Thinking for feeding thinking - Società Psicoanalitica Italiana

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Thinking for feeding thinking - Società Psicoanalitica Italiana
Thinking for feeding thinking
Commenti erratici sul lavoro di Peter Fonagy
VINCENZO BONAMINIO
Dopo aver letto il lavoro di Fonagy – un lavoro chiaro, pulito, organizzato con
un’architettura contenutistica e discorsiva molto accurate – mi sono chiesto per
l’ennesima volta, avendo avuto anche la possibilità di ascoltarlo personalmente,
discutere, seppur brevemente, con lui, polemizzare con certe sue posizioni o dissentire
da alcune sue asserzioni e più in generale dall’impianto dei suoi interessi nell’ambito
della psicoanalisi, mi sono chiesto, dicevo: Come psicoanalisti clinici, come clinici che
lavorano quotidianamente, spesso per ore ed ore durante la giornata, col paziente
disteso sul lettino, abbiamo bisogno di psicoanalisti-scienziati come Fonagy? La
risposta per me non ha incertezze: Sì! Sì, noi ne abbiamo bisogno.
Uso deliberatamente la dizione «psicoanalista-scienziato» per distinguerla
epistemicamente dalla figura dello psicoanalista clinico, di quello, cioè, che lavora
prevalentemente con gli analizzandi e nel limite delle sue capacità, ma anche, nei limiti
della psicoanalisi come strumento terapeutico, cerca di aiutarli alleviandone le
sofferenze, allargando le possibilità di vita creativa, mettendoli in grado di fare
esperienza di sé e dell’altro, riducendo il peso delle loro angosce. È chiaro che
considero la psicoanalisi in primis uno strumento terapeutico: la clinica e l’efficacia
terapeutica sono, secondo me, il banco di prova della psicoanalisi e l’area di confronto
con altre discipline limitrofe.
A mio avviso la «pomposa» metapsicologia (esiste, naturalmente e
fortunatamente, anche la metapsicologia non pomposa, quella, cioè, di cui possiamo far
uso per il procedere del processo analitico e comprenderlo meglio), le teorie, i modelli,
la «strabenedetta» mentalità psicoanalitica (che Iddio la abbia in gloria!) – che sarebbe
appannaggio specifico degli psicoanalisti, dono degli Dei, derivata dal loro training e
non più estirpabile dallo loro menti illuminate dalla capacità di «ascolto e
contenimento» (vai a spiegare poi perché l’analista è soggetto a addormentarsi, ad
annoiarsi, a provare antipatia per il paziente o eccessiva simpatia fino alla seduttività se
non all’acting), tutte queste cose vengono dopo: non che non siano importanti, ma non
sono l’impianto della psicoanalisi. L’impianto è la cura.
Torniamo al confronto della psicoanalisi con altre discipline, al suo
intermingling, alla sua «contaminazione», che è il core dell’articolo di Fonagy. Con
alcune di esse è possibile un confronto e una reciproca fertilizzazione. Del resto, la
psicoanalisi non è nata all’origine come la leader, la guida avanzata del confronto e
1 dell’illuminazione di altre scienze umane, come nelle mitiche riunioni del Mercoledì a
Berggasse? Con altre il confronto sembra praticabile ma, almeno allo stato attuale, con
cautela, cioè con la cognizione delle contaminazioni che si operano, tanto sono diversi i
frame of reference: un confronto comunque suscettibile di sviluppi interessanti. Per
esempio, con troppa disinvoltura, a mio avviso, si è deciso, quasi a tavolino, che ormai
la scoperta, quella sì «benedetta» dei neuroni-specchio, offra una base neurofisiologica
indiscutibile ai processi di identificazione! Tutto da vedere, appunto. È certo indubbio
che per l’osservazione psicoanalitica dei neonati e degli infanti, le scoperte del
funzionamento dei neuroni-specchio, come «metodo» e strumento di cui dispone il
bambino per «poggiare» ab initio i suoi processi di imitazione/identificazione con
l’altro e conoscere così la mente dell’altro, costituiscono un sorprendente supporto
all’osservazione dei processi in fieri di identificazione tra il bambino e l’adulto.
