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Lisa Ginzburg
Per amore
Marsilio
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PER AMORE
© 2016 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Prima edizione: marzo 2016
ISBN 978-88-317-2374-9
www.marsilioeditori.it
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ad Amparo
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Voci
immaginarie e caramente amate
di quelli che son morti, o di coloro
per noi perduti come i morti.
A volte ci parlano nei nostri sogni;
a volte la mente li ascolta nel pensiero.
E per un attimo con la loro eco, altri echi
tornano dal primo poema delle nostre vite
come musica che lontana svanisce nella notte.
konstantinos kavafis,
Φωνεεʹ ς
In fondo, le nostre vite sono i nostri morti.
jesmyn ward,
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Men We Reaped
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Prologo
Il dolore è fuoco, brucia. Il dolore è acqua, scivola. Il
dolore non si ferma.
Era un maestro, Ramos. Nei gesti e le parole del lavoro,
per l’energia e l’intensità che sapeva dare alla vita: la sua, e
quella di chi gli era vicino. Gioie, difficoltà, passioni, calcoli, bassezze: tutto dava l’impressione di dominare. Una
prima volta lo aveva visto danzare in Inghilterra, a Birmingham. Si trovava lì sola (senza Agnès) per i sopralluoghi di un documentario commissionato da Tv 5 Monde.
Ramos era sul palco del Teatro di cui era direttore John
Barry. Con i suoi allievi, una ventina tra ragazzi e ragazze,
coreografava gli Orixás. Il fuoco di Ogum e Iansã, la terra
di Oxossi e Xangô, l’acqua di Oxum e Iemanjá, il vento e
l’arcobaleno di Oxumaré. Architetture dei corpi: coreografie di pura bellezza, nelle quali ogni condizione dello
spirito – dolore, allegria, collera, emozione – sembrava poter esistere insieme, e fluire.
Le danze omaggiavano divinità dell’Africa rielaborate
dalla cultura brasiliana. Figure del corpo a imbrigliare
energie della natura, quelle stesse che in Brasile predominano sugli umani, li schiacciano con la loro forza. Lei pure
quando avrebbe vissuto là se ne sarebbe sentita sovrastata.
Ramos mai: lui nella sua terra, anche quando più gli even13
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ti rotolavano eccessivi, incontrollati, sempre sapeva come
muoversi. Proteggere, sé e tutti. La famiglia numerosa.
Lei. Gli allievi, visitatori incauti nel maneggiare un mondo
ad alta temperatura, sempre a rischio di infiammazione.
Europei smarriti in quel tripudio di vita, trascinati dall’entusiasmo contagioso di Ramos.
Il dolore è fuoco, brucia. Il dolore è acqua, scivola. Il
dolore non si ferma. Le palpebre si chiudono pesanti, e
sotto le palpebre, nel buio, un mondo intero. Dieci anni di
immagini non cessano di scorrere. Nessuna voce basterà.
Né proposito, né sfida. Dire per vivere. Poter comunicare:
«È accaduto, è stato questo. Mio marito è morto ammazzato, nel nostro letto, perché...» Dare parole a qualcosa di
così atroce da enunciare. Non trova il modo, lei. Solo ogni
tanto ha l’impressione di sì, ma è giusto un momento.
Tacere unicamente avrebbe curato – a lungo ha sentito
così. Offesa e perdono, ferita e pietà: quale voce mai a
contenere lo sgomento, medicare lo sconquasso del dolore? Soltanto il silenzio agisce. Vi risuona un’eco che tuttavia lei non avverte subito. Soltanto due mesi dopo il fatto,
per l’esattezza. «Se saprai, quando saprai, sarà come lui
morisse due volte» le ha predetto Virginia, sua sorella. Alba d’estate, in Italia – nella grande casa di campagna nel
sud, lì dove si è svolta l’incantata infanzia di Virginia e sua.
