Anna Richard
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Anna Richard
Anna Richard. Ho amato male. Ho amato davvero tanto male. Ho amato con quella maniera affannosa, straziante e frustrante di chi ha dipendenza di qualcosa che non ha mai, in realtà, ingerito. Ho amato in maniera rabbiosa, sentendo la voglia di mordere nelle gengive, sentendo lacrime acide trattenersi sotto pelle per farmi sanguinare dall'interno. Ho amato di un amore sadico e perverso. Ma diavolo, sì! Ho amato. Primi giorni del liceo. Gente nuova, ed uno zaino sulle spalle pieno di timidezza. Sì, ero timido e non mi costa ammetterlo. Toglietevi quell’espressione da: “Maddai! Cosa stai dicendo?!” e continuate. Fatto? Bene. Nell'istituto dove mi ero iscritto tutti parevano rimasti ai tempi di Pearl Harbor. Ero l’unico asiatico della classe, ma ad essere sincero, a parte qualche altra ragazzina che notai nella mensa gli anni successivi, non mi parve di averne mai visti molti altri. "Japs! Muso Giallo. Scimmia." Ero stato lapidato, preso a sassate dai loro sguardi. Li ricordo ancora. Li ricordo tutti. Dal primo all’ultimo. Fin dal primissimo giorno li avevo inquadrati. Sì, io ho questa strana mania di starmene in silenzio a fissare le persone cercando in tutti i modi di decifrarne ogni minima sfumatura del carattere studiandone i modi di fare, i toni di voce, gli sguardi i gesti e via dicendo. Non lo faccio di proposito, è una sorta di naturale propensione. Come se passassi tutta la vita in guerra e vedessi in ciascun incontro un potenziale nemico. Che poi l'ambiente scolastico non l'ho mai vissuto in maniera rilassata. Anche alle elementari ero vittima di bullismo, ma a quell'età gli scherzi erano più innocenti ed avevo mia madre al fianco pronta a difendermi a spada tratta anche quando non occorreva. Ad ogni modo, passai in rassegna tutti i vari stereotipi da teen-drama americano. Il giocatore di foot-ball, il libertino con la maglia del Che e le spille d'anarchia pinzate sulla borsa, il negro vestito tale e quale a Michael Jordan. E poi c'era lei, bella bionda, pelle diafana, guance piene di sorrisi. Ed un sorriso sempre rivolto ad altro, tranne che a me. Onestamente ora come ora non credo al colpo di fulmine e credo che non possa esserci nulla di simile tra due persone, ma in quell'occasione, a quel primo appello, rimasi folgorato dalla sua bellezza e dal suo insolente modo di non rivolgermi l'attenzione per nessun motivo. Per qualche istante mi convinsi di essere trasparente. « Anna Richard. » disse la voce dell'insegnante, e lei, facendosi distrarre da quel suo stesso nome, alzò la mano e sorrise. Non so quanto tempo rimasi a fissarla. Forse sei minuti. Forse tutte le sei ore. La cosa non mi pesò. Non mi pesò affatto. Eppure la cosa non mi distrasse affatto, tant’è vero che so benissimo, tutt’oggi, cosa spiegò la professoressa quel giorno: presentazione del programma di scienze e tecniche di laboratorio. E cosa pensavate che si facesse il primo giorno? Comunque, fui preso in contropiede da un’iniziativa, l’unica novità ad avermi distratto dalla mia distrazione. Passatemi il gioco di parole. Anzi, cercate di abituarvi, che ne faccio molti e mi divertono. L'insegnante della prima ora nel primo giorno di scuola aveva avuto una trovata.. geniale? Insomma, aveva ben pensato di far passare il foglio con l'elenco dei nomi tra i banchi. Accanto al proprio ci si poteva scrivere il proprio numero di cellulare e prendere nota di quello degli altri, in modo tale da socializzare subito. Chiaramente la cosa sollevò un polverone di occhiate, sghignazzi e risatine, ma fu comunque ben accettata. Non presi nessun numero se non quello suo scrutandone attentamente la calligrafia tondeggiante minuta e precisa con la quale aveva annotato il suo contatto telefonico. Scrissi il mio e provai a vedere se, nel secondo giro che faceva il foglio, lei si fosse annotata qualcosa. Nell'effettivo si scrisse giù qualche paio di numeri, ma non avevo modo di capire quali. Dopo la scuola tornai a casa. Vivevo con mio padre in un