Tuttavia, in psicoanalisi la «teoria dell’identificazione» è così articolata, stratificata,
percorsa da fiumi sotterranei ancora inesplorati, in una parola è così folta, che
bisognerebbe portarla dal barbiere e raparla quasi a zero per poter metterla a confronto
con la teoria dei neuroni-specchio. Questa, peraltro, ha una sua validità euristica e
potenzialità di sviluppo di ricerca con o senza la psicoanalisi. Non facciamoci illusioni
del tipo: l’avevamo già detto!
Con altre teorie ancora – lo dico senza tema di essere criticato – è meglio evitare
il confronto. Non ci interessano in modo specifico. Ma l’ambito della scienza è così
vasto ed articolato, così sorprendentemente affascinante che, oltre alle tante discipline
con le quali dialoghiamo e alle quali ci ispiriamo – dalla linguistica alla storia, dalla
psichiatria, all’antropologia, l’arte, la pittura, la scrittura, per citare solo le prime che
vengono in mente – certo ce ne saranno altrettante con le quali scopriremo sorprendenti
affinità di dialogo. Fonagy ci offre un confronto, magistrale, con la teoria
dell’attaccamento nel suo intreccio con la teoria cognitiva che ha cambiato parametri,
radicalmente, nella «svolta» degli anni settanta. Lo sapevamo? Molti di noi forse no.
Responsabilità della nostra narrow-mindedness, della nostra autoreferenzialità.
Ai lettori che commentano fra loro, per esempio: «Hai visto che forza Rethinking
psychoanalysis, di Thomas Ogden? Quella sì che è psicoanalisi!» – e certo, concordo, è
un libro eccezionale da consigliare, da leggere e rileggere – è molto probabile che
l’articolo di Fonagy non interessi affatto e che forse lo considerino irrilevante, se non
fuorviante, per la nostra disciplina. Oppure semplicemente, senza eccessiva veemenza,
un testo che non interessa tanto. Invece io credo che il testo sia di grande, direi
fondamentale interesse anche per lo psicoanalista clinico. Di grande interesse, io credo,
perché dall’arguta argomentazione di Fonagy si può dedurre, ad una seconda attenta
lettura, un intento fortemente contributivo per gli psicoanalisti. Fonagy – che è persona
di grande cultura e intelligenza, lettore avido, conoscitore attento di larga parte della
letteratura contemporanea – nel pensare questo articolo, che ha scritto in modo accurato,
esemplare (un modello di chiarezza di come andrebbe scritto un articolo informativo
2 sullo stato dell’arte del confronto fra due discipline) sembra essersi reso conto (questa
ovviamente è una mia congettura) che gli psicoanalisti che criticano l’accostamento fra
psicoanalisi e teoria dell’attaccamento, sono rimasti indietro, a circa trent’anni fa. Essi,
molti o anche alcuni di essi, pensano ancora al Bowlby degli anni settanta – per altro
ostracizzato dalla Società Britannica che se lo è lasciato «scippare» per il semplice fatto
che era troppo darwiniano e criticava la pulsione (gli inglesi, figuriamoci, che nemmeno
hanno tradotto Trieb correttamente, sostituendolo con drive, spogliando la pulsione,
Trieb appunto, di quella stratificazione di significati presente in Freud e, bisogna
riconoscerlo, nella psicoanalisi francese). Per fortuna gli psicoanalisti inglesi, penso a
Winnicott, ovviamente, ma anche a Melanie Klein e a Fairbairn, Sylvia Paine, Paula
Heimann, Pearl King, Margaret Little seguendo un altro percorso, direi più clinico (è
indubbio che la trilogia di Bowlby che pure aveva una grande esperienza clinica, è
fortemente biased da un’inclinazione teorica critica nei confronti della psicoanalisi)
hanno introdotto (e con quale rivoluzione per la psicoanalisi stessa!) la teoria delle
relazioni oggettuali che in fondo ha, per così dire, risposto sul piano della clinica alle
obiezioni di Bowlby. C’è da chiedersi, piuttosto, come mai Bowlby si sia talmente
allontanato o sia stato talmente marginalizzato da non avere più dialogato con quelli che
erano i suoi naturali interlocutori: Winnicott, Balint etc.
