64. Il Novecento (10)

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64. Il Novecento (10)
Blitz nell’arte figurativa
64. Il Novecento (10)
L’autentico movimento culturale di rottura con il passato è il Dadaismo. Esso fu fondato nel 1916 a
Zurigo, nella neutrale Svizzera. Tristan Tzara, il suo fondatore, affermava che per molti intellettuali
la Svizzera era una sorta di prigione da cui non si poteva uscire, pena il coinvolgimento nel
conflitto mondiale in atto, la prima guerra mondiale. Come risvolto, però, va detto che questa
presunta prigionia era anche un comodo punto di osservazione e di riflessione sulla crisi per molti
versi inaspettata della civiltà occidentale. Rimanere in Svizzera consentiva valutazioni in qualche
modo serene e reazioni impunibili. Per tutto questo i Dadaisti poterono lasciarsi andare a
espressioni feroci ne confronti del sistema e a minarne i pilastri con fredda determinazione.
Tzara e compagni si portavano appresso la rabbia comune per la tragedia in corso, ma essi, ben
protetti, la recepivano più in senso accademico che realistico. La loro protesta per quanto avveniva
si concentrò sulla delusione per il fallimento civile del sistema, prontamente deriso e umiliato
attraverso ironie grossolane e sarcasmi spietati. Il ragionamento era questo: la cultura che
rappresentava il sistema non era stata capace di evitare il disastro, dunque non era una cultura
valida. Essa andava combattuta con tutti i mezzi. Prima cosa, la distruzione dell’arte perché parte
essenziale della formazione culturale. Quella della rivoluzione industriale altro non era, agli occhi
dei Dadaisti, che un falso puntellato dall’estetica. Quest’ultima era un’eredita rinascimentale
saccheggiata senza ritegno, sempre secondo loro. Tutte queste prese di posizione denunciano una
forte attenzione da parte dei Dadaisti verso le lamentele delle avanguardie, riferite alla mancanza
di rispetto del sistema nei confronti del sentimento. La deficienza è sicuramente responsabile di
soli comportamenti materialistici primordiali. I Dadaisti ne fanno una questione di principio, spinti,
nella loro crociata, dalla dimostrazione di un fallimento clamoroso da parte della civiltà industriale,
la guerra, appunto. Esiste un certo legame fra loro e i Futuristi, nel senso che l’elemento goliardico
di partenza è lo stesso. La differenza fra i due movimenti è dato principalmente da due cose: il
diverso clima culturale (i Futuristi cavalcavano l’euforia della Belle Epoque, mentre i Dadaisti
s’ispiravano allo smacco, supposto, per la fine – non sarà così, seguirà vent’anni dopo una guerra
anche peggiore – del mito della macchina. La seconda cosa è la portata culturale del Futurismo, di
fatto un fenomeno provinciale, rispetto al Dadaismo, dalle radici più solide e internazionali. La
ormai scarsa attenzione verso l’Italia da oltre secolo, e cioè dal Neoclassicismo, è causa del
provincialismo italiano e dei suoi intellettuali, eccellenze a parte, di scarso respiro internazionale.
L’Italia nell’Ottocento si chiuse in se stessa, preda di un conservatorismo spesso ottuso, comunque
asfittico. Parigi era divenuta il centro dell’arte e della cultura europea: qui giungevano gli artisti da
ogni dove, si scambiavano esperienze e favorivano la nascita di nuovi stimoli artistici e culturali.
Senza l’Espressionismo (che in Italia giungerà tardi) non sarebbe stato possibile il Dada (Tzara non
voleva la definizione Dadaismo, per distinguersi da tutti gli “ismi” presenti). Senza il Dada, l’arte
non avrebbe avuto gli sviluppi che avrà, permeando di sé sia la ribellione a tutto sia il tentativo di
costruzione di un mondo nuovo, attraverso i mezzi più disparati ma uniti, sostanzialmente, dalla
ferma volontà (purtroppo formale) di premiare le risorse umane più costruttive.
Il Dada (il termine non ha alcun significato) fu costituito nel 1916 principalmente da Tristan Tzara
(Samuel Rosenstock, 1896-1963, poeta e saggista romeno di lingua francese e romena, molto
attivo già a vent’anni) per contestare l’arte precedente. Il manifesto fu rivisto nel 1918 e
aggiornato secondo propositi di fondazione di un’arte nuova. Il Dada dilagò in tutti i rami della
cultura, provando a sconvolgerla dalla base. Vi aderirono molti intellettuali europei e americani
(già nel 1913 l’arte d’avanguardia europea era conosciuta negli USA tramite l’esposizione
denominata “Armory Show a New York presso l’armeria del 69simo reggimento). Mentre il
Futurismo derideva il vecchio e imponeva un nuovo muscolare, il Dada distruggeva il prima e
l’attuale – quindi era contro tutte le avanguardie in quanto compromesse con il sistema maggiore
– per aprirsi a un futuro più coraggioso. Tzara portò avanti un programma ambizioso e complesso,
non ben approfondito, che partiva da una reazione fisica per approdare a un‘esaltazione
intellettuale, perché i Dadaisti contavano su risorse razionali da recuperare e da adottare per la
crescita di una migliore umanità. L’operazione era incoraggiata dalle scoperte freudiane, specie
quelle consistenti nella valorizzazione dell’inconscio. Era come dire che l’uomo si era evoluto
appoggiandosi solo alle necessità immediate, trascurando ed emarginando la più ampia
composizione della sua personalità, la cui presa in consegna avrebbe sicuramente migliorato la
gestione delle necessità. Tzara, non si basava su un programma catartico ben articolato, bensì sulla
fiducia in se stesso, corroborata dalla rivoluzione russa, portatrice di cambiamenti epocali, anche
se con strutture fragili che diverranno chiare molto dopo. La prima fase dadaista è fatta di sola
contestazione. Per formularla meglio, subentrò, in modo subitaneo, la provocazione. Quest’ultima
è il primo mattone della catarsi.