orribile monolocale. Non avevo una stanza, avevo un divano letto ed il tavolo da pranzo era la mia scrivania. Quel giorno lo passai interamente a fissare il display del mio cellulare riaccendendolo ogni qual volta passasse alla fase di stand-by dello schermo. Rimasi sveglio fino all'una di notte, poi cedetti al sonno. Mi chiamarono solo una volta, e in quel momento scattai su come una molla. Non era lei. Non compresi nemmeno chi fosse, ma ad ogni modo si trattava di un gruppetto di miei compagni di classe che aveva colto la trovata dell'insegnante come un modo per fare degli inutili scherzi telefonici. Ma dico: non si rendevano conto che c'era gente in apprensione? Gente che poteva aspettare una chiamata dall'ospedale? Gente che se ne stava con il cuore in gola? Che aspettava qualcosa di importante? Gente come me, straziata dall'attesa e col timore di chiudere gli occhi un singolo istante perdendosi lo scattare di ogni minuto, di ogni secondo? Superai lo stress di quel momento e mi arresi alla normalità della mia vita liceale. Odiavo ogni singolo giorno, poichè odiavo ogni singola persona all'interno di quella classe. Si era saputo che mio padre era autistico e, come se non bastasse, anche che passava la maggior parte della sua vita in carcere. Mia madre, a quel tempo, la si dava semplicemente per dispersa e a scuola mia si vociferava sul fatto che ci avesse piantati in asso andandosene con qualche ventenne sudamericano dal cazzo di quaranta centimetri che avrebbe potuto darle almeno una qualche soddisfazione. Il fatto è che queste non erano solo pettegolezzi di corridoio tra un manipolo di adolescenti in crisi ormonale.. erano gli stessi docenti a straparlare a riguardo con la scusa dell'adulto comprensivo. Le estati a Riverwood, lo ammetto, un po' mi riuscivano a sviare, malgrado non si parlasse altro che della sparizione di Karen che, oramai, era qualcosa che si protraeva negli anni. Era evidente che fosse stato causato dalla denuncia in mia difesa. Ma era anche evidente il muro di silenzio che ergevano nei miei confronti appena l'argomento venisse anche solo sfiorato. La vita delle sorelle di mia madre, era ancora più incasinata della mia. Così continuavo a crescere e traballare sul mio percorso che, mai come in quella fase della vita di un individuo, avrebbe dovuto riservarmi almeno qualche certezza. Anche i sentimenti che avevo per Anna traballavano di volta in volta, ma non erano mai qualcosa di attenuato o confuso. Era sempre. Sempre. Qualcosa di forte. Sconvolgente. Radicale. Eppure passavano gli anni e lei.. niente. Nemmeno un "ciao". Mai. Nemmeno uno sguardo per caso o per errore. Ero davvero così invisibile? Forse. Amavo nascondermi e spiarla di nascosto. Ero io il primo ad evitarla, e allo stesso tempo la incolpavo di non prestarmi le dovute attenzioni. Riuscii a passare gli anni senza mai rivolgerle la parola, ma rivolgendole attenzioni pressanti. Di quello che riuscivo a sentire dalle sue conversazioni con le amiche, in classe, ricordavo ogni cosa e, una volta a casa, me le annotavo su di un bloc notes che non avrebbe mai, per nessun motivo, dovuto lasciare casa mia. Allergia alle graminacee. Passione per le borse a bauletto. Intolleranza al latte. Fobia dei ragni. Credo che mio padre l'avesse pure trovato una volta, ma non fece mai alcun commento in merito con me. Figuriamoci. Ad ogni modo, nonostante tutte le mie precauzioni e la maniacale cura con cui nascondevo ogni traccia dell'ossessione che avevo per lei, commisi un errore. Un giorno, nel maggio dell'ultimo anno, quando quasi metà della classe stava correndo ai ripari per le disparate insufficienze, capitò che una ragazza amica di Anna mi chiese una mano con matematica. Le prestai il mio libro, nel quale avevo infilato tra le pagine gli appunti presi in classe durante tutto l'anno. Non c'era nulla di compromettente. Se non un piccolo dettaglio che sconvolse la mia vita. L'autrice del libro di testo si chiamava Anna. Anna Nilsen, se non erro. Avevo sottolineato il nome "Anna" e cancellato il cognome scarabocchiandoci