Teoria dei prototipi e variazione linguistica: la categoria di scala di

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Teoria dei prototipi e variazione linguistica: la categoria di scala di
Teoria dei prototipi e variazione linguistica: la categoria di scala
di implicazione in prospettiva prototipica
1. Introduzione
Il presente contributo, che si inserisce nell’ambito delle applicazioni della teoria
dei prototipi allo studio della variazione, si propone di riconsiderare come categoria prototipica uno tra i modelli tradizionali di riferimento per la descrizione e
l’analisi di continua linguistici: la scala di implicazione. La discussione teoricometodologica delle proprietà del modello, condotta in questa prospettiva, si articolerà attraverso una rassegna analitica dell’impiego degli scalogrammi nella bibliografia sociolinguistica – con particolare attenzione a quella italiana – e sarà
centrata sul rapporto tra la forma ideale di una scala di implicazione e la descrizione da essa fornita della realtà effettiva di alcuni continua variazionali. Proprio
questo rapporto consentirà di definire una scala di implicazione nei termini di una
combinazione di proprietà dal carattere alcune categorico e altre graduale; proprietà che risulteranno ordinabili a loro volta in uno scalogramma, distribuite implicazionalmente a seconda della relativa centralità, ed esprimibili mediante una
rappresentazione componenziale che ne preservi la rispettiva categoricità o gradualità. Si perverrà in conclusione a una sistematizzazione teorica più generale
della categoria all’interno del modello a rete della grammatica cognitiva.
2. I prototipi, la sociolinguistica, le scale di implicazione
A partire dagli studi di psicologia cognitiva condotti nei primi anni Settanta del secolo scorso, il concetto di gradualità categoriale, che è a fondamento della teoria
dei prototipi, si è andato prontamente affermando in contrapposizione alla concezione aristotelica più tradizionale, secondo la quale le categorie sarebbero da
intendersi come entità rigorosamente discrete, definite da proprietà necessarie e
sufficienti e delimitate da confini rigidamente netti.
La teoria dei prototipi si basa com’è noto su due presupposti basilari: l’idea che
tra i membri di una categoria sia sempre possibile riconoscere esemplari più tipici
e altri meno rappresentativi, da cui discende l’eventualità di casi di attribuzione categoriale incerta, e il principio per cui è graduale sia la strutturazione interna di
una categoria sia la delimitazione di una categoria rispetto a un’altra, con conseguente possibile sovrapposizione dei confini intra- e intercategoriali (cf. Giannini
2003: 11 e passim; Taylor 2003: 87-94; Kleiber 1990: 51). Due sono anche le principali versioni della teoria stessa, entrambe ovviamente riconducibili ai presupposti appena citati: la versione standard, secondo la quale ogni categoria è definita
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sia da un nucleo di proprietà essenziali, comuni a tutti i suoi membri (il punto focale), sia da alcune proprietà secondarie, di cui soltanto il prototipo è dotato necessariamente, e la versione cosiddetta «estesa» (cf. Kleiber 1990: 147s., Nyckees
1999: 325-27), che si richiama più direttamente al concetto di somiglianze di famiglia di Wittgenstein, secondo cui a garantire l’appartenenza categoriale non è indispensabile un nucleo comune di proprietà essenziali ma è sufficiente la condivisione di proprietà possedute, a seconda delle interpretazioni, o dal prototipo o da
alcuni (al limite da uno soltanto) dei membri della categoria (cf. Givòn 1986: 7782, Lakoff 1987: 12-57).
In linguistica il modello prototipico ha interessato inizialmente la semantica lessicale, applicato all’analisi della denotazione di oggetti concreti (tra i pionieri, è
d’obbligo citare lo studio di cup di Labov 1977: 167-89) e, seppure incontrando maggiori problemi, di concetti astratti (un esempio classico è quello di lie; cf. Coleman/
Kay 1981; Berruto in preparazione), per poi estendersi al metalinguaggio della
linguistica e quindi alla definizione delle stesse categorie linguistiche, portando a
riconsiderare in termini prototipici unità di analisi (quali i fonemi, categorie prototipiche di foni; cf. Lakoff 1987: 61-62; Langacker 1987: 388-96), classi di parole
(quali nome e verbo, cf. Langacker 1987: §5-7, affisso e clitico, cf. Taylor 2003:
250-59, o l’avverbio, cf. Ramat/Ricca 1994), categorie grammaticali (il genere, cf.
Giannini 1994, e la persona, cf. Lazzeroni 1994), funzioni sintattiche (tra le altre il
soggetto, prototipicamente agente e topic; cf. Lakoff 1987: 64-66), costrutti sintattici (quali i possessivi e i composti nominali, in inglese, cf. Taylor 1994, e la costruzione transitiva, cf. Taylor 2003: 293-99) e atti linguistici (ad es. quelli codificati da
imperativi, dichiarative e domande polari, distribuibili lungo uno stesso continuum
semantico-funzionale; cf. Givòn 1986: 94-98), fino a concetti teorici di carattere e
portata più generali (quale la nozione di marcatezza; cf. Lakoff 1987: 60-61)1.
Più recentemente, impostazioni riconducibili al modello prototipico si sono
affermate anche in sociolinguistica, disciplina nella quale, del resto, concezioni di
tipo aristotelico male si coniugano con l’intrinseca continuità dei fenomeni oggetto di studio e, a monte, della natura stessa della variazione.
Il concetto di gradualità categoriale si pone non a caso a fondamento di una nozione centrale per la teoria sociolinguistica quale quella di continuum. Lo spazio di
variazione di una lingua o di un repertorio linguistico è definito appunto da un continuum di varietà, mono- o pluridimensionale, che non presenta reali interruzioni
di continuità al suo interno; i confini tra le varietà, come nel caso delle categorie
prototipiche, non sono chiaramente distinguibili e appaiono anzi sfumati e in sovrapposizione, con variabili che nei casi di continua pluridimensionali operano su
più dimensioni di variazione. In alcuni suoi punti, coincidenti con le varietà principali dello spettro, il continuum variazionale presenta poi degli addensamenti di trat-
1 Si veda anche il modello di word grammar di Richard Hudson, che condivide un nucleo di
presupposti comuni alla teoria dei prototipi (cf. in particolare Hudson 1984: 39-41).
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ti cooccorrenti; addensamenti che nella teoria prototipica standard corrispondono
proprio al punto focale delle categorie (cf. Berruto 1995: 152-58; cenni anche in
Lieb 1993: 60).
Nella letteratura sociolinguistica, il concetto di prototipo ricorre particolarmente in Hudson 1996, dove – sovrapponendosi alla nozione di stereotipo sociale (per cui cf. Putnam 1975: 217-71) – interviene a descrivere le modalità con cui i
parlanti si costruiscono un’immagine dei partecipanti all’interazione e della situazione comunicativa; l’interpretazione soggettiva di variabili sociali e situazionali,
quali status sociale dell’interlocutore e grado di formalità dell’interazione,
suscettibili in vario modo di condizionare il comportamento linguistico (in quanto
a scelta della varietà di lingua, degli allocutivi, ecc.) e intimamente connessi alla
formazione degli atteggiamenti linguistici, sarebbe in questa prospettiva riconducibile a un processo di categorizzazione prototipica: data una rappresentazione
mentale di un certo tipo di situazione, definita da una determinata combinazione
congruente di fattori (il che richiama il concetto di «situazione congruente» di
Fishman 1975: 101-04), le scelte linguistiche messe in opera dai parlanti deriverebbero infatti dal confronto tra questo modello ideale e la situazione comunicativa reale (cf. Hudson 1996: 75-78 e 122-23).