Nella prima parte di questo articolo Fonagy ci informa indirettamente, ma non
per questo meno significativamente, di questa vicenda, riportando il modo dismissive in
cui Bowlby veniva trattato dalla psicoanalisi «ufficiale» inglese attraverso le recensioni
al suo primo volume. Sembra dire, anche se il suo discorso è condotto ad un livello di
astrazione tale da non cadere in una polemica ormai non più attuale: peccato,
un’occasione persa! Per alcuni senz’altro nessuna occasione persa. Per me che ho avuto
modo di sentire Bowlby dal vivo, alla fine degli anni settanta, qui in Italia ed in
Inghilterra, agli esordi del suo definitivo allontanarsi dalla psicoanalisi, era già allora
un’occasione persa. Provenendo da una matrice clinica (anche se avevo fatto studi di
filosofia della scienza, in particolare di epistemologia della psicologia), già frequentavo
da tempo la clinica di Neuropsichiatria Infantile e vedevo quindi molti bambini con i
loro genitori. Mi sembrava incomprensibile che Bowlby potesse essere considerato un
non-psicoanalista, che parlasse di psicoanalisi come di una disciplina che aveva
abbandonato, quando quello che diceva corrispondeva esattamente, dal punto di vista
clinico, a ciò che sapevo dallo studio di Anna Freud, di Winnicott, di Balint. Percepivo,
tuttavia, che c’era dietro la costruzione in fieri di una diversa teoria, ma non mi
sembrava una cosa tanto rilevante. Per la comprensione delle fobie scolastiche, che
vedevo in quegli anni in grande quantità, sia in bambini che facevano il loro ingresso
nella scuola primaria sia in bambini già scolarizzati, attingevo ampiamente alla
considerazioni cliniche di Bowlby, il quale a livello clinico, potrei dire, parlava proprio
come uno psicoanalista. Da lui ho imparato a capire, per esempio, che spesso il bambino
che rifiuta di andare a scuola è attanagliato dalla paura di lasciare sola la mamma e che
3 ne avrà una ritorsione, perché è la mamma che ha paura di separarsi. Poi c’era il
paragrafo teorico, ma francamente, almeno a quel tempo, non ne percepivo l’elemento
effrattivo rispetto al main stream della teoria psicoanalitica di allora: diciamo che mi
sembrava una legittima variante.
Ma, come ho già detto, il core dell’articolo di Fonagy è un altro. Illustra i
cambiamenti avvenuti nelle relazioni bilaterali fra psicoanalisi e teoria
dell’attaccamento; colloca la svolta di Bowlby e la sua critica alla psicoanalisi – non
dimentichiamo che è del 1968 la sua revisione critica a The nature of child tie to his
mother (un classico della psicoanalisi delle prime fasi dello sviluppo emozionale) –
descrive la rivoluzione operata dalla seconda generazione delle scienze cognitive.
Troppo frettolosamente, sembra dire Fonagy, Bowlby ha abbracciato una scienza
cognitiva fondata sulla separazione tra corpo e mente – mentre la psicoanalisi andava
esattamente nella direzione opposta – per dirigersi verso strutture della mente «senza
corpo», un software indipendente dall’hardware. È un’asserzione molto importante, io
credo, quella che propone Fonagy riconoscendo, in questo senso, il primato della
psicoanalisi. L’idea della mente che comprensivamente esprime se stessa
esclusivamente attraverso i referenti corporei è già chiaramente espressa nel famoso
aforisma di Freud che l’Io «è prima di ogni altra cosa un Io-corpo» (1922, 490, Fonagy,
Target, in questo numero). La nuova generazione delle scienze cognitive in cui la mente
viene vista installata nel corpo (embodied) si caratterizza per alcuni tratti salienti, ci dice
Fonagy, che non sono insignificanti o poco significativi per gli psicoanalisti; vale a dire:
un uso crescente dell’introspezione come metodo di ricerca, un acuto interesse per la
comprensione delle emozioni come organizzatori e motivatori del comportamento.