sopra. Era stata una cosa fatta senza pensarci. Un errore. Un tremendo errore. Forse quella fu solamente la conferma di vari sospetti che Vivian, l'amica di Anna, aveva già avuto in tutti quegli anni. Corse a riferirle della mia cotta con la certezza e la spietatezza di un boia. Il giorno dopo, durante la pausa pranzo lei venne da me. Anna. Anna. Proprio lei. Io non riuscivo a crederci. Ricordo di essermi guardato attorno varie volte mentre lei sfilava lungo la distanza che ci separava come la migliore e più sensuale delle top model. Pensavo che non fossi io il suo interesse, come del resto era stato per tutti quei cinque lunghi anni di scuola. Eppure lei continuava a guardarmi lasciando che i suoi capelli svolazzassero a mezz'aria ad ogni doloroso passo. « Lane? » Forse quella era prima volta che pronunciava il mio nome. Puntai il mio sguardo sulle sue labbra carnose e macchiate di gloss. Per un attimo me la immaginai gemere con quel nome tra i denti sospinto fuori a forza dal fiato rovente. Laane~aah!.. Scossi il capo. La guardai senza rispondere ero certo di essere rosso in volto. Sentivo le guance bruciare. La mia carnagione pallida era solita tradirmi facilmente in certe circostanze. « Hai già pensato al ballo di fine anno? » mi domandò. In quel periodo avevo così tanti pensieri che il ballo proprio mi era sfuggito di mente. L'ultimo anno è stato tragico per me, rischiavo la bocciatura, avevo fatto un sacco di assenze. Ero stato assente per quello che spacciai come “un problema ai polmoni” o “una brutta bronchite”. Quello che successe in realtà non venne mai fuori. Non potevo nemmeno venir ricoverato in ospedale, e quindi ci misi molto a guarire. Quando ciò accadde, mio padre era di nuovo in carcere, e mia madre venne finalmente ritrovata. Un sollievo, direte voi. Col cazzo. Dico io. Mi chiamarono a riconoscerne il cadavere. Ero maggiorenne, potevo farlo. Ero ufficialmente autorizzato a star male. Ciò nonostante non avevo assoluta intenzione di rimanermene al liceo un solo anno in più. Mi misi sotto con lo studio e mi misi in pari con il programma, avrei potuto ricevere il diploma assieme a tutto il resto della mia classe. Ma del ballo non me ne curai affatto. Scossi il capo, mi schiarii la voce e le dissi di no. Non ci sarei andato. Non era cosa per me. E poi non avevo nessuna da accompagnare. In classe eravamo in ventitrè. Undici ragazze e dodici ragazzi. Indovinate chi era quello spaiato. « Io e Gary ci siamo lasciati. » mi spiegò lei abbassando lo sguardo ed inscenando un broncio da bambina. Una tenera recita. Non era null'altro. Ma inutile dire che non me ne potevo accorgere. La guardai cercando parole adatte a quella frase. Ma lei niente, continuò col suo copione senza pretendere nulla da me. Giocò con le sue ciocche bionde arricciandosele tra le dita. E intanto immaginavo di farlo io, di tendere la mia mano verso di lei e di passare le mie dita tra i suoi capelli, mentre in testa mi riecheggiava nuovamente il mio nome pronunciato in un gemito. « Ora non ho più un cavaliere. » mise il più credibile dei bronci sporgendo il labbro inferiore e torcendolo di poco. « Mi domandavo se.. » a quel punto staccai totalmente l'attenzione da quel che stava dicendo. Non lo feci apposta, ma lo trovai inevitabile. Non serviva che continuasse, avevo già capito. Era tutto chiaro. Ed era tutto così razionalmente accettabile e logico che non mi insospettii affatto. « ..allora alle otto davanti alla palestra della scuola, ok? » solo a quel punto tornai ad ascoltare quel che lei mi stava dicendo. « Sì. » mugugnai come se improvvisamente mi fossi dimenticato ogni parola. Lei schiuse gli occhi su di me, lentamente, come lo farebbe una lap-dancer davanti ad un uomo con un biglietto da cento tra le dita. Mi fece una carezza ed io mi irrigidii totalmente. Credo che mancasse poco che venissi nelle mutande, direttamente lì. Trattenni il respiro e fissai la sua mano come se fosse la lingua sibilante di un serpente a sonagli che mi passava accanto. Qualche estate in Australia, dai miei