in via interpretativa un dovere di consegna anticipata, rimarrebbe il problema della prova. Bisognerebbe difatti creare
dei presidi organizzativi idonei a dimostrare che la consegna del testo contrattuale è avvenuta in debito anticipo rispetto alla firma.
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ruolo importante ex post, nel momento in cui sorgono dissidi fra le parti.
Ecco allora che, contratto alla mano, si può chiedere il rispetto di certe
clausole che vi erano state inserite oppure si può contestare la validità di
determinate pattuizioni. Sotto questo profilo il requisito della forma scritta
serve anche a diminuire il pericolo di controversie fra i contraenti. Se l’assetto contrattuale è pre-determinato per iscritto, si riduce il rischio di divergenze fra le parti. Si può cosi, almeno talvolta, evitare di dare corso a controversie giudiziarie o arbitrali, con tutti gli effetti negativi che esse comportano.
Nel caso in cui il contratto d’intermediazione finanziaria non riveste
la forma scritta, le finalità illustrate non possono realizzarsi. La legge prevede espressamente che, in difetto di forma, il contratto è nullo (art. 23,
comma 1, T.U.F.). La giurisprudenza degli ultimi anni mostra che una parte
non irrilevante del contenzioso fra investitori e intermediari finanziari si risolve velocemente proprio per il fatto che manca la forma scritta del contratto. La nullità del contratto per tale ragione è, difatti, assorbente rispetto
ad ogni altra problematica, ad esempio rispetto alla questione della possibile inosservanza delle norme di comportamento.
Anche sotto questo profilo la formulazione dell’art. 2, comma 1,
D.Lgs. n. 179/2007 pare carente, non indicando affatto questo tipo di controversie fra quelle devolvibili ad arbitrato Consob. Cosı̀ facendo l’investitore è fortemente disincentivato ad avvalersi dell’arbitrato: se difatti una
delle contestazioni che vuole sollevare concerne la mancanza di forma
scritta del contratto, tale obiezione non può essere fatta valere in sede arbitrale. Come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, l’unico tipo di pronuncia che gli arbitri sono legittimati a emettere è la condanna al pagamento di un indennizzo e non la declaratoria di nullità del contratto per difetto di forma (e nemmeno la risoluzione del medesimo contratto per inadempimento grave alle norme di comportamento).
7.
La condanna a pagare un indennizzo (art. 3 D.Lgs. n. 179/2007).
La legge prevede che, nel caso in cui risulti, a seguito dell’esperimento delle procedure di arbitrato, l’inadempimento dell’intermediario agli
obblighi di cui all’art. 2, comma 1, l’arbitro può riconoscere un indennizzo
a favore dell’investitore (art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 179/2007). Anche sotto
questo profilo si rivela la debolezza dell’arbitrato Consob, cosı̀ come attualmente disciplinato: pare difatti che l’unico potere riconosciuto all’arbitro
sia quello di condannare l’intermediario finanziario al risarcimento del
danno.
In realtà il risarcimento del danno non può considerarsi l’unico rimedio ottenibile dall’investitore quale conseguenza dell’inosservanza delle
norme di comportamento degli intermediari finanziari. Come è noto, la ma441
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teria è stata oggetto di numerosi interventi giurisprudenziali, per giungere
infine a due importanti sentenze della Corte di cassazione a sezioni unite (23). Queste pronunce escludono che la violazione delle regole di condotta degli intermediari possa determinare nullità del contratto per violazione di norma imperativa (art. 1418, comma 1, c.c.). Per il resto, tuttavia,
le decisioni della Cassazione aprono la porta a rimedi che vanno al di là del
mero risarcimento del danno. Oltre al rimedio del risarcimento da responsabilità precontrattuale e contrattuale, rimane difatti ferma la possibilità di
chiedere la risoluzione del contratto d’intermediazione. Più precisamente la
Corte di cassazione ha stabilito che la violazione dei doveri d’informazione
del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d’investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente
obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase
precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d’intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti fra le parti; può invece dar
luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazione d’investimento o di disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d’intermediazione finanziaria.
Ai fini che qui interessano si può insomma rilevare che, nei processi
che sono stati intentati dagli investitori contro gli intermediari finanziari
davanti ai giudici italiani negli ultimi anni, è del tutto comune che venga
chiesta la nullità del contratto d’intermediazione per difetto di forma (art.
23, comma 1, T.U.F.) oppure la risoluzione del medesimo contratto per inadempimento (art. 1453 c.c.) della banca. A leggere il testo della legge istitutiva dell’arbitrato Consob, parrebbe invece che l’oggetto di tale arbitrato
(e i corrispondenti poteri che vengono riconosciuti all’arbitro) non comprenda la possibilità di emettere pronunce di nullità e risoluzione, limitando
l’operato dell’arbitro all’eventuale riconoscimento di un indennizzo.
Non mi pare che questa critica di fondo che ci permettiamo di muovere al testo legislativo possa ritenersi superata per il fatto che la legge
prevede espressamente che rimane fermo il diritto di ricorrere all’autorità
giudiziaria anche per il riconoscimento del maggior danno subito in conseguenza dell’inadempimento (cosı̀ stabilisce espressamente l’art. 3, comma
3, D.Lgs. n. 179/2007). Questa disposizione deve difatti probabilmente
considerarsi come inutile, dovendosi ritenere che — per le questioni che
(23) Cass., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725, in Contratti, 2008, 221 ss., con
nota di SANGIOVANNI; in Corr. giur., 2008, 223 ss., con nota di MARICONDA; in Danno resp.,
2008, 525 ss., con note di ROPPO e di BONACCORSI; in Dir. banca merc. fin., 2008, 691 ss., con
nota di F. MAZZINI; in Dir. giur., 2008, 407 ss., con nota di RUSSO; in Giur. comm., 2008, II,
604 ss., con nota di BRUNO - ROZZI; in Giust. civ., 2008, I, 2775 ss., con nota di T. FEBBRAJO;
in Società, 2008, 449 ss., con nota di SCOGNAMIGLIO.
442
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non sono state oggetto di arbitrato — rimane comunque ferma la possibilità di un altro giudizio (sia esso arbitrale o ordinario). Il punto dolente è
che l’arbitrato Consob pare essere un arbitrato in cui si possono trattare
solo alcune delle controversie tipiche dell’area dell’intermediazione finanziaria (e si può pronunciare solo uno dei rimedi, il risarcimento, che l’ordinamento riconosce).
Ciò che lascia perplesso chi scrive è la creazione di un procedimento
arbitrale speciale « a oggetto limitato », nel senso che l’unica pronuncia che
gli arbitri paiono legittimati a emettere è una condanna al risarcimento del
danno. Dal punto di vista dell’economia processuale sarebbe stato senz’altro meglio consentire la trattazione in sede arbitrale di tutti i profili di controversia fra le parti, indipendentemente dal fatto che il rimedio avanzato
dall’investitore sia di carattere risarcitorio piuttosto che restitutorio. Deve
ritenersi improbabile che un risparmiatore sia pronto ad acconsentire all’arbitrato Consob se in tale sede può far valere solo alcune delle pretese che
potrebbe invece far valere davanti a un giudice statale.
Le scelte effettuate dal legislatore sono ulteriormente criticabili per il
fatto che, nemmeno con riferimento alla materia del risarcimento del
danno, l’arbitrato Consob riesce a dare una risposta definitiva. L’indennizzo
di cui parla l’art. 3 D.Lgs. n. 179/2007 costituisce difatti una sorta di liquidazione « provvisoria » del danno, con possibilità di dimostrare davanti al
giudice statale la sussistenza di un maggior danno. In questo modo l’investitore che reputa insufficiente l’indennizzo riconosciuto in sede arbitrale si
potrebbe veder costretto ad avviare, dopo quello arbitrale, un procedimento
ordinario. Anche per questa ragione, di scarsa efficienza nel risolvere « definitivamente » la controversia, ci si deve aspettare che il risparmiatore preferirà, con una certa frequenza, rinunciare all’arbitrato Consob per rivolgersi subito al giudice statale.
8.
Brevi osservazioni conclusive.
Cercando di riassumere l’analisi effettuata in questo scritto, si deve
concludere nel senso che la disciplina dell’arbitrato Consob desta alcune
perplessità. Se il condivisibile obiettivo perseguito dal legislatore è quello
di rafforzare la tutela dell’investitore, l’esame della normativa evidenzia
però diversi punti critici, i quali potrebbero portare all’insuccesso pratico
dell’istituto. A parte il fatto che la categoria degli investitori professionali è
esclusa senza convincente ragione dal ricorso a tale forma di arbitrato, la
clausola compromissoria è vincolante solo per l’intermediario e non per
l’investitore, il quale — verosimilmente — si guarderà bene dal ricorrere
allo strumento arbitrale. A ciò si aggiunga che l’oggetto dell’arbitrato Consob è formulato in modo tale da escludere dal suo ambito di applicazione
numerose controversie tipiche dell’area dell’intermediazione finanziaria. I
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difetti di disciplina dell’arbitrato Consob potrebbero portare al suo insuccesso pratico, con la conseguenza che le controversie verranno decise dai
giudici statali, cosı̀ come avviene oggi. Si è difatti visto che, sotto diversi
aspetti, l’attuale disciplina di tale arbitrato presenta criticità che lo rendono
poco appetibile sia per l’intermediario finanziario sia per l’investitore.
Gli aspetti problematici per l’intermediario finanziario possono essere
cosı̀ riassunti:
1) la clausola compromissoria non è comunque vincolante per l’investitore, salvo il caso particolare della trattativa diretta;
2) l’intermediario può essere sı̀ convenuto in giudizio, ma non può
agire in giudizio (né, verosimilmente, può presentare domande riconvenzionali, rimanendogli cosı̀ preclusa la possibilità di estendere l’ambito del giudizio);
3) se il procedimento arbitrale funziona in modo efficiente, si giunge
più velocemente — rispetto al giudizio statale — alla condanna dell’intermediario;
4) l’intermediario, perfino nel caso sia vittorioso, deve pagare almeno
pro quota le spese del procedimento arbitrale (cfr. l’art. 27, comma 5, reg.
n. 16763/2008) (24).
I principali difetti dell’attuale disciplina dell’arbitrato Consob per l’investitore possono essere ricapitolati come segue:
1) gli investitori professionali sono esclusi dall’ambito di applicazione
del D.Lgs. n. 179/2007;
2) allo stesso modo le controversie relative al vizio di forma nonché
quelle concernenti le violazioni delle regole sull’adeguatezza e sul conflitto
d’interessi non rientrano nel suo campo di applicazione;
3) il potere degli arbitri consiste solo nel condannare l’intermediario
finanziario al risarcimento del danno, mentre non possono dichiarare la
nullità o la risoluzione del contratto.
All’intermediario finanziario rimane la possibilità d’inserire nei contratti d’intermediazione finanziaria una clausola che prevede la devoluzione
di eventuali controversie a un arbitrato di diritto comune (25). Ma, cosı̀ facendo, si riduce la rilevanza pratica dell’istituto dell’arbitrato Consob.
(24) Più precisamente l’art. 27, comma 5, reg. n. 16763/2008 prevede che « in caso
di soccombenza totale o parziale dell’investitore non determinata dalla temerarietà della pretesa da questi azionata, gli oneri connessi ai diritti degli arbitri e alle spese di difesa sostenute per ottenere la decisione gravano sulle parti in egual misura ».
(25) In questo senso CORSINI, op. cit., 7 s.
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Il riconoscimento del lodo estero tra esigenze
di « ordine pubblico » e divieto di disparità di trattamento
FABRIZIO GIUSEPPE DEL ROSSO
1.
Il sistema delle fonti.
Come è stato posto in evidenza in dottrina « la vocazione internazionale è certamente una delle caratteristiche peculiari dell’arbitrato, che si rileva metodo particolarmente adatto per risolvere controversie in cui la diversità degli ordinamenti giuridici coinvolti, i conflitti di giurisdizione e le
barriere linguistiche costituiscono altrettanti ostacoli ad una rapida e positiva definizione della lite » (1).
Pertanto, gli ordinamenti nazionali e prima ancora le convenzioni internazionali contemplano uno specifico trattamento giuridico degli arbitrati
transnazionali. Tale trattamento giuridico si articola su due poli fondamentali: il riconoscimento dell’accordo compromissorio per arbitrato estero e il
riconoscimento e l’esecuzione del lodo estero (2).
Le fonti dell’arbitrato estero sono essenzialmente due: il diritto internazionale ed il diritto interno (3).