Lo stesso Hudson 1996: 24-30 è portato a considerare in questa prospettiva anche categorie d’analisi interne alla stessa sociolinguistica, quali la nozione di
comunità linguistica. Di contro a impostazioni improntate a una certa discretezza
categoriale, che implicherebbero, nel caso specifico, una concezione piuttosto restrittiva di comunità linguistica, come gruppo sociale dai confini rigidi, contraddistinto da tratti linguistici non condivisi da altre comunità, un approccio di natura
prototipica consente senza dubbio una maggiore aderenza alla complessità del
reale, riconoscendo l’esistenza di comunità linguistiche sì definite da tratti centrali identificativi ma allo stesso tempo in sovrapposizione periferica con altre comunità, con la possibilità di avere dei membri che condividono tratti linguistici di
gruppi sociali differenti (cf. Kroch 1983).
Tra le categorie d’analisi della sociolinguistica, anche la diglossia ha ricevuto in
letteratura interpretazione prototipica. Per preservare la specificità e la forza esplicativa della nozione, minate dalla sua applicazione generalizzata, Lüdi 1990: 31125 propone uno spazio variazionale costituito da sei continua (distanza linguistica,
tipo di comunità, complementarità funzionale, standardizzazione, tipo di acquisizione, differenza di prestigio), ciascuno dei quali composto a sua volta da più assi
orientati da un valore minimo a un valore massimo (per la complementarità funzionale, ad esempio: rigidità, stabilità e sovrapposizione delle funzioni), sui quali si
collocano sia le varie situazioni reali sia i diversi (proto)tipi di repertorio (dunque
non soltanto la diglossia ma, ad esempio, anche la dilalia; cf. Lüdi 1990: 321); in questi termini, la diglossia prototipica risulta così definita da un agglomerato di proprietà costituenti raccolte attorno a un punto focale (la cui posizione non è tuttavia specificata nel modello; cf. Berruto 1995: 241), che possono essere condivise in
gradi differenti dai vari membri della categoria.
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Il concetto di scala di implicazione, che ci proponiamo qui di riconsiderare in
prospettiva prototipica, è evidentemente in relazione con alcune delle categorie e
delle nozioni sociolinguistiche appena discusse, prima fra tutte quella di continuum. Invero, una scala di implicazione raffigura uno spazio di variazione definito da un continuum di varietà di lingua, legate fra di loro da serie di implicazioni e
identificate ciascuna da una particolare combinazione di presenza/assenza di certi tratti linguistici. Non si tratta soltanto di uno strumento euristico di descrizione
di rapporti tra variabili ma – specie nella sua concezione originaria (cf. DeCamp
1971) – di un vero e proprio modello della variazione grammaticale di una lingua;
vale a dire, di un modello della competenza dei parlanti di una comunità, del quale la variabilità è il nucleo costitutivo. I tratti linguistici che in base a combinazioni di cooccorrenza contraddistinguono le diverse varietà sono infatti da intendere
come l’esito di operazioni di regole, dello stesso tipo di quelle della grammatica
generativa (cf. Dittmar 1989a: 131; Le Page 1997: 21)2. Nella forma ideale (per cui
v. §3.) di questo continuum variazionale, a risultare nettamente distinguibili sono
le varietà ai suoi estremi, le uniche ad essere caratterizzate da valori uniformi oltre
che categorici; le varietà intermedie sfumano invece in modo graduale le une nelle altre.
Tra i vari esempi disponibili, si può citare la scala di implicazione di DeCamp
(1971: 355, riordinata come in Dittmar/Schlobinski 1988: 1018 e in Rickford
2002: 1463) riferita al continuum creolo giamaicano. Parlanti diversi, rappresentativi di diversi idioletti e socioletti, si trovano qui ordinati sull’asse orizzontale di
una matrice a doppia entrata in relazione ad alcune variabili sociolinguistiche dell’inglese (fonetiche: (th), (dh); morfologiche: (didn’t); lessicali: (child), (eat), (granny)), collocate sull’asse verticale. Procedendo dal basso verso l’alto si percorre così
un continuum di decreolizzazione, dalla varietà che presenta realizzazione categorica di tutte le varianti creole (basiletto) alla varietà con realizzazione categorica
di tutte le varianti inglesi corrispondenti (acroletto), passando attraverso una serie di varietà intermedie (mesoletti); il numero complessivo di parlanti, ovvero di
varietà, è n+1, con n variabili sociolinguistiche in relazione implicativa.
Proprio alla creolistica, lo ricordiamo, si deve l’introduzione in linguistica del
modello, che ha poi conosciuto applicazione in vari settori di studio legati alla variazione e al mutamento linguistico (una panoramica bibliografica aggiornata si ha
in Rickford 2002). In ambito italiano la tecnica delle scale di implicazione registra
invece un utilizzo decisamente più ridotto. Ne hanno fatto ricorso alcuni studi sulle varietà (specie diatopiche) dell’italiano contemporaneo e altri sulle varietà di
2 Si può ritenere che all’applicazione e alla non applicazione categoriche di una regola corrispondano rispettivamente i valori 1 e 0 (o +/–) in una scala con variabili binarie, e che all’applicazione variabile di tale regola corrispondano invece l’uscita v (o simili) in una scala trivaloriale
e le frequenze di occorrenza in una scala multivaloriale.
3 Da qui in avanti ogni richiamo alla scala di DeCamp 1971: 355 va appunto inteso come riferito alla sua forma riordinata.
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apprendimento spontaneo dell’italiano come L2; si vedano, per i primi: Mioni/
Trumper 1977: 342, sul comportamento della nasale preconsonantica nell’italiano
regionale veneto; Berruto 1987a: 35 s. e 1997: 49 s., con costruzione di scale di
implicazione per la descrizione teorica del continuum di varietà dell’italiano;
Miglietta (1993, con sistemazione tuttavia non ordinata dei dati), sull’occorrenza
di tratti del sostrato dialettale salentino (e meridionale) nell’italiano regionale di
Lecce; e Cerruti (2009a: 235-54; cf. anche Cerruti 2009b), per l’analisi dei rapporti
di co-occorrenza tra i costrutti morfosintattici della varietà torinese di italiano; per
i secondi: Giacalone Ramat 1995, sul percorso di acquisizione del sistema verbale; Berretta 1995, per la sequenza di apprendimento delle forme imperativali;
Berruto 2001: 24 s., sul processo di acquisizione dei connettivi interproposizionali; e Vietti 2005a: 167 s., sui prestiti di parole funzionali spagnole (con valore di
ethnic markers) nell’italiano di peruviane.