Dalle fessure delle persiane filtra la luce già calda del primo sole. Risveglio ansioso, come tutti gli ultimi sessanta. Il
primo gesto (meccanico, sempre lo stesso) è consultare la
posta sull’iPhone. L’e-mail arriva dal Brasile, in allegato lo
scanner di un trafiletto di giornale che lei scorre velocissima. Trenta righe riportano i fatti: una storia come in cronaca nera può accadere di leggerne.
È come le aveva predetto sua sorella. Per lei, Ramos in
quell’alba muore una seconda volta.
Prima parte
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Segni, 1
La trasformazione fisica che era avvenuta in Ramos
nel corso degli ultimi due anni, dopo la sua morte lei la
vede con chiarezza nelle foto. Il dolore snebbia, non ammette miopie. Ora riesce a osservare con distacco. Del
resto le viene naturale: la fatica è casomai vincere lo sconcerto e un’istintiva repulsione, davanti a quei ritratti. Il
viso di lui imbolsito, lo sguardo sfuggente – vi fluttua un
segreto che lo assorbe e lo inquieta. Davvero è quell’uomo, il suo grande amore? Da quegli stessi occhi, duri,
spersi, lei per anni si è sentita guardata nel profondo,
spogliata, compresa, presa?
Era ingrassato negli ultimi tempi. Lei si preoccupava:
il gonfiore dello stomaco di lui comunicava qualcosa di
insano. Prima che coreografo, Ramos era stato danzatore. La sua arte, tutto il suo lavoro disponevano del corpo,
per esprimersi. Aumentare di peso non era effetto di
semplice trascuratezza. Piuttosto, segno esteriore di un
cambiamento più profondo, un disagio trattenuto e che
premeva, si ingolfava pur di non esplodere. Come può
accadere? Che si sbiadisca il fascino magnetico di qualcuno che sempre, a tutti, ha dato l’impressione di vivere
in grande armonia con se stesso? Come dal di dentro un
tarlo può incominciare a rodere una vita? Cosa accade
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perché una persona si celi, vada a rimpiattarsi tra le pieghe di un grumo segreto, lì da dove potrà nascondere i
propri tormenti; e da quel punto, fuggendo ogni sguardo, sprofondi in un buio.
Avvisaglie. Una notte d’inverno, in un taxi che dall’aeroporto li conduce a Parigi. Si sono appena ritrovati, dopo
due lunghi mesi trascorsi lontani. Tra i baci, e un’emozione che poco sa contenere, lei si accorge di quanto Ramos
appaia ringiovanito. I capelli tinti di un nero troppo intenso, le trecce rasta inanellate in modo perfetto, la pelle scurissima più che mai liscia, setosa; l’aria malandrina (non
più gli occhi arrossati dalla fatica delle troppe rotte aeree,
quella profondità fatta di esperienza di cui dieci anni prima s’era innamorata). Che succede? – per un attimo la
domanda le balena nella mente. L’intuito tutto ha compreso, veduto. Dirsi quanto quel giovanilismo di lui la insospettisca, e non le piaccia, lei tuttavia non può. Non ne ha
il coraggio. La minaccia è già lì, in mezzo a loro. Lei ostinata guarda avanti, la tangenziale che li trasborda verso le
mille luci della città. È arrivato finalmente, Ramos: è con
lei. Bando ai pensieri.
Il filo di una perfetta sintonia immaginaria da tempo li
lega, tesse la sua tela rassicurante e inconsistente – l’ordito
del loro amore a distanza. Quattordici anni di andirivieni
con l’Europa sono tanti. Ramos si è stancato. È tornato a
vivere in Brasile. Si è ricongiunto alle sue radici che tanto
gli mancavano. Nello sceglierle, di fatto ha divorziato da
lei. L’argomento (ricattatorio) è sempre lo stesso: «Se mi
ami vieni qui, a vivere con me. Preferisci rimanere in Europa? Fallo pure, da sola però: io posso venire ogni tanto,
trattenermi per dei periodi. Starci sempre no, è escluso.
Basta! già ci ho vissuto abbastanza.»