nonni, avevo avuto esperienze con i serpenti.. sapevo benissimo quale fosse il genere di terrore e vi assicuro: era lo stesso che stavo provando in quel momento con Anna. Quando se ne andò sentivo ancora quel gesto sul mio volto. Le carezze in faccia non mi piacevano. Non le sopportavo. Non le sopporto tutt'ora. Sono qualcosa di inammissibile per me. Penso che chiunque si provi rischi di venire seriamente percosso, spinto ed assalito dal sottoscritto per via di una reazione del tutto involontaria, istintiva, ma decisa e furente. Credo che nella mia vita quella fu l'unica eccezione. L'unico strappo alla regola. La sera stessa mi organizzai per partecipare al ballo, cercai tra i miei risparmi e i precipitai in centro alla ricerca di un abito adatto. Inutile dire che anche lo smocking meno costoso era al di là delle mie possibilità. Avrei potuto telefonare ai miei nonni e domandare un prestito. Ma con che faccia avrei potuto chiedere loro di darmi dei soldi per il ballo di fine anno con il lutto di loro figlia? Avrei fatto la figura di quello che pensa a divertirsi invece di patire per la fine atroce del proprio genitore. Vi assicuro, le condizioni in cui ritrovarono mia madre avrebbero fatto passare la voglia di festeggiare a chiunque. Ma si trattava di Anna. L'eccezione. Credo di non essere mai stato tanto nervoso come quella sera. Vi dico solamente che per allacciare la giacca bottone per bottone mi tremavano le mani. Non avevo mai avuto a che fare con simili sentimenti. Quando stavo percorrendo il vialetto che portava alla palestra sentivo un turbine di pensieri vorticarmi attorno. Dovevo portarla a ballare o altro? Come e dove avrei dovuto metterle le mani? Ci sarebbe stato un bacio? Mi avrebbe baciato? L'avrei baciata? Avrei dovuto baciarla? Ci sarei riuscito? Avrei trovato il coraggio per farlo? E se ci fossimo spinti oltre? Avremmo finito col fare l'amore? Mi sarei dovuto spogliare? Avrebbe visto il mio petto.. l'orrore di quel tatuaggio.. oppure avremmo finito col metterci in un angolo della scuola scoprendo solamente il necessario? La mia prima volta sarebbe stata così? Ciò non fece altro che accrescere il mio terrore e così facendo non mi accorsi della gente che stava aspettando fuori. Voi direte: normale. No. Non lo era affatto. Stavano aspettando.. stavano aspettando me. « Perfettamente puntuale come una puttana col cliente miliardario. » la voce di Gary era un ringhio fastidioso « Guardatelo.. guardate com'è agghindato. Profuma come una troia! » Strinsi le labbra, abbassai il capo ma lo guardai con odio e non accennai a scostare lo sguardo. Almeno finché non distinsi la figura di Anna tra la folla che stava attorniando Gary, il campione, il quaterback della squadra di foot-ball. Lei era dietro di lui. Stava guardandomi. Le mie intenzioni furono quelle di andare da lei, prenderla per mano ed andarmene da Gary. Pensavo che lui fosse semplicemente incollerito per la questione del cavaliere. Ora che lui ed Anna si erano lasciati poteva aver ceduto alla gelosia. Gelosia nei miei confronti. Per affiancare la più bella tra tutte le ragazze del ballo. Non ci vedevo pericolo, solo l'onore di tutta la questione. Ogni rischio sentivo di poterlo correre e di poterlo ignorare. Come il dolore che si potrebbe ricevere dal voler leccare del miele colato su di un intreccio di rovi. « Ehi, sto parlando con te, scimmia! » insistette lui. Alzai lo sguardo. « Oh porca puttana! Mi sto cagando addosso dalla paura! » mi schernì dopo quella mia occhiata. « Lasciaci in pace, Gary. » pronunciai coraggiosamente sperando che la mia fermezza riuscisse a colpire Anna. L'unica cosa a colpire, dopo quella mia frase, fu il pugno di Gary sulla mia faccia. Caddi a terra. « Pensi davvero che lei voglia te come cavaliere della festa? Tu?! Il figlio del ritardato che non sa nemmeno cavarsi fuori dalla merda? » mio padre. « Vaffanculo. » ribattei, ma ammetto che quella parola in molti non la compresero. Avevo tutta la bocca indolenzita dal colpo. Il sangue faceva sentire il suo sapore alla mia lingua dandole