PAESAGGI FLUVIALI E LETTERATURA NEL VENETO DELLA
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PAESAGGI FLUVIALI E LETTERATURA NEL VENETO DELLA
FRANCESCO VALLERANI PAESAGGI FLUVIALI E LETTERATURA NEL VENETO DELLA MODERNIZZAZIONE 1. L’IDENTITÀ ANFIBIA La sedimentazione culturale distribuitasi nei secoli lungo la complessa maglia di deflussi che caratterizza l’area veneta sta beneficiando di un recente e, per molti aspetti, sorprendente riconoscimento sia da parte degli ambienti scientifici che delle mutevoli percezioni popolari. Ciò costituisce una significativa controtendenza rispetto alle numerose e preoccupanti tipologie del degrado formale e funzionale dell’idrografia regionale che hanno creato, specialmente nei decenni del miracolo economico, un diffuso distacco affettivo e operativo tra i rivieraschi e i corridoi fluviali. Anche senza soffermarsi sulla vistosa obliterazione dei navigli della Patavium romana conclusasi alla fine degli anni Cinquanta, il tumultuoso processo di espansione economica regionale non ha esitato a immolare sull’altare del progresso gran parte del patrimonio di vie d’acqua che per secoli sono stati tra i più significativi elementi della peculiare territorialità della Terraferma. Il nuovo approccio alla realtà dettato dalle imperanti attitudini moderniste si avvale di potenti attrezzature meccaniche che consentono di stravolgere l’ordine preesistente: prelievi di inerti, rettifiche di meandri, cementificazioni delle sponde, interramento della rete scolante, costruzione di dighe, bonifiche. Se a ciò aggiungiamo il degrado della qualità dell’acqua causato da numerose fonti inquinanti e l’alterazione delle falde per eccessivi emungimenti da parte della “casta” dei venditori d’acqua potabile, il panorama dei rischi che minacciano l’identità anfibia del Veneto è quasi completo. Dico “quasi” perchè non bisogna sottovalutare il continuo e pulviscolare sfondo di inciviltà quotidiana che, nel più vile anonimato, abbandona con sconcertante indifferenza ogni sorta di rifiuti lungo gli argini, tra le boscaglie rivierasche, sui prati golenali. È questo il vero oltraggio, che preoccupa ancor più, se possibile, della cava in alveo perchè sancisce in modo inequivocabile non solo il disimpegno etico, ma soprattutto l’annullamento del senso del luogo e dei legami che radicano l’abitante al suo territorio. Ma come accennato in precedenza, questo quadro scoraggiante lascia spazio da qualche decennio al progressivo affermarsi di nuove attitudini, animate dal bisogno di identità attraverso gli elementi del patrimonio ereditato e in tal senso la rete idraulica qui considerata è davvero 115 prodiga di significativi spunti non solo per riabilitare le peculiarità locali, ma per avviare anche strategie di riqualificazione degli ambiti della quotidianità, sia residenziale che produttiva. A ciò si deve una sempre più diffusa celebrazione del Veneto anfibio, al cui interno sono assai numerosi i centri urbani che si fregiano del prestigioso marchio di “città d’acqua”, promuovendo sia a livello di iniziative spontanee che istituzionali una coralità d’intenti volta al recupero del rapporto tra uomo e acque dell’entroterra. È la prova concreta e incoraggiante che nel Veneto, nonostante il forte individualismo e il substrato conservatore consolidato dal successo economico, si sta riconsiderando la convenienza e la fondatezza di un più maturo e consapevole rapporto con la base territoriale. Ecco che il suddetto sedimentarsi di una ricca e peculiare civiltà delle acque è ancora in grado di suscitare affascinanti suggestioni tra i viaggiatori che riescono a distaccarsi per un po’ dal prepotente richiamo delle consuete mete del turismo veneto. Ma l’idrografia regionale è stata fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale uno stimolo per affettuose celebrazioni pittoriche e letterarie, quasi un topos del “bel luogo”, del paesaggio ideale. La fattualità geografica si carica di valori estetici e culturali condivisi principalmente dalle classi dominanti, ma con innegabili ricadute anche tra i subalterni, nonostante che questi ultimi identificassero il corso d’acqua come ulteriore opportunità di sussistenza Obiettivo di queste brevi riflessioni sarà quello di evidenziare il ruolo illuminante di alcuni testi letterari nell’interpretazione delle più profonde dinamiche socio-culturali che sono alla base del rapporto tra uomo e acque interne, in una regione da sempre strettamente legata alle peculiarità della sua complessa e multiforme rete idrografica. L’arco temporale considerato è quello della modernizzazione novecentesca, identificando due momenti percettivi antitetici, coincidenti con le dinamiche sociali che governano l’idea di natura. Si tratta cioè di una produzione letteraria che interagisce non solo con l’atmosfera idealista del primo dopoguerra (SORIANI, VALLERANI, ZANETTO, 1996), dominata dall’irrisolto dualismo tra modernità e tradizione (PARPAGLIOLO, 1923), ma anche con l’incosciente entusiasmo per la vorticosa trasformazione dell’Italia in paese industrializzato (TURRI, 1990). In tal senso, all’immaginario fluviale dominato da toni arcadici, in sintonia con la lezione romantica degli elogi nieviani alle acque tra Livenza e Tagliamento (VALLERANI, 1994), fa seguito nel secondo dopoguerra una allarmata evocazione delle vie d’acqua come geografie del disagio. Si tratta di trasfigurazioni della realtà territoriale che raccontano la dolorosa consapevolezza che le regole del profitto non ammettono passaggi all’indietro (ZUNICA, 1987). Ma è anche un’occasione di incontro tra attitudini geopoetiche e la carica etica di chi analizza senza ambiguità gli esiti concreti del degrado degli ambienti anfibi, non esitando a denunciare “la forma arrogante del modello artificiale” (ZUNICA, 1992, p. 26). 