L’Europa è stata per Ramos fonte di delusione, ora anche di esasperazione. «Non mi ha dato niente. Niente. E io
che volevo costruire, qui...» L’Europa, è vero, è peggiora18
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ta. Sempre più in crisi, e chiusa, razzista. Quando va a
prenderlo negli aeroporti e sta ad aspettarlo nelle hall degli arrivi, molte volte è in apprensione per lui. Teme che lo
controllino, che qualcosa possa essergli spiacevole, ostile.
Anni prima, all’aeroporto di Heathrow, Ramos è stato perquisito da capo a piedi, spogliato nudo, interrogato per
più di un’ora. Sospettavano avesse droga nella bottiglietta
di uno shampoo. Era avversione invece: verso la sua pelle
nera, i capelli rasta. Rabbia di fronte alla sua bellezza, eleganza, imperturbabilità. In seguito a quella perquisizione
inaudita, silenzioso il risentimento in Ramos ha incominciato a crescere. A lievitare, tanto quanto in lei il desiderio
di proteggere lui. Difenderlo dall’ignoranza del mondo,
prevenendone i possibili colpi.
Che amarsi troppo spesso da lontano avrebbe nel tempo
costituito una minaccia per la loro relazione, prima lei se lo
sentiva dire dagli altri. Adesso lo capisce da sola (quello sì,
è capace di vederlo con chiarezza). Ai commentari degli
estranei replica sicura, abile ogni volta a consolarsi, ricondurre il dispiacere alla salda ancora dell’illusione. Pillole di
romantica saggezza: «Se sono solidi, sinceri» – replica assertoria ai noiosi ficcanaso – «i sentimenti resistono a qualsiasi
genere di ostacolo, lontananza compresa.» Si appiglia ai
proverbi ascoltati nell’infanzia, quelli che sua nonna ripeteva a lei e Virginia quando andavano a farle visita, a Bitonto.
«Non: Lontano dagli occhi, lontano dal cuore» argomenta,
«piuttosto: La lontananza è come il vento, spegne i fuochi
piccoli e accende quelli grandi.» Donna dal cuore antico, lei.
Tuttavia moderna, e con se stessa onesta abbastanza, da sapere che un amore lontano le si addice. Lascia spazio per
godere di una solitudine alla quale è ormai abituata. Agio di
nutrire con la forza dei pensieri il graduale approfondirsi
dei sentimenti: respiro di coltivarli nella distanza.
Nei primi tempi dopo il loro incontro, con l’aiuto di un
dizionario tascabile, compone versi in una lingua semi-­
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inventata. È emozionata quando preme sul computer il tasto
“invio” per mandarli a Ramos:
Você sente quando meu passo dança na rua
O amor pela vida é desejo de você
A liberdade do caminho é respeito do tuo
As mil lembranças dessa cidade se misturam
Com a felicidade da tua terra spaciosa?
Eu não sei si você tem tempo e paciencia para sentir,
Mais si tem, sente.
piccoli denti aguzzi che intanto le serrano il polpaccio.
L’ha morsa un cane randagio. La ferita non è larga ma profonda, schizzi di sangue le macchiano l’abito bianco. Di
andare in ospedale per il richiamo dell’antitetanica neppure le viene in mente, sbilanciata com’è sulla vita di Ramos.
Passano molti mesi prima che la lesione si rimargini – lasciando sulla pelle la traccia chiara di una cicatrice che rimarrà indelebile, severo monito a non dimenticarsi di sé.
Il cane nell’iconografia yoruba è strumento di Omolú, il
guaritore. Quel cane s’era portato via ogni veleno, lei aveva pensato. O invece: lo aveva iniettato in lei.