Qui sfugge a Fonagy, si potrebbe argomentare, che questo ri-direzionamento
verso le emozioni come organizzatori e motivatori è stato a sua volta determinato
dall’impatto della psicoanalisi sulle scienze cognitive, direttamente ed indirettamente,
anche cioè in assenza di esplicito dialogo. Questo non sarebbe che uno dei tanti casi di
questa funzione, non riconosciuta, di rompighiaccio della psicoanalisi che ha aperto in
vari campi del comportamento umano, dalla psicologia dello sviluppo all’antropologia,
dalle neuroscienze all’arte, dalla psichiatria alla sociologia della cultura – ma l’elenco è
lunghissimo – orizzonti poi esplorati anche da altre discipline «indipendentemente» da
essa.
Si può questionare semmai sulle mille occasioni perdute dalla psicoanalisi nel
vorticoso sviluppo delle scienze; direi occasioni perdute più che dalla psicoanalisi, dagli
psicoanalisti arroccati nelle loro certezze autoreferenziali. Basti pensare al «capitolo»,
allucinante per tasso di autoreferenzialità, dei cosiddetti fini del trattamento
psicoanalitico, in cui essi venivano valutati, nella stagione fino agli anni sessanta/esordi
degli anni settanta, come tutti interni alla psicoanalisi stessa e al processo psicoanalitico.
Fino all’assurdità, messa ironicamente in luce da Renik (2007), per cui paradossalmente
il fine del trattamento psicoanalitico era, in fin dei conti, la psicoanalisi stessa .
4 Ancora. Tra gli sviluppi significativi delle scienze cognitive della seconda
generazione – che hanno contribuito a concettualizzare la mente in quanto embodied,
cioè incarnata nel corpo ed inseparabile da esso – Fonagy mette in rilievo il rapido
avanzamento della tecnologia di imaging cerebrale e un abbandono degli studi reificati
e reificanti di laboratorio verso un loro collocamento nell’ecologia in cui la cognizione
opera (l’ambiente, aveva già teorizzato Winnicott decenni prima). Ho messo in evidenza
altrove un impatto analogo che il vorticoso affermarsi di strumenti tecnologici, sempre
più sofisticati e precisi ha avuto, per esempio, sulla psicologia dello sviluppo (Child
Development), determinando un vero e proprio balzo in avanti delle nostre conoscenze
per l’uso, ad esempio, della videoregistrazione prima analogica e poi addirittura digitale,
con la possibilità di monitoraggio dell’evento in tempo reale e del rewind in pochi
secondi – cosa totalmente differente in termini di conoscenza dai tempi in cui si usava la
cinepresa: si doveva attendere una settimana per lo sviluppo della «pizza» dalla Kodak e
solo quando il bambino non era più quello si poteva osservare in modo iterativo il suo
comportamento,
L’osservazione di Fonagy è perentoria a riguardo: si è verificato un progressivo
shifting del focus «da quelle che sono in effetti astrazioni disincarnate (disembodied –
come algoritmi in un computer digitale) alla cognizione incarnata in cui i significati
delle cose nell’ambiente sono formate dalle esperienze dell’agire su di loro». Ancora
una volta sfugge a Fonagy di ricordare un primato della psicoanalisi anche in questo
campo, allorché Anna Freud, Spitz, lo stesso Bowlby conducevano ricerche osservative
sui bambini non in situazioni di laboratorio, ma nel loro ambiente naturale, «sfruttando»
gli eventi di vita (i life events, come oggi si dice, come se fossero una acquisizione
nuova della comprensione psicopatologica dello sviluppo), anche quelli traumatici come
le condizioni postbelliche. Un tipo di ricerca che il «genio» epistemologico di Kris
aveva definito action research, a fronte delle ricerche di laboratorio, innaturali, con cui
venivano giustamente bollate le acquisizioni non psicoanalitiche della psicologia dello
sviluppo accademica.