Con riferimento al diritto internazionale, il primo tentativo di fornire
una regolamentazione omogenea dell’arbitrato estero risale al Protocollo di
Ginevra del 1923 sul riconoscimento degli accordi compromissori esteri,
seguito dalla Convenzione di Ginevra del 1927 sul riconoscimento e l’esecuzione dei lodi stranieri adottati in base ad accordi regolati dal Protocollo (4). Il sistema normativo binario messo a punto a Ginevra ha costituito
un fattore essenziale per l’evoluzione della disciplina dell’arbitrato estero,
ma molte difficoltà sono emerse nella sua concreta attuazione. In primo
(1) Cosı̀ BIAVATI, Commento all’art. 839 c.p.c., in Arbitrato, diretto da CARPI, Bologna, 2008, 875.
(2) Cfr. BRIGUGLIO, L’arbitrato estero, Padova, 1999, 4.
(3) Sul sistema delle fonti dell’arbitrato estero, v. BRIGUGLIO, L’arbitrato estero, cit.,
65 ss.; ATTERITANO, Arbitrato estero, voce del Dig. disc. priv., Sez. civ., Milano, Agg. 2007,
82 ss.
(4) Sottolinea PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, II, Padova, 2000, 361, che
tra il Protocollo e la Convenzione di Ginevra vi era un vero e proprio rapporto di complementarietà: la Convenzione era, infatti, aperta ai soli Stati già legati al Protocollo.
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luogo, i testi ginevrini riguardavano esclusivamente gli accordi arbitrali
conclusi tra persone fisiche e giuridiche soggette alla giurisdizione di Stati
diversi. In secondo luogo, tali strumenti convenzionali, ai fini del riconoscimento del lodo estero, richiedevano la definitività dello stesso; il che ha
indotto le corti nazionali a richiedere, quale condizione necessaria all’enforcement, la previa omologazione del lodo estero nello Stato di provenienza (c.d. doppio exequatur) (5).
I problemi generati dal Protocollo e dalla Convenzione di Ginevra
hanno condotto all’elaborazione di un nuovo testo convenzionale, ossia alla
Convenzione per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali
straniere sottoscritta a New York il 10 giugno del 1958, resa esecutiva in
Italia con Legge n. 62/1968. Il passaggio dai testi ginevrini alla Convenzione di New York ha determinato una novità strutturale di notevole rilievo
sistematico: si è, infatti, abbandonato il sistema binario a favore di un unico
strumento normativo internazionale relativo al riconoscimento sia dell’accordo compromissorio sia del lodo arbitrale (6).
La disciplina convenzionale, nonostante abbia impresso un notevole
slancio alla circolazione internazionale dei compromessi e dei lodi arbitrali,
non è però completa. Il diritto pattizio non disciplina né l’eccezione di
compromesso né il procedimento da seguire per ottenere il riconoscimento
e l’esecuzione in un determinato ordinamento del lodo estero. In questo
contesto normativo, l’intervento dei legislatori nazionali si è reso allora necessario, nell’ambito di un rapporto tra fonti che potremo definire di subordinazione-integrazione (7): subordinazione perché gli Stati contraenti della
Convenzione di New York sono obbligati a rispettare le norme convenzionali, integrazione perché tutto ciò che non è direttamente disciplinato dalla
Convenzione deve essere integrato dalle legislazioni statali.
Volgendo lo sguardo al nostro ordinamento, il legislatore italiano ha
dettato la disciplina dell’eccezione di compromesso per arbitrato estero nel
combinato disposto degli artt. 4, comma 2, e 11, Legge n. 218/1995; la disciplina del procedimento di riconoscimento ed esecuzione dei lodi esteri
è, invece, contenuta negli artt. 839 e 840 c.p.c.
Oggetto del nostro studio saranno le condizioni ed il procedimento da
seguire per far acquistare in Italia efficacia ad un lodo estero, ma prima di
procedere a tale analisi è necessario soffermarsi sulla nozione di lodo
estero.
(5) Cfr. BRIGUGLIO, L’arbitrato estero, cit., 73; ATTERITANO, Arbitrato estero, cit., 82.
(6) Cfr. ATTERITANO, Arbitrato estero, cit., 82.
(7) Di sistema di subordinazione-integrazione parla VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato3, Torino, 2010, 194.
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2.
La nozione di lodo estero.
Nonostante l’arbitrato estero sia disciplinato da due fonti normative,
ossia dalla Convenzione di New York del 1958 e dal codice di rito (artt.
839-840), nessuna norma di tali testi fornisce una chiara definizione di
« lodo estero ». Se è relativamente facile individuare il significato del sostantivo « lodo » — essendo il « lodo » l’atto decisorio conclusivo di un
procedimento arbitrale — meno semplice è stabilire il significato dell’aggettivo « estero » (8).
La nozione di « lodo estero » è dunque riservata agli interpreti, che
devono ricavarla dal sistema.
Per la corretta impostazione del problema è imprescindibile partire
dalla formulazione dell’art. 816 c.p.c., secondo cui è arbitrato rituale italiano quello che ha sede in Italia, laddove la localizzazione in Italia della
sede può risultare o da una indicazione formale (delle parti o degli arbitri,
art. 816, comma 1, c.p.c.) oppure da una scelta di legge che razionalizza la
volontà delle parti di collegarsi con l’ordinamento italiano, avendo stipulato
la convenzione di arbitrato in Italia (art. 816, comma 2, c.p.c.) (9).
(8) Cosı̀ E.F. RICCI, La nozione di lodo straniero dopo la Legge n. 25/1994, in Riv.
dir. proc., 1995, 332. Con riferimento al criterio da utilizzare per individuare la nozione di
lodo riconoscibile sussiste contrasto tra gli interpreti. Stando ad una prima interpretazione, si
dovrebbe fare riferimento alla lex fori, ossia alla nozione di lodo propria dello Stato richiesto del riconoscimento (App. Roma 21 luglio 1997, in Dir. comm. int., 1998, 825); altri, invece, fanno riferimento alla lex cusae, ossia alla nozione di lodo dello Stato di origine (AU2
LETTA, in Diritto dell’arbitrato rituale , a cura di VERDE, Torino, 2000, 396); vi sono, poi, coloro i quali ritengono che si debba far riferimento ad una nozione autonoma, ricavata dalle
previsioni della Convenzione di New York (BRIGUGLIO, L’arbitrato estero, cit., 78 ss.; VISMARA, Le pronunce arbitrali autonomamente impugnabili al vaglio della Corte d’appello di
Parigi, in questa Rivista, 1997, 586 ss.). Tra le varie interpretazioni suggerite, quest’ultima
pare l’unica in grado di assicurare un ambito di applicazione uniforme delle disposizioni
convenzionali evitando un’applicazione differenziata (a seconda delle diverse legislazioni nazionali) delle stesse: sul punto, v. D’ALESSANDRO, Commento all’art. 839 c.p.c., in La nuova
disciplina dell’arbitrato, a cura di MENCHINI, Milano, 2010, 492-493. In questa prospettiva e
sulla base della disciplina posta dalla Convenzione di New York possiamo ritenere che vi
siano due elementi costitutivi della fattispecie « lodo arbitrale ». Anzitutto il lodo deve essere
stato pronunciato a conclusione di un procedimento fondato sull’accordo delle parti di deferire in arbitrato controversie già insorte o future. In secondo luogo, il procedimento arbitrale
deve essere rivolto alla definizione di una controversia giuridica attuale o potenziale tra le
parti, vale a dire una controversia che avrebbe potuto essere devoluta alla cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria; con la conseguenza che vanno esclusi dal novero dei lodi riconoscibili le fattispecie nelle quali il terzo viene incaricato della determinazione di uno o più
elementi di un contratto o della modifica di un rapporto preesistente (c.d. arbitraggi ex artt.
1349-1473 c.c.): sul punto, v. TAMPIERI, Commento all’art. 839 c.p.c., in Commentario breve
al diritto dell’arbitrato, a cura di BENEDETTELLI - CONSOLO - RADICATI DI BRONZOLO, Padova,
2010, 1015 ss.
(9) Cosı̀ BIAVATI, Commento all’art. 839 c.p.c., cit. 878. Secondo PUNZI, Luci ed ombre nella riforma dell’arbitrato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 399, la scelta delle parti
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Il « criterio principe » per distinguere l’arbitrato italiano dall’arbitrato
estero è, dunque, quello della sede (10), nel senso che il lodo è qualificabile
come estero solo se è stato pronunciato a conclusione di un procedimento
arbitrale per il quale la sede è stata fissata fuori dal territorio italiano (11).
Tuttavia, posto che l’individuazione della sede non è altro che un
modo per le parti di manifestare la loro volontà di ancorare l’arbitrato ad
un dato ordinamento, non si può neanche escludere che le parti, pur fissando la sede in Italia, esplicitino la volontà di « agganciare » l’arbitrato ad
un altro ordinamento: in tal caso ci troviamo di fronte ad un arbitrato che,
pur avendo sede in Italia, è in realtà un arbitrato estero (12).
Inoltre, affinché possa trovare applicazione il procedimento delineato
dagli artt. 839-840 c.p.c., va considerato arbitrato estero soltanto quello che
presenta, oltre alla sede fuori dall’Italia, anche un collegamento qualificato
con almeno un ordinamento straniero. Infatti, l’art. 840, comma 3, n. 5),
c.p.c., contemplando fra i motivi ostativi al riconoscimento anche la possibilità che « il lodo non è ancora divenuto vincolante per le parti o è stato
annullato o sospeso da una autorità competente nello stato nel quale, o secondo la legge del quale, è stato reso » richiede la precisa individuazione
di un ordinamento estero di provenienza del lodo da riconoscere in Italia (13).
Alla luce di quanto detto, possiamo ritenere che esistono almeno tre
categorie di arbitrati: a) italiani; b) esteri, con un preciso ordinamento di
riferimento; c) non italiani, o meglio, a-nazionali, in quanto privi di un col-
sulla sede dell’arbitrato rappresenta la scelta di un ordinamento giuridico e non di un mero
luogo fisico.
(10) Cfr. BRIGUGLIO, La dimensione transnazionale dell’arbitrato, in questa Rivista,
2005, 705.
(11) In giurisprudenza, v. Cass., 18 febbraio 2000, n. 1808, in Corr. giur., 2000,
1497, con nota di RUFFINI, Sede dell’arbitrato e nazionalità del lodo, secondo cui « il criterio di distinzione tra arbitrato interno ed arbitrato estero è dato dalla sede, determinata
all’inizio della procedura arbitrale dalle parti o, in mancanza, dagli arbitri nella loro prima
riunione ai sensi dell’art. 816 c.p.c. e nessun rilievo assume il luogo dell’effettivo svolgimento del giudizio arbitrale ». In dottrina, v. E.F. RICCI, La nozione di lodo straniero, cit., 332
ss.; PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., I, 157-158; VERDE, Lineamenti, cit., 195;
LA CHINA, L’arbitrato, Milano, 2011, 300; BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero tra
Convenzione di New York e codice di procedura civile, in questa Rivista, 2006, 21; BIAVATI,
Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 879; AULETTA, in Diritto dell’arbitrato, cit., 396; CECCHELLA, La « sede » dell’arbitrato, in in questa Rivista, 2001, 189 ss.; D’ALESSANDRO, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 494; ATTERITANO, Arbitrato estero, cit., 84.
(12) Cfr. FAZZALLARI, L’arbitrato, Torino, 1997, 13; FUMAGALLI, La sede dell’arbitrato
nel Regolamento I.C.C., in questa Rivista, 2001, 637; BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero, cit., 22; BRIGUGLIO, Commento all’art. 839 c.p.c., in Codice di procedura civile5, a cura
di PICARDI, II, Milano, 2010, 4036.
(13) Cfr. AULETTA, in Diritto dell’arbitrato, cit., 396.
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legamento specifico sia con l’ordinamento italiano sia con un altro ordinamento estero (14).
La configurabilità di arbitrati/lodi a-nazionali è fortemente controversa in dottrina (15). Ad ogni modo, i c.d. lodi a-nazionali rappresentano
gli atti conclusivi di un procedimento arbitrale fondato esclusivamente sulla
volontà delle parti nel contesto di un ipotetico ordinamento transnazionalemercantile del tutto « sganciato » da un ordinamento giuridico statale. I lodi
a-nazionali, poiché sono privi di qualsiasi rapporto con gli ordinamenti statali, non possono essere né riconosciuti né eseguiti all’interno delle giurisdizioni statali. In altri termini, i lodi a-nazionali possono « circolare » su
un piano meramente contrattuale e negoziale « senza poter pretendere che
una giurisdizione nazionale si ponga al loro servizio per prestare il proprio
braccio esecutivo » (16).
3.
La struttura del procedimento.
