di fabrizio gatti

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di fabrizio gatti
LIBRO
IN ASSAGGIO
BILAL
DI FABRIZIO GATTI
BILAL – Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi
DI FABRIZIO GATTI
UN VIAGGIO VERSO LA LIBERTÀ NON PUÒ CHE LASCIARCI LIBERI DI
PRENDERE LA ROTTA CHE PIÙ CI RASSICURA
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Dal Senegal al Mali
L’aeroporto di Dakar galleggia nell’oblò sotto una cupola di luce bianca.
Poche decine di metri separano i piedi dall’Africa. Intorno, il buio è di un nero
fitto. Il grande viaggio è appena cominciato e ha già imposto le sue prime tre
ore di ritardo. A Milano era tutto pronto per la partenza. Cinture allacciate,
portelloni chiusi. E a metà aereo è scoppiato il finimondo. Un passeggero si è
messo a urlare, ha tentato di togliersi la maglietta blu con la scritta «Italia» sul
petto. La hostess continuava a invitarlo ad allacciarsi la cintura di sicurezza.
Lui stava per sfilarsi perfino quella dei pantaloni. Un ragazzo alto, enorme, sui
trent’anni. Chissà da quanto tempo aveva lasciato l’Africa. Lo stavano
rimandando al mittente, con un foglio di identificazione consegnato al
comandante. Come si fa con i trasporti di valore o con gli animali in gabbia
imbarcati nella stiva. Nel Monopoli della sua vita, da qualche parte aveva
pescato l’imprevisto, la giocata perdente che per un immigrato è il decreto di
espulsione. Quando è entrato nella lunga fusoliera dell’Md 11, è stato l’unico
momento in cui si è accorto di avere un potere in Europa. Un intero aereo,
l’equipaggio, più di duecento passeggeri. Tutti nelle sue mani. Lui ha capito.
Ha aspettato. Dalla sua poltrona non vedeva i piloti, ma ha intuito. E quando è
arrivato il via libera al decollo, ha puntato sulla sua ultima carta.
La sceneggiata ha bisogno dei suoi tempi. Prima accorrono le hostess: «Per
favore, si calmi». Poi arrivano gli steward, un
po’ più robusti: «Se non la smette, avvertiamo il comandante». Ed ecco il
comandante, giacca impeccabile e fregio d’oro sul berretto: «La prego, o
saremo costretti a chiamare la polizia». Dopo un’ora di tira e molla sale a
bordo la polizia. Ma cosa vuoi dire a un ragazzo di trent’anni che sta
perdendo tutto quello su cui aveva investito? Che se non fa il bravo lo arresti?
In prima classe, su una poltrona della fila tre, è seduto un uomo che qualcosa
per calmare quel ragazzo la potrebbe anche fare. Karamoko El Hadji è un
famoso marabutto del Senegal. Durante l’imbarco i passeggeri senegalesi
l’hanno riconosciuto, si sono inchinati e, stringendogli la mano, hanno
augurato ogni bene a lui e alle due mogli che ha lasciato a Banjul in Gambia e
a Dakar. El Hadji porta al petto un gris-gris, un cilindro di cuoio legato al collo
e alla vita. Dentro, su un foglio arrotolato, è scritto un versetto del Corano. Dal
suo sottile anulare destro torreggia una capsula d’argento piena di polvere
verde. «Questo» spiega Karamoko Ei Hadji indicando il gris-gris, «è contro il
male. Ti protegge se ti sparano o ti accoltellano. L’anello invece dice che hai
potere. E la gente te lo riconosce.»
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«Ma a uno come voi, chi dovrebbe sparare?» «Non si sa. Se vai in giro
afterhours, la notte ad esempio, può succedere.» «Il titolo di El Hadji significa
che avete già fatto il Pellegrinaggio?» «Un Hadji? Io? No, non ancora» sorride
abbassando le palpebre: «Costa tanto andare alla Mecca. Ma perché non
partiamo?»
I marabutti sono grandi viaggiatori. Non hanno nemmeno bisogno di spostare
il corpo. Ogni giorno, a ciascuna delle cinque preghiere, ovunque siano,
vanno e tornano dalla Mecca. La legge di Dio non chiede di mostrare
passaporto e visti. La legge degli uomini sì. E così a Karamoko El Hadji
sfugge completamente il motivo della baraonda, intorno a quel sedile, una
ventina di file dietro la sua poltrona.