Tzara, distruttore per natura e per età, si ritrovò nei panni del ricostruttore con elementi non
abituali. Il vecchio andava demolito interamente, gettando anche i detriti. La ricostruzione
riguardava, dunque, persino gli strumenti. Immaginiamo una banda licenziata con annullamento
anche di chitarre e mandolini. Pensiamo a una banda nuova con strumenti nuovi, tutti da
inventare e da costruire: sta qui la grandezza e la piccolezza del Dadaismo. Ovvero, la grandezza
sta nel licenziamento della banda, la piccolezza nell’invenzione di strumenti, mai visti prima, e
nella creazione umano-divina dei suonatori. Essendo la crociata dadaista scatenata dalla facile
contestazione del sistema – la guerra mondiale era sotto gli occhi di tutti – ne derivò un corollario
di considerazioni e di opinioni più sorprese per l’impegno richiesto a margine che sviluppate
adeguatamente. Le avanguardie avevano comunque inciso nel pensiero dadaista: la caratteristica
muscolare, fisica, dei loro comportamenti era del resto la conseguenza della fisicità del sistema,
alla quale, pur contestandola, nessuna avanguardia s’era sottratta, usando, alla fine, lo stesso
linguaggio superficiale. Il Dada enfatizza questo linguaggio, trascurando, in buona parte, i
suggerimenti intellettuali derivati da una preoccupazione culturale di fondo che fatica a emergere
(o non emerge affatto) per un timore, non confessato, d’impreparazione sostanziale al
cambiamento di modello culturale. Tzara sa distruggere (cosa peraltro non difficile) ma non è
attrezzato per una ricostruzione originale. I Dadaisti percorreranno soprattutto la prima strada, la
seconda sarà lasciata all’improvvisazione, non assunta, peraltro, con senso di responsabilità. Il
fenomeno Dada, padre di tutta l’arte successiva, vivrà una vita intensa di pochi anni (otto per
l’esattezza, sino allo scioglimento avvenuto a Parigi nel 1924), risultando efficace attraverso
periodici, recite teatrali, mostre presso gallerie, fra cui quella, spettacolare, di Alfred Stieglitz a
New York. Si svilupperà dopo la fine della guerra, con il ritorno in patria degli artisti riparati a
Zurigo durante la stessa e gli scambi fra loro e alcune altre avanguardie, come l’Espressionismo
con il quale si mescolerà dando vita, fra il molto altro, al Surrealismo. I primi compagni di Tzara
furono Hans Arp, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck, Hans Richter, Sophie Taüber, Hugo Ball
(fondatore e animatore del Cafè Voltaire). A essi se ne aggiungeranno molti altri, direttamente e
indirettamente, provenienti da altre esperienze artistiche, successivamente evoluti in altro modo.
Il Dadaismo fu comunque uno stimolo molto importante nell’indagine della personalità dell’uomo,
sebbene per lo più come conseguenza di una presa di posizione determinata da una causa storica,
più che per una scelta di carattere conoscitivo ideale. Quest’ultima, infatti, considerata passatista
con presunzione involontaria ma accettata di buon grado. L’indagine darà vita a considerazioni a
latere, a inviti a riflessioni più approfondite sull’atteggiamento culturale generale fatto di
linguaggio supervalutato rispetto ai risultati culturali effettivi. Il Postmodernismo di Lyotard, testo
del 1979, lo denuncerà fra le righe, dando così vita a tentativi di ravvedimento e di
approfondimento tuttora in atto. Il Dada ebbe, casualmente, il primo vagito a New York a margine
dell’Armory Show del 1913, grazie a Duchamp e a Man Ray. La sua costituzione fu invece opera, in
sostanza, di Tristan Tzara nel febbraio del 1916 a Zurigo. Il fenomeno, finita la Seconda guerra
mondiale, si diffuse specialmente a Berlino, Colonia, Hannover e a Parigi, dove finì nel 1924,
confondendosi, intanto, con il Surrealismo.
Marcel Duchamp (1887-1968), francese nato in Normandia, è uno dei maggiori
rappresentanti dell’arte, meglio dell’espressione artistica o para-tale, del ‘900.
