CriticaLetteraria - Racconti dal carcere

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Condividi su: All'inferno fa freddo. La scrittura come liberazione e rinascita
di Carolina Pernigo
27.12.15
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All’inferno fa freddo. Racconti dal carcere
a cura di Antonella Bolelli Ferrera
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0111 edizioni 1914 20 lines 2011
2014 2015 21 editore 66thand2nd
A. Dario Greco A. Ferrari A.E.W.
Mason A.R. Torre ab/arte Absburgo
accessibilità Acciaio Ad est
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Rai Eri, 2015
pp. 368 € 12,00
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Mossino Alberto Paleari
Patrucco Alberto Piccinini
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Merini Aldo Busi Aldo Dalla
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Sezione adulti
Nel sentir parlare del Premio letterario Goliarda Sapienza, che raccoglie
e valorizza i migliori racconti scritti dai detenuti nelle carceri italiane, la
mia prima reazione è stata di curiosità non certo libera da un moderato
scetticismo. Mi sono offerta di leggere il volume attirata dall’idea, più
che dalla speranza di imbattermi in una buona prova di letteratura. Mi
aspettavo che, dato il contesto in cui si trovano inseriti gli scriventi, la
valutazione sarebbe stata indulgente, che ad essere giudicati sarebbero
stati i casi umani piuttosto che i racconti. Mi sbagliavo.
All’inferno fa freddo è un’opera forte, importante. I venti testi che compongono la sezione degli adulti
differiscono per forma e contenuti, ma sono accomunati da un’uguale istanza comunicativa: la scrittura
diventa occasione di libertà, non tentativo di autolegittimazione. Non si legge nelle storie un desiderio di
suscitare compassione. La violenza viene presentata come qualcosa di banale, ovvia conseguenza di una serie di
eventi che in parte derivano da scelte errate e in parte trascendono la volontà del colpevole, e per questo
sconcerta tanto di più il fruitore impreparato. Lo denuncia Stefano Lemma, autore del racconto secondo
classificato: “Sono gli eventi che cambiano la vita, e la vita cambia le persone” (42). La tecnica della cronaca
imparziale, quasi asettica, viene spesso adottata, e ferisce in quanto lascia intravedere sotto la superficie abissi
di dolore non descritti, non esposti.
È forse sui racconti non premiati che vale la pena soffermarsi: quei racconti in cui minore è l’elaborazione
retorica, minore la mediazione, e dunque ancora maggiore l’impatto emotivo. Sono i momenti in cui lo stile di
indebolisce quelli in cui più emerge l’urgenza del narratore, il bisogno pressante di dire di sé e della propria
condizione di recluso. Sono i momenti in cui c’è meno controllo sullo stile quelli in cui si percepisce
maggiormente una verità senza filtri, che condanna magari sintassi e grammatica, ma graffia il cuore del
lettore. A questo impulso alla riscoperta di sé si deve la predominanza quasi assoluta della narrazione in prima
persona, che porta ad esporsi senza vergogna, senza reticenze, allo sguardo forse implacabile dell’altro, che pure
proprio per questo si scopre comprensivo, simpatetico, anima affine nonostante l’iniziale ritrosia.