Diversamente da quanto si verifica per le sentenze straniere, il riconoscimento del lodo arbitrale estero non è automatico (17), ossia dovuto ad
una previsione normativa (artt. 64, Legge n. 218/1995 e 33, reg. 44/2001),
ma giudiziale, nel senso che per far acquistare efficacia in Italia ad un lodo
estero è necessario esperire un procedimento ad hoc di natura costitutiva
(c.d. delibazione). Ciò significa che il lodo straniero sarà idoneo a produrre
effetti all’interno del nostro ordinamento soltanto in caso di esito positivo
del procedimento di riconoscimento, avente ad oggetto la « costituzione »
dell’efficacia del lodo estero in Italia (18).
Detto procedimento è disciplinato dagli artt. 839-840 c.p.c., introdotti
dalla Legge n. 25/1994, con la quale il legislatore ha provveduto ad ade-
(14) Per tale classificazione, v. BIAVATI, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 881.
(15) La concettualizzazione di un arbitrato a-nazionale risale ai primi anni 60 (contemporaneamente all’affermarsi dell’idea di una lex mercatoria, intesa come autonomo sistema giuridico capace di disciplinare la realtà contrattuale transnazionale): cfr. GOLDMAN, Les
conflits de lois dans l’arbitrage internazionale de droit privé, in RCADI, 1963, II, 380. Sull’argomento, più di recente, v. POUDRET-BESSON, Droit comparé de l’arbitrage International,
Zurich, 2002, 91.
(16) Cosı̀ BIAVATI, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 883; contra FUMAGALLI (TARZIA
- LUZZATTO - RICCI), Commento all’art. 839 c.p.c., in Legge 5 gennaio 1994, n. 25, Padova,
1995, 264.
(17) Diversamente dal nostro ordinamento, in Svizzera, ad esempio, il lodo estero di
condanna al pagamento di una somma di denaro può essere immediatamente utilizzato come
titolo per la domanda di esecuzione e per la notifica del precetto (artt. 67-69 della l. sulle
esecuzioni e sul fallimento).
(18) Cfr. D’ALESSANDRO, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 490; BERGAMINI, in L’arbitrato, a cura di CECCHELLA, Torino, 2005, 341.
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guare la normativa nazionale agli obblighi derivanti dalla ratifica della
Convenzione di New York del 1958.
Il rapporto intercorrente tra la Convenzione di New York e le norme
del codice di rito civile può cosı̀ ricostruirsi: la Convenzione si limita a fissare le condizioni in base alle quali ottenere il riconoscimento e l’esecutività dei lodi esteri (artt. IV e V), rinviando alle singole legislazioni statali
la determinazione delle regole processuali da seguire, con la non trascurabile precisazione che gli Stati contraenti per il riconoscimento o l’esecuzione dei lodi esteri non possono imporre condizioni sensibilmente più rigorose né spese di giustizia notevolmente più elevate di quelle imposte per
il riconoscimento o l’esecuzione dei lodi interni (art. III, c.d. divieto di disparità di trattamento) (19).
Il procedimento delineato dagli artt. 839-840 c.p.c., è funzionale ad
ottenere il riconoscimento e l’esecutività del lodo estero in Italia (20); tuttavia le due nozioni (riconoscimento ed esecuzione) sono profondamente differenti l’una dall’altra. Riconoscimento è nozione più larga, esecuzione più
ristretta: in ambedue i casi si tratta di far acquistare efficacia in Italia ad un
lodo arbitrale straniero, ma la diversità è nel contenuto della decisione arbitrale che si intende rendere efficace, che « si vuol far valere », secondo
l’espressione utilizzata dall’art. 839 c.p.c. Mentre il riconoscimento può essere richiesto per qualunque tipo di lodo (sia esso di accertamento, costitutivo o di condanna), l’esecutività può essere riferita solo a quelle pronunce
arbitrali il cui contenuto sia suscettibile di essere realizzato coattivamente
in una delle forme tipiche dell’esecuzione forzata, ossia solo ai lodi che
abbiano contenuto condannatorio (21).
Con riferimento al profilo strutturale, il procedimento di cui agli artt.
839-840 c.p.c. è caratterizzato da una struttura monitoria chiaramente ispirata, da un lato, alla Convenzione di Bruxelles del 1968 (22) e, dall’altro, al
procedimento di ingiunzione ex art. 633 ss. c.p.c. (23). Siffatto modello pro-
(19) Cfr. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., II, 322.
(20) Secondo la giurisprudenza la questione della riconoscibilità dei lodi esteri può
essere affrontata solo nell’ambito del procedimento ex artt. 839-840 c.p.c., non potendosi
ammettere un’atipica azione di mero accertamento negativo proposta da colui che è interessato al non riconoscimento del lodo: cfr. Cass., 17 aprile 2003, n. 6164, in questa Rivista,
2004, 65, con nota di PICOZZA, L’inammissibilità della tutela atipica preventiva avente ad oggetto l’accertamento della non riconoscibilità dei lodi esteri in Italia.
(21) Cosı̀ LA CHINA, L’arbitrato, cit., 299; AULETTA, in Diritto dell’arbitrato, cit.,
395; PICOZZA, in Arbitrato, ADR conciliazione, diretto da RUBINO-SAMMARTANO, Bologna,
2009, 1066-1067.
(22) È stata cosı̀ recepita la soluzione proposta in dottrina da GAJA, Sul procedimento
per riconoscere e rendere e esecutive le sentenze arbitrali straniere secondo la Convenzione
di New York, in Arch. giur., 1975, 163 ss. e da MIGLIAZZA, Natura ed effıcacia dell’arbitrato
internazionale, ivi, 1974, 76 ss.
(23) Sul punto, v. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., II, 402-403; LA
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cedimentale può essere ricondotto alla categoria dei procedimenti a contraddittorio eventuale e differito, distinti in due fasi, di cui la prima è unilaterale e si svolge secondo lo schema ricorso-decreto dinanzi al presidente
della corte di appello; la seconda è, invece, eventuale ed apre un ordinario
giudizio a cognizione piena ed esauriente, promosso con citazione in opposizione avverso il decreto presidenziale dinanzi alla stessa corte di appello,
destinato a concludersi con una sentenza impugnabile con ricorso per cassazione.
4.
La fase presidenziale: forma della domanda, legittimazione, interesse
ad agire e competenza.
Attesa la natura monitoria del procedimento, la domanda per ottenere
il riconoscimento e l’esecutività del lodo straniero si propone con ricorso,
il quale, in assenza di specifiche disposizioni, a norma degli artt. 125 e 638
c.p.c., deve indicare l’ufficio giudiziario, le parti, l’oggetto, le ragioni della
domanda, l’istanza di attribuzione dell’efficacia al lodo straniero e deve, altresı̀, contenere la procura, l’elezione di domicilio ed essere sottoscritto dal
difensore (24).
Trattandosi di un’azione costitutiva — in quanto il lodo estero può
produrre effetti in Italia solo dopo essere stato riconosciuto — il ricorso ex
art. 839 c.p.c. dovrà essere depositato nel termine di prescrizione decennale
(art. 2946 c.c.) decorrente dall’emanazione del lodo, secondo la regola in
precedenza vigente anche per la delibazione delle sentenze straniere (abr.
art. 796 ss. c.p.c.) (25).
Come di consueto, la domanda di riconoscimento del lodo estero presuppone la sussistenza delle c.d. condizioni dell’azione, ossia della legittimazione ad agire e dell’interesse ad agire.
Con riferimento ai soggetti legittimati alla proposizione del ricorso, si
ritiene che siano tali soltanto coloro che furono parti del giudizio arbitrale
estero (26). Qualche contrasto di opinioni si riscontra, invece, per quanto at-
CHINA, L’arbitrato, cit., 303; AULETTA, in Diritto dell’arbitrato, cit., 402; BOVE, La giustizia
privata, Padova, 2009, 336; PICOZZA, in Arbitrato, ADR conciliazione, cit., 1066.
(24) Cfr. FUMAGALLI (TARZIA - LUZZATTO - RICCI), Commento all’art. 839 c.p.c., cit.,
265; PICOZZA, in Arbitrato, ADR conciliazione, cit., 1067. Evidenzia D’ALESSANDRO, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 498, che nel ricorso introduttivo dovranno essere indicati gli
estremi del lodo di cui si domanda l’efficacia in Italia, altrimenti si verificherebbe una nullità della editio actionis.
(25) Cosı̀ FUMAGALLI (TARZIA - LUZZATTO - RICCI), Commento all’art. 839 c.p.c., cit.,
267; D’ALESSANDRO, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 498; contra AULETTA, in Diritto dell’arbitrato, cit., 403, il quale ritiene che il ricorso vada presentato nel termine di prescrizione
ordinaria del diritto incorporato dal lodo estero.
(26) Sul punto, v. PIETRANGELI, Legitimatio ad processum e legitimatio ad causam nel
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tiene alla legittimazione dei successori (a titolo universale o particolare)
delle parti. Secondo alcuni andrebbero ricompresi tra i soggetti legittimati
a proporre la domanda di riconoscimento vuoi gli eredi vuoi gli aventi
causa, senza che assuma rilievo discriminante il titolo della successione (27); secondo altri la legittimazione spetterebbe esclusivamente ai successori a titolo universale (28). In virtù della natura patrimoniale e non personale dei rapporti giuridici compromettibili in arbitrato, non ci sembrano
sussistere particolari ragioni per escludere la legittimazione alla domanda
di riconoscimento dei successori a titolo particolare delle parti originarie
del procedimento arbitrale svoltosi all’estero.
Per quanto concerne l’interesse ad agire, pur sempre indispensabile ai
sensi dell’art. 100 c.p.c., esso dovrebbe essere valutato in relazione a qualsiasi utilità giuridica che il soggetto che propone la domanda possa ottenere
dall’attribuzione di efficacia (non soltanto esecutiva) del lodo estero nel
nostro ordinamento (29).
Il giudice competente viene espressamente individuato dall’art. 839,
comma 1, c.p.c., nel « presidente della corte d’appello nella cui circoscrizione risiede l’altra parte; se tale parte non risiede in Italia è competente la
corte d’appello di Roma ». Tale criterio di competenza territoriale non pare
del tutto convincente: per un verso, infatti, la norma fa riferimento esclusivamente al luogo di residenza della controparte, senza prendere in considerazione il criterio del domicilio che, essendo il luogo in cui la parte « ha
stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi » (art. 43 c.c.), risulta
essere quello in cui è più probabile trovare beni aggredibili esecutivamente (30); per altro verso, nulla viene detto circa la rilevanza delle sede legale
giudizio di riconoscimento di sentenza arbitrale straniera secondo la Convenzione di New
York del 10 giugno 1958, in questa Rivista, 1997, 579.
(27) In tal senso, in dottrina, v. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., II, 327;
LA CHINA, L’arbitrato, cit., 304; AULETTA, in Diritto dell’arbitrato, cit., 403; BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero, cit., 27; PICOZZA, in Arbitrato, ADR conciliazione, cit., 1068; in
giurisprudenza, cfr. Cass., 16 febbraio 1999, n. 1301, in Riv. dir. int. priv. proc., 2000, 787,
secondo cui « ai fini della verifica dei presupposti processuali e delle condizioni dell’azione
che il giudice del riconoscimento di un lodo arbitrale straniero ex art. 800 c.p.c. è tenuto ad
effettuare in via preliminare, prima di accertare i requisiti posti per il riconoscimento stesso
dalla normativa nazionale o da specifiche convenzioni, si devono considerare legittimati attivamente e passivamente a tale giudizio le stesse parti del giudizio arbitrale svoltosi all’estero, nonché i loro eredi e aventi causa ».
(28) In tal senso, v. FUMAGALLI (TARZIA - LUZZATTO - RICCI), Commento all’art. 839
c.p.c., cit., 266.
(29) Cosı̀ PICARDI, Manuale del processo civile2, Milano, 2010, 697; RUFFINI, in Disegno sistematico dell’arbitrato2, a cura di PUNZI, III, Padova, 2012, III, 586; BRIGUGLIO,
Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 4041.
(30) Sul punto, v. LA CHINA, L’arbitrato, cit., 206, il quale critica la scelta del legislatore di non dare alcuna rilevanza, ai fini dell’individuazione del giudice competente ex art.
839 c.p.c., al luogo in cui si trovino i beni della controparte anche se questa non abbia resi-
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o effettiva delle persone giuridiche, che pure sono le utenti tipiche dei procedimenti arbitrali (31). La disposizione, peraltro, non specifica se trattasi di
competenza territoriale inderogabile o derogabile. In dottrina sono state
prospettate entrambe le tesi, ma a nostro avviso, la derogabilità della competenza territoriale dovrebbe discendere dalla considerazione che la norma
contenuta nell’art. 839 c.p.c. attiene ad un procedimento speciale che non
rientra nelle ipotesi di competenza territoriale inderogabile tassativamente
previste dall’art. 28 c.p.c. (32).