Aveva molta immaginazione ed era tecnicamente molto dotato. La sua personalità
complessa, portata alla ricerca di significati nel pensiero e nel comportamento
umano, partendo da una base di alta considerazione della propria intelligenza, lo
portarono a creazioni del tutto insolite, ricche di sottintesi e di
allusioni poco sostenute da argomentazioni. Duchamp ricorse
spesso all’ermetismo, valutandolo d’acchito un linguaggio esplicito
per menti elette. Del resto, le menti elette rispondevano a quelle responsabili di un
cambiamento epocale nei rapporti con la natura, secondo il mantra dell’epoca, tutti
vincenti o in procinto di esserlo. Duchamp non è certamente uno sprovveduto, sa
bene che molte affermazioni sono ancora da raggiungere, ma prenota, per così
dire, gli esiti fausti attraverso una fenomenologia che lui ritiene assai bene
articolata. Essa consta di cinque punti: primo punto, anno 1912 “Il nudo che scende
le scale”, ovvero un’opera densa di richiami esoterici volutamente indecifrabili e attratta dal
movimento (fase di studio della relazione fra se stessi e la realtà); secondo punto, anno 1915 “La
sposa messa a nudo dai suoi scapoli” (o “Grande Vetro”), vale a dire un intervento nella realtà con
indagine propria: l’artista è alla ricerca di una tesi; terzo punto, anno 1917,
la “Fontana” (il troppo famoso orinatoio, fra i primi ”ready made” (il primo è
forse del 1913, “Ruota di bicicletta”): oggetto comune divenuto privato a
artistico per trasformazione decisa dall’artista: uno sberleffo alla sacralità
dell’arte); quarto punto, anno 1919, Monna Lisa con baffi e pizzetto
(“L.H.O.O.Q.”, gioco di parole che, pronunciate le lettere in francese, danno
adito a una frase del genere “Elle a chaud au cul”, in italiano “Lei è eccitata”); quinto punto, “Etant
donnés” (“Essendo dati”) una installazione di 242,6x177,8x124,5 cm. custodita dal Philadelphia
Museum of Art, di Philadelphia negli Stati Uniti (Duchamp era divenuto
cittadino americano nel 1955 dopo aver superato, grazie a importanti amicizie,
le inchieste del maccartismo sul suo affetto per Marx). “Etant Donnés” costò
vent’anni di duro lavoro (1946-1966) all’insaputa di tutti. Duchamp, ottimo
scacchista, sembrava aver abbandonato l’arte. L’opera è un rebus, quasi
un’ammissione di impotenza nei confronti di un protagonismo assoluto e
un’accettazione della realtà, nella quale indagare è sempre più affascinante. La
ragione vi si smarrisce con piena consapevolezza, lasciandosi prendere da
apprezzamenti minuti, insospettati in fase preventiva. Duchamp qui crea una sorta di iniziazione
alla conoscenza più intima delle cose, non senza nascondere stupore per la scoperta di un fascino
per l’esplorazione che nelle sue mani diventa più sottile di quello convenzionale. L’artista non è
tuttavia esente dal desiderio della messa in scena, spinto infatti dalla propria personalità a sposare
il protagonismo in auge, per quanto esso sia caratterizzato dall’esteriorità, dall’apparenza. Egli si
fa forte di una sbrigatività che reputa vincente, promuovendola profonda in quanto sua. Duchamp
risolve le prime istanze dadaiste con ferocia goliardica. L’invenzione del “ready made”
(un’assurdità fatta passare per trovata arguta) lo dimostra ampiamente. La goliardia evita
l’imbarazzo che a giochi fermi non può sfuggire a una mente acuta come quella di Duchamp. La
Monna Lisa con baffi e pizzetto è la discesa della goliardia verso l’abisso della superficialità,
dimostra che l’impianto dadaista è traballante, che è privo di sostanza. Duchamp sembra
rendersene conto e si ferma. Si ritaglia uno spazio sabbatico, dedicandosi alla sua attività preferita,
quella degli scacchi. Segretamente lavorerà al suo testamento artistico, quell’installazione (madre
di tutte le installazioni), ovvero l’Etant donnés: una porta dietro la quale, visibile da due spioncini,
c’è una costruzione tridimensionale che rappresenta una donna nuda distesa su di un letto di
ramoscelli secchi, con le gambe spalancate a mostrare i genitali: il volto della donna non è visibile,
ma possiamo vedere che con la mano sinistra essa tiene sollevata una lampada ad olio che emette
luce, e dietro di lei si apre un paesaggio forestale montano con in lontananza una cascata
zampillante); un labirinto visivo nel nome di una ricerca oggettiva nettamente in contrasto con la
soggettività predicata dal Dada. In altre parole, la ribellione al sistema che vede l’uomo
soccombere sotto i propri limiti, si trasforma, con Duchamp (nel rispetto dell’ultimo desiderio
Dada), in convivenza critica con il sistema stesso: la critica è radicale e riguarda l’uso degli
strumenti non la loro sostituzione (con che, infatti?). Il timore, per l’artista francese di nascita, è la
critica pretestuosa, pronta a vanificarsi di fronte alla praticità del vivere. Per questo Duchamp
rende la sua opera più importante così misteriosa: perché se indugi il più possibile nell’esaminarla,
volendo che l’opera stessa suggestioni l’attenzione e faccia scatenare nuove interpretazioni
dell’essere presente per preparare quello futuro. Il linguaggio è complicato dai piani concettuali
diversi e intersecanti a fatica, rendendo il messaggio di Duchamp un mezzo fallimento. L’altra metà
è un profluvio di proposte immaginative che danno motivi di attenzione e di riflessione non
convenzionali. Molti in futuro imiteranno il suo estro e i suoi impeti: ne verrà una reiterazione dei
principi distruttivi e ricostruttivi, delle parodie prodighe di personalismi e avare di approfondimenti,
coerentemente con il modello.