Ramos anche lui in quella dimensione di continua lontananza sembra a suo agio. Legarsi a lei è per lui un cambiamento radicale – possibilità di lasciarsi alle spalle anni
stancanti e ambigui, il cui fardello gli pesa. Sceglierla però
non può fino in fondo. È più forte di lui. Tutto, è più forte
di lui. Un mese prima della fine, la chiama svegliandola in
mezzo alla notte. «Io ti amo» dice: e subito riaggancia. C’è
un’eco triste nella grana della voce (era chissà, una richiesta d’aiuto – lei ricorda di averlo pensato confusamente
prima di cercare, e subito ritrovare, il sonno). Quante volte è successo, nel corso degli anni, che le telefoni a ore
impossibili, ansioso, un po’ farneticante. Un’agitazione
dovuta alle troppe rotte transcontinentali che il lavoro gli
impone. Lasciare il Brasile lo rattrista, e quando si avvicina
il momento di ripartire viene preso da un isterismo, come
una febbre. In concomitanza di una di quelle partenze,
una notte persino piange. In piedi, il viso nascosto nel
braccio piegato, contro un muro sul retro del locale dove
sino a quel momento sono stati a bere in compagnia di
conoscenti – la notte tropicale che calda, odorosa avvolge
tutto. Lei dietro, a consolarlo, lunghe carezze sulla schiena, parole sussurrate. Lo vede in lacrime per la prima volta (una seconda sarà al funerale del fratello Jailson: altrimenti mai). Impegnata a dargli conforto, non s’accorge di
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Piscina
Immersa nel buio della notte, una piscina. Spicchio di
luna nuova (capovolto, come è ai tropici) in mezzo al cielo.
Palme, nell’oscurità; intorno, alti alberi di mango. Sul prato che è all’ingresso della residenza, un arbusto di acerola
affiancato da due piante di cajù – dei frutti, gialli e asprigni, lei adora i noccioli che essiccati e salati sono venduti
dai ragazzini nei vicoli del centro storico o in riva al mare.
La chácara (residenza) è grande: un salone, quattro bagni, tre stanze affacciate su un lungo corridoio, un’altra
camera più piccola dietro la cucina. A bordo piscina un
loggiato con un lungo tavolo, e un angolo bar provvisto di
bancone. Due stanzette maiolicate adibite per quella che è
stata una sauna. Una veranda sorretta da piloni in cemento
in uno dei quali, incastonato, c’è il vano cottura per grigliare carne e pesce. Prati: uno all’ingresso, che funziona
da parcheggio, un secondo adibito a campo di calcio, un
terzo più incolto, dominato da un gigantesco banano che
costeggia il muro di cinta.
C’è tutto, di un sogno. Quell’enorme casa è loro, hanno
potuto comprarla grazie a un’eredità che a lei spettava e ha
chiesto in anticipo a sua madre – subito d’accordo, considerata l’occasione unica (costata poco, la favolosa chácara).
Per arredarla hanno il futuro. Ancora increduli si aggirano
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tra le stanze e il giardino, di continuo fermandosi a baciarsi. Gioia euforica, che prestissimo si offusca. Altro che immobile: quel bene si muove, smuove. Fa tremare fondamenta che né lei né Ramos credevano tanto fragili e invece, ecco: basta la chácara e (quasi) tutto salta. Per lei, educata secondo il principio che il denaro e quanto esso può
dare altro non sono che un mezzo, da non enfatizzare né
di cui abusare mai, il nuovo possesso è felicità relativa.
Dono di una bella forma da riempire – imperativa responsabilità – del miglior contenuto. Per Ramos è diverso: ritrovarsi proprietario di una chácara (residenza medio-ricca
e prestigiosa, secondo gli standard brasiliani) segna un salto sociale smisurato. Nuovo assetto molto più che esteriore: inedita condizione di vita che lo esalta e lo spaventa
insieme. Godere del lusso di quella casa significa per lui
confrontarsi con il proprio materialismo – un attaccamento alle “cose” in totale contraddizione con altri suoi valori.
Tra l’altro, il nervosismo di Ramos nasconde l’amarezza
che quel dissidio interiore gli procura.