l'antipasto al dolore che di lì a poco avrei provato. Lentamente mi rialzai andando con il dorso a pulirmi il viso. « No davvero.. » rise lui guardandosi indietro « Questo qui l'ha bevuta in pieno! » Non capii e nel cercar risposte guardai Anna. Lei disse una sola parola: « Sfigato! » Fu un colpo al cuore. Ma Dio, quant'era bella quando sorrideva! Il resto fu un frenetico susseguirsi di schiamazzi, calci, pugni, e risa.. tante risa. Lei rideva tutto il tempo guardandomi. Aveva una risata così splendida che quasi mi sarei messo a ridere anch'io. Peccato che quasi sicuramente mi si stava forando un polmone con la costola rotta dai calci di Gary. Sapeva tirarli quei fottuti calci, lo stronzo. Il ballo di fine anno lo passai in ambulanza e all'ospedale. Avevo due costole torre e la faccia.. non fatemi descrivere la mia faccia. Oltre a ciò era anche riuscito a generarmi una lieve emorragia interna. Agli intestini, dissero. Ma io so per certo che la parte che mi fece sanguinare copiosamente era il cuore. « Oh tesoro.. hai preso tanta paura? » era la voce di un'infermiera venuta a trafficare attorno al mio lettino « Non ti preoccupare, qui sei al sicuro. L'ospedale è un trauma, ma non devi preoccuparti di niente. Ancora un paio di giorni e starai bene e potrai tornare a casa dalla tua famiglia.. Su, non piangere. » “Prima cosa: fatti una fottuta ceretta ai baffi razza di stronza messicana che puzza di nachos! In secondo luogo: non sto piangendo per il tuo fottuto ospedale ma per tutt'altro. La mia famiglia non la devi nemmeno lontanamente prendere in considerazione perché non sono nelle condizioni di definire le mie parentele con quel termine. E per ultimo: Io. Non sono. Tesoro.” Ma non dissi niente. Mi limitai a cercare con lo sguardo un bisturi per poterla sgozzare seduta stante. Ora, per quanto il momento appena descritto possa sembrare un surplus nel mio racconto, in realtà è un passo saliente. Quella fu la prima volta che ebbi un istinto omicida vero e reale. Lo reputai accettabile. Lo stavo seriamente prendendo in considerazione. Stavo riuscendo a progettare un omicidio senza farmi alcun patema d'animo di sorta. Ero, in poche parole, in grado di farlo. Mi dimisero dall'ospedale assieme al brontolio di mio padre che mi rimproverò per l'accaduto senza curarsi delle questioni che c'erano tra me, Anna e Gary. Lui era così. Ma la cosa non mi importava seriamente, considerando il suo livello di salute mentale non avrebbe potuto capire un beato cazzo della faccenda. Quindi, mi convinsi che alla fin fine era meglio così. L'unica cosa che ebbe da dirmi era riferita all'ospedale. « Dovevi proprio finire in ambulanza con quello che hai sul petto? » Non so se in quel momento provai disgusto o cosa.. so solo che scossi il capo e lo guardai domandandomi se davvero quell'avanzo di merda là era mio padre. « Quei figli di puttana potevano pensarci prima, non credi? Credevano che fossi invincibile? » Ma la retorica non era il forte di Hiroto e nei giorni seguenti avevamo altre questioni di cui occuparci. Vi risparmio un'estate passata per lo più a cercare disperatamente di pensare ad altro e di essermi concentrato sull'iscrizione al college, esultando per la risposta positiva giunta da niente popò di meno che Stanford. Le mie preoccupazioni furono unicamente per quel prossimo futuro che minacciava di farmi penare parecchio per l'università. Troppo costosa per me. I nonni mi avrebbero sicuramente dato una mano viste le loro possibilità economiche, ma c'era la questione del funerale di mia madre nel mezzo. Il ventinove agosto del novantotto le indagini sul corpo furono dichiarate concluse. I colpevoli? Probabilmente la donna invisibile e Joker di Batman in alleanza con Diabolik ed Eva Kant. Non saltarono mai fuori. Ma i giornali riuscirono a cogliere il grado di insoddisfazione della “cerchia di parentela della vittima”. Probabile dopo la scenata di mio nonno contro i giornalisti che lo rincorrevano come si fa con la volpe in una battuta di caccia. L'otto settembre potemmo seppellirla. C'erano