A parte il nome, era la tipica galleria d`arte di Soho nel tipico

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A parte il nome, era la tipica galleria d`arte di Soho nel tipico
L’uomo che voleva essere Francis Scott Fitzgerald - David Handler
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A parte il nome, era la tipica galleria d’arte di Soho nel
tipico magazzino ristrutturato all’incrocio fra Spring Street e
West Broadway. La porta era d’acciaio e dovetti suonare un
campanello e attendere in strada sotto la pioggia mentre la telecamera sistemata sopra l’ingresso controllava se fossi il loro
tipo. Non lo sono, ma riuscii a ingannarli.
All’interno il pavimento di legno era lucido, le tubature
a vista e l’illuminazione nascosta. Un nastro di nonmusica
alla Philip Glass suonava vacuo in sottofondo. Un’apatica fanciulla con un aderente vestito nero e un paio di occhiali dalla
pesante montatura alla Buddy Holly sedeva al banco del ricevimento, immersa nella lettura di «Vanity Fair» che è la rivista
scandalistica degli pseudointellettuali e degli arrampicatori
sociali. Non mi degnò di un’occhiata.
Come ho già detto, era la tipica galleria d’arte di Soho, se
non per il nome, che era Rat’s Nest, La Tana del Ratto.
Mi tolsi l’impermeabile e il borsalino e mi piantai di fronte al banco a sgocciolare educatamente finché la ragazza non
sollevò lo sguardo su di me e subito dopo lo abbassò su Lulu,
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la mia basset hound, che indossava l’impermeabile giallo con
cappuccio che le avevo confezionato dopo che si era presa una
brutta bronchite. Ormai lo indossa sempre, quando non piove. Non voglio che le tornino i problemi respiratori. Quando
ne è affetta, russa. Lo so perché a Lulu piace dormire sulla
mia testa.
«Sto cercando Charleston Chu» dissi.
«Di là» rispose la giovane donna, una mano a indicare pigramente la galleria principale oltre la soglia.
Ci incamminammo.
«Signore?».
Ci fermammo. «Sì?».
«Al Rat’s Nest non sono ammessi animali».
Profondamente offesa, Lulu si voltò verso di me e sbuffò.
Le promisi che ci avrei pensato io. Mi rivolsi alla giovane donna, «Faremo finta di non aver sentito» le dissi. Ed entrammo.
All’interno non vi era molto, e quello che c’era non era un
granché. Alcuni graffiti avanzati da un paio di stagioni precedenti. Una bitorzoluta scultura delle dimensioni di un piano
a coda che sembrava appartenere alla scuola postmoderna e
neo-nonesistente. Un’enorme tela bianca dalla quale, appeso
a una serie di ganci, pendeva un manichino femminile azzurro metallizzato a grandezza naturale. I prezzi erano segnati su
piccoli, discreti biglietti da visita. La scultura costava 15.000
dollari, ottimo investimento se insieme all’opera d’arte ti
avessero regalato una Mitsubishi Galant nuova di zecca.
Qualcuno starnutì. Guardai Lulu. Lulu mi stava fissando.
Non era stato nessuno di noi due, gli unici cosiddetti esseri
viventi nel locale.
Mi avvicinai al manichino dipinto.
Era chiamato Blue Monday, Lunedì Azzurro. Non aveva
prezzo.
E il suo naso stava colando.
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Lulu abbaiò. Per un essere senza gambe, aveva una voce
piuttosto potente. E un gusto artistico alquanto definito.
«Merda!» gridò il manichino. «Non morde, vero?».
«È una femmina» replicai. «Non attacca nulla di più grande di un cucciolo di scoiattolo, a patto che non venga provocata. In quel caso si nasconde sotto il letto più vicino. Posso
asciugarle il naso?».
«La prego. Maledetta allergia al polline. Rovina il messaggio».
«Oh, non esageri».
Le tamponai le narici con il mio fazzoletto di lino. Era un
nasino camuso, e lasciò sul fazzoletto una traccia di azzurro.
Gli occhi che lo fiancheggiavano erano a mandorla e castani.