Lo stesso modello delle scale di implicazione può essere inoltre impiegato per
la rappresentazione dei rapporti interni allo spazio di variazione di un repertorio
linguistico, anch’esso, come si è detto sopra, descrivibile nei termini della continuità categoriale di un continuum. In letteratura (cf. Dittmar/Schlobinski 1988:
1024; Chambers 1995: 163-65; Rickford 2002: 155) si trova spesso citato a questo
proposito lo scalogramma di Gal 1979: 121, che raffigura l’uso di tedesco e ungherese nel comune austriaco di Oberwart tra donne di diverse età e interlocutori rappresentativi di differenti domini. La matrice, che ha per valori le stesse lingue (tedesco G e ungherese H) e per entrate le età delle donne (sulle righe) e gli
interlocutori/i domini (sulle colonne), illustra il processo di language shift allora in
atto in direzione del tedesco, mostrando il ruolo di avanguardia svolto dalle donne più giovani (data la concentrazione di valori G nelle caselle corrispondenti ai
domini più formali e alle classi d’età inferiori).
Allo stesso modo, venendo a realtà sociolinguistiche più vicine a chi scrive, si potrebbero ad esempio rappresentare come nello scalogramma di tab. 1 (riferito alla
situazione di San Germano Chisone, comune in provincia di Torino) i fenomeni di
selezione delle varietà del repertorio di una comunità pluringue, identificando ciascuna varietà con un diverso valore numerico (che ne rifletta, eventualmente, la
posizione all’interno del repertorio)4. Nella matrice risultante, come si può notare,
il complesso dei valori si distribuisce esattamente secondo il pattern previsto da
una scala di implicazione; un certo valore in una casella della matrice comporta infatti valori equivalenti o superiori a sinistra e sopra di sé e valori equivalenti o inferiori a destra e sotto di sé. L’ordine implicazionale orizzontale (tale per cui, ad
4 La scala di implicazione è qui costruita a partire dallo schema di Sappè 1983, riportato in
Telmon 1992: 131. Il valore più alto (4) è assegnato alla varietà alta del repertorio, l’italiano, e i
valori via via inferiori alla varietà media, il piemontese (3), e alle varietà basse, patois (2) e francese (1); per la collocazione reciproca dei vari codici nei repertori di area galloromanza piemontese ci si riferisce a Telmon 1994: 927.
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Tabella 1: 4 italiano; 3 piemontese; 2 patois (provenzale alpino); 1 francese.
gruppo di
gruppo di
gruppo di
gruppo di
lingua materna lingua materna lingua materna lingua materna
italiana
piemontese
patois
francese
gruppo di lingua
materna italiana
4
4
4
4
gruppo di lingua
materna piemontese
4
3
3
3
gruppo di lingua
materna patois
4
3
2
2
gruppo di lingua
materna francese
4
3
2
1
esempio, l’uso del patois implica l’uso di piemontese e italiano ma non del francese) è poi rivelatore di norme e funzioni di impiego dei diversi codici5.
La possibilità di dare conto, attraverso lo stesso modello, dei rapporti interni allo
spazio di variazione sia di una lingua sia di un repertorio linguistico rimanda a una
certa unitarietà concettuale e di natura dei vari livelli di analisi in sociolinguistica;
unitarietà a cui fa riferimento la possibilità teorica di estendere la nozione di variabile sociolinguistica, tradizionalmente riferita a singoli tratti linguistici, anche ai
livelli di analisi superiori: varietà di lingua, lingua e repertorio linguistico (cf. Lieb
1993: 4-12; Berruto 1998: 21-23). Come, cioè, la produzione di un’occlusiva dentale sorda nel creolo giamaicano (cf. DeCamp 1971) corrisponde alla realizzazione di
una variante della variabile sociolinguistica (th), così la scelta di tedesco o ungherese nel caso di Oberwart, oppure di italiano, piemontese, patois o francese nel
caso di San Germano Chisone, può essere considerata la realizzazione di una variante della variabile sociolinguistica «lingua del repertorio».
3. Scale di implicazione in prospettiva prototipica
La possibilità di considerare in termini prototipici la categoria di scala di implicazione, e il modello di continuum variazionale che essa rappresenta, pare suggerita
direttamente dallo stesso modello, che prevede una forma ideale di relazioni implicative (riprodotta in tab. 2); una forma, in altre parole, prototipica:
5 Delle quali tuttavia non mette conto discutere in questa sede (e per le quali si rimanda a
Sappè 1983).
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Tabella 2: tratti linguistici (T); varietà di lingua o gruppi di parlanti (V)
T1
T2
T3
T4
T5
V1
+
+
+
+
+
V2
+
+
+
+
–
V3
+
+
+
–
–
V4
+
+
–
–
–
V5
+
–
–
–
–
V6
–
–
–
–
–
La forma ideale di una scala di implicazione è data da una matrice a doppia entrata che raffigura rapporti tra due tipi di variabili binarie: tratti linguistici (T) e
varietà di lingua o (gruppi di) parlanti (V); se intese come serie, o insiemi, T = [T1,
. . . Tx] e V = [V1, . . . Vy]. Entrambi i tipi di variabili presentano a coppie una relazione implicativa definita rispettivamente dalle combinazioni + Tm +Tm+1, +Tm –
Tm+1, –Tm –Tm+1 (con 1 ⱕm ⬍ x) e +Vn +Vn+1, +Vn –Vn+1, –Vn –Vn+1 (con
1 ⱕn ⬍ y); una relazione tale, cioè, per cui la presenza della seconda variabile di
ogni coppia implica la presenza della prima, mentre l’occorrenza della prima è indipendente da quella della seconda. Il che equivale a una distribuzione di valori
con tutti «+» sopra e a sinistra di ogni «+» e con tutti «–» sotto e a destra di ciascun «–». Le variabili del secondo tipo sono poi disposte seguendo un ordine che
va da una varietà di lingua Vy con assenza categorica di tutte le variabili di tipo T
a una varietà V1 con presenza categorica di tutte le variabili di tipo T. La matrice
non prevede inoltre né valori mancanti né valori devianti, ossia incongruenti con
la relazione implicativa. Data la perfetta scalabilità dei valori, conseguente all’esistenza di relazioni implicative tra tutte le x variabili T e tra tutte le y variabili V, il
numero complessivo di variabili V (ovvero il numero di combinazioni diverse effettivamente realizzabili) è y = x + 1, laddove sarebbe 2x in variazione libera6.
In breve, dati gli insiemi di variabili T = [T1, . . . Tx] e V = [V1, . . . Vy] il modello
ideale, o prototipico, di una scala di implicazione risulta contraddistinto dai seguenti attributi:
a. correlazione tra tratti linguistici (T) e varietà di lingua o (gruppi di) parlanti (V);
b. variabili binarie;
6 Con y = x + 1 combinazioni possibili, ciascuna varietà intermedia V (con 1 ⬍ i ⬍ y) è definii
ta di conseguenza dalla presenza categorica delle variabili comprese tra T1 e Ty–i, ossia dalla realizzazione della variabile Ty–i in più rispetto alla varietà precedente (in notazione matematica, Vi |
Vi 傺 [T1 ÷ Ty–i]).
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c. coppie di variabili in relazione implicativa7;
d. V1 e Vy dai valori categorici uniformi e rispettivamente diseguali;
e. assenza di valori devianti;
f. assenza di valori mancanti8.