tutti, per modo di dire. Una sfilata di condoglianze verso me e verso mio padre che guardava tutti quei pianti e tutte quelle lacrime come se fossero una stella cometa che passava in una notte d'estate. Handicappato. Mio nonno si tenne lontano da lui, e mia nonna gli rimase al fianco. C'era anche Abigail, la sorella minore di mia madre, ma se ne rimase in disparte per tutto il tempo limitandosi a far presenza. Tra la folla c'erano pure degli invitati speciali. Amici di mio padre. Uomini della Yakuza. Per farla breve: mi invitarono al matrimonio con una certa Lisa Seoung. Donna di cui non avevo mai sentito parlare prima d'ora. Il bello sapete qual'era? Le nozze si sarebbero tenute il ventotto di quello stesso mese. Io ero lo sposo. Mi consegnarono le partecipazioni al mio matrimonio. Il giorno del funerale di mia madre. Possibile? Possibile che la gente sia così merdosamente irrispettosa? Non replicai in alcun modo. Non feci scenate. Non provai niente in quel momento. Ero saturo di tutto il dolore che un animo umano medio potesse sopportare. Oltre quel limite c'era l'atonia, l'incredulità, il distacco. Oltre quel limite si usciva dalla soglia delle percezioni, e si mandava a puttane la morale. Ne parlai con mio padre, il quale prevedibilmente non seppe darmi troppe spiegazioni né parole di conforto. Non accennai nulla ai miei nonni consapevole che altrimenti li avrei abbonati ad un infarto o una crisi di nervi. Seppero del matrimonio solamente dopo e si limitarono ad annuire mestamente, comprendendo la situazione e sapendo di non poterci fare molto. Ma la cosa importante riguarda il prima. Prima che io mi portassi all'altare sfilando davanti a Dio ma sentendomi solamente come un pezzo di carne in macelleria con il cartellino infilzato addosso. « Anna Richard, la conosci? » domandò Hisaki. Erano le nove e zero-nove del nove del nove del novantotto. Fosse accaduto l'anno dopo quel momento sarebbe stato epico. Ma no. Successe allora. « Perchè? » gli chiesi senza una particolare intonazione. « Devo farci un lavoro con lei. » spiegò sommariamente senza mostrare l'intenzione di scendere nei dettagli. « Che tipo di lavoro? » io, quell'intenzione, ce l'avevo. Hisaki non poteva sospettare di nulla « Mah, da quanto ho capito il suo papino è un imprenditore che suda banconote da cento.. » mi spiegò. Non ebbi bisogno che mi spiegasse altro, avevo coltivato una certa esperienza con il modus operandi della Yakuza. Sapevo già che quando ci si riferiva al conto in banca di un genitore, molto probabilmente il colpo aveva riguardato un riscatto da chiedere conseguentemente al rapimento. « Me ne occupo io. » la mia era fermezza, ma posso comprendere che si potesse spacciare tranquillamente per frustrazione protratta dal funerale del giorno prima. Non era la prima volta che davo una mano ad Hisaki a fare il lavoro sporco, nonostante mi fossi sempre dichiarato contro l'organizzazione e lottassi affinché non sperperassero le loro porcate in giro per il mondo. L'idea di mandare me a rapirla parve ragionevole. Avevo più opportunità di avvicinarmi a lei conoscendola dalla scuola rispetto ad Hisaki. Quello lì, concedetemelo, era un tantinello stupido per arrivarci. Non gliene feci mai una colpa. Men che meno in quell'occasione. Entrai in azione la sera tra il diciassette ed il diciotto. Avevo preparato tutto. Avevo seguito i suoi spostamenti ed origliato alcune conversazioni al telefono avvicinandomi pericolosamente alla finestra di camera sua. Quella sera sarebbe uscita. Aveva un appuntamento con le amiche in centro. Non avrei dovuto permetterle di raggiungere zone troppo affollate, così mi dovetti ridurre alla drasticità di una vergata sulla nuca appena poco distante dal cancello di casa sua. La notte giocava a mio favore. L'avidità famelica di rivalsa aveva fatto sì che il mio piano fosse impeccabile e i miei movimenti degni del più spietato serial killer. Era la prima volta che facevo qualcosa di simile, ma sembrava essere un'abitudine. La trascinai in un vicolo. Lì avevo lasciato un borsone