Ciò che appare evidente nei testi non è mai un desiderio di rinnegare ciò che si è o le azioni compiute, quanto la
volontà di sottolineare che esiste una possibilità di cambiamento, che la reclusione può tramutarsi, se vissuta
con consapevolezza, in un’occasione di crescita: “A differenza degli oggetti senz’anima, noi abbiamo un
vantaggio: il tempo passa e ci riscatta. Altrimenti saremmo nient’altro che spurghi della società, giocattoli
rotti, anche noi saremmo oggetti senza funzione, dannati ed inutili” (114). In queste parole tratte dal racconto
di Federico Marsi si intuisce il desiderio, comune a molti altri, di recuperare lo status di individuo in un
ambiente che tende alla disumanizzazione, a ridurre l’uomo alla propria matricola. Il carcere diventa il luogo in
cui si realizza un percorso di ravvedimento e di riscatto, che passa attraverso la definizione ­ e l’accettazione ­ di
sé come delinquente. L’autore (o, come in questo caso, l’autrice) spesso scopre di essere diventato quello che è,
nel male ma anche nel bene, grazie ai propri trascorsi:
“Certo, devo essere stata amata prima della loro cecità, prima del loro alcolismo, quando un
gesto d’amore tagliò l’ormeggio ombelicale per farmi iniziare il viaggio della vita. Sarei potuta
nascere regina o forse solo una ricca borghese, ma cosa sarei stata? Forse non avrei sentito quel
che sento, l’inquietudine che mi produce il vento, […] l’alito del mondo nelle anime che vi
tremano dentro… Forse sarei stata pigra e altezzosa, non docile né umile con quella forza che mi
cresce nel cercare l’amore. Non sarei stata attenta con i miei figli. Non avrei avuto l’energia di
resistere alle umiliazioni, mantenendo l’anima casta, sospesa come un bagaglio prezioso salvato
dalle acque nel guado” (Mica Dolic, 265).
Ugualmente sferzanti nella loro incisività sono del resto anche gli sporadici racconti scritti in terza
Alla @GAM_Milano siamo andati a
vedere la mostra dedicata all'ultimo
simbolista... La cronaca di Elena Arzan
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Maurizio Giudice
Varianze di Maurizio Giudice ed., 2015 pp. 32 € 6 "Questo per dire q
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persona, in cui non è affatto minore il coinvolgimento dell’autore. Dall’ironia e la leggerezza, con tanto di
finale romantico a sorpresa, de “Il tempo siamo noi” di Giuseppe Rampello alla trama elaborata e
convincente de “L’ottavo sacramento” di Sebastiano Primo; dalla perfezione stilistica di “La lunga strada
verso casa”, in cui Michele Maggio descrive magistralmente personaggi e ambienti, creando un’atmosfera
noir che rievoca locali fumosi e bicchieri di whisky alla Raymond Chandler, fino ad arrivare alla “Storia di
Ele” di Alessandra Rosa. Vale la pena di spendere una parola su questo testo, uno dei due soli femminili
compresi nel volume, nonché grande assente dal podio dei premiati tra cui avrebbe sicuramente meritato
di trovarsi. Si tratta della cronaca dolente ed autobiografica dell'incontro fugace di una carcerata, Ale
(che altri non è che l’autrice stessa), con una giovane donna che non riesce a sopportare l’umiliazione
della prigionia. La scrittura di Alessandra è consapevole e dolorosa, senza fronzoli, efficace per la sua
capacità di cogliere dettagli e immagini con poche, pregnanti parole. Al centro del racconto si colloca
l’idea della solidarietà femminile di fronte alla morte, che cancella ogni differenza di ruolo: straziante è
infatti la scena che mostra la disperazione della guardia carceraria con le unghie rosse spezzate mentre
cerca di staccare Ele dalla finestra a cui si è impiccata. La defunta viene privata dal mondo di fuori della
dignità di un nome o di un’identità (per i giornali è solo una “prostituta nigeriana”), spetta allora a chi è
dentro restituirle post mortem ciò che le è stato tolto, tramite il ricordo e un nome che davvero la
rappresenti (Ele, che in nigeriano significa “gazzella”). Forse proprio in questo epilogo si può leggere la
morale dell’intera raccolta: dietro alle mura del carcere esistono persone e storie da raccontare troppo
spesso dimenticate. Tocca allora a chi è dentro farsi testimone, urlare la propria verità, lanciare la
propria matassa di parole oltre le sbarre, sperando che qualcuno la raccolga e aumenti, grazie ad essa, in
consapevolezza e umanità.
Carolina Pernigo
ed., 2015 pp. 32 € 6 "Questo per dire q
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Sezione Minori e giovani adulti
“La prima volta è esperienza, la seconda è vita. È fondamentale cambiare le carte per vincere due
volte allo stesso gioco. Bisogna avere un altro sguardo per amare ogni giorno la stessa persona. È
essenziale cambiare vita, per vivere a pieno la stessa.”