L’epitaffio di Man Ray (Emmanuel Radzitsky, 1890-1976), nato a
Filadelfia, negli Stati Uniti, da una famiglia di immigrati russi di
origine ebraica, recita: “Non curante, ma non indifferente”. Si
riferisce alla realtà imprendibile, ma anche alla decisione di non
subirla passivamente. A differenza di Duchamp, Ray va nel vivo della
questione esistenziale, sganciandosi dalle contingenze. Il Dada –
conosciuto agli albori dall’amico Duchamp nel 1915, i due presentati
dal gallerista nuovaiorchese Walter Arensberg – fu utile a Ray per trovare il coraggio di affermare
la propria originalità. Il nostro straordinario personaggio è pittore, scultore, fotografo e regista
cinematografico. Come regista dirigerà alcuni film negli anni Venti, uno con Duchamp nel 1925, di
stampo surrealista. Ray abbandona con rapidità la contestazione dadaista per concentrarsi sui
cambiamenti espressivi della nuova umanità, quella generata dalla macchina
industriale. Per questo adotta principalmente la fotografia, realizzando le prime
immagini fotografiche significative del ‘900. Ray è richiesto come ritrattista dalla
ricca borghesia e dagli intellettuali alla moda. La sua capacità di cogliere le
espressioni del viso e di caratterizzarle, aggiungendovi pizzichi di ironia, per cui ogni
vanità scompare, diventa leggendaria. Le riviste, “Vogue” su tutte, mettono le sue
foto in copertina. A parte, Ray realizza dei “ready made” a modo suo, grazie
all’invenzione (casuale) della “rayografia”, consistente nel porre l’oggetto sulla carta sensibile.
Sembra divertirsi un mondo nel passare da provocazioni Dada (terza foto, un suo “Cadeau”
realizzato, nel tempo, dal 1921 al 1974, in oltre 5000 esemplari: un ferro da stiro in ghisa con 14
chiodi sul fondo che lo rende inservibile) a esperimenti surrealisti (prima foto “Salvador Dalì”, anno
1929; seconda foto “Lacrime”, anno 1930). Colpo d’occhio, fantasia, sguardo penetrante, desiderio
d’irrisione del tutto, disinvoltura, ironia: sono cose che fanno di Man Ray (uomo-raggio,
pseudonimo adottato nel 1912) un acuto e simpatico osservatore della realtà, un osservatore
dotato di mentalità aperta. Uno che guarda usando lenti di propria invenzione, senza darsi arie di
grande inventore. Ray seguì Duchamp a Parigi nel 1920, aderì al Surrealismo nel 1924 (data di
nascita del movimento). Tornò negli Stati Uniti (prima a New York poi a Los Angeles) nel 1940 per
evitare il nazismo. Finita la Seconda guerra mondiale torna a Parigi, continuando a dipingere
(spesso ritoccando le fotografie con l’aeropenna) e a fotografare sino alla morte. La sua tomba è
nel cimitero parigino di Montparnasse.
Il Dada berlinese fu animato, per quanto riguarda l’arte figurativa, in particolar modo da tre
personaggi: Otto Dix, George Grosz e John Heartfield. Berlino, nei primi anni venti, era ricca di
iniziative culturali. Il teatro poteva vantare Ernst Toller, Franz Werfel, Erwin Piscator, Max
Reinhardt, il primo Bertolt Brecht, mentre fervevano le iniziative intorno al nascente cinema grazie
a Fritz Lang e Friedrich Wilhelm Murnau. Questi fermenti culturali erano prodotti da un’ambizione
di rinnovamento civile. Ecco la causa di avvicinamento politico al movimento spartachista di Rosa
Luxemburg e Karl Liebknecht (ostacolato persino da Lenin perché accusato dalla Luxemburg di
falso socialismo), movimento che morì, con i due maggiori sostenitori (assassinati dai Corpi Franchi
Tedeschi), nel gennaio 1919. Fu l’unico – marginalissimo – coinvolgimento politico del Dada,
chiaramente caratterizzato dalla visione di uno spiraglio sociale di nuova concezione e possibile
attuazione, sull’onda della recente rivoluzione russa. Niente più di un sogno romantico e utopistico
che vicende non lontane promettevano di realizzare. Nulla di razionale e determinato: semmai
della simpatia per i due rappresentanti del movimento spartachista, evidentemente in perfetta
buona fede, specie la donna.