5.
(Segue): gli adempimenti imposti al ricorrente.
Ai sensi dell’art. 839, comma 2, c.p.c., il quale riproduce l’art. IV
della Convenzione di New York, il ricorrente deve produrre il lodo in originale o in copia conforme, unitamente al compromesso o a un documento
equipollente (33), anch’essi in originale o in copia conforme. Inoltre, qualora i suindicati documenti non siano redatti in lingua italiana è necessario
il deposito di una traduzione certificata conforme degli stessi.
Diversamente dall’art. IV della Convenzione di New York, il quale richiede che il lodo anche se presentato in originale deve essere autenticato (34), l’art. 839, comma 2, c.p.c., sembra accontentarsi del mero deposito
della pronuncia arbitrale o di una sua copia conforme; il che ha indotto una
parte della dottrina a ritenere ammissibile anche il deposito di una copia
denza o comunque sede in Italia. In Francia competente è il giudice « de l’exécution », mentre il § 1062, comma 2, BGB richiama il luogo dove si trovano i beni della controparte oggetto della lite in alternativa alla sede o residenza di questa.
(31) Secondo Cass., 22 febbraio 1992, n. 2183, in Riv. dir. int. priv. proc., 1993, 387,
« nel giudizio di riconoscimento ed esecuzione di un lodo straniero, nell’ipotesi in cui sia
convenuta una società di capitali, è territorialmente competente per la pronuncia di delibazione sia la corte d’appello del luogo in cui la società ha la sua sede legale, sia la corte nel
cui distretto essa ha la sua sede effettiva, poiché l’art. 46, comma 2, c.c. prevede che in caso
di divergenza tra la sede legale e la sede effettiva delle persone giuridiche sia consentito ai
terzi di considerare come sede anche quest’ultima; la sede effettiva di una società di capitali
va intesa come il luogo in cui la società esercita l’attività amministrativa e direttiva ».
(32) In tal senso, v. LA CHINA, L’arbitrato, cit., 304; PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., II, 325, nota 13; BIAVATI, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 887; contra, ossia a favore dell’inderogabilità della competenza territoriale ex art. 839 c.p.c., BRIGULIO, in
BRIGUGLIO - FAZZALLARI - MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato, Milano, 1994, 276;
CICCONI, Lodi stranieri (riconoscimento ed esecuzione), voce del Dizionario dell’arbitrato, a
cura di IRTI, Torino, 1997, 310.
(33) Rileva PICOZZA, in Arbitrato, ADR conciliazione, cit., 1072, che il riferimento ai
documenti equipollenti trova la sua ragion d’essere nella possibilità di stipulare il patto compromissorio attraverso lo scambio di lettere o telegrammi o mediante l’uso di mezzi telematici (artt. 807-808 c.p.c).
(34) Sull’argomento, v. DELICATO, Le autenticazioni necessarie per il riconoscimento
e l’esecuzione dei lodi esteri secondo la Convenzione di New York del 1958, in Riv. dir. int.
priv. proc., 1988, 659.
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accompagnato da una mera dichiarazione di conformità apposta dagli arbitri (35). Tuttavia, tale indirizzo interpretativo non è condiviso dalla giurisprudenza che, al contrario, esige l’autenticazione del lodo o della copia del
medesimo (36).
La norma non specifica se la documentazione richiesta debba essere
depositata a pena di decadenza al momento del deposito del ricorso, ovvero
se sia possibile anche una sua produzione successiva, eventualmente tramite un’applicazione analogica del disposto di cui all’art. 640 c.p.c. (37). Al
riguardo, la Cassazione ritiene che il deposito della documentazione, configurando un presupposto processuale specifico della domanda di riconoscimento del lodo estero, debba avvenire contestualmente alla proposizione
del ricorso (38), senza che sia possibile un’integrazione successiva della
produzione documentale. Si tratta, però, di un orientamento non del tutto
convincente che si traduce in un eccessivo formalismo contrario al principio di economia processuale. Infatti, se la domanda viene rigettata a causa
della mancata produzione dei documenti richiesti dall’art. 839 c.p.c. nulla
vieta al ricorrente di riproporre la medesima domanda o comunque di fare
opposizione avverso il decreto di rigetto depositando i suindicati documenti, laddove per evitare una tale duplicazione di giudizi sarebbe suffi(35) Cfr. BIAVATI, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 888, nota 42; BRIGUGLIO, L’arbitrato estero, cit., 189.
(36) Tra le più recenti, v. Cass., 8 ottobre 2008, n. 24856, in Foro it., Rep. 2008,
voce Delibazione, n. 20: « l’art. 4 convenzione di New York del 10 giugno 1958 (resa esecutiva con l. 19 gennaio 1968, n. 62) prevede, quale presupposto processuale per la delibazione di una pronunzia arbitrale straniera, la produzione contestualmente alla domanda, dell’originale della decisione arbitrale, debitamente autenticata, ovvero di copia dell’originale
che ottemperi alle condizioni richieste per la sua autenticità, con la conseguenza che qualora
venga prodotto il lodo arbitrale originale, ma lo stesso non risulti “debitamente autenticato”,
deve ritenersi precluso alla corte d’appello adita l’esame della richiesta di efficacia nell’ordinamento italiano del lodo straniero; la verifica di detto presupposto, la cui eventuale insussistenza non pregiudica la possibilità di una nuova domanda, deve essere effettuata d’ufficio
dal giudice nel momento introduttivo del giudizio ed in base alla disciplina prevista in materia di autenticazione dal diritto processuale dello stato richiesto ».
(37) Si tratta della soluzione proposta da AULETTA, in Diritto dell’arbitrato, cit., 406
e da BOVE, La giustizia privata, cit., 337; in giurisprudenza, cfr. App. Milano 14 gennaio
2000, in Riv. dir. int. priv. proc., 2000, 172.
(38) V. Cass., 23 luglio 2009, n. 17291, in Foro it., Rep. 2009, voce Arbitrato, n.
107, secondo cui « in tema di riconoscimento dell’efficacia del lodo arbitrale estero, la produzione del compromesso, in originale o in copia autentica, contestualmente alla proposizione della domanda, prescritta dall’art. 4 convenzione di New York 10 giugno 1958 (resa
esecutiva con l. 19 gennaio 1968, n. 62) e dall’art. 839, 2 comma, c.p.c., configura non già
una condizione dell’azione, ma un presupposto processuale, necessario per la valida introduzione del giudizio, che deve pertanto sussistere, quale requisito formale di procedibilità della
domanda, al momento dell’instaurazione del procedimento e non può essere integrata mediante il deposito del documento nel giudizio di opposizione al decreto emesso dal presidente
della corte d’appello, non essendo soggetta alla disciplina dettata dall’art. 184 c.p.c. per la
produzione di documenti ».
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ciente ammettere la possibilità per il presidente di richiedere un’integrazione della documentazione non prodotta con il ricorso introduttivo.
6.
(Segue): l’oggetto.
In ordine all’oggetto della prima fase del procedimento di riconoscimento del lodo estero, il presidente della corte d’appello non può svolgere
alcun controllo sul merito del lodo, dovendosi limitare a verificare la regolarità formale dello stesso, la compromettibilità della controversia e la non
contrarietà all’ordine pubblico delle diposizioni contenute nella pronuncia
arbitrale.
Il controllo della regolarità formale ha gli stessi contenuti e limiti del
controllo che deve effettuare il tribunale per attribuire efficacia esecutiva al
lodo interno (art. 825 c.p.c.); il che è logica conseguenza del divieto di disparità di trattamento dei lodi esteri rispetto ai lodi interni, imposto dall’art.
III della Convenzione di New York. In particolare, oltre alla verifica circa
il carattere originale o di copia conforme del documento depositato, il controllo della regolarità formale del lodo attiene, in primo luogo, alla natura
dell’atto di cui viene chiesto il riconoscimento, nel senso che deve trattarsi
di un lodo arbitrale e non di qualcosa di diverso, quale una « lettera parere » o un testo transattivo; in secondo luogo, alla sottoscrizione del lodo,
da valutare alla luce della legge processuale che lo regola ab origine; in
terzo luogo, all’esistenza prima facie di un idoneo accordo compromissorio, giacché altrimenti non avrebbe senso imporne la produzione all’atto di
richiesta dell’exequatur (39).
La valutazione in ordine alla compromettibilità della controversia è da
effettuare non secondo la normativa nazionale dello stato di provenienza
del lodo estero, bensı̀ « secondo la legge italiana » (art. 839, comma 4, n.
1, c.p.c.). Ne deriva che il presidente della corte di appello deve valutare se
il rapporto giuridico oggetto dell’arbitrato estero sia riconducibile alla categoria dei diritti disponibili (40).
Infine, il presidente della corte di appello è tenuto ad accertare che il
lodo estero non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico. La
norma (art. 839, comma 4, n. 2, c.p.c.) non specifica se oggetto di accerta-
(39) Cosı̀ BRIGUGLIO, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 4044-4045, il quale sottolinea come il controllo in esame è limitato a verificare l’identità delle parti, l’esistenza del
compromesso e del lodo, esclusa ogni indagine in ordine alla validità ed efficacia della convenzione arbitrale.
(40) Ad esempio, circa la natura non disponibile e, quindi, circa la non compromettibilità di controversie inerenti l’indennità di fine rapporto nei contratti di agenzia (1751 c.c.),
v. Trib. Genova 7 luglio 2006, in Riv. dir. int. priv. proc., 2006, 1089.
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mento debba essere l’ordine pubblico internazionale o quello interno (41).
Tale lacuna può essere però colmata applicando analogicamente l’art. V,
comma 2, della Convenzione di New York, il quale stabilisce che il riconoscimento del lodo estero deve essere rifiutato quando esso sarebbe contrario all’ordine pubblico (interno) dello Stato di ricezione. In altri termini,
la locuzione « ordine pubblico », contenuta nell’art. 839, comma 4, n. 2,
c.p.c., si riferisce al complesso dei valori fondamentali del sistema nazionale in cui il lodo estero deve avere efficacia, sicché la sua funzione consiste nel proteggere i valori irrinunciabili dell’ordinamento, segnando uno
spartiacque tra il lecito e l’illecito, tra ciò che può avere efficacia nell’ambito del nostro sistema giuridico e che ciò invece quell’efficacia non può
avere (42).
La compatibilità del lodo estero con l’ordine pubblico italiano andrà,
peraltro, valutata con riferimento ai soli profili di natura sostanziale e non
anche a quelli di natura processuale. Infatti, eventuali violazioni dei diritti
fondamentali di natura processuale andranno valutate su eccezione di parte
non nella prima fase del procedimento, bensı̀ in quella eventuale conseguente all’opposizione dell’intimato (art. 840, comma 3, c.p.c.).
Su tali basi, alcune pronunce giurisprudenziali (43) hanno ritenuto non
contrastante con l’ordine pubblico italiano il lodo (inglese) pronunciato
solo dal terzo arbitro (umpire) (44), o da un numero pari di arbitri (45), o il
lodo privo di motivazione (46); inoltre, si ritiene non costituire ragione
ostativa di ordine pubblico la pendenza della stessa controversia innanzi
alla giurisdizione italiana (47).
(41) Evidenzia AULETTA, in Diritto dell’arbitrato, cit., 409, che, in realtà la globalizzazione economico-giuridica riduce lo scarto tra la dimensione nazione e quella internazionale della clausola di sicurezza costituita dall’ordine pubblico.
(42) In tal senso, cfr. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., II, 329; LA
CHINA, L’arbitrato, cit., 307; VERDE, Lineamenti, cit., 196; FUMAGALLI (TARZIA - LUZZATTO RICCI), Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 272; AULETTA, in Diritto dell’arbitrato, cit., 408; in
giurisprudenza, v. Cass., 8 aprile 2004, n. 6947, in Int’l lis, 2004, 117. Nel senso che la
norma allude all’ordine pubblico internazionale, v. BRIGUGLIO, Commento all’art. 839 c.p.c.,
cit., 4046; CICCONI, Lodi stranieri, cit., 311. Secondo BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero, cit., 30, l’ordine pubblico rilevante ai fini del riconoscimento del lodo estero è quello
c.d. internazionale che « si identifica con l’insieme delle regole e dei valori che l’ordinamento italiano non può vedere disconosciuti neanche nei rapporti internazionali ».
(43) Menzionate da BRIGUGLIO, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 4047.
(44) App. Venezia 22 maggio 1976, in Riv. dir. int. priv. proc., 1976, 851; App. Genova 2 maggio 1980, in Dir. mar., 1981, 233. Sull’argomento, in dottrina, v. ZUFFI, Peculiarità inglesi in tema di composizione dell’organo arbitrale (specie se integrato da un umpire)
e risconsicmento dei lodi, in Int’l Lis, 2005, 33 ss.
