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PROCESSO PENALE E GIUSTIZIA
CORTI EUROPEE / EUROPEAN COURTS
di Antonio Balsamo
L’esclusione del carcere per i giornalisti
(Corte e.d.u., 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia)
Tra i “nodi irrisolti” del sistema penale interno su
cui si riscontra una forte incidenza della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo vi è
il problema, quanto mai attuale, delle sanzioni penali applicabili nei confronti dei giornalisti per reati
commessi nell’esercizio della loro professione.
Sul tema è intervenuta la sentenza emessa il 24
settembre 2013 dalla II Sezione della Corte di Strasburgo nel caso Belpietro contro Italia, che potrebbe
assumere una notevole rilevanza ai fini della valutazione della legittimità costituzionale della normativa dettata dell’art. 13 della l. 8 febbraio 1948 n.
47, secondo cui «nel caso di diffamazione commessa col
mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un
fatto determinato, si applica la pena della reclusione da
uno a sei anni e quella della multa non inferiore a lire
500.000».
La pronuncia in esame ha accolto il ricorso presentato, per violazione dell’art. 10 Cedu, dall’allora direttore del quotidiano “Il Giornale”, Maurizio Belpietro, il quale era stato condannato alla pena di quattro
mesi di reclusione, con il beneficio della sospensione
condizionale, dalla Corte di Appello di Milano, per
il reato di diffamazione in danno di due magistrati
già in servizio presso la Procura della Repubblica di
Palermo, Giancarlo Caselli e Guido Lo Forte. L’addebito mosso al ricorrente consisteva nell’omissione
del controllo - dovuto ai sensi dell’art. 57 c.p. - sul
contenuto dell’articolo «Mafia, tredici anni di scontri tra
P.M. e Carabinieri» pubblicato il 7 novembre 2004 sul
predetto quotidiano. L’autore dell’articolo era il sen.
Lino Iannuzzi, nei cui confronti era stata emessa, in
un separato procedimento, sentenza di non luogo a
procedere, avendo il Senato ritenuto che le espressioni da lui usate fossero coperte dalla garanzia di cui
all’art. 68, comma 1, Cost.
Nel decidere sulle doglianze prospettate dal ricorrente, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha
premesso che la stampa gioca un ruolo eminente
all’interno di una società democratica, svolgendo
il compito di comunicare, nel rispetto dei suoi doveri e delle sue responsabilità, informazioni e idee
su tutte le questioni di interesse generale, comprese quelle relative alla giustizia. Si è inoltre precisato
che, oltre alla sostanza delle idee e delle informazioni espresse, l’art. 10 della Convenzione protegge il
loro modo di espressione, e che la libertà giornalistica comprende anche il possibile ricorso a una certa
dose di esagerazione.
La Corte ha altresì segnalato che i limiti della
critica ammissibile possono essere in determinati casi più ampi in relazione ai funzionari pubblici
che agiscono nell’esercizio dei loro poteri, piuttosto
che nei confronti dei semplici cittadini. Ciò tuttavia
non significa che i funzionari si espongano consapevolmente ad un attento controllo dei loro fatti e
gesti esattamente come nel caso degli uomini politici, e debbano essere trattati allo stesso modo di
questi ultimi per quanto attiene alle critiche sul loro
comportamento. Infatti, per disimpegnare le loro
incombenze, i funzionari devono beneficiare della
fiducia del pubblico senza indebite turbative, con
la conseguenza che può rivelarsi necessaria la loro
protezione contro attacchi privi di serio fondamento. E, a questo riguardo, si è rammentato che l’azione dei tribunali, i quali sono garanti della giustizia
e svolgono una missione fondamentale all’interno
di uno Stato di diritto, ha bisogno della fiducia del
pubblico per funzionare bene.
In aggiunta, la Corte ha evidenziato che il diritto dei giornalisti di comunicare notizie su questioni di interesse generale è tutelato a condizione
che essi agiscano in buona fede, sulla base di fatti
esatti, e forniscano informazioni affidabili e precise
nel rispetto dell’etica giornalistica. L’art. 10 §2 Cedu
sottolinea che l’esercizio della libertà di espressione
comporta doveri e responsabilità che valgono anche per i media in rapporto a questioni di grande
interesse generale. Questi doveri e responsabilità
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possono assumere ancor più rilevanza quando si
rischia di offendere la reputazione di una persona
determinata e di ledere i diritti altrui. Devono quindi esistere motivi specifici per poter sollevare i media dall’obbligo, che grava in linea di principio su di
loro, di verificare le dichiarazioni fattuali potenzialmente diffamatorie; al riguardo, vengono in gioco la
natura e il grado della diffamazione, e la questione
di stabilire fino a che punto i media possano ragionevolmente considerare le loro fonti come credibili.