Otto Dix (1891-1969) non è un Dada vero e proprio in quanto
ossessionato dalla propria esperienza bellica e orientato a
denunciarne gli orrori, le conseguenze morali. Il suo intervento non
si basa su teorie, bensì sulla pratica, sull’esperienza viva, diretta. Era
stato volontario nella Prima guerra mondiale e aveva vissuto
l’orrore della trincea. Il suo contributo alla causa dadaista è
passionale ed è impastato di delusione profonda per il
comportamento dell’uomo, da lui giudicato negativamente: inutile, ai suoi occhi,
ogni tentativo di ravvedimento. L’uomo è un essere crudele, la civiltà in
discussione, responsabile degli orrori della guerra mondiale, è solo un episodio
della brutalità umana (da qui il suo realismo, la sua espressività denominata
“Nuova oggettività”). Tuttavia, Otto Dix conta sull’evidenziazione della tragedia
attraverso esempi dilanianti, le sue tele, fra le quali campeggiano “Il trittico della
guerra”, terminata nel 1932 dopo anni di esitazioni e i “Sette peccati capitali” del
1933. Immediata e agghiacciante nella ottusità che denuncia è l’acquaforte “La
guerra durante un attacco di gas”, anno 1924. L’artista fu
amico di George Grosz e di John Heartfield con i quali
organizzò una importante mostra Dada a Berlino nel 1920. Seguitò nella
missione demolitoria delle presunzioni umane, senza tuttavia mai rinunciare
alla speranza di un ripensamento da parte del sistema, non per correggere se
stesso quanto per impostare un cambiamento definitivo. Il nazismo umiliò questa speranza: Dix finì
fra gli artisti “degenerati”. Per questo si ritirò sul lago di Costanza e si mise a dipingere paesaggi,
evitando temi sociali. Dopo la Seconda guerra mondiale, per la quale era stato richiamato, finendo
prigioniero dei francesi (che lo rilasciarono nel 1946), il Nostro prese a dipingere allegorie religiose
e, sommessamente, sofferenze dovute alla guerra (alle guerre). Dada è la distruzione,
espressionista è l’amarezza per l’angoscia di non saper ricostruire, un dato di fatto che Dix teme
irrimediabile. Entrambe le posizioni sono esposte con commossa e commovente partecipazione.
Più determinato verso il sistema moderno e quindi convinto del ravvedimento
dell’umanità, appare il berlinese George Grosz (Georg Ehrenfried Gross, 18931959) pittore amante dell’acquerello, il quale nelle sue opere insiste nella
denuncia di una civiltà allo sbando, la solita della macchina. Grosz evidenzia
l’abbruttimento dell’uomo schiacciato dalla produzione industriale, impazzito
dal mito del facile guadagno. Dopo aver studiato a Dresda (soprattutto
Rubens), aver vissuto di caricature, ed essere stato a Parigi,
nel 1913, perdendosi nelle tele di Goya, Daumier, ToulouseLautrec, Grosz si arruolò nella Prima guerra mondiale,
venendo congedato dopo poco tempo per aver contratto uno shock psicologico
da cui non guarì mai del tutto. L’artista si diede all’alcol, che sarà causa della sua
morte: rientrato ubriaco nella sua casa berlinese, anziché entrare dall’ingresso,
per sbaglio cadde in cantina, morendo quasi subito. Da entusiasta della guerra
nella certezza della vittoria tedesca, portatrice di una civiltà superiore, divenne
un pacifista ostinato e feroce: quel che aveva visto nelle
trincee l’aveva convinto che la guerra non era affatto una
cosa da parata, bensì una terribile carneficina, di cui la sua
amata Germania era compartecipe. Nessuna civiltà poteva tollerare un simile
massacro, tanto meno quella avanzata – così egli presumeva – di Berlino. La
sconfitta tedesca fu la fine di un sogno e l’inizio di un incubo per cui il successo
industriale era in realtà un gravissimo regresso civile che Grosz denunciò con
vigore e con amarissima ironia, specie nel suo quadro “Il funerale” (dedicato a
Oskar Panizza, un dissidente, autore di poesie contro il regime, imprigionato in
un ospedale psichiatrico, dove morì: era il 1921; il quadro è del 1917-18). Grosz aveva pescato da
Espressionismo, Cubismo, Futurismo, con Heartfield inventò il fotomontaggio, con Dix animò la
“Nuova Oggettività”, fu comunista, sposò la causa spartachista (fu arrestato per questo); nel 1933
fuggì dalla Germania nazista e sbarcò in America, insegnò a New York e nel 1938 divenne cittadino
statunitense. Riprese a dipingere ispirandosi al Surrealismo, attenuando il precedente livore. Solo
nel 1958 tornò a Berlino. La seconda immagine riguarda “I pilastri della società”, anno 1926. La
terza “Scena in strada a Berlino”, anno 1930.
John Heartfield (Helmut Herzfeld, 1891-1968), era
figlio di una famiglia socialista, piuttosto critica con
la politica tedesca. Il suo spartachismo deriva da
questa eredità, molto più che da vocazione
personale. Il nome del Nostro auto-ribattezzato
all’inglese, dopo una violenta campagna berlinese
antibritannica, non fu mai riconosciuto dal governo
tedesco, ma così egli firmò le sue opere sin dalla fine della guerra (nella quale aveva servito, ma
era stato congedato per problemi di salute). Heartfield è stato, con Grosz e con Hanna Höch,
l’inventore del fotomontaggio che praticò molto più degli altri due indirizzandolo verso concetti
estetici: tanto è vero che l’artista è stato autore di parecchie copertine di riviste, fra cui AIZ, organo
del partito comunista tedesco. Heartfield ebbe grossi problemi con il nazismo. Fuggì prima a Praga,
poi a Londra, dove rimase per vent’anni, collaborando con varie pubblicazioni. Qui vediamo tre suoi
clamorosi fotomontaggi, la prima del 1928, l’ultima del 1943. Heartfield – un patito di Vladimir
Tatlin – prese la tessera del partito comunista, ma non fu mai un attivista diretto. Quando si
afferma che le avanguardie artistiche del ‘900 avevano mire politiche sicuramente si esagera,
prendendo un desiderio di rinnovamento sociale, sollecitato dalla sollevazione russa, per un
tentativo di agire nel sistema. In realtà, e Heartfield lo dimostra bene, l’artista del tempo era quasi
sempre di sinistra perché quest’ultima prometteva un futuro migliore della destra e della
conservazione, ma la sua azione si limitava a richiami vibrati nei confronti di una situazione
indegna dell’umanità, come si evinceva facilmente dalla tragedia della trincea, del gas, dei
massacri. Heartfield, nei suoi fotomontaggi, mostra una indignazione esemplare, di pancia nella
forma e di testa nelle indicazioni. Un Dada impetuoso, sanguigno, acuto nelle osservazioni,
tremendamente efficace (o così sarebbe dovuto essere).