«Basta! Stai fermo o ti facciamo sbarcare dall’aereo» urla un agente là in
fondo. Nessuno di solito vuole andare in galera. Non lo desidera la persona
rispettosa della legge, nemmeno il criminale più sanguinano. Ma per quel
ragazzo stasera il mondo sta girando proprio al contrario. E finalmente viene
accontentato Tempo trascorso: tre ore e dodici minuti. Sono tutti felici. Il
concetto di autorità è stato appagato, i passeggeri italiani applaudono i
poliziotti, il comandante può ridare potenza alle turbine. Si parte. Il colpevole
di tanto oltraggio resterà in Italia qualche giorno ancora. Fino al prossimo
tentativo di rimpatrio. E, forse, al suo prossimo arresto. Eppure, ciò che gli
impedisce di rimanere in Europa è un pezzo di carta: venticinque centimetri
per quindici, una fototessera, qualche goccia di inchiostro, un timbro.
Nell’Italia della mafia, dei corrotti e corruttori diventati ministri e parlamentari,
delle loro leggi salvaladri, guai per uno straniero non avere quel pezzo di
carta. Ma quanto è costata stasera la sceneggiata? Tre agenti in servizio
notturno, la macchina con i lampeggianti blu sotto bordo, un aereo con le
turbine al minimo per tre ore, gli straordinari per piloti ed equipaggio, il
biglietto già pagato, il giudice che celebrerà il processo, l’avvocato d’ufficio a
spese dello Stato, la burocrazia, i giorni in cella, le carte per il nuovo rimpatrio
e forse un altro volo da bloccare a terra. Consegnare un permesso di
soggiorno costerebbe molto meno. Ma la politica ha bisogno di preziose
sceneggiate. Altrimenti come giustifica il suo consenso?
Pensieri in libertà. Come le immagini ancora fisse nella mente del volto
spaventato di quel ragazzo, stretto da un agente davanti e due dietro. Lo
spingono gentilmente tra i sedili verso l’uscita della fusoliera. Impossibile
sapere chi sia, chiedergli della sua storia, cosa abbia sbagliato e che cosa si
aspettasse di trovare. E un clandestino. Una nuova classe sociale nell’Europa
del ventunesimo secolo. Un uomo invisibile, non conta, non esiste. Quando gli
passa accanto, nemmeno Karamoko Ei Hadji lo degna di uno sguardo.
Ora che siamo atterrati, il ricordo di quegli occhi arrossati dalle lacrime e dalla
tensione è ancora qui davanti: immobile, nel buio che cancella volti e
paesaggio non appena si esce dalla cupola di luce dell’aeroporto di Dakar.
Occhi grandi, smarriti, in mezzo ai pensieri rallentati dalla stanchezza. Il
vecchio taxi illumina la strada con due deboli fari. Dopo meno di un
chilometro, accosta a destra, siamo fermi. Si apre una portiera. Sale una
donna scura come la notte e grande come un giocatore di pallacanestro.
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Soltanto la voce, le mezzelune del suo seno enorme, la minigonna stretta
sulle cosce ne tradiscono la femminilità. «Andiamo al tuo albergo» ordina
senza dire altro.
«Cosa?» «Dì all’autista qual è il tuo albergo. Andiamo» insiste lei. Il tassista si
volta e aspetta una risposta. Sono sicuramente d’accordo. «Allora?» chiede il
tassista. «Io non vado in nessun albergo. La faccia scendere per favore.»
Parlano in wolof tra loro. Poi lei ci riprova. Guarda in silenzio. La sua è una
presenza invisibile, nel buio nero se ne intuiscono i profili. La macchina
ondeggia a ogni movimento. I suoi polmoni sbuffano lentamente. La pelle
esala un profumo dolciastro di essenze e sudore. La sua mano bagnata
all’improvviso si materializza sul collo: «Vengo a dormire da te stanotte. Digli
l’indirizzo, per favore» aggiunge in francese.
«Non si va a dormire da nessuna parte. Io vado alla stazione.» «Alla
stazione? Mio Dio, e dove vai? A quest’ora non ci sono treni.» «Se vuoi, ti
porto alla stazione. Oppure dimmi tu dove vuoi andare. Ti offro un
passaggio.» «Al tuo albergo.» «Non ho albergo.» Lei impreca in wolof. Se la
prende con il tassista adesso. Dice che le ha fatto perdere tempo. E lui la
obbliga a scendere.
«Queste ragazze» commenta dopo qualche chilometro di silenzio: «Il loro è
un lavoro indecente». La mancanza di qualsiasi replica lo convince che è
meglio cambiare argomento. E quasi l’alba e l’albergo regala poche ore di
sonno.
Aggiornata il giovedì 17 aprile 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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