In questa forma, con realizzazione concomitante di tutte le proprietà ora esposte,
il modello di scala di implicazione rappresenta appunto un’idealizzazione; non corrisponde cioè alla realtà dei continua variazionali descritti per le lingue storiconaturali, se non in un numero limitato di casi (quale ad es. DeCamp 1971: 355, a cui
si è fatto cenno al §2.; cf. anche oltre).
Quanto al tipo di variabili in correlazione (proprietà a.), si è già visto al paragrafo precedente come le scale di implicazione possano rappresentare non soltanto rapporti interni allo spazio di variazione di una lingua – quindi, tipicamente, tra
varietà di lingua e tratti linguistici (intendendo con questi anche i contesti di occorrenza di un certo tratto, come sottocategorizzazioni di una stessa regola) – ma
anche rapporti di repertorio. In particolare, proprio questo secondo caso comporta una maggiore eterogeneità di tipi di variabili rispetto alle caratteristiche ideali
del modello: la correlazione riguarda infatti tendenzialmente non più tratti linguistici e varietà di lingua ma variabili situazionali o sociali (domini e/o classi di
parlanti); le entità linguistiche interessate figurano invece dai valori riportati nelle
celle della matrice, che rappresentano le varianti di realizzazione di una stessa variabile «lingua del repertorio» (cf. Gal 1979: 121 e qui Tab. 1, §2.).
Lo stesso valore binario delle variabili (proprietà b.), per tradizione dicotomiche in sociolinguistica, è in buona parte dei casi reali un’astrazione. La presenza o
assenza di un certo tratto è effettivamente categorica soltanto in determinati contesti, mentre in altri lo stesso tratto cooccorre in misura variabile con uno o più
tratti corrispondenti; lo spazio di variazione di una lingua si configura infatti come
un continuum di varietà determinato anche quantitativamente dalla frequenza di
occorrenza di certi tratti (e quindi dal grado di applicazione delle relative regole),
e non soltanto dalla loro categorica presenza o assenza (cf. Fasold 1970: 553, Dittmar 1989a: 133-37). È per questa ragione che, dopo i primi studi con scale di
implicazione a variabili binarie, si è iniziato a trattare negli scalogrammi anche
variabili trivaloriali, con l’uscita variabile v (oppure x, come in Bailey 1973a: 158,
o *, come in Fasold 1970: 555) oltre a quelle categoriche +/– o 0/1, e multivaloriali, con manifestazione delle effettive percentuali di occorrenza di ciascuna variabile (cf. ad es. Rickford 1991, Escure 1982) o dei diversi intervalli percentuali
7 Dove per relazione implicativa si intende appunto una relazione tale per cui la presenza della seconda variabile di ogni coppia implica la presenza della prima ma non viceversa.
8 Non si considera come proprietà autonoma la restrizione al numero di combinazioni possibili (y = x + 1, con x variabili T e y variabili V), poiché, come già detto, determinata dall’esistenza di relazioni implicative tra tutte le possibili coppie di variabili e dalla conseguente perfetta scalabilità dei valori.
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relativi (in ambito italiano, cf. Vietti 2005a: 170, Cerruti 2009a: 238-39)9; un’evoluzione del modello in direzione dell’integrazione di analisi qualitativa e analisi
quantitativa della variazione10.
La binarietà categorica delle variabili in relazione implicativa contraddistingue
dunque la forma ideale del modello ma tende a trovare scarsi riscontri nella realtà dei continua variazionali osservabili. Spesso tuttavia, nella pratica effettiva delle scelte metodologiche, scale di implicazione con valori binari consentono di
rappresentare i rapporti tra le variabili in modo più perspicuo e più funzionale
all’analisi rispetto agli scalogrammi tri- o multivaloriali, tant’è che a scopo esplicativo questi ultimi possono essere convertiti nelle prime, sacrificando la stretta
aderenza alla realtà dei dati (cf. Rickford 2002). Una tale operazione, oltre che
legittimata dall’esigenza scientifica di costituire categorie astratte, fondate in larga parte su distinzioni discrete, risponde alla necessità di rapportarsi a punti di riferimento prototipici per la categorizzazione ed è pienamente compatibile con
l’intrinseca ricorsività del concetto di prototipicità (per cui cf. Geeraerts 1989).
Le proprietà di una categoria prototipica, specie quelle basilari, sono cioè esse
stesse categorie prototipiche, con esemplari centrali e altri periferici (cf. Taylor
2003: 111-13)11. In questi termini, possono essere quindi considerati prototipici
perfino i valori stessi delle scale di implicazione. Se si accetta che una regola
variabile abbia per caso limite una regola categorica (cf. Dittmar 1989a: 134), una
data frequenza di occorrenza di una variabile può essere infatti intesa come
membro periferico della categoria rappresentata prototipicamente dai valori di
presenza o assenza categorica, e dunque fatta corrispondere a uno di essi; valori
percentuali superiori a 0,5 possono ad esempio essere convertiti in 1, poiché considerati membri periferici di tale categoria (cf. esempi in Dittmar/Schlobinski
1988: 1021).
9 A cui si aggiungono casi più specifici in cui è prevista la realizzazione di più di due varianti di una stessa variabile. Si può citare, tra le altre, l’analisi di Bickerton 1973: 661 del continuum
creolo guianese, che mostra relazioni implicative tra ventuno isoletti e nove variabili riferite al
paradigma dei pronomi personali, alcune delle quali costituite da tre o quattro varianti; la variabile (pronome femminile oggetto di terza singolare), ad esempio, risulta variamente realizzabile
nelle quattro varianti seguenti: 1 am, 2 i, 3 shi, 4 or (numerate progressivamente dall’Autore a seconda del grado decrescente di marcatezza creola). È di tipo analogo, qui, lo scalogramma di
Tab. 1 (§2).
10 Da cui consegue la possibilità di esprimere in una scala di implicazione non soltanto le frequenze di occorrenza di una variabile ma anche i valori di probabilità di applicazione di regole
variabili, con note implicazioni teoriche relative alla plausibilità dell’integrazione di regolarità
statistiche all’interno di modelli grammaticali (pur chiarita l’inverosimiglianza della presenza di
una vera e propria componente numerica nella competenza; cf. Sankoff 1988a: 150-52, Tagliamonte 2006: 130-31 e 2007: 190-91; cf. anche Vietti 2005b: 33-37).
11 Per citare un esempio di Taylor 2003: 112, il tratto /+capacità di volare/ della categoria
uccello presenterà esso stesso, come la categoria cui si riferisce, esemplari più tipici (la capacità
di volare di un passero, poniamo) e altri meno rappresentativi (la capacità di volare di una gallina).
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Riscontri ugualmente infrequenti conosce la proprietà d., che prevede un continuum di variazione orientato da un polo con presenza categorica dell’intera serie di variabili a un polo con assenza categorica altrettanto uniforme delle stesse.