Oskar Kokoschka (1886-1980), nato in un villaggio della Bassa Austria,
può essere definito un poeta dell’Espressionismo pittorico. S’era formato a
fianco di Gustav Klimt all’Accademia delle Belle Arti di Vienna, di cui
apprezzava la fantasia, aveva ammirato le opere barocche e stimato Lovis
Corinth. La sua formazione è comunque di stampo prettamente
secessionista (Art Nouveau) mentre la sua personalità, alquanto sensibile,
s’ispirò alle successive avanguardie, fra cui l’Astrattismo (che mai adottò
pienamente), il Fauvismo, il Cavaliere Azzurro, l’Espressionismo di Munch (suo idolo) senza
dimenticare Cézanne e più tardi Rembrandt, mettendo ovunque del
sottile psicologismo ereditato dalla moda di Freud. Kokoschka si era
recato a Berlino nel 1910 chiamato dalla rivista Der Sturm, di cui divenne
il primo illustratore. La sua maturità già si compie nel 1914, allorché
realizza “La sposa del vento”, dedicata ad Alma Mahler (sua amante per
qualche tempo; un amore che gli condizionerà l’intera esistenza). Andrà
in guerra volontario, verrà ferito, e quindi congedato per instabilità mentale. Più tardi esporrà con i
Dadaisti, dei quali mal sopporta la rozza dirompenza. Fuggirà a Praga, con Hitler al comando della
Germania, quindi a Londra, nel 1938 per rifugiarsi a Villeneuve, nel Cantone di Vaud in Svizzera, nel
1953 e lì vicino, a Monteaux, morire ultraottuagenario. La sua pittura, alla
quale si ispirerà Egon Schiele, è complessa in quanto composta di vari
elementi, ben equilibrati fra loro. Kokoschka frantuma l’immagine, la
sfaglia, per cercare e di rivelarne la costituzione ultima, spesso per lui
deludente per via dell’approssimazione di fondo. L’artista indugia su
quest’ultima alla ricerca di una spiegazione. Nel frantumare e nello
sfagliare, c’è molto Dada, nel riflettere c’è dell’Espressionismo, per via
della decisione di esplorare con qualche pretesa di capire, mentre nel contornare la dissoluzione in
divenire delle figure c’è un richiamo alla mentalità barocca. Infine, nel fissare determinati
particolari, ovvero nell’accentuare l’istante prima della dissoluzione, si avverte la presenza di
Cézanne. L’aggiunta di autentica poesia, come fosse meditazione profonda e malinconica intorno a
dei prossimi ruderi, è il cemento che mette Kokoschka all’insieme, trasformandolo in qualcosa di
palpitante che scopre, con preoccupazione quasi filosofica, la sua pochezza. L’artista prende le cose
sul serio, pur aggrappandosi a una certa nonchalance. L’apparente distacco dalla realtà è una
riflessione sul possibile ideale, pronta a impedirgli lo sfacelo totale, uno sfacelo meritato
dall’umanità con cui convive, ma non dall’umanità vera. Kokoschka fu anche un notevole
drammaturgo. Seconda immagine: “Veduta di Londra: il Tamigi”, anno 1926. Terza immagine:
“Venezia, punta della Dogana”, anno 1948.
Dada, ma in modo piuttosto singolare, è la figura di Kurt
Schwitters (1877-1948), tedesco di Hannover, figlio di benestanti,
cosa che gli permise di dedicarsi all’arte senza problemi. Anche
lui, come tanti altri suoi colleghi, fu sconvolto dalla
partecipazione, per quanto limitata (era epilettico e in un primo
tempo era stato esonerato dal servizio militare), alla Prima guerra
mondiale. Schwitters, attratto da Costruttivismo, Dada e
Surrealismo, divenne famoso per i collages, per le installazioni e per l’arte povera, quest’ultima
praticamente inventata da lui. La sua è quella ortodossa, consistente nel recupero di rifiuti e nel
loro assemblaggio al fine di creare qualcosa di nuovo: ai tempi, l’operazione aveva senso (oggi è
meno comprensibile, tranne che in senso morale avanzato) in quanto adombrava una sorta di
riscatto dalle offese civili subite sotto i bombardamenti, momento culminante di una politica
aggressiva e brutale determinata dalla produzione moderna (una superproduzione non collocabile
secondo le regole capitalistiche). Schwitters legò le sue opere alla definizione di MERZ (Merz per lui
era l’equivalente di Dada; la sua installazione più famosa ebbe nome Merzbau – cattedrale della
miseria erotica – praticamente un work in progress partendo dal suo atelier, ebbe durata circa 20
anni, sino al 1944, anno in cui fu distrutta dai bombardamenti). In Schwitters il concetto di
annientamento della civiltà precedente, colpevole della guerra, era una specie di ferita
sanguinante che in qualche modo doveva essere lenita: l’artista scelse la strada della lacerazione
dei simboli tradizionali e del recupero dei dati essenziali allo scopo di dimostrare gli errori nei quali
erano incorsi quegli uomini. Il collage perseguiva anche il fine di costruire un mosaico dove accanto
alle nefandezze vi fossero segnali virtuosi da coltivare. L’artista non si presenta come un vate, ma
come un comune osservatore dotato di maggiori sensibilità e dignità. Egli è anche alle prese, con
sconcerto, alla tentazione di dichiarare la fine dell’arte e quindi del mondo. Qui due opere del 1919:
“Dada” e “Pittura con luce al centro”.
