La guarigione di un cieco a Betsaida (8,22-26)

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La guarigione di un cieco a Betsaida (8,22-26)
Esercizi spirituali nella vita ordinaria - Santa Maria delle Grazie - Carosino
La guarigione di un cieco a Betsaida (8,22-26)
Marco ci descrive in tutti i dettagli il modo in cui Gesù guarisce un cieco che la folla gli porta perché
egli lo tocchi. Forse essa è disperata, poiché questo cieco non si fa toccare più da nulla e non riesce a stupirsi
più di nulla. Alcuni passi della terapia assomigliano ai passi percorsi in occasione della guarigione del
sordomuto. Si tratta di pratiche di salvezza note anche nell'ambito delle storie miracolose di matrice
ellenistica. Marco delinea Gesù come il vero medico la cui forza risanante libera l'uomo in favore di un
autentico essere uomini. Gesù non ha bisogno di formule magiche al modo in cui venivano recitate dai
taumaturghi ellenistici o rabbinici. Egli guarisce solo attraverso la cura e il contatto.
Gesù prende il cieco per mano. In questo modo crea una relazione con lui e lo conduce fuori dal
paese. Forse l'uomo era cieco poiché non aveva mai varcato i confini del suo paese, ed era imprigionato nei
suoi rigidi modelli di pensiero (cfr. Fischedick, 248). Prima di entrare in paese, certo. Gesù può stare anche da
solo col malato. Egli crea qui per il cieco uno spazio di protezione del privato ed evita una dimostrazione
della sua arte soterica davanti agli occhi di tutti. Occorre essere in disparte, ci vuole un'atmosfera particolare
per l'evento della guarigione. La cecità ha certo spesso qualcosa a che fare col fatto che un uomo non può
vedere il mondo poiché questo gli appare come ostile e minaccioso. Egli chiude gli occhi poiché non sopporta
di vedere che cosa c'è là. Occorre uno spazio di fiducia, d'intimità, affinché il cieco possa azzardare ad
aprire i suoi occhi.
Ora Gesù spalma la saliva sugli occhi del cieco e vi pone le mani sopra. Egli agisce qui come un
medico che fa penetrare l'unguento nel malato. Mostra la sua premura corporalmente, sputando la sua saliva
sugli occhi del malato. Come abbiamo già visto sopra, questo è un gesto materno che Gesù compie qui nei
confronti del cieco, affinché nell'uomo spaventato dalla vita cresca la fiducia. Imponendo le mani sopra il
cieco, la saliva deve penetrare in lui. Deve aver luogo uno scambio tra lui e Gesù. Dopo aver posto, per
qualche minuto, le sue mani sopra gli occhi chiusi, Gesù le toglie via e chiede al malato se riesce a vedere
qualcosa. Quegli risponde: «Vedo gli uomini; infatti, vedo come degli alberi che camminano» (8,24). La
guarigione ha, dunque, solo un successo parziale. Il cieco vede qualcosa, ma in modo ancora non chiaro. Gli
uomini non hanno ancora un volto. Egli li vede solo camminare e li paragona a degli alberi. Essi stanno eretti
come gli alberi, senza però avere ancora un profilo definito. Egli non vede la persona, il volto degli uomini
(prósopon, cioè ciò che vedo), ma solo quello che essi fanno esteriormente.
Gesù allora impone nuovamente le mani sugli occhi del cieco. E in questi occhi fa scorrere nuovamente
la sua forza risanante. Ora l'uomo vede chiaramente. Come viene detto più precisamente in greco, egli penetra
con lo sguardo. La cosa paradossale è che l'uomo fa questo mentre Gesù gli tiene le mani sugli occhi. Forse
qui ci s'intende riferire a un vedere interiore. Allo stesso tempo, però. Marco afferma che la nuova
imposizione delle mani di Gesù riporta il malato sulle proprie gambe, così che egli può guardare il
mondo con i suoi occhi e non più con le lenti fattegli indossare da altri: «Fu sanato e vedeva a distanza
ogni cosa» (8,25). Il termine greco significa propriamente: «(vedeva) da lontano molto bene, in modo
chiarissimo». Ora il cieco vede ogni cosa chiaramente. I suoi occhi partecipano della chiarezza del sole che
tutto illumina. Alla luce di Gesù riesce a vedere ogni cosa e capisce tutto. Marco ha collocato questa
pericope consapevolmente prima della sofferenza di Gesù. Per poter comprendere questa abbiamo
bisogno degli occhi della fede, d'occhi solari che riconoscono il Figlio di Dio anche nella sofferenza. Ciò
vale allo stesso modo anche per il proprio dolore. Anche qui c'è bisogno della luce del sole per poter
sperimentare in esso la vicinanza risanante e liberante di Dio.