Infine, si è specificato che la natura e la gravità delle pene inflitte sono elementi da prendere in
considerazione quando si tratta di misurare la proporzionalità dell’ingerenza. Al riguardo, la Corte di
Strasburgo ha richiamato i principi già affermati con
la sentenza emessa il 17 dicembre 2004 dalla Grande Camera nel caso Cumpănă e Mazăre c. Romania,
secondo cui gli Stati, in forza degli obblighi positivi
scaturenti dall’art. 8 della Convenzione, hanno la facoltà o addirittura il dovere di disciplinare l’esercizio della libertà di espressione in modo da assicurare una protezione legale adeguata alla reputazione
degli individui, ma devono evitare di provvedervi
mediante l’adozione di misure idonee a dissuadere i
media dall’adempiere al proprio ruolo di sensibilizzare il pubblico nei casi di abuso, apparente o supposto, del potere pubblico. I soggetti impegnati nel
giornalismo di inchiesta rischiano, infatti, di essere
reticenti nell’esprimersi su questioni di interesse generale se corrono il pericolo di essere condannati,
qualora la legislazione preveda sanzioni detentive
o interdittive dall’esercizio della professione per le
condotte di attacco ingiustificato alla reputazione
altrui. L’effetto dissuasivo che il timore di siffatte
sanzioni comporta per l’esercizio della libertà d’espressione da parte dei giornalisti è evidente. Conseguentemente, ad avviso della Corte di Strasburgo,
la pena detentiva inflitta per reati commessi nel settore della stampa può essere compatibile con la libertà di espressione giornalistica solo in circostanze
eccezionali, segnatamente nel caso di grave minaccia ad altri diritti fondamentali, come nelle ipotesi
di diffusione di discorsi di odio e di incitamento alla
violenza.
Facendo applicazione dei suesposti principi, la
Corte europea dei diritti dell’uomo ha ravvisato
una violazione dell’art. 10 Cedu non per effetto della condanna, bensì in conseguenza della irrogazione
di una pena detentiva.
Precisamente, i giudici di Strasburgo hanno riconosciuto che con il suddetto articolo erano state
mosse accuse gravi nei confronti di funzionari dello
Stato, non sopportate da elementi obiettivi. Hanno,
inoltre, escluso ogni contrasto con la Convenzione
dell’art. 57 c.p., che impone un dovere di controllo
al direttore del giornale, ed hanno esplicitato che la
qualità di membro del Parlamento rivestita dall’autore dell’articolo non può esonerare il direttore del
quotidiano dal dovere di rifiutare la pubblicazione
di affermazioni diffamatorie, sottolineando che la
libertà d’espressione degli eletti dal popolo non è illimitata, in quanto sarebbe ingiustificabile un totale
diniego di accesso alla giustizia a fronte di affermazioni diffamatorie compiute da membri del parlamento in assenza di un legame evidente con la loro
attività parlamentare.
La Corte europea ha poi osservato che il direttore
del giornale è responsabile del modo in cui l’articolo
è presentato e della rilevanza che gli viene attribuita
nell’ambito della pubblicazione. Nel caso in esame,
la presentazione grafica contribuiva a corroborare
presso i lettori le tesi esposte nell’articolo, comprese
quelle che si risolvevano in un attacco alla reputazione professionale dei magistrati del pubblico ministero.
Conseguentemente, si è escluso che la condanna
del ricorrente fosse di per sé incompatibile con l’art.
10 Cedu.
Si è però rilevato che la pena detentiva inflitta
poteva assumere un significativo effetto dissuasivo,
senza che ricorressero circostanze eccezionali suscettibili di giustificare il ricorso a una sanzione così
severa, trattandosi di omesso controllo nel quadro
di una diffamazione.
In considerazione della natura e della misura
della sanzione irrogata al ricorrente, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dunque ritenuto che, nel
caso di specie, l’ingerenza nel suo diritto alla libertà
di espressione non fosse proporzionata al fine legittimo perseguito.
La sentenza Belpietro, che riprende argomentazioni già sviluppate in altre pronunce, apre il problema della compatibilità con l’art. 10 Cedu della legislazione nazionale che impone il ricorso alla pena
detentiva nell’ipotesi di diffamazione commessa col
mezzo della stampa e consistente nell’attribuzione
di un fatto determinato.
Sulla base delle specifiche indicazioni ermeneutiche provenienti dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo potrebbe, in effetti, essere sollevata una
questione di legittimità costituzionale dell’art. 13
della l. 8 febbraio 1948, n. 47, per violazione dell’art.