Un dadaista gioioso e giocoso, campione autentico di rilassatezza e di trovate fra
il polemico e l’ironico (con prevalenza di un’ironia volutamente superficiale) fu
Jean Crotti (1878-1958), pittore svizzero, innamorato degli Impressionisti e dei
Fauves, poi dell’Art Nouveau e quindi del Cubismo orfico. Trovò la sua cifra
espressiva frequentando Marcel Duchamp a New York nei primi anni Dieci del
Novecento. Divenne seguace di Duchamp per poterne frequentare la sorella
Suzanne che sposerà nel 1919. Anche poeta, Crotti lanciò un movimento artistico e
letterario che denominò “Tabu” (qui un suo manifesto di presentazione
e invito). Scoprì, negli anni Trenta, e sviluppò anche un tipo di
procedimento chiamato “Gemmail” (opera formata da lastre di vetro
colorate sovrapposte, per ottenere più variazioni di luce), di cui si
avvarrà anche Picasso nel 1954. Grazie al procedimento, Crotti
perseguì la valorizzazione della spiritualità, per quanto egli fosse
maggiormente attratto dallo sperimentare, per i suoi risvolti estetici.
Tutto questo provare e scoprire e perfezionare rappresentava uno sviluppo delle pur goliardiche
negazioni precedenti riferite alla incapacità dell’uomo di comportarsi in modo intellettualmente
responsabile. Crotti riteneva probabilmente giusto ripartire dai simboli di riferimento, compresi
quelli sacri, e renderli abbaglianti con la sua tecnica semplice quanto efficace ai fini della e delle
luminosità. Seconda figura, “Ritratto di Marcel Duchamp”, 1917. Terza figura, un “Gemmail”.
Personaggio particolarmente eclettico, fra i primi seguaci del Dada, è Julius Evola
(1898-1974), romano di origini siciliane, il cui pensiero – esposto in numerosi
saggi – appare fondamentalmente semplicistico, pur se presentato con ricchezza
espositiva. La ragione di questa ricchezza sta nella formazione di Evola: una
formazione aristocratica ed erudita che lo portò a contatto con i pensatori più
disparati, fra i quali scelse Guénon (forse il suo maestro), Bachofen, Ortega Y
Gasset, Oswald Spengler. Specie grazie a Guénon prese confidenza con
l’esoterismo e con una forma di misticismo intellettuale che lo condusse in una “terra di nessuno”
da cui prese a predicare. Evola, saggista, poeta, filosofo e pittore (qui un suo “Paesaggio interiore,
apertura del diaframma” del 1920-21), fu fra i Futuristi, amico di Balla e Marinetti, che presto
lasciò tacciandoli di sensualismo. Conobbe Tristan Tzara ed entrò in fitti rapporti epistolari con lui.
Una tecnica, quella epistolare, cui Evola ricorse per tutta la vita, insistendo con personaggi in vista
allo scopo di ottenere favori (così fu specialmente con Benedetto Croce, che voleva convincesse il
suo editore a pubblicare un proprio saggio: cosa che accadde). Evola fu un fascista (finché il regime
di Mussolini persegue certa meritocrazia, diceva) ma fu anche contro il fascismo quando si rese
conto della relativa caduta borghese. Egli fu per una destra concepita come patria di eletti,
vagheggiando un ritorno alla tradizione antica che vedeva – secondo lui – la presenza di una
gradazione sociale rispettata, quasi una repubblica di Platone con a capo i filosofi (e non certo gli
sgherri mussoliniani e hitleriani). Chi non è filosofo, chi non è aristocratico nel senso etimologico
del termine, non può arrivare al potere, non può determinare l’andamento delle cose. Da questa
mentalità deriva il suo razzismo: gli ebrei sono dei piccolo-borghesi, non possono, sempre secondo
il suo pensiero, guidare l’economia, la cultura. Quest’ultima, paradossalmente, è vista da Evola
come migliorabile solo attraverso riti e propiziazioni ermetiche, evocazioni ultraterrene. Non
dimentichiamo che all’epoca l’onirismo di Freud furoreggiava. Il Dada diede a Evola il destro per
rifiutare la società tradizionale e la spinta per immaginarne una più valida, senza chiedersi,
profondamente, quanto fosse giusta. La sua pittura cela tutto questo, è coerentemente confusa,
con spruzzi di presunzione involontaria: infine, con debolezza concettuale (una caratteristica,
peraltro, del Dadaismo).