Fonagy conclude la sua rassegna dei dati salienti del cambiamento di paradigma
che ha rivoluzionato la scienza cognitiva di seconda generazione introducendo
l’attenzione al linguaggio, al campo dei significati pre-verbali e verbali e a quello della
metafora. Ma non siamo in piena psicoanalisi, verrebbe da dire? È utile che lo
psicoanalista si renda conto di come la stessa scienza cognitiva si è rivoluzionata
offrendo, per così dire, un’interfaccia utile al confronto con la psicoanalisi: è utile che
uno psicoanalista si renda conto di come – concordi o no – la teoria dell’attaccamento si
è evoluta integrando la mente nel corpo: the rooting of the mind in the body costituisce
un passo importante per mettere in luce i nuovi legami – ripeto, si concordi o no – fra
teoria dell’attaccamento e psicoanalisi.
Nel mettere insieme le mie considerazioni «erratiche» su questo prezioso
articolo di Fonagy, ringrazio Mario Rossi Monti per avermi dato l’opportunità di
5 commentarlo; ho voluto deliberatamente escludere – nel limite del possibile – la miriade
di riferimenti esterni all’articolo stesso. Non era mia intenzione criticare l’approccio di
Fonagy ma, dopo averlo letto, ho capito che non era nemmeno il caso e, invece, ne
andava apprezzata la pulizia concettuale e la chiarezza espositiva. Per questo ho
enunciato all’inizio che come psicoanalisti clinici abbiamo bisogno di psicoanalistiscienziati come Fonagy: per continuare il nostro lavoro clinico, secondo i nostri modelli
e la nostra tecnica, ma senza rimanere indietro, inconsapevoli di quello che ci succede
attorno.
Non ho letto, scrivendo queste righe, nemmeno l’articolo «gemello» di Anna
Ferruta. Intenzionalmente. So solo il titolo che ha dato al suo lavoro: Fonagy offre food
for thought. Non so ancora cosa la collega abbia scritto – cose interessanti ed acute
come di consueto – ma mi è sembrato, leggendo Fonagy, che il titolo di Anna Ferruta
fosse particolarmente azzeccato: cibo per pensare, per il pensiero. Credo che in Fonagy
– scrivendo questo articolo – ci sia anche una altra sottostante intenzione che parla
direttamente agli psicoanalisti: il pensare come modo di nutrire il pensare: thinking for
feeding thinking.
SINTESI
Come psicoanalisti clinici, come clinici che lavorano quotidianamente, spesso per ore e
ore durante la giornata, col paziente disteso sul lettino, abbiamo bisogno di psicoanalistiscienziati come Fonagy? La risposta è priva di incertezze. Ne abbiamo bisogno. A partire da
questa constatazione l’Autore sviluppa una analisi del contributo di Fonagy che pone al centro
della attenzione la clinica e la cura. Da questo punto di vista la psicoanalisi ha svolto una
funzione rilevante nel ripensare la teoria dell’attaccamento e nel sostenere lo sviluppo di
«relazioni bilaterali». Anche il recente cambiamento di paradigma delle scienze cognitive che
apre alla centralità delle emozioni va visto come in parte dovuto a una importante «funzione
rompighiaccio» della psicoanalisi.
BIBLIOGRAFIA
Freud S. (1922). L’Io e l’Es. O.S.F., 9.
Renik, O. (2007). Intersubjectivity, Therapeutic Action, and Analytic Technique. Psychoanal Q., 76S,
1547-1562.
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