(45) Cass., 15 dicembre 1982, n. 6915, in Foro it., 1983, I, 2200.
(46) App. Genova 2 maggio 1980, cit.
(47) App. Firenze 30 gennaio 2006, in questa Rivista, 2007, 73.
Secondo BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero, cit., 32, nota 29, una particolare
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In concreto, al presidente della corte di appello è richiesto di valutare
dall’esterno, e senza che ciò possa in alcun modo tradursi in un sindacato
nel merito (48), la compatibilità della norma applicata per decidere sul rapporto controverso con i nostri valori giuridici fondamentali. In tal proposito, è dubbio se la contrarietà all’ordine pubblico possa essere accertata
solo guardando ad un’eventuale esecuzione della sentenza (pensiamo ad
una sentenza di condanna che se portata ad esecuzione inciderebbe sul
corpo della persona fisica) ovvero se essa sussista anche quando il lodo
estero, il cui contenuto sia in sé neutro (ad esempio, condanna a pagare una
somma di denaro), sia stato pronunciato in base ad un criterio di valutazione contrario a principi inderogabilmente affermati nel nostro sistema
(pensiamo alle sentenze nordamericane sui c.d. danni punitivi) (49). Nonostante l’opinione dominante dia rilievo anche a quest’ultima ipotesi, la giurisprudenza ritiene che l’indagine circa la rispondenza del lodo straniero ai
principi di ordine pubblico vada effettuata sulla base del solo dispositivo
del lodo estero, in considerazione del fatto che è solo quest’ultimo ad essere fatto proprio dal nostro ordinamento e a non poter contenere disposizioni contrarie ai principi fondamentali ed irrinunciabili dello stesso (50). Di
contro, tutta l’attività che precede e sorregge quel dispositivo è destinata in
ogni caso a rimanere estranea al nostro sistema e quindi non rileva la sua
conformità o contrarietà ai principi dell’ordine pubblico. Tale orinetamento
se, da un canto, valorizza la differente formulazione dell’art. 839 c.p.c. rispetto all’art. V della Convenzione di New York (51), dall’altro, sembra ridurre eccessivamente la portata applicativa della clausola di compatibilità
del lodo estero con l’ordine pubblico italiano, poiché nella maggior parte
dei casi dal solo dispositivo del lodo non è dato comprendere la regola o il
complesso di regole giuridiche utilizzate dagli arbitri per decidere la lite.
ipotesi di contrarietà all’ordine pubblico si potrebbe individuare nel caso di lodo pronunciato
all’estero contro un imprenditore dichiarato fallito in Italia alla fine di un processo arbitrale
iniziato prima della dichiarazione di fallimento. In questo caso i principi nazionali impongono, alla luce dell’art. 52 Legge fall., di dichiarare improcedibile il giudizio arbitrale in
corso, giacché i crediti vanno fatti valere nell’apposito procedimento di verifica del passivo.
Per cui se quel giudizio è proseguito all’estero non è escluso che si possa rifiutare la delibazione in Italia per contrarietà con l’ordine pubblico: sull’argomento, v. LIBERTI, Arbitrato internazionale e fallimento, in questa Rivista, 1999, 774.
(48) Cfr. BRIGUGLIO, Funzioni giudiziali ausiliarie e di controllo ed arbitrato estero,
in questa Rivista, 2011, 579.
(49) Cfr. BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero, cit., 31.
(50) Tra le più recenti, v. Cass., 8 aprile 2004, n. 6947, in Foro it., Rep. 2004, voce
Arbitrato, n. 104.
(51) In particolare, la contrarietà del lodo estero all’ordine pubblico va valutata secondo la norma interna con riferimento alle disposizioni del lodo, mentre secondo la norma
convenzionale con riferimento al riconoscimento e all’esecuzione.
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7.
(Segue): il decreto di riconoscimento: contenuti ed effıcacia.
La prima fase del procedimento può concludersi con un provvedimento, che assume la forma del decreto di accoglimento oppure di rigetto
dell’istanza di riconoscimento.
Pure in assenza di una espressa previsione si ritiene che detto decreto
debba essere sommariamente motivato, in virtù del disposto di cui all’art.
111 cost., a norma del quale « tutti i provvedimenti giurisdizionali devono
essere motivati » (52).
In particolare, il rigetto del ricorso può essere dovuto a motivi di rito
(carenza di un lodo definibile come straniero, carenza della produzione documentale o mancanza di altro presupposto processuale) oppure a motivi di
merito (irregolarità formale del lodo, non compromettibilità della controversia, violazione dell’ordine pubblico). Quanto al regime del provvedimento negativo, va operata una distinzione a seconda dei motivi che hanno
determinato il rigetto del ricorso: laddove si tratti di ragioni di rito, nulla
osta alla riproponibilità dell’istanza (53); mentre nell’ipotesi in cui il rigetto
dipenda da ragioni di merito l’istante soccombente ha l’onere di proporre
opposizione ai sensi dell’art. 840 c.p.c.
Se, invece, il ricorso viene accolto, il decreto di accoglimento dovrà
essere notificato alla controparte del procedimento arbitrale, la quale entro
il termine perentorio di trenta giorni dalla notifica potrà opporsi al riconoscimento del lodo estero instaurando la seconda fase del procedimento.
Prima di analizzare la fase di opposizione è necessario soffermarsi
sulla natura e sull’efficacia del decreto di accoglimento.
Al riguardo, nonostante l’espressione utilizzata dall’art. 839 c.p.c. —
« dichiara l’efficacia del lodo straniero in Italia » — possiamo ritenere che
il decreto di accoglimento non abbia natura di provvedimento meramente
dichiarativo. Si tratta, infatti, di un provvedimento di natura costitutiva, in
quanto, a differenza di quanto avviene per le sentenze straniere, il riconoscimento del lodo estero è (non automatico ma) subordinato al decreto presidenziale ex art. 839 c.p.c., il cui effetto è quello di fare acquisire efficacia in Italia al lodo estero.
L’art. 839 c.p.c. non chiarisce espressamente se il decreto presidenziale di accoglimento consenta di procedere immediatamente all’esecuzione
in Italia del lodo estero, ovvero se tale possibilità risulti condizionatamente
(52) Cosı̀ AULETTA, in Diritto dell’arbitrato, cit., 410; PICOZZA, in Arbitrato, ADR
conciliazione, cit., 1079.
(53) In tal senso, cfr. FRANCHI, Mancata produzione della copia autentica della sentenza delibanda ed effıcacia della sentenza che nega la delibazione, in Giur. it., 1965, I, 1,
1417; PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., II, 338; BOVE, Il riconoscimento del lodo
straniero, cit., 32; BIAVATI, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 892; BRIGUGLIO, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 4048.
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sospesa fino allo spirare del termine per proporre opposizione o comunque
fino all’emanazione della sentenza che definisce il giudizio di opposizione.
La dottrina, sul punto, ha assunto diverse posizioni: secondo alcuni, il decreto conclusivo della fase sommaria conferisce al lodo estero tanto l’efficacia vincolante quanto quella esecutiva che potrà essere sospesa nel corso
del giudizio di opposizione ai sensi dell’art. 649 c.p.c. (54); secondo altri, si
dovrebbe escludere l’immediata esecutività del lodo, la quale potrebbe tuttavia essere disposta dal presidente della corte di appello nel caso in cui vi
sia il « pericolo di grave pregiudizio nel ritardo » menzionato dall’art. 642
c.p.c. (55); infine, vi è chi ritiene che il decreto di accoglimento non è mai
di per sé idoneo a far acquisire immediatamente e provvisoriamente efficacia esecutiva al lodo estero, quest’ultima però potrà essere concessa nel
corso del giudizio di opposizione applicando analogicamente l’art. 648
c.p.c. (56). Dal canto suo, la giurisprudenza è orientata nel senso di escludere che il decreto presidenziale conferisca al lodo straniero efficacia esecutiva in pendenza dei termini per proporre opposizione (57).
Siffatto indirizzo ermeneutico ci sembra del tutto condivisibile alla
luce dei seguenti elementi desumibili dal diritto positivo.
In primo luogo, l’art. 840, comma 4, c.p.c. stabilisce che in caso di
sospensione del giudizio di opposizione al riconoscimento del lodo estero
per annullamento o per sospensione dell’efficacia nello Stato di origine il
giudice italiano, su istanza della parte che ha richiesto l’esecuzione, può
ordinare che l’altra parte presti idonea garanzia, con ciò lasciando chiaramente presumere che il legislatore abbia pensato ad un lodo non ancora
esecutivo nel nostro ordinamento. Se il decreto presidenziale conferisse al
(54) Di tale avviso sono LA CHINA, L’arbitrato, cit., 309; BOVE, Il riconoscimento del
lodo straniero, cit., 34 ss.; FUMAGALLI (TARZIA - LUZZATTO - RICCI), Commento all’art. 839
c.p.c., cit., 265; ZUCCONI GALLI FONSECA, L’esecutorietà del lodo arbitrale straniero in pendenza di opposizione, in questa Rivista, 1997, 347; LUZZATTO, L’arbitrato internazionale e i
lodi stranieri nella nuova disciplina legislativa italiana, in Riv. dir. int. priv. proc., 1994, 278;
ROVERSI, Aspetti processuali della delibazione dei lodi esteri, in questa Rivista, 1999, 157; in
giurisprudenza, v. App. Catanzaro 25 marzo 1996, in Riv. dir. int. priv. proc., 1998, 799.
(55) Cosı̀ BRIGUGLIO, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 4048 ss.
(56) In tal senso, v. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., II, 332 ss.; CONSOLO, Sulla provvisoria esecutorietà del lodo straniero tra art. 840 c.p.c. e Convenzione di
New York, in Corr. giur., 1997, 709; AULETTA, in Diritto dell’arbitrato, cit., 410; BIAVATI,
Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 892; CICCONI, Lodi stranieri, cit., 318.
(57) Cfr., tra le tante, App. Genova 21 giugno 2006, in Dir. comm. int., 2008, 683,
secondo cui « il decreto emesso dal presidente della corte d’appello ai sensi dell’art. 839,
comma 4, c.p.c. non conferisce al lodo straniero immediata efficacia esecutiva, in pendenza
del termine per l’opposizione o nonostante la proposizione di questa; tuttavia, nel corso del
giudizio di opposizione ex art. 840 c.p.c., la parte opposta può ottenere dal giudice la concessione della provvisoria esecutività del lodo a norma dell’art. 648 c.p.c., qualora, in base
ad una delibazione da compiersi in via meramente incidentale e sommaria, l’opposizione non
sia fondata su prova scritta o di pronta soluzione ».
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lodo estero efficacia esecutiva non avrebbe, infatti, alcun senso consentire
alla corte di appello di imporre un cauzione a carico della parte che si troverebbe cosı̀ ingiustamente costretta, da un lato, a subire il processo esecutivo e, dall’altro, a prestare la garanzia.
In secondo luogo, mentre l’art. 825 c.p.c. prevede che il decreto
emesso all’esito del procedimento di omologazione del lodo interno lo dichiara « esecutivo », l’art. 839 c.p.c. si limita a disporre che il decreto presidenziale di accoglimento dichiara il lodo estero solo « efficace ».
In terzo luogo, gli autori che propendono per l’immediata esecutività
del lodo estero in pendenza dei termini per l’opposizione richiamano l’art.
642 c.p.c.; ma se è vero che le norme sul procedimento di ingiunzione sono
espressamente richiamate dall’art. 840 c.p.c. è anche vero che la norma da
ultimo citata richiama solo gli articoli « 645 e seguenti », peraltro, « in
quanto applicabili ».
Del resto, la rilevanza costituzionale che nel nostro ordinamento ha il
principio del contraddittorio dovrebbe indurre a ritenere tassative e non
ampliabili in via interpretativa le ipotesi nelle quali il legislatore eccezionalmente consente la formazione di un titolo esecutivo inaudita altera
parte.
Esclusa l’immediata e provvisoria esecutività del decreto di accoglimento, al ricorrente in pendenza del termine per proporre opposizione resta
la possibilità di richiedere provvedimenti cautelari conservativi finalizzati a
garantire la fruttuosità dell’eventuale azione esecutiva. Si ristabilisce, in tal
modo, il collaudato sistema degli artt. 39 della Convenzione di Bruxelles
del 1968 e 47, comma 3, del reg. 44/2001.
8.
La fase di opposizione.
Il decreto presidenziale che dichiara l’efficacia del lodo estero nel nostro ordinamento è frutto, come abbiamo visto, di un procedimento privo
di contraddittorio. È quindi necessario che il giudizio sull’esistenza di
eventuali ragioni ostative al riconoscimento del lodo straniero si svolga in
una successiva fase a contraddittorio pieno, secondo lo schema dell’opposizione a decreto ingiuntivo.