Il resto di lei era decisamente azzurro. I capelli tagliati alla
maschietto. La calzamaglia. Le mani e i piedi, incatenati alla
tela in una posizione che non era identica a quella di Cristo
ma che la ricordava abbastanza da vicino. La donna aveva un
corpo snello e sodo, il corpo di una ginnasta o di una ballerina. Ma non era nulla di tutto ciò. Era Charleston Chu,
ventiquattrenne artista concettuale cinese nonché nuova beniamina della scena artistica newyorkese.
«Quante ore al giorno passa lassù?» le chiesi.
«Sei».
«Dopo un po’ diventerà scomodo».
«è quello che voglio. Se io sono a disagio, metto a disagio
anche voi».
Aveva una voce da ragazzina, con una traccia di accento,
ma era tutt’altro che un’eterea e ingenua creatura. Era un’astuta fautrice di se stessa, e aveva raggiunto molto in fretta la
cima di un ambiente difficile senza cedere a compromessi. Si
occupava in prima persona della commercializzazione delle
proprie opere: il Rat’s Nest si limitava ad affittarle lo spazio.
«Alla gente piace rilassarsi e giudicare l’opera d’arte» proseguì. «Io non lo permetto. Rispondo subito con un altro giu-
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dizio. Costringo il pubblico a sviluppare una relazione intima
con me».
«Sono pronto, basta che me lo dica» replicai in tono ardito. «Mi prometta solo una cosa. Fra qualche anno, quando ne
parlerà in giro, abbia parole gentili».
I suoi occhi si trasformarono in due fessure. «Ha qualche
problema, stronzo?» mi chiese in tono gelido. Era, tornata al
suo personaggio. O forse no.
«Per una risposta del genere» risposi, «ci vorrebbero ben
più di sei ore. Mi dica, come mai non ha prezzo?».
«Non sono in vendita».
«Lo siamo tutti. Io lo sono, questo è certo».
«A quale prezzo?».
«Di solito un terzo di quanto c’è in ballo. Se riesco a trovare chi sto cercando. Avrei dovuto pranzare con Cameron
Noyes, ma non si è presentato. Corre voce che voi due…».
«…Stiamo insieme?».
«L’ha detto lei».
Sorrise. L’azzurro del volto donava ai denti un biancore
speciale e colorava le gengive di un rosa carico. Le guance
rivelarono due graziose fossette. «Viviamo insieme. Cam dovrebbe essere a casa a lavorare».
«Ho suonato il campanello. E ho telefonato. Nessuna risposta».
«Allora sarà soprappensiero, oppure sbronzo, o fuori a scoparsi qualcuna» rispose lei in tono sommesso.
«E non le dà fastidio?».
«Cam Noyes è un genio» replicò Charleston. «La sua vita
è la sua opera. Imporre la mia volontà su una delle due significherebbe corrompere l’altra. Non ho alcun diritto di farlo.
Nessuno ce l’ha. E a parte questo, sa benissimo come sono
fatti gli scrittori».
Mi pizzicai un orecchio. «Già, immagino di sì».
«Ora capisco. Lei è Stewart Hoag».
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Il suo sguardo mi studiò con attenzione. Ero da poco passato al guardaroba primaverile. Indossavo il blazer blu scuro di
morbida flanella che mi ero fatto fare su misura da Strickland’s
di Londra, camicia bianca Turnbull & Asser, cravatta di seta
color susina, pantaloni di gabardine color vaniglia e bretelle di
vitello. Ai piedi calzavo un paio di Balmoral marroni e bianche. Nulla di tutto ciò mi stava particolarmente male.
«Cam non vede l’ora di conoscerti» disse Charlie. «Sei uno
dei suoi idoli».
«Ne ha altri?».
«Qualcuno. Intendevo dire che è molto contento del vostro accordo».
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«Chiamami Hoagy».
«Come Carmichael?».
«Come il panino».
«Sono vegetariana» disse lei.
«Qualcuno dovrà pur esserlo».
Si lasciò sfuggire una risatina. Era deliziosa, inaspettatamente frizzante. Mi rammentò quella di Merilee. Quasi.
«Tutti mi chiamano Charlie» disse agitando una mano incatenata.
Gliela strinsi, ritirandomi con un’altra razione di azzurro
sulle dita. «Piacere di conoscerti, Charlie. Questa è Lulu».
