Ingiurie, vendette e tradimenti quando l´offesa si lavava col sangue

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Ingiurie, vendette e tradimenti quando l´offesa si lavava col sangue
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Dal caso Ciffariello a quello di Maria Di Stasio: fino al 1981 in Italia riconosciute le attenuanti al "delitto
d´onore"
Ingiurie, vendette e tradimenti quando l´offesa si lavava col sangue
L´articolo 587 del codice penale riconosceva l´offesa all´onore
ATTILIO BOLZONI
Finivano sempre con grandi applausi quei processi in Corte di Assise. In aula si scatenava il putiferio, i
parenti e gli amici stavano lì in adorazione dell´imputato. Era un esempio per tutti, un vero uomo. Fu così
anche quella mattina del marzo dell ‘81, quando a Salvatore V. concessero le famigerate attenuanti. Il
giudice citò solennemente l´articolo 587 del codice penale e riconobbe per l´ultima volta in Italia il delitto
d´onore.
Faceva il portalettere Salvatore e con Maria abitava a Misilmeri, tra i giardini della Conca d´Oro. Un giorno di
sei anni prima disse a sua moglie che il direttore delle Poste l´aveva convocato a Palermo: tornò a casa e
trovò Maria con il cognato Giovanni. Erano nella stanza da letto, lui nudo e lei in vestaglia. Tirò fuori il
revolver e li uccise. In primo grado lo condannarono a 13 anni, in appello a 6 «per aver difeso l´onore suo».
Per corna o per qualunque altra offesa a quella che in ogni sua sfumatura era considerata dignità, si sono
versati fiumi di sangue e fiumi di inchiostro nelle alcove e nei palazzi di giustizia sparsi per il nostro Sud.
Mogli infedeli sgozzate, figlie disonorate e vendicate in pubblica piazza, sorelle e madri punite per avere
macchiato la rispettabilità della famiglia. Una giustizia tribale che non ha mai conosciuto distinzione di ceto,
l´assassino era sempre giustificato: «Lo doveva fare». Erano i forzati dell´onore.
Come lo scultore Filippo Ciffariello, che aveva sposato la bellissima diciottenne Maria de Brown e la
sorprese con l´amante alla pensione «Mascotte» di Posillipo. Sparò un solo colpo. Ebbe clemenza dalla
corte, fu assolto per avere vendicato lo sfregio. Era il 1905.
O come Luigi Millefiorini, che fece fuori la moglie Giovanna a Roma, in via Appia. La donna aveva una
relazione con un certo Leone. In primo grado Leone giurò di non avere mai sfiorato con un dito Giovanna e
Luigi fu condannato a 3 anni e 6 mesi di reclusione, in appello l´uomo confessò di essere l´amante e la
condanna per Luigi scese a 7 mesi. Fu scarcerato con il solito battimani. Era il 1954. O come il maresciallo di
polizia Alfonso La Gala, che colpì la moglie Anna con un tubo di ferro nella loro casa di Aversa. Lei aveva
confessato di amare un altro. La condanna fu di 2 anni di reclusione e la non menzione sul certificato penale.
Era il 1978.
L´articolo del codice era sempre quello, il numero 587 che così recitava: «Chiunque cagiona la morte del
coniuge, della figlia o della sorella, nell´atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d´ira
determinato dall´offesa recata all´onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da 3 a 7 anni».
Qualcuno cercò di abolirlo già nel 1968. Il primo fu il ministro della Giustizia Oronzo Reale, poi Giuliano
Vassalli. Ma le loro proposte si arenarono in Parlamento. Solo dopo il referendum sul divorzio e quello
sull´aborto l´odioso articolo fu cancellato. La legge è la numero 442 del 5 agosto 1981.
Fino ad allora restarono impuniti quei forzati dell´onore. Vergogna raccontata anche da Pietro Germi nel suo
famosissimo «Divorzio all´italiana». Il film è del ‘61. Il protagonista, un barone siciliano - Marcello Mastroianni
- stanco della petulante moglie e invaghito di una cugina sedicenne, indusse la consorte al tradimento per
poi ucciderla. Condannato a una pena minima per «delitto d´onore», il barone finalmente sposò la cugina.
In quell´Italia è accaduto di tutto in nome dell´onore. Febbraio 1967, in un albergo di Bagnoli Maria Di Stasio
evira con una lama il giovane amante e getta dalla finestra l´oggetto della sua rappresaglia. Ottobre 1979, il
carrettiere di Trapani Vito Cardella uccide il possidente Giovanni Castiglione perché quasi mezzo secolo
prima - nel 1937 - gli aveva detto: «Ti ho fatto cornuto». Marzo 1980, il segretario regionale del Psi campano
viene ucciso da un uomo che ai carabinieri racconta: «Era giusto così, andava con mia moglie». Eserciti di
avvocati si sono arrampicati anche sui muri per sostenere le ragioni di quegli assassini. Come Giuseppe
Casalinuovo, principe del foro di Reggio Calabria, che difese con successo un certo Annibale Mazzone con
una sbalorditiva arringa: «E´ il disonore che ci devasta, che ci rende folli. In noi c´è il fuoco dei nostri
vulcani... se sei tradito uccidi, te lo gridano i tuoi avi da millenni, te lo gridano i tuoi morti da tutte le fosse.
Uccidi, se no sei disonorato due volte».