Spesso la terapia ha bisogno di un tempo più lungo, fino al momento in cui l'uomo osa aprire veramente
i suoi occhi e decide di vedere tutto chiaramente. All'inizio si vede soltanto in modo indistinto. Conosco bene
questa situazione. Essa ha luogo quando non voglio affatto vedere precisamente ogni cosa: guardo
allora soltanto attorno a me e vedo uomini che vanno e vengono senza guardarli in faccia. Evito di
incontrarli. Non ho alcuna voglia di guardarli con
Terza parte - 29.12.2008
più precisione, poiché, altrimenti dovrei presentarmi all'altro e confrontarmi con lui. Allora egli cambierebbe
la mia vita. Il primo sguardo del cieco non serve all'incontro, ma solo a un orientamento. Eppure possiamo
vedere veramente solo se siamo pronti a guardare l'altro in faccia. Allora l'incontro ci trasforma. Se
vedo solo il profilo dell'altro, non voglio cambiare me stesso. Vedo solamente a una distanza che mi
consente di poter percorrere il mio cammino personale. Gli altri, però, non m'interessano realmente. Solo se
vedo l'altro chiaramente posso incontrarlo e soddisfarlo.
Marco racconta della guarigione del cieco alla fine dell'operato di Gesù in Galilea. Ora Gesù sale
a Gerusalemme. Nei tré capitoli successivi accenna tre volte alla sua sofferenza e alla sua morte a
Gerusalemme. I discepoli che Io accompagnano, però, restano ciechi. Prima di entrare a Gerusalemme
Gesù guarisce ancora un cieco che lo segue sul suo cammino. Egli è l'unico discepolo che lo segue a occhi
aperti. Tra le due guarigioni del cieco Gesù ammaestra i suoi discepoli, lungo il suo cammino verso
Gerusalemme. Egli desidera aprire i loro occhi sul mistero di questo suo cammino personale che porta
alla risurrezione attraverso la croce, ma anche sul loro cammino personale lungo il quale faranno le
stesse esperienze. Attraverso questa costruzione a sandwich Marco mostra il suo modo di intendere
l'ammaestramento dei discepoli operato da Gesù: egli apre gli occhi sulla realtà attraverso le parole.
Questo è il senso di ogni meditazione della Scrittura: fare in modo che noi meditiamo internamente le parole
di Gesù a tal punto che i nostri occhi si aprono e riconosciamo il mistero di Dio e la nostra dimensione di
esseri umani.
Gli occhi dei discepoli restano chiusi fino alla risurrezione. Alla morte di Gesù il centurione pagano
vedrà in lui il Figlio di Dio. Più tardi saranno le donne a incontrare l'angelo nella tomba. Esse devono
annunciare ai discepoli che vedranno Gesù in Galilea. Così la guarigione dei ciechi c'invita ad aprire,
gradualmente i nostri occhi affinché comprendiamo sempre più il mistero della morte e risurrezione di Gesù e
riconosciamo a occhi aperti che cosa ha compiuto in noi. La prima guarigione è una sfida a comprendere
chi è questo Gesù, lungo il nostro cammino che percorriamo insieme a lui. Lui, che cammina davanti a
noi e ci avvia al mistero della vita è, nel contempo, colui che morirà per noi vincendo nella sua morte il
potere delle tenebre. Ora egli, in quanto risorto, cammina con noi lungo il nostro cammino di vita.
Dalle regole del discernimento secondo S. Ignazio di Loyola
S. Ignazio specifica anche che i fenomeni interiori generati dallo Spirito di Dio lui li racchiude in
una sola parola: "consolazione". Con questo termine S. Ignazio intende lo stato di calma e di pacificazione
inferiore e, di conseguenza, l'assenza di ogni ombra o turbamento, che vengono solo dal Maligno. Inoltre,
specifica che le lacrime che provengono dallo Spirito non sono lacrime di tristezza ma lacrime che danno un
senso di liberazione e accendono la persona a nuove decisioni di servizio a Dio, al Vangelo e all'uomo. La
"consolazione" comporta anche un senso di elevazione verso Dio, un gusto delle cose spirituali e l'aumento
intensivo delle virtù teologali.
Il contrario della consolazione è la "desolazione". Con questa parola Ignazio sintetizza tutti i
fenomeni che la vicinanza del Maligno produce nell'animo umano, e li elenca così: oscurità dell'anima,
turbamento, inclinazione alle cose terrene, sfiducia, mancanza di speranza e di amore, tiepidezza, pigrizia e
tristezza.
Terza parte - 29.12.2008