Quando cresci in una realtà ovattata, coccolata dalle persone che ami, libera di sbagliare e di scegliere di
ribellarti, non riesci nemmeno a immaginare che tuoi coetanei non vivano gli stessi “drammi” quotidiani.
Come concepire che, quando tu sei alle prese con l’ansia per un’interrogazione di greco classico, proprio
in quel giorno in cui il tuo fidanzato ti ha chiesto di troncare, c’è qualcuno che si trova lontano da casa, in
crisi d’astinenza da cocaina, in una stanza separata dal mondo esterno da due sbarre che lasciano entrare
il sole con il contagocce? La tua mente non riesce ad avere una tale fantasia. Eppure gli autori dei
racconti candidati al premio Goliarda Sapienza alla fantasia letteraria cedono senza paure, scegliendo di
affidare alla parola scritta il loro bisogno di libertà e rinascita. Raffaele, Giulio, Coccinella, Fabrizio e
Unknown scrivono brevi estratti della loro esistenza con una lucida determinazione e capacità di analisi
che sorprendono vista la loro giovane età. Tutti hanno trascorso un periodo della loro vita tra CPA e IPM
o si trovano ancora in comunità di recupero prima del ritorno a una vita che vogliono fortemente
normale.
Proprio poco tempo fa riflettevo sulle parole del protagonista dell’ultimo romanzo di Alain
Mabanckou che rifiutava l’idea che un’infanzia vissuta tra violenza, tristezza e solitudine influenzi il
futuro dell’adulto del domani. Gli autori dei racconti partono da questo presupposto e lo
approfondiscono facendolo intimo, restituendolo al lettore con la semplicità del loro stile di scrittura, che
con la sua asciuttezza scarnifica con evidenza la realtà. Secondo loro, la prospettiva della propria vita
non è un percorso unico, predeterminato e forzato; la vita è la possibilità che si ha di scegliere, facendo
tesoro del proprio passato, doloroso, difficile e crudo ma non per questo elemento determinante.
Unknown, autore di Double Face dice infatti:
“Non si nasce nella propria casa quasi mai,ci si trova,è dove sei libero,per sentirti come vuoi.Ora
una cosa la devo dire, sarò sempre fiero del mio quartiere.Perché Noi non siamo
quell’adesso,siamo tutti i secondi passatiche scorrono ancora dentro di noi.”
Il primo classificato del concorso nella sezione minori dimostra una spiazzante maturità letteraria nel
raccontare la vita nella periferia romana ed esemplifica con chiarezza la possibilità di un riscatto futuro.
Giulio, secondo classificato con il racconto Vivo o morto, lascia la Tunisia a 14 anni per fuggire a una vita
di abbandoni; giunge in Italia (a Lampedusa che scopre con sconforto non essere ancora “Italia”, isola di
un’isola più grande in cui trasformerà la sua tristezza in violenza) e qui troverà un nuova solitudine negli
istituti penitenziari minorili; solo in comunità riacquisterà la fiducia nell’umanità e nel prossimo,
incontrando gli angeli che gli apriranno le porta del futuro:
“Qui il tempo trascorre facendo ogni giorno passi in avanti nel mio percorso di cambiamento. Ora
so che, quando sbaglio, avrò la forza per rialzarmi. Ora so che quel viaggio con la morte è ormai
per me soltanto un ricordo lontano.”
Questi, insieme agli altri racconti (inclusi i non vincitori) sono perle di saggezza condensata sul
significato di libertà, che altra non è che la possibilità di essere migliori. Per i giovani detenuti la
scrittura, allora, diventa sinonimo di liberazione: comunicare con il mondo oltrepassando i limiti fisici
imposti dalle strutture penitenziarie. Per questo mi sento di ringraziare il loro impegno due volte. La
prima per l’adolescente ignara che sono stata in passato, perché se avesse letto le loro testimonianze
avrebbe capito cosa significa vivere; la seconda per la donna che sono adesso, per averle ricordato di non
dimenticare mai che la realtà non è solo quella visibile con gli occhi.
Federica Privitera
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