La seconda fase del procedimento per il riconoscimento e l’esecuzione del lodo estero si configura come puramente eventuale, in quanto
condizionata dall’iniziativa della parte interessata, che a seconda del contenuto del decreto presidenziale potrà essere il ricorrente (decreto di rigetto)
o la controparte del procedimento arbitrale (decreto di accoglimento).
Ai sensi dell’art. 840 c.p.c., l’opposizione si propone con atto di citazione dinanzi alla corte di appello cui appartiene il presidente che ha
emesso il decreto ex art. 839 c.p.c. In realtà, l’art. 840 si limita a prevedere
l’attribuzione del giudizio di opposizione alla corte di appello, senza alcuna
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specificazione in ordine alla competenza territoriale. Ma l’espresso richiamo compiuto dall’art. 840 c.p.c. agli artt. 645 ss. c.p.c. in quanto applicabili comporta l’applicazione del precetto della prima parte dell’art. 645
c.p.c., secondo cui « l’opposizione si propone davanti all’ufficio giudiziario
al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto ». Dal coordinamento di queste due disposizioni deriva l’attribuzione della competenza
funzionale inderogabile per il giudizio di opposizione alla corte di appello
il cui presidente ha emesso il decreto ex art. 839 c.p.c. (58).
Il termine di decadenza dall’opposizione è di trenta giorni che decorrono, in caso di provvedimento di accoglimento, dalla notificazione del decreto e, nel caso di provvedimento di rigetto, dalla comunicazione dello
stesso. Inoltre, il richiamo agli artt. 645 ss. c.p.c., consente di ritenere proponibile l’opposizione anche dopo la scadenza del termine di trenta giorni
se ricorrono le ipotesi menzionate dall’art. 650 c.p.c.
Come detto in precedenza, la disciplina processuale della fase di opposizione viene delineata dall’art. 840 c.p.c. mediante un rinvio alle norme
relative al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. Ne deriva, in primo
luogo, che « il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario » (art. 645, comma 2, c.p.c.) (59). Ciò significa, fra l’altro, che si avrà
una trattazione e decisione collegiale, come avviene normalmente di fronte
alla corte di appello, con possibilità per il presidente di delegare per l’assunzione dei mezzi istruttori uno dei componenti del collegio (60) (art. 350
c.p.c.). In secondo luogo, il rinvio agli artt. 645 ss. c.p.c., comporta che il
decreto presidenziale di accoglimento acquisterà efficacia esecutiva se
« non è stata fatta opposizione nel termine stabilito, oppure l’opponente
non si è costituito » (art. 647 c.p.c.) (61) e che « se l’opposizione non è fondata su prova scritta o di pronta soluzione » la corte di appello potrà concedere con ordinanza non impugnabile l’esecuzione provvisoria del decreto
ex art. 839 c.p.c. (art. 648, comma 1, c.p.c.) (62).
(58) Cosı̀ PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., II, 340.
(59) In virtù delle modifiche apportate all’art. 645 c.p.c. dall’art. 1, Legge n. 218/
2011 (che ha eliminato l’inciso « ma i termini di comparizione sono ridotti a metà »), nel
giudizio di opposizione ex art. 840 c.p.c. i termini di comparizione non potranno che essere
quelli ordinari di cui all’art. 163-bis, comma 1, c.p.c., con possibilità di abbreviazione ai
sensi del comma 2 della norma.
(60) Si tratta della modifica introdotta dall’art. 27, comma 1, lett. b), Legge n. 183/
2011, che ha sostanzialmente recepito quanto affermato da Cass., 14 giugno 2011, n. 12957,
in Foro it., 2011, I, 3033, con nota di COSTANTINO, Sulla trattazione collegiale in appello tra
principio di legalità ed esigenze pratiche.
(61) Per una dettagliata analisi delle norme relative al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo applicabili al procedimento ex art. 840 c.p.c., v. BRIGUGLIO, Commento all’art. 840 c.p.c., in Codice di procedura civile5, a cura di PICARDI, II, Milano, 2010, 4054.
(62) Cfr. App. Milano 12 dicembre 2006, in Foro it., 2007, I, 2243, secondo cui « nel
corso del giudizio di opposizione all’exequatur del lodo estero la parte opposta può ottenere
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L’opposizione è decisa con sentenza che può essere di rigetto o di accoglimento. Il rigetto dell’opposizione può conseguire a motivi di rito (pensiamo all’opposizione proposta tardivamente) o a motivi di merito, consistenti nell’inesistenza delle cause ostative al riconoscimento. Siccome il riconoscimento ha natura costitutiva, il prodursi dell’efficacia del lodo estero
nel nostro ordinamento è subordinato al passaggio in giudicato della sentenza di rigetto. Tuttavia, posto che il nostro sistema processuale ammette
che l’efficacia esecutiva si produca anche prima che il provvedimento che
ne costituisce la fonte sia passato in giudicato, il lodo estero condannatorio
acquisterà efficacia esecutiva sin dal momento della pubblicazione della
sentenza della corte di appello, ovviamente a meno che non ne fosse stato
già dotato nel corso del giudizio di opposizione, ai sensi dell’art. 648,
comma 1, c.p.c. (63). Viceversa, la sentenza di accoglimento dell’opposizione, accertando l’inidoneità del lodo estero a produrre effetti in Italia, si
sostituirà al decreto (positivo) presidenziale precedentemente emesso determinandone l’immediata caducazione.
Avverso la sentenza conclusiva della fase di opposizione l’art. 840,
comma 2, c.p.c. prevede che sia possibile esperire il ricorso per cassazione.
Peraltro, non sembra che la disposizione possa impedire l’impugnabilità
della predetta sentenza con revocazione o con opposizione di terzo (64).
Prima di passare ad esaminare le singole circostanze ostative, occorre
chiedersi se sia possibile il riconoscimento in via incidentale del lodo
estero. Anche se gli artt. 839-840 c.p.c., a differenza dell’abrogato art. 799
c.p.c., non dispongono alcunché in ordine alla riconoscibilità in via incidentale del lodo estero, a tale risultato potrebbe giungersi sulla base dell’art.
67, comma 3, Legge n. 218/1995 (65) — che consente il riconoscimento in
via incidentale delle sentenze straniere — o comunque ricorrendo al principio generale dell’accertamento incidenter tantum, sancito dall’art. 34
c.p.c. (66).
dal giudice la concessione della provvisoria esecutività a norma dell’art. 648 c.p.c., quando,
in base ad una delibazione da compiersi in via meramente incidentale, i motivi di opposizione
appaiono non manifestamente fondati e non del tutto plausibili ».
(63) Cfr. D’ALESSANDRO, Commento all’art. 840 c.p.c., in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di MENCHINI, Milano, 2010, 531-532.
(64) Sul punto, v. le considerazioni di AULETTA, in Diritto dell’arbitrato, cit., 416.
(65) Cosı̀ BRIGUGLIO, L’accordo compromissorio e il lodo estero fra la convenzione
di New York e le recenti novità legislative italiane, in Giust. civ., 1997, II, 477; contra GAYA,
L’arbitrato in materia internazionale tra la l. n. 25/1994 e la riforma del diritto internazionale privato, in questa Rivista, 1996, 499; LA CHINA, L’arbitrato, cit., 303.
(66) In questi termini, v. BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero, cit., 37.
Naturalmente, il riconoscimento incidentale del lodo estero potrà avere efficacia solo
nel processo in cui è compiuto, ma se il processo pende dinanzi alla corte di appello competente e vi è apposita domanda di parte, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., l’accertamento della riconoscibilità avrà efficacia anche al di fuori del processo in cui è reso.
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9.
Le circostanze ostative al riconoscimento del lodo estero: l’incapacità
delle parti e l’invalidità della convenzione arbitrale.
La fase di opposizione ha ad oggetto l’accertamento della (in)sussistenza delle circostanze ostative al riconoscimento, anche note come
grounds for refusal, che sono tassativamente elencate nell’art. 840, comma
3 e 5, c.p.c., nonché nell’art. V della Convenzione di New York e che, a
ben vedere, si atteggiano quali fatti impeditivi dell’efficacia del lodo estero
in Italia (67).
Dette condizioni si distinguono in due categorie a seconda che siano
rilevabili anche di ufficio (art. 840, comma 5, c.p.c.) (68) o solo su istanza
di parte (art. 840, comma 3, c.p.c.).
Con riferimento a queste ultime, è dato rinvenire un’inversione dell’onere della prova (69), nel senso che — conformemente a quanto stabilito
dalla convenzione di New York — grava in ogni caso sul controinteressato
al riconoscimento dedurre e dimostrare che il riconoscimento e l’esecuzione del lodo estero devono essere rifiutati in virtù dell’esistenza di una
delle cause ostative previste dall’art. 840 c.p.c. Pertanto, il controinterssato
nell’atto di citazione in opposizione al decreto ex art. 839 c.p.c. ha l’onere
di indicare specificamente quali siano le circostanze ostative che egli ritiene
sussistere e dell’esistenza di ognuna di esse dovrà fornire idonea prova (70).
Laddove venga fornita la prova anche di una soltanto delle circostanze
elencate dall’art. 840 c.p.c., il giudizio di opposizione si concluderà con
una sentenza di accoglimento dell’opposizione con la quale verrà definitivamente negata ogni efficacia al lodo straniero nel nostro ordinamento.
Passando ad esaminare le singole circostanze ostative al riconoscimento del lodo estero, in primo luogo, viene in rilevo l’incapacità soggettiva delle parti al momento della stipulazione del patto compromissorio e
l’invalidità oggettiva della convenzione arbitrale. Al riguardo, possiamo
(67) Cfr. D’ALESSANDRO, Commento all’art. 840 c.p.c., cit., 518.
(68) In particolare, prevede la norma che nel corso del giudizio di opposizione la
corte di appello possa nuovamente controllare d’ufficio la compromettibilità della controversia e la non contrarietà delle disposizioni del lodo estero con l’ordine pubblico.
(69) Nel caso in cui l’opposizione venga proposta dal ricorrente avverso il decreto di
rigetto, fermo restando che l’onere della prova di eventuali circostante ostative al riconoscimento continuerà a gravare sul controinteressato, spetterà al ricorrente dimostrare la regolarità formale del lodo, la compromettibilità della controversia e la non contrarietà delle disposizioni del lodo all’ordine pubblico: cfr. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., II,
343; AULETTA, in Diritto dell’arbitrato, cit., 417; PICOZZA, in Arbitrato, ADR conciliazione,
cit., 1084.
(70) Sottolinea BERGAMINI, in L’arbitrato, cit., 367, che fondare il regime del riconoscimento sull’eccezione del controinteressato delle cause ostative è stata una delle innovazioni più significative della Convenzione di New York rispetto alla precedente Convenzione
di Ginevra del 1927 che, viceversa, poneva a carico della parte interessata alla delibazione
l’onere probatorio dell’esistenza delle condizioni richieste per la recezione del lodo straniero.
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notare che, essendo la volontà delle parti il presupposto essenziale dell’arbitrato, è logico che eventuali vizi di base dell’accordo compromissorio
rendano di conseguenza viziato anche il prodotto finale del quale si chiede
il riconoscimento (71).
Per quanto concerne la valutazione della capacità delle parti (72), che
coinvolge ogni profilo attinente alla capacità giuridica e di agire delle persone fisiche e ai poteri rappresentativi (c.d. rappresentanza organica) delle
persone giuridiche, l’individuazione della legge applicabile va effettuata in
base a quanto previsto dagli artt. 20 ss., Legge n. 218/1995, nei quali si dispone l’applicazione della legge nazionale della persona in questione.
L’invalidità della convenzione arbitrale andrà, invece, valutata, secondo la legge alla quale il patto era stato sottoposto dalle parti ovvero, in
mancanza di una simile indicazione, in base alla legge dello Stato in cui il
lodo è stato pronunciato.
Con riferimento ai profili formali di validità dell’accordo arbitrale, va
rilevato che l’art. II della Convenzione di New York, disciplinando il riconoscimento del patto compromissorio, richiede la forma scritta della convenzione arbitrale. Tale disposizione costituisce una sorta di « norma di applicazione necessaria » (73) non derogabile, pertanto, anche se la legge a cui
le parti hanno assoggettato il patto compromissorio ne ammettesse in ipotesi la forma verbale (74).
10. (Segue): la violazione del contraddittorio e del diritto di difesa.
La seconda circostanza ostativa al riconoscimento viene individuata
dall’art. 840, comma 3, n. 2) c.p.c. nella mancata informazione della parte
nei cui confronti il lodo è invocato della designazione dell’arbitro o del
(71) Cfr. BIAVATI, Commento all’art. 840 c.p.c., in Arbitrato, diretto da CARPI, Bologna, 2008, 901; ATTERITANO, Arbitrato estero, cit., 89.