117 Cost., in relazione al “parametro interposto”
dell’art. 10 Cedu.
L’indirizzo seguito dalla Corte di Strasburgo è finalizzato ad assicurare una tutela rafforzata al ruolo
della stampa, incisivamente qualificata come “cane
da guardia della democrazia”, che rende possibile
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la sottoposizione dell’attività politica al controllo
dell’opinione pubblica e favorisce la partecipazione
dei cittadini al processo decisionale.
Il tessuto di valori da cui muove tale elaborazione giurisprudenziale si ricollega alla concezione, maturata storicamente nella seconda metà del
‘700 nell’ambito del giornalismo anglosassone, della “missione” della stampa come cane da guardia
dei diritti dei cittadini (watchdog for citizen rights) e
strumento di controllo dell’attività del potere politico. Un compito, questo, che presenta uno stretto
legame con l’indipendenza del sistema dell’informazione.
La paternità di tale concezione viene comunemente attribuita all’intellettuale inglese Edmund
Burke, la cui attività politica, saggistica e filosofica
si sviluppò negli ultimi decenni del XVIII secolo, in
posizione esplicitamente critica nei confronti dell’illuminismo, ma sulla base di un bagaglio concettuale
profondamente radicato nella cultura liberale. Secondo Thomas Carlyle, proprio Burke durante un
dibattito parlamentare del 1792 avrebbe valorizzato
fortemente il ruolo della stampa come “quarto stato” (fourth estate), ritenuto “più importante” dei tre
ordini di potere tradizionali (gli “stati”, rispettivamente formati dalla nobiltà, dal clero e dai “comuni”) presenti in via ufficiale nel parlamento britannico. Si tratta di una visione che inserisce la stampa tra
i pesi e contrappesi di una democrazia rappresentativa, esaltandone la funzione politica svolta nell’interesse della collettività secondo modalità “informali”, parallele ai tradizionali canali istituzionali di
natura ufficiale. Questo ordine di idee ha mantenuto
una grande carica di attualità anche due secoli dopo
il tramonto dei tre “stati” presenti in parlamento e la
compiuta affermazione del principio di separazione
dei poteri.
L’idea del “dominio dell’opinione pubblica” e
del suo controllo permanente sull’esercizio del potere politico grazie alla libertà di stampa, come la sottostante fiducia del pensiero liberale nella proprietà
privata degli organi di informazione come garanzia
contro le ingerenze del potere pubblico, hanno però
dovuto fare i conti con un mutamento di struttura
del sistema dei mass media che ha condotto alla formazione di un oligopolio di centri di potere sociale
funzionali alla fabbricazione del consenso in favore
di interessi privati privilegiati (cfr. Habermas, Storia
e critica dell’opinione pubblica, Bari, 1995, 153 ss.).
È quindi emerso con forza il problema della responsabilità sociale degli organi di informazione
(media accountability), quale presupposto indispensabile per l’effettiva esplicazione del ruolo di controllo sull’operato dei pubblici poteri.
In questa prospettiva, se il ricorso alla pena detentiva appare di regola incompatibile con il “diritto
vivente” formatosi nell’interpretazione dell’art. 10
Cedu, va però segnalato il rischio che l’applicazione
della sola pena pecuniaria conduca a trattare la sanzione penale come un semplice “costo di produzione” dell’informazione (cfr. Giudici, Il caso Belpietro
c. Italia: la pena detentiva per la diffamazione è contraria all’art. 10 CEDU, Diritto Penale Contemporaneo, 26
settembre 2013).
De jure condendo, sembra quindi preferibile la
predisposizione di una più articolata strategia sanzionatoria, che comprenda la sperimentazione di
diverse misure quali le pene prescrittive, ben conosciute in altri ordinamenti nei quali il rapporto tra
mass media e giustizia forma oggetto di una ampia
attenzione da parte dei giuristi e dell’opinione pubblica.
***
Processo equo e diritto dell’arrestato all’assistenza difensiva
(Corte e.d.u., 17 settembre 2013, Fazlı Kaya c. Turchia)
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha accolto il
ricorso presentato da un cittadino turco condannato alla pena di 12 anni e 6 mesi di reclusione per
la sua appartenenza ad una organizzazione illegale; l’istante lamentava la violazione dell’art. 6 della
Convenzione allegando, segnatamente, di non avere avuto accesso ad un difensore durante il periodo
di custodia cautelare, nel quale era stato, peraltro,
sottoposto a diversi interrogatori, negando sempre
la propria responsabilità.