Molti i litigi, nei mesi che seguono l’acquisto della
chácara. Conflitti pieni di passione, poi placati da riconciliazioni ardenti. Scontri che lei dentro sé fa capriole per
considerare beneauguranti, sebbene tanto faticosi da gestire. Quella crisi li farà evolvere verso nuove e più profonde intese, si ripete. Il pensiero di avere commesso un grave
errore comprando la chácara la sfiora, a tratti. Ma è il tempo della costruzione dell’amore. La vita guarda al futuro,
lei guarda oltre. Paladina dell’incanto: volutamente sorda
a quanto chiaro le parlino, certe percezioni.
Sul bordo della piscina inscenano una sfilata di moda.
Le modelle sono le nipotine di Ramos, sei ragazzine preadolescenti, tutte tra gli otto e i dodici anni. Come vere indossatrici, avanzano ancheggiando lungo i lati della vasca
rettangolare maiolicata; Ramos coreografa le loro “entrate” e “uscite”. Lei con una piccola telecamera filma. La
notte è calda, i vestiti frusciano con rumore. Sono tagli di
tessuti dozzinali di un oro plastificato, cangiante; lo stesso
però abiti sontuosi agli occhi delle ragazzine – l’eco delle
loro risate felici tintinna sulla superficie dell’acqua scura.
Una notte bellissima. L’amore con Ramos è sì una strada in
salita, irta di ostacoli: ma così larga, e chiara – indubitabile, lei pensa. E loro, complici. Adora quando accade. Come adesso, mentre ridono, allegri della stessa gioia che
stanno regalando alle ragazzine.
Condividere quel genere di intimità con Ramos è un privilegio. Poter conoscere un aspetto della sua vita tanto diverso dall’immagine mostrata al mondo sebbene l’autenticità e umanità di quest’altro lato siano la vera linfa, lei lo ha
capito, della figura pubblica di Ramos. Perché molto del
suo carisma attinge forza dalle situazioni più “reali” che il
Brasile gli permette di vivere. È lui il primo a riconoscerlo:
a sapere quanto la sua energia vitale (il suo Axé) sia figlia del
tempo passato insieme a bambini, ragazzini, alla gente umile di Pedra Forte, il suo bairro. Quando non viaggia in Europa, e torna a casa, è in quei mondi che Ramos corre a rifugiarsi. Per matar a saudade (ammazzare la nostalgia), trascorre i giorni e le notti a bere, chiacchierare, ridere con
tutti. Vagabonda in macchina per la città con vecchie conoscenze e compagni d’occasione. Non dorme, non mangia
quasi. Ama quei ritmi di un amore forsennato, senza filtri.
«Questa, questa e nessun’altra è la vera vita» le dice in una
notte d’estate, le luci delle case di Pedra Forte che li circondano tutt’intorno come si trovassero nel mezzo di un presepe. Se usasse una forma di ascolto più attenta, sottile abbastanza da farle considerare le cose con la lucidità che l’innamoramento le sottrae, già allora lei saprebbe. Quanta “vera”
vita li separa – compresa quella che lo farà morire.
A fatica lasciato fuori quel mondo di cui Ramos tanto
era affamato, e che a sua volta vorace lo reclamava per sé,
la loro unione trovava finalmente modo di esistere, forte
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di complicità che alle loro nature affini non era troppo
difficile, ogni volta, ristabilire. Una primavera in Italia, a
Padova: Ramos deve tenere un seminario e lei lo ha seguito, per fargli da interprete e trascorrere tutto il tempo
(strappato) possibile insieme a lui. Organizzato da un importante centro di medicina psichiatrica alternativa, il
workshop è destinato a ragazzi handicappati. Sfida professionale che Ramos affronta per la prima volta, dunque
molto teso. Le cose invece vanno subito bene. Grazie al
suo entusiasmo, alla simpatia travolgente, basta un’ora di
lavoro e già ha vinto la diffidenza e i timori dei ragazzi
cerebrolesi – se li è fatti amici. Seduta in terra in un angolo
della grande palestra, quando non è impegnata a tradurre
lei osserva: i ragazzi prodursi in grida stridule, espressione
di divertimento tanto quanto dell’impotenza che li blocca
nello sforzo di seguire i movimenti liberi delle danze di
Ramos. Paziente lui resta ad aspettarli, dietro il tono scherzoso invece attento a notare ogni dettaglio, la tenuta del
gruppo, gli sforzi di ciascuno. Il laboratorio prosegue per
tre giorni: quattr’ore ogni mattina, così dense che il resto
del tempo è occupato dal recuperare energie per il giorno
successivo. Terminato il seminario, durante il viaggio verso Milano stanno in silenzio, stravolti dall’emozione per
quel che hanno appena finito di vivere. Varcato l’ingresso
dell’Ibis Hotel di fronte all’aeroporto di Orio al Serio (ripartiranno la mattina dopo, lei per Parigi, lui per il Brasile), corrono a chiudersi in camera. La luce della lunga sera
estiva è ancora chiara quando vestiti, digiuni, esausti, nelle
orecchie l’eco delle grida dei ragazzi handicappati, si addormentano. Uniti da un’esperienza che supera per intensità qualsiasi altra vissuta insieme, prima e dopo allora.