(72) Sull’argomento, v. PIETRANGELI, La legge applicabile al potere dell’organo di
sottoscrivere la convenzione arbitrale nel nome della persona giuridica, nel giudizio per il
riconoscimento di sentenza arbitrale straniera: osservazioni in merito all’interpretazione
dell’art. V, comma 1, lett. a) della Convenzione di New York del 10 giugno 1958, in questa
Rivista, 1998, 45 ss.; BERLINGUER, Capacità delle parti e rispetto del contraddittorio come
condizioni al riconoscimento del lodo straniero in Italia, in Foro it., 1999, I, 293 ss.
(73) Cosı̀ D’ALESSANDRO, Commento all’art. 840 c.p.c., cit., 523.
(74) In tal senso, v. GAJA, Forma dell’accordo arbitrale e riconoscimento del lodo
straniero secondo secondo la convenzione di New York, in questa Rivista, 1991, 324; contra
BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero, cit., 41, il quale richiama una pronuncia del Tribunale Distrettuale di New York del 6 agosto 1996, in questa Rivista, 1998, 559, ove si
escluse l’applicabilità dell’art. II della Convenzione di New York, in quanto la legge dello
Stato di New York, applicabile nel caso di specie, era più liberale, e si ammise che l’esecuzione di un ordine di acquisto sottoscritto da una sola parte importasse accettazione dell’ordine e della clausola arbitrale in essa contenuta.
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procedimento arbitrale e nella violazione del diritto di difesa. La norma, in
sintonia con tutte le disposizioni che nei diversi ordinamenti realizzano la
garanzia del due process of law, si dà carico di vietare l’ingresso nel nostro
ordinamento del lodo estero pronunciato a conclusione di un giudizio arbitrale nel quale non è stato garantito il diritto al contraddittorio e all’effettività della difesa.
Si ritiene che integri violazione del diritto di difesa l’esiguità dei termini di comparizione, nonché dei termini che scandiscono il compimento
delle attività processuali cui possano eventualmente collegarsi preclusioni (75). Peraltro, siffatte verifiche andranno compiute in concreto, cioè guardando non all’astratta normativa che disciplinava il procedimento arbitrale,
ma piuttosto alla concreta applicazione fattane dagli arbitri (76).
È dubbio se si possa contestare la violazione del diritto al contraddittorio e del diritto di difesa per la prima volta in sede di opposizione al decreto ex art. 839 c.p.c. anche quando si è rimasti inerti nello Stato a quo,
senza sfruttare le chance impugnatorie ivi previste. Al riguardo, né dalla
Convenzione di New York né dall’art. 840 c.p.c. sembra potersi trarre una
precisa indicazione in senso restrittivo; tuttavia, la circostanza per cui tale
violazione può essere rilevata come motivo di diniego di delibazione solo
su istanza di parte, parrebbe dimostrare che trattasi di un requisito ostativo
posto nel mero interesse della parte e non anche nel generale interesse dello
Stato richiesto. Di qui, secondo alcuni, la fisiologica rilevanza del compor-
(75) In ogni caso, la dimostrazione dell’esiguità del termine assegnato per la comparizione, ove si accompagni alla prova che sia mancata, in concreto, la tempestiva conoscenza
del procedimento, sarà certamente una circostanza idonea ad impedire la recezione del lodo
estero: cfr. App. Firenze 13 giugno 1988, in Rass. arb., 1989, 72 ss. Secondo App. Firenze
30 gennaio 2006, in questa Rivista, 2007, 73, « la mancata informazione della designazione
dell’arbitro o del procedimento arbitrale è presa in considerazione dall’art. 5, comma 1, lett.
b), della convenzione di New York del 1958 non come valore fine a se stesso, bensı̀ come
sintomo della concreta impossibilità, per la parte contro la quale il lodo è invocato, di far valere la propria difesa, e quindi non può costituire motivo ostativo al riconoscimento e all’esecuzione del lodo straniero qualora, nonostante l’omessa comunicazione dei nomi degli arbitri designati, risulti che la parte abbia avuto, in concreto, la possibilità di difendersi nel procedimento arbitrale e di conoscere gli elementi essenziali del suo sviluppo ed abbia, però,
deliberatamente scelto di non avvalersi dei suoi diritti ».
Non costituisce, invece, motivo ostativo al riconoscimento del lodo estero l’ipotesi in
cui la parte non partecipi alla costituzione dell’organo arbitrale o rimanga inattiva nel corso
del procedimento: cfr. TRISORIO LIUZZI, Contumacia nel giudizio arbitrale e riesame nel merito di lodo straniero, in questa Rivista, 1993, 454.
(76) Cfr. Cass., 30 maggio 2006, n. 12873, in Riv. dir. int. priv. proc., 2007, 1117,
secondo cui « la mera violazione di una disposizione processuale straniera, senza che si sia
verificata l’impossibilità di far valere la propria difesa nel procedimento arbitrale, configura
un vizio del procedimento arbitrale da far valere nell’ordinamento straniero e con i mezzi
d’impugnazione ivi previsti, non integrando invece l’ipotesi di rifiuto di riconoscimento ed
esecuzione di lodo straniero prevista dall’art. 840, comma 3, n. 2 c.p.c. ».
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tamento processuale tenuto dalla parte nello Stato di origine (77). In tal
modo, però, si finirebbe per introdurre una preclusione non specificamente
prevista dal legislatore e, per di più, relativa alla contestazione di una indebita lesione di diritti che, a livello nazionale, hanno rilevanza costituzionale e che, a livello sovranazionale, vengono considerati diritti fondamentali. Ecco allora che, in virtù del principio di tipicità delle preclusioni (78)
nonché in virtù della particolare rilevanza dei valori in gioco, ci sembra
preferibile ammettere la possibilità di contestare per la prima volta in sede
di opposizione al decreto di riconoscimento l’esistenza delle circostanze
ostative contemplate dall’art. 840, comma 3, n. 2), c.p.c.
11. (Segue): la violazione dei limiti del patto compromissorio.
La terza circostanza ostativa al riconoscimento prende in considerazione l’ipotesi in cui il lodo, violando la libertà contrattuale delle parti, abbia pronunciato al di fuori o comunque oltre i limiti della convenzione di
arbitrato. Per attenuare gli effetti di una eccessiva estensione di questa regola, l’art. 840, comma 3, n. 3) c.p.c., in applicazione del principio di conversione degli atti processuali, consente, nel caso in cui le statuizioni del
lodo che riguardano questioni sottoposte ad arbitrato possono essere separate da quelle relative a questioni non sottoposte ad arbitrato, che si possa
riconoscere efficacia parziale al lodo, nei limiti delle questioni che rientrano
nell’accordo di arbitrato (79).
La valutazione circa l’extra o l’ultrapetizione (80) del lodo estero andrà effettuata tenendo presente la volontà delle parti, sicché possiamo ritenere che ogni significativa deviazione degli arbitri dal mandato loro conferito comporti l’inefficacia del lodo: pensiamo, ad esempio, alla pronuncia
resa secondo equità nonostante la volontà espressa delle parti di avere un
lodo secondo diritto (81).
(77) Cfr. BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero, cit., 525; D’ALESSANDRO, Commento all’art. 840 c.p.c., cit., 525.
(78) Sul punto, v. BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile2, Bari, 2012, I, 247.
(79) Si deve, peraltro, ritenere che il riconoscimento parziale del lodo possa avvenire
non solo nel caso espressamente previsto dalla disposizione in esame, ma in ogni altra ipotesi in cui sussistano solo per una parte del lodo le condizioni per il riconoscimento, e non
solo in sede di opposizione ma anche in sede di decreto ex art. 839 c.p.c.: in questo senso
cfr. BRIGUGLIO, Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 4037; FUMAGALLI (TARZIA - LUZZATTO RICCI), Commento all’art. 839 c.p.c., cit., 283; CICCONI, Lodi stranieri, cit., 323; App. Milano,
24 marzo 1998, in Riv. dir. int. priv. proc., 1998, 869 ss.
(80) Ricorrerà il vizio dell’extrapetizione nel caso in cui il lodo abbia affrontato questioni che non formarono oggetto di convenzione di arbitrato. Nel caso in cui la decisione
ecceda i limiti del compromesso o della clausola compromissoria si verterà, invece, nell’ambito dell’ultrapetizione.
(81) V. Cass., Sez. un., 10 marzo 2000, n. 58, in Giust. civ., 2000, I, 3203; 19 feb-
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Tra i requisiti ostativi è contemplata soltanto l’ipotesi della pronuncia
ultra o extra compromissum e non anche quella inversa della mancata pronuncia su taluna delle domande proposte in sede arbitrale. Ne deriva che
l’omessa pronuncia (infra compromissum) non costituisce motivo di diniego di riconoscimento, ferma restando la possibilità di far valere tale vizio nell’ordinamento di provenienza del lodo (82).
12. (Segue): i vizi attinenti alla costituzione del collegio arbitrale o allo
svolgimento del procedimento.
L’art. 840, comma 3, n. 4), c.p.c. contempla come quarta circostanza
ostativa al riconoscimento l’ipotesi in cui la costituzione del collegio arbitrale o lo svolgimento del procedimento non si siano svolti in conformità
all’accordo arbitrale, o in mancanza di siffatto accordo, in conformità alla
legge del luogo di svolgimento del procedimento. Come prima cosa,
quindi, la corte di appello deve verificare se sussista un accordo delle parti
in ordine alla regolamentazione della costituzione del collegio arbitrale e
del procedimento: in caso di esito positivo, la verifica della difformità deve
essere condotta avendo riguardo esclusivamente all’accordo delle parti, posto che il riferimento alla legge del luogo di svolgimento del procedimento
arbitrale opera non in via alternativa, bensı̀ in via residuale (83).
Del resto, se consideriamo che l’autonomia delle parti gioca un ruolo
preminente nel determinare le regole processuali applicabili dagli arbitri,
allora ne possiamo dedurre che, allorquando l’arbitrato si sia svolto secondo una procedura conforme alla volontà manifestata dalle parti, il riconoscimento e l’esecuzione del lodo estero non possono essere rifiutati ancorché sia stata violata la legge del luogo di svolgimento del procedimento (84).
Nel caso in cui la verifica in esame debba essere condotta alla stregua
della legge statale, si ritiene che il riconoscimento e l’esecuzione possano
essere rifiutati solo quando la difformità sia, secondo quella legge, causa di
invalidazione del lodo (85). Peraltro, la parte che eccepisce la circostanza
braio 2000, n. 1905, in Corr. giur., 2000, 1498; in dottrina, v. VISMARA, Aspetti dell’eccesso
di potere degli arbitri nella Convenzione di New York del 1958, in questa Rivista, 2002,
225 ss.
(82) Cfr. D’ALESSANDRO, Commento all’art. 840 c.p.c., cit., 527; PICOZZA, in Arbitrato, ADR conciliazione, cit., 1089.
(83) Cfr. PICOZZA, in Arbitrato, ADR conciliazione, cit., 1090.
(84) In tal senso, cfr. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., II, 347; BRIGUGLIO, L’arbitrato estero, cit., 211. In giurisprudenza, App. Genova 2 maggio 1980, in Riv. dir.
int. priv. proc., 1981, 166.
(85) Sul punto, v. LOPEZ DE GONZALO, Note sul riconoscimento e sull’esecuzione dei
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ostativa de qua deve dedurre non solo la difformità, ma anche la specifica
norma straniera o la disposizione convenzionale violata dalle modalità di
costituzione del collegio ovvero di svolgimento del procedimento arbitrale (86).
13. (Segue): la non vincolatività, l’annullamento o la sospensione del
lodo nello Stato di provenienza.
L’ultima ipotesi impeditiva dell’efficacia del lodo è quella che sottolinea in modo più netto il collegamento fra il lodo estero e un determinato
ordinamento. Infatti, non può essere attribuita efficacia nel nostro ordinamento ad un lodo che non sia ancora divenuto vincolante fra le parti ovvero che sia stato annullato o sospeso da un’autorità competente dello Stato
nel quale (o secondo le legge del quale) è stato reso (87).
Ai sensi dell’art. 840, comma 3, n. 5), c.p.c., è sufficiente che nello
Stato di origine il lodo sia vincolante nel suo contenuto di accertamento. In
altri termini, ai fini della condizione ostativa in esame non assume alcun rilievo la circostanza che il lodo estero sia ancora soggetto ai mezzi di impugnazione interni o che non sia ancora munito di exequatur, a meno che
— come avveniva nel sistema originario del codice del 1940 — secondo
l’ordinamento di provenienza, il lodo acquisti efficacia solo a seguito di
exequatur (88).