Degli scalogrammi che ci è stato possibile consultare (Bailey 1973a: 158, Bickerton 1973: 647 e 661, DeCamp 1971: 355, Dittmar 1989b: 94, Escure 1982: 248, Gal
1979: 121, Pienemann 1998: 178, Rickford 1991: 235, Romaine 1980: 234 e 236,
Washabaugh 1977: 332, e in ambito italiano Berretta 1995: 338, Berruto 2001: 2425, Cerruti 2009a: 238-39 e 242-43, Giacalone Ramat 1995: 121, Mioni/Trumper
1977: 342 e Vietti 2005a: 170), soddisfano questo requisito soltanto due di quelli
tri- o multivaloriali12 (Bailey 1973a: 158 e Romaine 1980: 234) e due con variabili
binarie (Giacalone Ramat 1995: 121e Berretta 1995: 338), oltre al già citato
DeCamp 1971: 355. Va detto inoltre che la scala di implicazione di Berretta 1995:
338, che descrive la sequenza di acquisizione delle forme di imperativo italiano
(sulle colonne) da parte di apprendenti con diverse L1 (sulle righe), riporta in realtà valori controversi agli estremi del continuum (indicati in matrice come «–?» e
«+?», rispettivamente): da un lato l’assenza categorica dell’intero complesso di forme, propria di una fase pre-imperativale, registra comunque occorrenze isolate di
imperativi di seconda singolare, e dall’altro l’acquisizione completa di tutte le regole, che si ha nella varietà più avanzata, è messa in dubbio dalla presenza di forme soltanto di routine di congiuntivo imperativo (cf. Berretta 1995: 339-43).
Quanto alle due scale con variabili non binarie, è altresì significativo che la modellizzazione di Bailey 1973a: 158 comporti un certo grado di astrazione teorica.
L’analisi implicazionale, che descrive la diffusione geografica del processo di
innalzamento di /æ/ nell’inglese americano, con i contesti fonetici sull’asse orizzontale e le località su quello verticale, produce una scala perfettamente corrispondente alla sua forma ideale (se si eccettua l’inclusione di uscite variabili).
L’aderenza al prototipo è tuttavia resa possibile dall’introduzione di combinazioni non realmente attestate, una di queste corrispondente proprio all’assenza categorica uniforme delle variabili; l’inserimento, puramente teorico, è motivato da
principi di interpretazione diacronica della gerarchia implicazionale (per cui v.
Bailey 1973b: 67-86), ispirati alla Wellentheorie.
Ugualmente ideale, o prototipica, è la totale assenza di valori incongruenti rispetto alla gerarchia implicazionale prevista (proprietà e.). Sono rari, infatti, i continua linguistici che presentano una scalabilità perfetta dei tratti. Nella fattispecie,
si tratta per lo più di modellizzazioni con valori binari costruite sulla base di un numero limitato di variabili. Ne è un esempio lo scalogramma riportato in Fasold
1970: 558 sull’omissione del suffisso plurale nel Black English di Washington; la
matrice, che corrisponde esattamente alla forma ideale di una scala di implicazione, conta 4 variabili sull’asse orizzontale, relative ad altrettante classi sociali, e 5 su
12 Nei casi in cui le variabili prevedano uscite a più di due varianti, ciascuna identificata da un
diverso valore numerico, la proprietà va letta nei termini della presenza ai poli del continuum dei
valori estremi, anziché di presenza/assenza (oltre che rispettivamente diseguali).
Teoria dei prototipi e variazione linguistica
35
quello verticale, rappresentative di diversi contesti fonetici. Non a caso il modello
delle scale di implicazione, con scalabilità ideale, riesce a dare conto opportunamente dei rapporti esistenti tra i vari contesti di applicazione di una stessa regola
(come nell’esempio citato, o in Mioni/Trumper 1977: 342) o di una selezione significativa di tratti rispetto a un complesso maggiore di variabili (come in Dittmar
1989b: 94, dove soltanto 11 regole sintattiche su 100 della varietà urbana di Berlino risultano ordinabili implicazionalmente in relazione a varietà di apprendimento di parlanti italiani e spagnoli), specie se appartenenti a un singolo sottosistema
grammaticale (cf. Rickford 2002: 149); incontra invece maggiori problemi con l’incremento del numero delle variabili e, più spinosamente, con l’accoglimento di variabili multivaloriali e conseguenti frequenze di occorrenza.
A garantire la validità di una scala di implicazione si ritiene ad ogni modo sufficiente un indice di scalabilità, ossia una percentuale di caselle non devianti, pari
a 0,9 (cf. Rickford 1991: 233). Cionondimeno, le scale realizzate con maggiore fedeltà alla realtà dei dati, ossia con valori di frequenza anziché binari, presentano
soltanto raramente un indice di scalabilità che rispetti questo criterio. Rickford
2002: 158 sostiene addirittura che nell’intero complesso della bibliografia sul tema
se ne ritrovano soltanto tre con indice percentuale prossimo o superiore a 0,9; il
che conferma l’estrema scarsità di continua linguistici che manifestino una tale regolarità di rapporti implicativi tra variabili.
Il confine stabilito dall’indice di scalabilità, a prescindere dalla sua effettiva validità statistica13, comporta così una categorizzazione evidentemente discreta, che
nella prospettiva dei prototipi confligge con il principio di gradualità categoriale.
Lo stesso coefficiente, se inteso come indicatore di rappresentatività anziché di appartenenza (cf. Lakoff 1987: 77-117, 142 e passim; Kleiber 1990: 52-53), può invece esprimere in chiave prototipica una misura pratica del grado di esemplarità di
un continuum variazionale rispetto al modello ideale della categoria, rappresentata nel suo punto focale da una scala di implicazione con assenza categorica di valori devianti.
La forma ideale di uno scalogramma non contempla nemmeno la presenza di
caselle con valori mancanti (proprietà f.), tra l’altro tradizionalmente ignorata
pure nel computo del citato indice di scalabilità14 (cf. ad es. Bickerton 1971: 478,
13 Si veda ad esempio Sankoff 1988b: 994: «this type of test is totally unfounded . . ., unless
there is some statistical model for predicting the distribution of errors when the scaling hypotesis is true and/or when it is not true»; cf. anche Rickford 2002: 157: «there are more demanding
tests of the goodness-of-fit between scale models and actual data than IR [Index of Reproducibility], the one which virtually all linguists use».
14 Il che, ovviamente, significa assegnare per default alle caselle con valori mancanti un valore
coerente con la gerarchia implicazionale prevista, operazione evidentemente arbitraria. Si ricordi che proprio il coefficiente di riproducibilità di Guttman (studioso al quale si deve l’introduzione dell’analisi implicazionale nelle scienze sociali), cui corrisponde l’indice di scalabilità, richiede necessariamente caselle non vuote, pena l’invalidità del computo (cf. Rickford 2002: 154
e 157).
36
Massimo Cerruti
Washabaugh 1977: 321, Pienemann 1998: 178). Matrici con caselle vuote possono
invece riscontrarsi comunemente, in dipendenza dalla natura dei dati e del metodo di rilevamento. Un caso evidente di variabili linguistiche per le quali non è sempre possibile salvaguardare l’occorrenza del contesto o dei contesti di possibile
realizzazione, ovviamente necessaria per l’assegnazione di un valore, è dato dai
tratti di livello morfosintattico; è in questi casi inevitabile che l’indagine, specie se
condotta con tecniche di parlato semispontaneo, possa restituire valori mancanti
per certe variabili linguistiche. Si riscontrano ad esempio caselle vuote negli scalogrammi di Bickerton 1973: 647 e Washabaugh 1977: 321, sulle realizzazioni del
complementatore infinitivale (to) in due varietà caraibiche di creolo a base inglese (varianti fi/fu vs. tu); dato un corpus di produzioni linguistiche raccolto mediante conversazione guidata, l’assenza di valori corrisponde qui alla mancata occorrenza di alcune classi di verbi reggenti (modali, incoativi, desiderativi o psicologici), rappresentativi dei contesti di possibile realizzazione della variabile. Analogo
è il caso di Pienemann 1998: 178, sul processo di acquisizione di regole grammaticali dell’inglese da parte di apprendenti adulti (polacchi e vietnamiti) immigrati in
Australia; i valori mancanti risultano qui dalla non occorrenza di contesti per le
regole obbligatorie e di tokens per le regole opzionali.