«È un tesoro».
Lulu ci diede il posteriore con un grugnito di disapprovazione e prese a fissare la statua bitorzoluta.
«Ho detto qualcosa che non andava?».
«No. Dal mio divorzio ha qualche problema con le altre
donne. Crede sempre che mi facciano la corte».
«Ed è vero?».
«Ne dubito».
«Non riesci a capirlo?».
«L’uomo è sempre l’ultimo a saperlo».
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«Non ci sarà alcun accordo se non manterrà i suoi appuntamenti».
«Oh». Charlie si accigliò. «Ascolta, Hoagy, non è niente di
personale. è solo che Cam è immerso nel caos».
«Non lo siamo un po’ tutti?».
«Ieri sera abbiamo fatto tardi. Probabilmente starà facendo
un pisolino. Senti, nella mia borsetta in ingresso c’è la chiave
di casa. Prendila».
«Sei una che si fida, vero?».
«Lo sono?».
«Tutto quello che ti ho detto potrebbe essere una menzogna. Potrei essere chiunque. Potrei essere un problema».
«Neanche per sogno. I tuoi occhi…».
«I miei occhi cosa?».
«Ti tradiscono».
E così tornai a suonare il campanello di Cam Noyes. A
differenza della prima volta, avevo in tasca la chiave di Charlie
e mi ero tolto il cappello. La pioggia si era spostata sulla costa
del New England e la giornata si era fatta limpida e assolata. Il
verde della primavera nel parco di fronte era fresco e brillante.
Cam Noyes possedeva una delle case a schiera affacciate su
Gramercy Park che di questi tempi sono diventate preziose
quanto un giocatore degli Yankees che riesca a durare sette
innings. Soltanto i molto ricchi e i molto fortunati riescono
a vivere di fronte a un parco privato. E nemmeno loro sono
autorizzati a portarvi i cani. Se fossi uno dei residenti avrei
qualcosa da dire in proposito, ma non lo sono. Ho esaurito il
mio denaro. E la mia fortuna.
La casa di Noyes era bianca e ostentava una veranda di
ferro merlettata. Nessuno rispose al campanello. Mi guardai
alle spalle. Accanto al marciapiede vi era, come poche ore prima, una scintillante, perfetta Oldsmobile Super 88 del 1958,
decappottabile e rosa shocking. La Loveboat, quella che Olds
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affermava avesse quasi venti chili di cromature. Era forse l’automobile più lunga, vistosa e volgare mai costruita. Doveva
appartenere a Cam Noyes.
Suonai un’altra volta, e quando nessuno rispose usai la
chiave di Charlie.
L’arredamento non era quello che si definirebbe tipico. A
dirla tutta, non era nemmeno quello che molti definirebbero
arredamento. Le pareti, i soffitti e le modanature del salone
al pianterreno erano stati raschiati e coperti da una semplice
mano d’intonaco. Sparse qua e là vi erano alcune alte piante
di plastica in vaso. Al centro del locale, un gruppo di sedie da
giardino di metallo anni Cinquanta dipinte a colori pastello
circondava un vecchio televisore Packard Bell. Sopra al caminetto di marmo era appeso uno Schnabel particolarmente orrendo. Sembrava che l’artista avesse intinto un criceto morto
in un barattolo di pittura gialla e l’avesse lanciato contro una
tela fradicia. Il pavimento di quercia era grezzo e spoglio, se
si eccettuava una striscia di Astroturf lunga sei metri che conduceva in cucina. Sulla plastica erano sparse alcune palline da
golf. A un’estremità vi era una buca che rimandava al mittente
la pallina. Un putter era appoggiato alla parete.
Chiamai il padrone di casa. Non ebbi risposta. Non udii
alcun suono. La cucina era una sorta di caverna deserta. Vi
era un frigorifero con qualche bottiglia di liquore e un lavello,
ma tutto il resto – fornelli, armadietti, banchi – era stato fatto
sparire. Le pareti erano di mattoni sgretolati, il pavimento di
legno grezzo. Lulu trovò una botola da cui una ripida scalinata
conduceva alla cantina. La luce era accesa e illuminava cataste
di legname appena segato, pannelli, scatole di tegole, secchi di
calcestruzzo, un lavandino nuovo e tubature di rame.