Il governo turco, invece, sosteneva che le restrizioni imposte al diritto di accesso al difensore da
parte del ricorrente durante il periodo di custodia
non avevano violato il suo diritto ad un “processo
equo”.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha rilevato che le restrizioni imposte al diritto all’assistenza
legale avevano natura sistemica e si applicavano a
tutte le persone tenute in custodia cautelare in connessione con un reato rientrante nella competenza
delle Corti per la Sicurezza dello Stato. Si è pertanto
ravvisata una violazione dell’art. 6 §3 lett. c), Cedu
in collegamento con l’art. 6 §1.
È stato, così, riaffermato l’orientamento già
espresso dalla Corte di Strasburgo in alcune precedenti pronunce aventi ad oggetto casi analoghi
(Corte e.d.u., 13 ottobre 2009, ric. 7377/03 Daya-
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nan c. Turchia; Corte e.d.u., 27 novembre 2008, ric.
36391/02 Salduz c. Turchia), nei quali sono stati fissati alcuni significativi principi sul diritto dell’accusato ad essere assistito da un difensore di sua scelta,
sancito dall’art. 6 §3 lett. c), Cedu.
La suddetta disposizione, come interpretata dalla
Corte europea dei diritti dell’uomo, richiede di norma che l’indagato possa beneficiare dell’assistenza
del difensore sin dai primi momenti degli interrogatori di polizia. Tale diritto può essere compresso
soltanto eccezionalmente, in presenza di ragioni imperative. Ma in ogni caso, le restrizioni, benché giustificate, non devono pregiudicare indebitamente i
diritti dell’accusato. Un simile pregiudizio si verifica in modo irrimediabile quando le dichiarazioni incriminanti fatte durante un interrogatorio di polizia
senza assistenza difensiva sono utilizzate per fondare la condanna (Corte e.d.u., 27 novembre 2008,
Salduz c. Turchia, cit.). Allo stesso modo, quando il
silenzio mantenuto dall’interrogato possa poi essere
valutato sfavorevolmente del giudice, il diniego di
prendere contatto con un avvocato determina una
lesione del principio del “processo equo” (Corte
e.d.u., 8 febbraio 1996, John Murray c. Regno Unito).
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha
progressivamente fornito una lettura particolarmente rigorosa dall’art. 6 §3 lett. c), Cedu, con riferimento alla individuazione del momento in cui sorge il diritto all’assistenza difensiva e alla legittimità
delle restrizioni dei contatti tra l’accusato detenuto
e il difensore, giungendo, infine, ad escludere che la
mancanza di assistenza difensiva durante le prime
fasi degli interrogatori di polizia possa essere “compensata” dalla possibilità di contestare le iniziali dichiarazioni nella successiva fase dibattimentale.
Alla base di questo orientamento vi è la considerazione della necessità della protezione dell’accusato contro coercizioni abusive da parte delle au-
torità, anche al fine di evitare errori giudiziari e di
garantire la “parità delle armi tra accusa e difesa”,
nonché la sottolineatura dell’importanza assunta dalla fase investigativa per la preparazione del
procedimento penale (dato che le prove raccolte in
questa fase determinano il quadro in cui il reato
verrà preso in considerazione nel corso del giudizio). Si ritiene quindi che la situazione di vulnerabilità in cui si trova l’imputato nella fase investigativa - il cui effetto è amplificato dalla crescente
complessità della normativa processuale penale segnatamente con riguardo all’introduzione e all’utilizzazione della prova - possa essere compensata
in maniera adeguata, nella maggioranza dei casi,
soltanto dall’assistenza di un legale, avente, tra
l’altro, il compito di assicurare il rispetto del diritto
di non autoincriminarsi (Corte e.d.u., 27 novembre
2008, Salduz c. Turchia, cit.).
La Corte di Strasburgo ha altresì riconosciuto che
l’imputato in stato di custodia cautelare deve poter
beneficiare dell’assistenza del difensore indipendentemente dagli interrogatori cui potrebbe essere
sottoposto, ed ha specificato che la discussione del
caso, l’organizzazione della difesa, la ricerca di prove favorevoli, la preparazione degli interrogatori,
il sostegno dell’imputato in difficoltà e il controllo
sulle condizioni di detenzione sono elementi fondamentali della difesa che l’avvocato deve poter
liberamente esercitare (Corte e.d.u., 2 marzo 2010,
Adamkiewicz c. Polonia).
Si evidenzia comunque che l’imputato è libero
di rinunziare consapevolmente all’assistenza del difensore, a condizione che tale rinuncia sia inequivoca ed assistita da garanzie sufficienti (come la circostanza che la polizia abbia espressamente avvertito
l’accusato della possibilità di essere assistito da un
legale; cfr. Corte e.d.u., 23 febbraio 2010, Yoldaş c.
Turchia).