Indipendentemente poi dal metodo di rilevamento, va tenuto conto che la realizzazione di una variabile può essere condizionata in casi particolari da restrizioni strutturali «interne» e di carattere più generale. È in questo senso emblematica
la presenza di caselle vuote negli scalogrammi di Romaine 1980: 234, 236, che rappresentano le diverse strategie di relativizzazione del sintagma nominale (di tipo
WH, con gli elementi who, which, whom, whose, ecc., oppure TH, con that o Ø) in
vari tipi testuali dello scozzese medio e contemporaneo e dell’inglese americano
contemporaneo; la matrice, che vede disposti sull’asse verticale i tipi testuali e su
quello orizzontale le posizioni sintattiche di costruzione delle relative, annovera
valori mancanti proprio in corrispondenza delle posizioni meno accessibili alla relativizzazione, secondo la nota gerarchia di Keenan/Comrie 1977. La forma ideale, prototipica, di una scala di implicazione si scontra dunque in casi come questo
con restrizioni tipologiche imposte dall’organizzazione grammaticale delle lingue
storico-naturali.
In definitiva, dell’intero complesso di attributi ideali di una scala di implicazione, la sola proprietà a non risultare disattesa da alcuno degli scalogrammi a cui si
è fatto riferimento è l’esistenza di coppie di variabili in relazione implicativa (proprietà c.)15. In tutte le scale bivaloriali consultate si riconosce cioè un certo nume-
15 Il risultato rimarrebbe tale anche prendendo in considerazione, come ulteriore proprietà
autonoma, la restrizione al numero di combinazioni possibili. La proprietà, per com’è formulata,
è strettamente dipendente dal valore binario delle variabili (cf. Rickford 2002: 143); è perciò inevitabile che della categoricità dei valori di presenza/assenza (proprietà b.), cui è intrinsecamente
legata, rifletta anche il carattere di astrattezza. Provando a rendere bivaloriali le scale di implicazione con valori di frequenza, secondo il procedimento più consueto di conversione delle oc-
Teoria dei prototipi e variazione linguistica
37
ro di coppie di variabili, o sull’asse orizzontale o su quello verticale, definite da una
relazione tale per cui la presenza della seconda variabile di ciascuna coppia implica la presenza della prima, ma non viceversa16. L’ordinamento risultante è solitamente fatto corrispondere, in scale con variabili non binarie, a una distribuzione
scalare per cui un certo valore in una data casella della matrice implica valori equivalenti o superiori a sinistra e sopra di sé e valori equivalenti o inferiori a destra e
sotto di sé. Si può facilmente constatare come in tutti gli scalogrammi tri- o multivaloriali consultati, analogamente al caso delle scale bivaloriali, sia sempre possibile riscontrare la presenza di un certo numero di coppie di variabili, per lo meno
su uno dei due assi della matrice, per le quali il valore della prima variabile di ciascuna coppia è equivalente o superiore a quello della seconda.
Al complesso di attributi determinato dalla forma ideale del modello si potrebbe poi aggiungere un’ulteriore proprietà comune a tutti gli scalogrammi consultati – chiamiamola g. –, che distingue le applicazioni del modello in sociolinguistica
da quelle in altri settori scientifici. Tenendo conto della possibilità di esprimere con
una scala di implicazione rapporti tra variabili di natura eterogenea, linguistiche
ed extralinguistiche (tratti linguistici e varietà di lingua, ma anche variabili situazionali o sociali; cf. sopra e §2.), e intendendo, come al §2., il concetto di variabile
sociolinguistica nell’accezione più ampia volta a includere entità di diverso livello
del sistema linguistico (tratti linguistici, varietà di lingua o lingue nel loro complesso), recanti significato sociale, si potrebbe cioè riconoscere come tratto identificativo più generale, ed essenziale, della categoria di scala di implicazione in sociolinguistica l’espressione di rapporti tra variabili sociolinguistiche e tra varianti;
rapporti che, in questi termini, potranno riguardare sia variabili diverse e relative
varianti, come nel caso prototipico, sia varianti di una stessa variabile, come nel
caso più periferico di scale di implicazione relative al repertorio.
Entrambe le proprietà, c. e g., risultano quindi condivise da tutti i membri della
categoria; rappresentano perciò criteri necessari e sufficienti a definire l’appartenenza categoriale a una scala di implicazione. Il carattere categorico di queste due
proprietà, benché richiami una concezione di matrice aristotelica, risponde in
realtà coerentemente alla discretezza propria del punto focale delle categorie prototipiche (si pensi ad es. ai colori focali nel continuum cromatico: cf. Taylor 2003:
51-54, 116-19 e passim), che «si avvicina [appunto] all’ideale di una categoria classica» (Taylor 2003: 104).
correnze percentuali superiori a 0,5 in 1 e di quelle uguali o inferiori a 0,5 in 0 (cf. Dittmar/Schlobinski 1988: 1021, cf. sopra), nessuna di queste, tra quelle consultate, risulta infatti rispettare la restrizione. Di contro, mostrano il numero ideale di combinazioni gli scalogrammi di DeCamp 1971:
355 e Berretta 1995: 338, costruiti già in origine con variabili binarie, e di Bailey 1973a: 158, che
rappresenta appunto, come si è già detto, un’idealizzazione dei dati.
16 La proprietà, va notato, risulterebbe a rigore verificata anche con una sola coppia di variabili in relazione implicativa, caso minimo sufficiente a rendere eventualmente valida la relazione.
38
Massimo Cerruti
Si può così riepilogare come nella matrice di Tab. 3 la distribuzione delle proprietà del modello in relazione alle scale di implicazione consultate (che hanno
ovviamente non più del valore di semplice campione, peraltro sbilanciato verso la
situazione italiana):
Tabella 3: Legenda: a. correlazione tra tratti linguistici (T) e varietà di lingua o (gruppi di) parlanti (V); b. variabili binarie; c. coppie di variabili in relazione implicativa; d. varietà V1 e Vy dai
valori categorici uniformi e rispettivamente diseguali; e. assenza di valori devianti; f. assenza di
valori mancanti; g. rapporti tra variabili sociolinguistiche e tra varianti.
g.
c.
a.
f.
b.
d.
e.
DeCamp (1971: 355)
Bailey (1973a: 158)
+
+
+
+
+
+
+
+
+
[–]
+
+
+
+
Giacalone Ramat (1995: 121)
Berretta (1995: 338)
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
–
–
Berruto (2001: 24-25)
Cerruti (2009a: 242-43)
Mioni/Trumper (1977: 342)
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
–
–
–
–
–
[+]
Dittmar (1989b: 94)
Escure (1982: 248)
Rickford (1991: 235)
Cerruti (2009a: 238-39)
Vietti (2005a: 170)
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
Bickerton (1973: 647)
Bickerton (1973: 661)
Romaine (1980: 234)
Washabaugh (1977: 332)
Romaine (1980: 236)
Pienemann (1998: 178)
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
[+]
–
–
–
–
[+]
–
–
–
–
–
–
[+?]