Mi sporsi e chiamai. Nessuna risposta.
Una porta-finestra si affacciava sul giardino interno. Un
quadrato di tre metri e mezzo di terra umida era stato livellato
e segnato con picchetti e fili. Sotto una tela incerata azzurra
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erano accatastati alcuni sacchi di cemento e confezioni di lastre di pietra. Materiale per la costruzione di un patio. Per il
momento il giardino non offriva molto, se si eccettuava un
mucchio di foglie morte sorvegliate a vista da un fenicottero
di plastica rosa. Lulu lo annusò circospetta e fece ritorno sbuffando vittoriosamente.
Il salone al primo piano aveva un soffitto più alto e dalle modanature ancora più sontuose di quello al pianterreno,
e si affacciava sul parco con alte finestre di vetro piombato.
Era disseminato di chiazze di vernice. Lo studio di Charlie. I
tavoli da lavoro erano invasi di barattoli di vernice, pennelli,
confezioni di pittura spray, mastice.
A una parete erano accatastate alcune enormi tele nere.
Scatole di cartone erano sparse per l’intero locale: erano piene di coloratissimi articoli da «Fiesta» bottigliette vuote di
Coca-Cola, vecchie riviste, cartoline e album di fotografie.
Su un cavalletto al centro dello studio giaceva una tela sulla
quale Charlie aveva incollato alcuni frammenti degli articoli da «Fiesta» e una parte di una scatola di biscotti Uneeda.
Benvenuti nell’età del prestito. Il Museum of Modern Art e
il Whitney facevano la fila per acquistare le opere d’arte di
Charlie Chu. Per quanto mi riguarda, continuo a preferire
Edward Hopper. Lui non aveva bisogno di chiedere in prestito nulla a nessuno.
Fissata con il nastro adesivo a una delle pareti vi era una
dozzina di fotografie in bianco e nero. Mi avvicinai, attraversando il pavimento disseminato di schegge di vetro e ceramica. Erano istantanee del ragazzo prodigio delle lettere americane, Cameron Noyes, e dei suoi numerosi amici celebri.
Erano state scattate in ristoranti, locali notturni, costosissimi
loft privati. Fotografie di lui in compagnia di Emilio Estevez
e Kiefer Sutherland, di Michael J. Fox, di Adam Horovitz dei
Beastie Boys, di Molly Ringwald, di Suzanne Vega, di Johnny
Depp. Nessun ritratto in compagnia di Charlie. Era lei la fo16
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tografa. Trovai la camera oscura nella stanza da bagno appena
fuori dallo studio.
Un ampio passaggio conduceva a quella che un tempo era
stata la sala da pranzo. Un servo muto la collegava alla cucina,
e al centro del soffitto spuntavano i fili elettrici di un lampadario. Era il locale in cui Charlie era intervenuta con più
decisione. Pezzi di ferro e tubi erano ammassati in un angolo,
accanto a una torcia all’acetilene e una maschera da saldatore.
Vidi anche una grossa sega circolare, un tornio e un tavolo da
lavoro pieno di attrezzi. Dozzine di cornici vuote pendevano
da grossi chiodi alle pareti. Charlie si occupava anche della
confezione. Ragazza pratica.
Tornai a chiamare Cam. Non ebbi risposta.
Il secondo piano era decisamente più convenzionale. Le
pareti del corto corridoio erano state tinteggiate da poco. Sul
retro vi era una camera per gli ospiti, arredata con semplicità.
La stanza sul davanti era quella in cui Cam Noyes scriveva.
Era un locale austero e per il momento disabitato. Uno scrittoio stranamente bello era sistemato sotto le finestre. Era di
ciliegio, in stile Shaker, ed era stato lucidato fino a farlo scintillare come soltanto il ciliegio è in grado di fare. Sul piano
giacevano un blocco per appunti di carta gialla, ancora intonso, una matita, una lampada a petrolio e un coltello da caccia
della metà dell’Ottocento con una lama di acciaio battuto e
un’impugnatura di ottone. Lo Stuzzicadenti dell’Arkansas:
scintillante e affilato come un rasoio.