palma e plana poco più in là, su un mango. Il salone ha
cinque finestre e due portefinestre: la luce del mattino entra
a profusione, si posa sui mobili, v’irradia il riflesso dell’acqua della piscina come potrebbe un prisma di caleidoscopio. Tutto è prospero; un’abbondanza da cui lei si sente
colmata, stordita quasi. Pensa alla sua casetta sulla rue Durantin, a Parigi; alla routine frenetica anche se priva di veri
sussulti delle sue giornate. Ritmi di vita che da lontano le
risultano monotoni, anche assurdi, ma dei quali ha nostalgia
– gliene mancano il rigore, il contenimento. Vicino alla
chácara, a un chilometro nemmeno, c’è il mare. È l’oceano:
non caldo, mai completamente amico, lambisce con onde
lunghe e irregolari la costa punteggiata di palme e barracas
de praia (i bar sulla spiaggia dove si fa sosta per bere e spilluzzicare piattini di frutti di mare). Migliaia di miglia lontano, l’Africa. Basta puntare lo sguardo per pochi minuti verso quella linea d’orizzonte, e già i polmoni sono dilatati, i
pensieri più spaziosi. Mattine che hanno sapore di paradiso
– vi si annida l’inganno, la malia di un paradiso.
Quanto aveva creduto, lei, a quell’incanto. Come tutto
per un tempo le era parso meraviglioso, possibile. Aveva
amato la luce accecante del cielo d’estate, l’allegria della
gente, l’Axé di ogni situazione. I piccoli supermercati impregnati dei profumi della frutta mescolati all’odore forte
della carne. E l’inspiegabile sensazione di familiarità che
l’afferrava: come la sua terra fosse sempre stata quella, diecimila chilometri lontano dall’Europa – dall’Italia, suo paese d’origine, dalla Francia, paese dove aveva scelto di vivere.
Sentirsi a casa invece in quella luce d’oro, la vita che intorno
esplode fragorosa – dominata dalla natura tanto da perdervisi, come e sino a che punto lei ancora non può sapere.
Buganvillea di un rosa fucsia esaltato dalla luce del sole
tropicale. Sugli alberi, uccellini cantano. Hanno becchi lunghi e piume gialle, blu, verdissime. Uno si stacca da una
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Indice
Prologo
15Prima parte
17 Segni, 1
23Piscina
29Sbronze
35 Rue de Dunkerque
41Jailson
49Helena
59Partire
67 Pedra Forte
79 Jules Joffrin
83 Loro, 1
89Jereré
95Promesse
101Seconda parte
103Viaggi
109Liberarsi
113Costumi
117Desdemona
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121 Loro, 2
125Lempana
135Pesci
139 Loro, 3
143Bivi
147 São Damião
155 Gare du Nord
161Neve
167 Segni, 2
171 Sabato, notte
181L’alba
189 Diecimila chilometri
193Tua boca, rosa agreste
197Poi
Ringraziamenti
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