Gal (1979: 121)
+
+
–
–
–
–
–
Ne risulta a sua volta una scala di implicazione, in cui i vari scalogrammi, rappresentativi di diversi continua variazionali, si trovano ordinati sull’asse verticale in
rapporto alle proprietà ideali del modello, disposte sull’asse orizzontale17. Si può
osservare come l’unica scala del campione che descrive rapporti relativi al reper-
17 Si sarà notato che la presenza della proprietà e. (assenza di valori devianti) riferita allo scalogramma di Pienemann 1998: 178 è accompagnata da un punto interrogativo; l’indicazione è motivata dal fatto che la matrice può ritenersi perfettamente scalabile soltanto ignorando l’esistenza di caselle con valori mancanti, operazione della cui arbitrarietà si è già detto alla N14.
Teoria dei prototipi e variazione linguistica
39
torio anziché alla lingua (Gal 1979: 121) sia proprio la più distante dal prototipo,
rappresentato dalla scala di DeCamp 1971: 355. Si noti inoltre che soltanto una tra
le scale qui di riferimento si configura quale esemplare prototipico della categoria.
La frequenza con cui un membro di categoria si presenta nella realtà è del resto
indipendente dal suo grado di esemplarità. Così l’alta frequenza non è caratteristica costituente del prototipo, seppure sintomatica (cf. Taylor 2003: 102); come
caso limite, infatti, il membro prototipico di una categoria potrebbe essere addirittura un’entità astratta costruita sulla base delle proprietà prototipiche della categoria (Kleiber 1990: 61-63).
Proprietà essenziali, o categoriche (discrete), e proprietà soltanto prototipiche,
o graduali, si sommano quindi nel definire la categoria di scala di implicazione, in
modo analogo a ogni altra categoria prototipica (per la distinzione tra i due tipi di
proprietà cf. Wierzbicka 1985: 60 e passim). Il punto focale della categoria, determinato essenzialmente dai due attributi dell’espressione di rapporti tra variabili
sociolinguistiche e tra varianti (g.) e dell’esistenza di coppie di variabili in relazione implicativa (c.), entrambi di carattere categorico (o discreto), è contornato da
proprietà di carattere invece graduale, non necessariamente possedute da tutti i
suoi membri e via via meno centrali (ossia meno rilevanti nel definire la categoria).
Concepire una categoria prototipica come determinata da una certa combinazione di proprietà, conformemente alla teoria standard, consente come si è visto
una descrizione del prototipo nei termini di una lista di attributi (cf. anche Coleman/Kay 1981, Kleiber 1990: 66-67). Il che è a fondamento di una possibile rappresentazione componenziale, ossia in tratti semantici, dello stesso prototipo. Considerare in reciproca contrapposizione analisi componenziale e analisi prototipica
implica difatti, in realtà, uno sfalsamento di prospettiva. La semantica prototipica
non si oppone infatti a una concezione delle categorie nei termini di una configurazione di proprietà, o tratti, ma all’esistenza di un insieme chiuso di proprietà tutte discrete, che definisce l’intero complesso dei membri di una data categoria.
L’analisi in tratti semantici può anzi rappresentare un utile completamento operativo dell’analisi prototipica, ovviamente a patto che la rappresentazione componenziale riesca a preservare la dimensione necessariamente graduale di alcune
proprietà (cf. Wierzbicka 1985: 17 e passim; Berruto 1987b: 46-51, 1987c: 401-03
e in preparazione; Taylor 2003: 104 e passim).
Nel nostro caso, il diverso carattere delle proprietà, ora categorico ora graduale, e la loro differente centralità o perifericità sono resi particolarmente evidenti
dalla matrice di Tab. 3. Facendo riferimento a questa, è dunque possibile pervenire a una rappresentazione componenziale del prototipo che traduca in tratti binari le proprietà essenziali (g. e c.) e in tratti variabili le proprietà possedute non
ugualmente dai vari membri della categoria (a., b., d., e., f.); seguendo Berruto
1987b: 50-51, 2006: 134-35, i tratti variabili saranno poi espressi fra parentesi uncinate e ordinati, con un indice in alfabeto greco, a seconda della differente centralità della proprietà relativa. Recuperando con alcune modifiche le formulazioni
40
Massimo Cerruti
impiegate per la lista di attributi ideali del modello, si ricava una configurazione
prototipica di scala di implicazione, in sociolinguistica, determinata da un fascio di
tratti quale il seguente: /+rapporti tra variabili sociolinguistiche e tra varianti, +coppie di variabili in relazione implicativa, <+correlazione tra tratti linguistici e varietà di lingua (o parlanti)>α, <–valori mancanti>β, <+variabili binarie>γ, <+variabili estreme dai valori categorici uniformi e rispettivamente
diseguali>δ, <–valori devianti>ε /.
4. Prototipi e schemi: il modello a rete applicato
Proseguendo nel parallelismo tra categorie (socio)linguistiche e categorie concettuali, e per lo meno al fine di una sistematizzazione riepilogativa di quanto sinora
argomentato, si potrebbe a questo punto tentare brevemente un inquadramento
teorico della categoria di scala di implicazione all’interno di uno dei modelli di
riferimento per la concettualizzazione categoriale: il modello a rete (Network
Model, o Schematic Network) della grammatica cognitiva (cf. Langacker 1987:
370-408 e 1999: 101-03). La nozione risulterà così definita da due principi di strutturazione, uno per prototipi e uno per schemi (la cui compatibilità è tuttavia
oggetto di discussione in seno alla teoria dei prototipi; cf. Taylor 2003: 116-19 e
passim), e dal loro rapporto rispetto alla realtà effettiva dei continua linguistici così
rappresentabili.
Il modello a rete propone un’elaborazione teorica del processo di concettualizzazione di categorie complesse che è fondata per l’appunto sulla conciliazione di
due principi diversi di strutturazione categoriale: una categorizzazione per prototipi, ossia mediante il riferimento al rappresentante più tipico di una categoria, e
una per schemi, ovvero per mezzo di una rappresentazione astratta di ciò che è comune ai membri di una categoria.
Per quanto differenti, questi due tipi di categorizzazione sono per il modello intrinsecamente correlati e anzi descrivibili come aspetti di un unico processo (cf.