sportivo. Non a caso uno di una squadra di foot-ball. Avevo la certezza che lei ci sarebbe entrata. Si trattava di un corpo alto quasi un metro e sessanta e di quasi cinquanta chili. Li riuscivo a sollevare. La sistemai all'interno e mi sforzai di alzare la borsa. Il tragitto che dovevo percorrere era breve. C'era il garage abbandonato di un supermercato chiuso da anni e abbandonato a se stesso. Lì avevo allestito la scena e tutto l'occorrente. Quando liberai il corpo da quell'involucro, lei pareva un angelo. La trattenni tra le braccia con infinita delicatezza. Temevo che si potesse destare da un momento all'altro. Era come se per un attimo mi fossi dimenticato del forte colpo alla testa che le avevo dato e che le aveva fatto perdere i sensi. Si sentiva ancora l'odore delle macchie d'olio di motore a terra. Della polvere. Dell'aria stantia. Ma tutt'attorno avevo sparso candele profumate, un mare di tappeti che forse non erano pregiati, ma impreziosivano l'atmosfera con i loro colori caldi e i decori complessi. In aggiunta, avevo portato anche dei morbidi cuscini sui quali adagiai il suo corpo. Erano una cornice perfetta, pensai. Tanto che per qualche istante mi fermai a guardarla contemplando quell'immagine che avevo innanzi. Ma fu proprio in quel momento che lei emise un leggero mugugnio. Un soffio. Niente di più. Capii che non avevo molto tempo. Quell'esserino si sarebbe potuto dimenare come una bestiolina in gabbia. Chi gliel'avrebbe spiegato? Chi mai avrebbe potuto farle capire che io l'amavo così tanto? La lusinga di certo l'avrebbe fatta cedere alla negazione. E quindi, per impedirle tutto ciò avevo preparato una miscela per assicurarmi che quella serata sarebbe proseguita come io avevo immaginato. Preparai l'ago, il laccio emostatico e tutto il resto. Mentre le pungevo la vena e le afferravo il braccio feci sì che la sua mano andasse a toccare il cavallo dei miei pantaloni strusciando contro il mio corpo. Mentre la 3,4-metilenediossimetanfetamina, comunemente detta “ecstasy” fluiva nel suo braccio appagandola con un'eccitazione chimica, la sua mano ricambiava inconsapevolmente donandomi lo stesso effetto. Quando lei iniziò a gemere io stavo già annaspando tutto sudato. La fissavo, ché guardarla mentre lo faceva non faceva altro che favorire quel sottile tormento che s'affacciava su di un'immagine distorta e confusa di romanticismo. Faceva freddo. Tremavo. Ma mi spogliai. Tenni addosso la canotta e i pantaloni. La mia pelle era impreziosita dai riflessi delle gocce di sudore esaltate dalla luce traballante delle candele. Fu il momento di pensare al mio angelo. Feci saltare uno ad uno i bottoni del suo maglioncino e della camicetta al di sotto. Schiusi le labbra nel posare gli occhi nei suoi seni incorniciati da un reggiseno azzurro di pizzo. Deglutii. Passai alla parte sotto. Slacciai la cintura fina e stretta che si infilava nei passanti della gonna svasata e con un gesto attento e gentile gliela tolsi. Presi ancora qualche istante per contemplare lo spettacolo che avevo innanzi. Si trattava di un gioco perverso. Più la guardavo e più l'impazienza mi diceva di sbrigarmi. Più sentivo la voglia di sbrigarmi e più mi convincevo di voler gustarmi piano quei momenti. Era un equilibrio precario. Un braccio di ferro dal quale la pazienza ne uscì sconfitta. Le abbassai le coppe in tessuto del reggiseno per far uscire i seni retti e sospinti l'uno verso l'alto da quella sistemazione da me scelta che li stringeva non poco. Abbassai il mio volto sul suo petto iniziando a baciarlo. « Mmh. » mugugnò lei. Mi fermai un attimo. Non seppi se lo fece per me o per la droga che stava cominciando a scorrere. Diedi un'occhiata all'ago fissato con il cerotto. Non era andato storto nulla. Quel gemito era normale, e volli convincermi che fosse interamente dedicato a me. Tornai a baciarla andando con le mani a toccarle i fianchi, il ventre fino a scendere in mezzo alle sue gambe come se fossero fatte di burro e si stessero sciogliendo colando tra le calure delle sue carni. La sua intimità mi aveva