Nella stanza non vi era nient’altro: nessun libro, nessuna
carta, nessun telefono, nessun mobile.
Ripresi a salire.
L’ultimo piano era interamente occupato dalla camera padronale. Un ventilatore a soffitto ruotava lentamente e gonfiava
le tende leggere. Un letto di ottone era piantato nel mezzo della
stanza come un’isola. Sul letto, nudo sopra le coperte, giaceva
Cameron Noyes. Teneva la bocca aperta e gli occhi chiusi. La
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testa era piegata di lato e il sangue che gli era uscito dal naso era
colato dalle guance sul cuscino, dove si era seccato.
Abbassai lo sguardo verso Lulu. Lulu ricambiò l’occhiata.
Con un sospiro attraversai la stanza fino al letto. Noyes
respirava, lentamente ma con regolarità. Sul comodino campeggiava una boccetta di polvere bianca e appena accanto vi
erano uno specchietto da tasca, una lametta da rasoio e una
cannuccia. Vidi anche una bottiglia di tequila, qualche spicchio di lime e due bicchierini. L’attrezzatura completa per
uno spettacolo dell’orrore mattutino. Mi inumidii un dito, lo
inserii nella boccetta e lo portai alla bocca, strofinandolo sulla
gengiva. Cocaina. Conoscevo la sensazione. E anche il sangue dal naso. Le mucose delle narici di Noyes erano rovinate
dall’eccesso di coca.
Tornai a guardarlo. Poteva anche non essere l’uomo più
attraente che avessi mai visto, ma ci andava vicino. Era così
bello che diventava quasi lezioso. Aveva capelli biondi ondulati, una fronte alta, zigomi marcati e una bocca delicata e
rosea. La sua carnagione era chiara e perfetta. Così il naso,
a parte il sangue che vi si era rappreso. E il mento. Gli occhi
erano ben distanziati. Mi chiesi di che colore fossero. Azzurri, probabilmente. Era il volto di un ragazzo sensibile e non
c’entrava nulla con il resto. Noyes era un uomo corpulento,
con due spalle possenti e muscolose e braccia forti. Il petto era ampio, la vita sottile, lo stomaco piatto e attraversato
dai muscoli. Sul bicipite sinistro erano tatuate le parole Born
to Lose, nato per perdere. Le mani erano enormi e irruvidite
dal lavoro. Le gambe appartenevano a un piccolo cavallo da
soma. Era il corpo di un manovale, di un giocatore di football
o del giovane Brando. Era un corpo che non aveva nulla a che
fare con il volto.
Lo guardai e riflettei. Cameron Noyes aveva tutto ciò che
voleva. Era giovane, brillante, ricco e famoso. E stava gettando
tutto al vento. Perché? Era quello che avrei dovuto scoprire.
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Udii qualcosa rotolare sul pavimento di legno, Lulu aveva
fatto una piccola scoperta sotto il letto e la stava spingendo
verso di me. Era una confezione di rossetto. Rosso vivo. Lo
presi e lo posai sul comodino accanto alla tequila.
Quindi scesi in cucina. Il frigorifero rivelò soltanto gli
avanzi di una pizza con funghi e salsicce proveniente da John’s,
la pizzeria con forno a legna di Bleeker Street. Mi dedicai a una
fetta. Avevo saltato il pranzo, e al mondo non esiste nulla di
più gustoso di una fetta di pizza fredda, se si eccettua forse il
gelato alla liquirizia, di cui però il freezer era sprovvisto. C’erano soltanto una bottiglia di vodka polacca e quattro vassoietti
di ghiaccio. Li svuotai in un secchio proveniente dalla cantina.
Riempii il secchio d’acqua fresca, mescolai il tutto e risalii le
scale. Giunto di fronte al letto, sollevai il secchio, presi bene
la mira e ne rovesciai la metà sulle pudenda ben esposte di
Cameron Noyes. Il quale liberò all’istante un ruggito di dolore
e sorpresa e scattò a sedere, gli occhi – azzurri, avevo indovinato – fuori dalle orbite. Gli rovesciai l’altra metà del secchio
in piena faccia. Poi mi asciugai le mani, mi sedetti e mi chiesi
cosa diavolo ci facessi in quel posto.