Langacker 1987: 370-73). Sia nel primo sia nel secondo caso, la categorizzazione
consiste infatti nella valutazione di una data entità T (Target) in confronto a un’entità di riferimento S (Standard). Se esiste una discrepanza tra S e T allora S è il prototipo (PT) e T un membro non prototipico della categoria (X); in questo caso la
relazione tra S e T è detta di estensione: l’identità categoriale del prototipo è cioè
«estesa» fino ai membri più periferici della categoria. Se tutte le caratteristiche di
S sono invece soddisfatte da T allora S è uno schema (SCH), e la relazione tra S e
T è detta di elaborazione (o istanziazione); T può essere in questo caso sia il prototipo (PT) sia un membro non prototipico della categoria (X). La categorizzazione per estensione presuppone quindi quella per elaborazione; nel caso in cui,
cioè, una data entità X non condivida l’intero complesso di proprietà di un prototipo PT, essa può essere ricondotta alla categoria che PT rappresenta sulla base
della condivisione di alcune proprietà, prescindendo cioè dalle differenze e facen-
Teoria dei prototipi e variazione linguistica
41
do invece riferimento a una rappresentazione astratta degli attributi comuni
(SCH). L’estensione da un prototipo è in altre parole inerentemente associata all’istanziazione di uno schema. L’integrazione dei due principi di strutturazione può
essere rappresentata come in Fig. 1 (ripresa da Langacker 1987: 373, con adattamenti):
SCH
elaborazione
elaborazione
PT
X
estensione
Il modello pare applicabile anche alla categoria di scala di implicazione. Trattata qui nella prospettiva della teoria prototipica standard, quindi presupponendo
un nucleo di proprietà essenziali, condivise da tutti i suoi rappresentanti, e altre
soltanto prototipiche, la categoria fa evidentemente assegnamento su di uno schema SCH rappresentato dalle proprietà del punto focale, attributi per definizione
comuni all’intero complesso dei suoi membri; il carattere categorico di tali proprietà è del resto coerente con il valore di SCH, indicatore di appartenenza («a
schema . . . is an abstract characterization that is fully compatible with all the members of the category it defines, so membership is not a matter of degree»; Langacker 1987: 371). Il prototipo PT consiste come già detto nella forma ideale di una
scala di implicazione e i continua linguistici scalari categorizzabili per estensione a
partire da PT rappresentano, per così dire, «the deviations which the world allows
between [PT] and its instances» (Hudson 1984: 40).
Dal momento che la relazione tra PT e X si fonda su gradi diversi di similarità
rispetto al prototipo (cf. Langacker, 1987: 371), si potrebbe poi, a rigore, interpretare X non soltanto come uno dei membri non prototipici della categoria ma come
il suo rappresentante più periferico, intendendo come graduale la dimensione dell’estensione di PT a X. Nel nostro caso, sarebbe quindi possibile collocare lungo
questa direttrice l’intera serie dei continua variazionali qui esaminati, ordinati –
come da Tab. 3 – in base grado di similarità nei confronti del prototipo. Così in
Fig. 2:
42
Massimo Cerruti
SCH
X
Cerruti (2009a: 242-43)
Mioni/Trumper (1977: 342)
Dittmar (1989b: 94)
Escure (1982: 248)
Rickford (1991: 235)
Cerruti (2009a: 238-39)
Vietti (2005a: 170)
Bickerton (1973: 647)
Bickerton (1973: 661)
Romaine (1980: 234)
Washabaugh (1977: 332)
Romaine (1980: 236)
Pienemann (1998: 178)
Gal (1979: 121)
g.
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
c.
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
a.
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
–
f.
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
–
–
–
–
–
–
–
b.
+ [–]
+
+
+
+
+
–
–
–
–
–
–
–
–
–
– [+]
d.
+
+
+
+
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
– [+] –
–
e.
+
+
–
–
–
– [+]
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
DeCamp (1971: 355)
Berruto (2001: 24-25)
Giacalone Ramat (1995: 121)
PT
– [+?]
–
Va tenuto conto, tuttavia, che il modello di Langacker presuppone una concezione estesa, non standard, della teoria dei prototipi, che non richiede la condivisione di uno stesso nucleo di proprietà comuni da parte dei membri di una categoria
(Langacker 1987: 17). L’estensione a partire da un prototipo avviene cioè o sul
fondamento di una più generica percezione di similarità rispetto all’immagine
ideale del PT, o sulla base di alcune proprietà dello stesso PT, comuni sia a SCH
sia a X, che possono essere però ridefinite di volta in volta. È prevista infatti l’estrazione di sovraschemi determinati da una selezione di proprietà rispetto allo schema di partenza; ulteriori estensioni possono così configurarsi proprio a partire
dall’iniziale SCH, che viene ora a rappresentare, oltre che la base per le istanziazioni già esistenti, il prototipo «locale» per le nuove estensioni, in una rete di connessioni categoriali che richiama da vicino, non a caso, le Familienähnlichkeiten
wittgensteiniane18.
18 Langacker 1987: 373 s. cita a scopo esemplificativo la strutturazione della categoria ˹albero˺, in riferimento al processo di apprendimento di categorie lessicali. A partire da un’ipotetica
rete del tipo di SCH = [TREE], PT = [tree] e X = [pine], basata su di uno schema che già pre-
Teoria dei prototipi e variazione linguistica
43
Nel caso delle scale di implicazione, lo schema che nella prospettiva prototipica
standard rappresenta il punto focale potrebbe dunque essere inteso, in questi nuovi termini, come un sovraschema SCH’ estratto a partire da uno schema SCH,
definito rispetto a SCH’ anche dalla proprietà a. (/+correlazione tra tratti linguistici e varietà di lingua (o parlanti)/, qui categorica) e istanziato in un prototipo «locale» PT per le scale relative alla variazione interna alla lingua (e non al
repertorio).
5. Conclusione
L’analisi in termini prototipici del modello di scala di implicazione viene così ad
aggiungersi alle precedenti rivisitazioni, condotte nella stessa prospettiva, di altri
concetti e categorie fondamentali della sociolinguistica (continuum variazionale,
comunità linguistica, diglossia), a cui si è brevemente fatto cenno nel §2. Sul piano
della variazione linguistica, l’esame delle proprietà ideali di uno scalogramma,
operata qui sulla base delle applicazioni concrete che la tecnica ha conosciuto nella letteratura sociolinguistica, ha permesso di riconsiderare in chiave prototipica
alcuni requisiti del modello, che nella pratica di studio spesso tendono a veicolare
veri e propri caveat metodologici di natura categorica (si pensi ad esempio all’osservanza dell’indice di scalabilità). Sotto il profilo, invece, della teoria dei prototipi, l’analisi ha consentito di verificarne l’applicabilità a un campo di indagine
esplorato soltanto di recente in questa prospettiva, confrontandosi con questioni
basilari quali la ricorsività di un prototipo, il confronto tra rappresentatività graduale e appartenenza categorica, il rapporto tra frequenza ed esemplarità e la compatibilità di prototipi e schemi. Complementare all’analisi, e ancora da praticare, è
poi la possibilità che l’incontro tra teoria prototipica e teoria della variazione possa restituire un proprio contributo alla stessa teoria dei prototipi.
Torino
Massimo Cerruti
scinde da distinzioni relative alla natura del fogliame, è immaginabile ad esempio l’estrazione
di un sovraschema SCH’, con prototipo «locale» SCH = [TREE] e estensione X = [palm], che
rispetto al precedente prescinde inoltre da specificazioni riferite al tipo di ramificazione. È possibile oltretutto sia che le stesse estensioni, se cognitivamente salienti, possano fungere da
prototipi «locali» (si pensi al caso di X = [pine], possibile PT per i membri della famiglia delle Pinaceae), sia che un prototipo si comporti da schema e consenta l’estrazione di un sottoschema
(da PT = [tree], ad esempio, si potrebbe estrarre un sottoschema riferito agli alberi da frutto).
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