La vincolatività del lodo, da accertarsi secondo le prescrizioni normative dell’ordinamento di provenienza, va quindi individuata non nella definitività — intesa come impossibilità di mettere in discussione il dictum arbitrale —, bensı̀ nell’obbligo negoziale che lega le parti rispetto all’adempimento del contenuto della pronuncia arbitrale, la quale costituisce la « lex
specialis del rapporto giuridico controverso » (89): una lex specialis che le
parti si sono obbligate a rispettare sin dal momento della stipulazione della
convenzione di arbitrato e perciò prima che il suo contenuto venisse ad esistenza (90).
lodi arbitrali inglesi in Italia secondo la Convenzione di New York del 1958, in Dir. mar.,
1983, 783 ss.
(86) V. Cass., 22 febbraio 1992, n. 2183, in Riv. dir. int. priv. proc., 1993, 387.
(87) Cosı̀ BIAVATI, Commento all’art. 840 c.p.c., cit., 902-903. Evidenzia D’ALESSANDRO, Commento all’art. 840 c.p.c., cit., 529, che il diniego di riconoscimento per annullamento o sospensione del lodo estero nell’ordinamento di provenienza costituisce un requisito
ostativo che, differentemente dagli altri, si atteggia come fatto estintivo e non già impeditivo
della delibazione.
(88) Cfr. BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero, cit., 49.
(89) L’espressione è di RUFFINI, La divisibilità del lodo arbitrale, Padova, 1993, 305.
(90) Cfr. PICOZZA, in Arbitrato, ADR conciliazione, cit., 1092.
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Può darsi, tuttavia, che l’efficacia vincolante del lodo straniero originariamente esistente venga meno a causa dell’annullamento o della sospensione del lodo disposti dalla competente autorità dello Stato nel quale (o
secondo la legge del quale) è stato reso. In tali ipotesi, la corte di appello
dovrà, innanzitutto, accertare se l’autorità che ha pronunciato l’annullamento o la sospensione fosse a ciò legittimata in base alle norme processuali dell’ordinamento di provenienza e, in caso di esito positivo di tale verifica, l’efficacia del lodo estero in Italia dovrà essere rifiutata (91).
Nell’ipotesi in cui il lodo estero sia stato impugnato nell’ordinamento
di origine o ne sia stata chiesta la sospensione, l’art. 840, comma 4, c.p.c.,
consente alla corte di appello di sospendere il giudizio di opposizione. La
ratio della norma è senza dubbio quella di contemperare i contrapposti interessi che le parti hanno rispetto al riconoscimento del lodo estero, nel
momento in cui l’effettiva riconoscibilità di questo si trovi in uno stato di
incertezza, dovuto alla pendenza del giudizio di annullamento o di sospensione nello Stato di origine (92).
La sospensione del giudizio di opposizione ha carattere facoltativo ed
è rimessa ad una discrezionalità che potremo definire « condizionata » (93)
della corte di appello che, in concreto, sarà chiamata a valutare, per un
verso, la presumibile fondatezza o la manifesta pretestuosità dell’istanza rivolta al giudice straniero e, per altro verso, la competenza di quest’ultimo
ad emanare il provvedimento di annullamento o sospensione dell’efficacia
del lodo (94).
(91) Al riguardo, occorre dare atto di una certa opinione dottrinale e giurisprudenziale, affermatasi in Francia e negli Stati Uniti, secondo la quale l’annullamento del lodo
nello stato di origine non avrebbe efficacia impeditiva rispetto al riconoscimento perché, da
un lato, il lodo internazionale non « apparterrebbe » propriamente ad un dato ordinamento e,
dall’altro, nella legislazione degli Stati in questione non sarebbe stato disciplinato come fatto
impeditivo il caso dell’annullamento del lodo nello Stato di origine. Di conseguenza, secondo
l’opinione in parola, visto anche il disposto dell’art. VII della Convenzione di New York, che
lascia spazio a normative nazionali più favorevoli al riconoscimento, si potrebbe giungere a
ritenere irrilevante l’avvenuto annullamento del lodo nello Stato di origine. Sull’argomento,
v. BRIGUGLIO, Mito e realtà nella denazionalizzazione dell’arbitrato privato, in questa Rivista,
1998, 453 ss.; LAUDISA, Riconoscimento ed esecuzione della sentenza arbitrale straniera annullata nei paesi di provenienza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 713 ss.; GIARDINA, Ancora
sull’exequatur di un lodo arbitrale annullato nel paese d’origine, in questa Rivista, 1998,
746; ATTERITANO, Il lodo annullato nello Stato sede dell’arbitrato non può essere eseguito o
riconosciuto all’estero perché è un lodo che non esiste, ivi, 2008, 100 ss.; TAMPIERI, Riconoscimento ed esecuzione del lodo arbitrale reso all’estero ed annullato nel paese di origine:
spunti comparatistici e prospettive, ivi, 2001, 361 ss.; BORHESI, in Arbitrato, ADR conciliazione, cit., 1097 ss.
(92) Cosı̀ BRIGUGLIO, Commento all’art. 840 c.p.c., cit., 4061; PICOZZA, in Arbitrato,
ADR conciliazione, cit., 1093.
(93) Cosı̀ BRIGUGLIO, Commento all’art. 840 c.p.c., cit., 4062.
(94) Cosı̀ PICOZZA, in Arbitrato, ADR conciliazione, cit., 1094.
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Una volta che la corte di appello abbia sospeso con ordinanza il giudizio di opposizione, quest’ultimo dovrà essere riassunto, ma siccome nulla
è detto in ordine al termine di riassunzione e siccome dopo la riforma del
2009 non è più possibile affermare che il sistema individua in sei mesi il
termine per riassumere il processo sospeso, spetterà alla parte interessata
alla ripresa del giudizio decidere quando riattivarlo (95).
Se la corte di appello non sospende il giudizio di opposizione e pronuncia una sentenza di rigetto, il lodo estero acquisterà efficacia anche esecutiva in Italia. In tal caso potrebbe, però, avvenire che il lodo estero venga
successivamente annullato nello Stato di origine, con conseguente necessità
di coordinare le due pronunce (quella estera di annullamento del lodo e
quella nazionale di rigetto dell’opposizione) (96). Al riguardo, in assenza di
specifiche indicazioni normative, si potrebbe ipotizzare una caducazione
automatica della sentenza di delibazione, cosicché sarebbe consentito invocare la sopravvenuta inefficacia del lodo estero sia in sede di opposizione
all’esecuzione sia in qualunque altra sede (97).
14. Prospettive di riforma.
Volendo trarre le fila del discorso, occorre esaminare la conformità del
procedimento sin qui analizzato al divieto di disparità di trattamento sancito dall’art. III della Convenzione di New York.
Con riferimento a tale problematica, se confrontiamo il regime previsto dagli artt. 824-bis e 825 c.p.c. per i lodi interni rispetto a quello contemplato dagli artt. 839 e 840 c.p.c. per i lodi esteri, la violazione del divieto di disparità di trattamento sembra piuttosto evidente: mentre per i lodi
interni è necessario esperire un procedimento ad hoc solo per ottenere l’attribuzione dell’efficacia esecutiva, per i lodi esteri è necessario esperire un
apposito procedimento anche nel caso in cui si voglia ottenere il mero riconoscimento degli effetti di accertamento o costitutivi.
(95) In tal senso, v. TRISORIO LIUZZI, Commento all’art. 297 c.p.c., in Nuove leggi civ.
comm., 2010, 896, secondo cui dopo la riforma del 2009 — che ha ridotto solo alcuni dei
termini previsti nel codice di rito per la riassunzione del processo sospeso — per quelle fattispecie per le quali il legislatore non contempla espressamente un termine di riassunzione
non esiste un termine entro cui riassumere il processo a pena di estinzione.
(96) In Germania, ad esempio, al § 1061, comma 3, ZPO è previsto che « se il lodo,
dopo che è stato dichiarato esecutivo, è annullato all’estero, può essere chiesto l’annullamento della dichiarazione di esecutività ».
(97) In tal senso, v. LAUDISA, Riconoscimento ed esecuzione della sentenza arbitrale
straniera, cit., 720. Di diverso avviso è BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero, cit., 54,
il quale ritiene necessaria la preventiva caducazione della sentenza di delibazione, invocando
a tal fine un’applicazione analogica della revocazione straordinaria ex art. 395, n. 2, c.p.c.
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Orbene, la suindicata disparità di trattamento ha una precisa giustificazione storica, posto che quando furono introdotti nel codice di rito gli
artt. 839 e 840 non era ancora stata emanata né la Legge n. 218/1995 né la
riforma del 2006 (D.Lgs. n. 40). In quel contesto il nostro ordinamento non
aveva ancora accolto il principio del riconoscimento automatico delle sentenze straniere. Inoltre, anche se con la Legge n. 28/1983 ai lodi nazionali
era stata riconosciuta efficacia vincolante sin dalla data dell’ultima sottoscrizione ed il procedimento di exequatur era stato trasformato da procedimento necessario per il riconoscimento del lodo nell’ordinamento statale a
procedimento richiesto solo per l’attribuzione di effetti esecutivi, l’art. 825
c.p.c. consentiva la reclamabilità dinanzi al tribunale in composizione collegiale del solo provvedimento di rigetto dell’istanza di exequatur. In quel
momento storico non era, dunque, possibile estendere ai lodi esteri la disciplina dettata in materia di riconoscimento e di esecutività dei lodi interni,
perché, da un lato, si sarebbe introdotto per i lodi esteri un trattamento di
maggiore favore rispetto alle sentenze straniere e, dall’altro, non sarebbe
stato possibile consentire alla parte interessata ad impedire l’exequatur di
eccepire l’esistenza delle circostanze ostative di cui all’art. V della Convenzione di New York.
Oggi, invece, i principali ostacoli che si frapponevano all’estensione
ai lodi esteri della disciplina prevista per i lodi nazionali sono venuti meno.
Infatti, dapprima, la Legge n. 218/1995 ha introdotto il principio del riconoscimento automatico delle sentenze straniere e, poi, il D.Lgs. n. 40/2006,
nell’attribuire alla corte di appello la competenza a decidere sul reclamo
avverso il decreto conclusivo del procedimento di exequatur dei lodi interni, ha esteso l’esperibilità di tale rimedio anche ai provvedimenti di accoglimento.
Per effetto di tali innovazioni legislative, la disparità di trattamento
attualmente esistente tra i lodi esteri e quelli interni potrebbe essere eliminata attraverso un’auspicabile riforma legislativa che introduca anche per i
lodi esteri il principio del riconoscimento automatico, subordinando solo
l’attribuzione dell’efficacia esecutiva al vittorioso esperimento di un procedimento ad hoc. Tale procedimento potrebbe essere individuato o in quello
disciplinato dagli artt. 839-840 c.p.c. oppure, in una prospettiva di totale
equiparazione dei lodi esteri ai lodi interni, potrebbe anche pensarsi ad un
procedimento analogo a quello previsto dall’art. 825 c.p.c. per l’exequatur
dei lodi nazionali (98).
(98) Entrambe le soluzioni sono state recentemente prospettate da RUFFINI, in Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 592.
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DOCUMENTI E NOTIZIE
Notizie libri
Curato da Carmine Punzi, esce per i tipi della Lapis Edizioni il secondo dei
Quaderni dell’Arbitrato dell’ISSA.
Il volume, che raccoglie gli atti di un congresso romano svoltosi nel maggio
2011, è dedicato al magmatico tema della giustizia arbitrale sportiva.
Se le coordinate sistematiche generali delle relazioni fra giurisdizione statuale
e giustizia sportiva furono a suo tempo, e con effetto utile tuttora percepibile, tracciate nel noto volume di Francesco Luiso, molta acqua è passata poi sotto i ponti,
ed acqua tumultuosa di fenomeni normativi e pratici prodotti spesso senza alcuna
consapevolezza sistematica; la quale è invece richiesta alla fatica del giurista e
dello strudioso dell’arbitrato.
Dopo la autorevole Presentazione di Pasquale De Lise (cui è affidata anche la
chiusura del Convegno e del volume) e la Introduzione generale dello stesso Punzi,
danno ampio conto alla complessità della materia le relazioni di Francesco Luiso
sul Tribunale Nazionale Arbitrale per lo Sport, di Enrico Lubrano sulla Giurisprudenza del medesimo T.N.A.S., di Valerio Pescatore su Sanzioni sportive, responsabilità civile e arbitrato, di Piero Sandulli su Arbitrato sportivo e giurisdizione, di
Aniello Merone sui Rapporti tra il T.N.A.S. e il Tribunale Arbitrale dello Sport di
Losanna, di Fabrizio Zerboni su Vincolo di giustizia sportiva e clausola compromissoria. [A.B.]
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