riservato un tepore accogliente. Unicamente per me. Ma non era abbastanza. Non era eccitata. Ma non gliene facevo una colpa, poverina. Compresi che dovevo darmi da fare. Sollevai il capo dal suo corpo per guardarla in volto. Aveva gli occhi chiusi e le sopracciglia sollevate tra fastidio e goduria. « Vado? » le domandai in un fil di voce aspettando una sua risposta. Lei gemette ancora. Io sorrisi intenerito come farebbe un amante con la propria donna tra le braccia che chiede “ancora..” Scesi fino a portare il mio volto innanzi a alle piegature in mezzo alle sue cosce. Baciai. Assaggiai per la prima volta il sapore della voglia e della passione. Le donai un po' della mia smania, che ce ne avevo così tanta sotto forma di saliva in bocca.. così tanta che sarebbe bastata per entrambi. Gliene posai un po' addosso. Anche più di quel che sarebbe bastato. Ci presi gusto e continuai sentendo che avrei potuto aver la forza di continuare per ore. Mi sentivo assatanato. Avrei potuto proseguire per ore senza fermarmi. Iniziai con tocchi casti – per quanto la situazione non lo fosse affatto – rispettosi, educati, civili.. ma finii con l'indecenza più scabrosa strofinando la mia faccia contro il suo corpo fino a farmi mancare il respiro. Credo che ad un certo punto non avessi più la coscienza di me stesso e l'istinto avesse preso a manovrarmi come una marionetta. Mi tirai su sentendo l'impossibilità di aspettare un solo istante di più. Abbassai i pantaloni quanto necessario e feci altrettanto con la mia biancheria intima. Le accarezzai il volto puntando l'altro braccio sul tappeto ed avvicinando le mie labbra al suo orecchio. La pelle del mio viso aveva ancora tutto il suo odore addosso. « Amore mio.. » sibilai. Ma lei niente. « Tesoro stiamo per farlo. » per l'emozione sentii i miei occhi bagnarsi. Singhiozzai una volta. Non so se stessi sentendo più colpa o più gioia. Mi intrufolai lentamente dentro di lei mentre prestavo ascolto ogni istante a quello che i sensi mi stavano dicendo. Mi raccontavano del suo calore, delle sue carni strette e giovani ancora immacolate dal lerciume umano. Mi raccontavano della mia saliva viscida che mi stava invitando ad entrare. Mi raccontavano di cose che mai avrei creduto vere o possibili, fino a quel momento. Il momento dopo, quando mi sentii totalmente avvolto dal suo corpo, lei aprì gli occhi. « Lane.. » disse lei. Io la guardai cercando altre parole sul suo volto. Era sconvolta. Gli occhi azzurri mi stavano posati addosso. « Dillo. » la spronai. Silenzio. Diedi un colpo deciso arretrando col bacino ed affondando nuovamente « Dillo. » « Lane.. » ripeté lei scuotendo il capo. Io continuai. Ad ogni colpo un: « Dillo. » Finché ad un certo punto i suoi vagiti non si fecero più ripetitivi e ravvicinati. Ed io proseguii con i miei: « Dillo. Dillo. Dillo. » Laane~aah! Aah! Laane! Speravo in una cosa del genere, ma mi rifiutai di attendere oltre. Le afferrai il volto affondando l'indice e il pollice l'uno su una guancia e l'altro sull'opposta. La bocca le si aprii come un portagioie quando si fa scattare il meccanismo. Mi chinai su di lei e cercai la sua lingua, il suo sapore facendole sentire il gusto del suo corpo. Della sua intimità. Come fanno le bestie. Continuai finché non mi sentii pervadere da una sensazione nuova ma che riuscii a riconoscere subito. Quel momento in cui tutti i muscoli si contraggono e non c'è il minimo rispetto per nessun altro fuorché il personale appagamento. Non so quanto pericolosamente mi stessi gettando dentro di lei. Avrei potuto rischiare di lacerarle i tessuti interni. Non me ne sarei curato. Mettevo la mia disperata voglia d'amore al primo posto. Feci l'amore con lei come un affamato. Feci l'amore con lei come se mai.. non fossi stato amato mai. Quando poi, mi sentii rigirare gli occhi e il mio corpo non aveva più nemmeno la forza di reggersi, mi accasciai accanto a lei e la tenni tra le mie braccia continuando a sussurrarle parole d'amore all'orecchio finché il gelo della sua pelle non mi suggerì che l'avevo persa per sempre.