Jefim Golyscheff (1897-1970), ucraino, nel 1909 a Berlino (dopo aver studiato a
Odessa) e nel 1919 aggregato al Dada quasi per caso, era musicista e pittore. Nel
1922 andrà ad insegnare al Bauhaus su invito di Gropius: quest’ultimo era
interessato all’espressione astratta come distruzione di quella concreta tradizionale.
Golyscheff amava principalmente la musica, fu uno dei pionieri di quella
dodecafonica e fu molto apprezzato da Schonberg. Adattò la pittura ad essa,
riuscendo nel proposito di smantellare il vecchio e impostare immediatamente il
nuovo, basato sulla “libertà” delle note. Questa libertà portava con sé una logica legata alla
costruzione di qualcosa che aveva a che fare direttamente con le risorse intellettuali umane, a
patto venissero regolamentate dalla razionalità, imperativo categorico del Bauhaus. Nel 1933
Golyscheff fu costretto a lasciare la Germania, le sue opere distrutte dai nazisti come arte
degenerata. Raggiunse Barcellona, poi la Francia, infine il Brasile. Tornò in Europa nel 1966. Arturo
Schwarz di Milano, un grande collezionista che trasformò la sua libreria in Galleria (attiva dal 1961
al 1975) lo fece conoscere in Italia, come fu per tanti altri arti dell’avanguardia. La pittura
riprodotta è intitolata Iperioum 2”, anno 1918: inutile cercare un filo conduttore perché neanche
Golyscheff lo cercava. Rimane, pur sfocata, per le condizioni culturali e attuali diverse, l’impresa di
sondare nell’immaginazione priva di condizionamenti convenzionali.
Raoul Hausmann (1886-1971) fu professore a Weimar e a Berlino. Era nato a
Vienna. Come artista si specializzò nel fotomontaggio (“Io non sono un
fotografo”, diceva, in realtà fu un grande fotografo, versato nelle cose
eccentriche). Il suo Dada ha carattere polemico, come si evince dalla “Testa
meccanica” del 1920 qui riprodotta. Fu particolarmente sfortunato con il
nazismo, dal quale dovette fuggire, riparando prima a Ibiza, poi a Zurigo, Praga e
infine a Limoges dove morirà. La sua “Testa meccanica” è il totem per eccellenza
della protesta Dada contro il sistema, la cui caduta nella brutalità era vista come un incidente di
percorso, un errore di prospettiva dei dettami illuministici. Hausmann fu un campione dei collage
fotografici, degli assemblaggi polimaterici, ma eccelse nel fotomontaggio, lasciando la sua eredità
nelle mani di Paul Citroen, il suo allievo preferito. La contestazione di Hausmann è sicuramente
elementare, fisica: l’artista ne è cosciente, ma non evita questa specie di “strada in discesa”. La sua
scelta, schietta e semplice sino alla banalità, possiede tuttavia dell’efficacia perché caratterizzata
da una denuncia molto più sciolta di tante pretese intellettualoidi tipiche del Dada.
Una pretesa più pratica del movimento di Tristan Tzara è apertamente dichiarata
anche da Joseph Stella (1877-1946) italiano, divenuto cittadino statunitense, il
quale sosteneva che una nuova era – lontano dalle religioni (dalla sudditanza
irrazionale) – era alle porte. E questo grazie alle avanguardie artistiche. Nato a
Muro Lucano, in Basilicata, non lontano da Potenza, Stella arrivò negli Stati Uniti a
soli 19 anni. Frequentò corsi di medicina e farmacia (come suo fratello, poi noto
medico), ma fu attratto dal mondo dell’arte. Studiò in un istituto artistico di New York avendo
come insegnante William Merritt Chase (un bravo ritrattista, molto richiesto, infatuato
dell’Impressionismo, infatuazione che trasmise a Stella). Seguì anche le lezioni di
Robert Henri, un pittore realista. Ma determinante per il Nostro fu un viaggio in
Europa durato quattro anni, dal 1909, nel corso del quale egli entrò in contatto con
Simbolismo, Cubismo e Futurismo, per approdare infine al Dada. Frequentando il
salotto di Gertrude Stein, Stella conobbe, fra gli altri, Matisse, Picasso, Modigliani.
Visitando una mostra di Futuristi a Parigi, apprezzò Boccioni, Carrà, Severini. Nel
1913 tornò a New York e partecipò all’Armory Show (dove venne definito “primo
pittore impressionista americano”, sebbene la sua pittura fosse un insieme di stili
moderni, non ultimo il Liberty, o Art Nouveau). Più tardi Stella fece parte del New York Dada, con
Duchamp, Man Ray e Picabia. Fra le due guerre si cimentò anche nel Precisionismo (un misto di
Cubismo e Realismo). Programmaticamente egli fu tuttavia sempre legato al Dada, versione
ricostruttiva: nuovo modo di guardare, nuovo modo di imporre la propria visione delle cose. Qui
abbiamo un suo autoritratto, senza data, nel quale dimostra una determinazione ferrea, e forse la
sua versione migliore del “Ponte di Brooklyn” anno 1936. Una pittura tecnicamente virtuosa, la
sua, molto curata esteticamente, e notevolmente espressiva. A Stella s’ispirò la Pop art.