116 2. I PAESAGGI FLUVIALI TRA PITTORESCO E ORGOGLIO LOCALISTA Si è dunque accennato in precedenza che i microcosmi idrografici del Veneto, anche attraverso l’evoluzione delle percezioni estetiche e il vorticoso succedersi delle innovazioni tecnologiche, hanno sempre mantenuto vivo il proprio carattere rasserenante e di decoro formale, per cui l’accesso alle sponde o il viaggio a bordo di imbarcazioni erano spesso svincolati dai molteplici usi economici praticabili lungo il loro corso. Durante la prima metà del Novecento infatti, la presenza di una via d’acqua, specie in ambito urbano, è sempre stata considerata un’attraente opportunità ricreativa, connessa soprattutto alla voga da diporto che, insieme al nuoto, rappresentava un segno concreto della forte familiarità che legava le popolazioni rivierasche ai loro fiumi. Di pari passo con l’espansione urbana e industriale, si definiscono in questo periodo i termini del fecondo rapporto tra natura e salute (GUÉRIN, LÉVY, 1992) che in seguito, durante il fascismo, ha subito il condizionamento di un progetto terapeutico di massa, sorretto dal diffondersi, nel caso qui considerato degli ambiti fluviali, di associazioni sportive come le Canottieri e le Rari Nantes. La già menzionata sistemazione ingegneristica dei fiumi e canali veneti realizzata durante il fascismo non è mai stata percepita in modo negativo dalle coeve attitudini idealiste, assai attente e severe nei confronti degli schemi modernisti che “alterano l’aspetto del suolo patrio, lo imbruttiscono, lo immiseriscono, e non potranno non urtare sensibilmente quell’amore alla natura che rappresenta la maggior somma di idealità di cui l’anima moderna si nutrisce e si esalta” (PARPAGLIOLO, 1923, p. 14). Anzi, la rettifica di pericolosi meandri, la costruzione di briglie, la cura nel disegno architettonico delle centrali idroelettriche o degli edifici delle idrovore e, soprattutto, le vistose trasformazioni di ampi settori anfibi con la bonifica sono tutti interventi che, al di là degli ovvi vantaggi funzionali, aumentano la qualità estetica del paesaggio (Fig. 1), coniugando l’idea della natura “bella perchè produttiva” con la retorica nazionalista del “fervido lavoro umano” (SORIANI, VALLERANI, ZANETTO, 1996, p. 10). Se l’elevata qualità formale dei paesaggi fluvio-lagunari del Veneto era già stata rilevata, anche se di sfuggita, in specifici studi geo-economici subordinati ad una palese promozione del discorso modernista, il definitivo riconoscimento sociale di tale patrimonio ambientale è chiaramente evidenziato in numerosi testi letterari, sia cólti che popolari, in cui all’elogio dei quadri fisionomici si associano i moventi dell’orgoglio localista. A questo proposito è sufficiente menzionare alcuni dei più rilevanti segmenti di cultura localista nel Veneto del primo dopoguerra e cioè le riviste mensili Le Tre Venezie e L’Illustrazione della Marca Trevisana (ribattezzata L’Illustrazione Veneta nel settembre del 1927). Esse assolvono il compito formativo della divulgazione di temi culturali connessi al 117 Fig. 1. – Nuovo paesaggio idraulico di età fascista: la briglia di Strà sul Brenta (da MILIANI, 1939). territorio, valorizzandone le peculiarità storiche e artistiche. Oltre a ciò convivono anche obiettivi di recupero nostalgico del passato, fatto di paesaggi, di antichi mestieri, memorie di guerra, di ruralità oleografica, aggiungendovi talvolta una rozza critica al “macchinismo” e ciò ad opera di modesti intellettuali “impegnati a raccogliere e far rivivere vecchie e ormai stantie tradizioni popolari, in una logica strapaesana (e profondamente reazionaria) di ritorno ai sani valori della vita rurale” (URETTINI, 1993, p. 210). E l’idrografia veneta viene citata di frequente, sottolineando con assidua ricorrenza i temi forti del Piave “Sacro alla Patria”, delle chiare e fresche acque del Sile (Fig. 2), dell’aristocratico decoro della Riviera del Brenta, della bonifica, promuovendo un’estetica fluviale assai conformista, sorretta da frequenti riferimenti alle coeve scuole pittoriche influenzate dal vedutismo dei Ciardi (MENEGAZZI, 1991). Di tono poco difforme sono gli articoli dedicati ai paesaggi fluviali veneti rinvenibili nei numeri mensili delle Vie d’Italia, bollettino informativo destinato ai soci del Touring Club. Trattandosi di una rivista a livello nazionale, molti dettagli locali sfuggono, anche se l’innovativa strategia del Touring era soprattutto la riscoperta dei luoghi negletti, cioè marginali e poco conosciuti, ma non per questo sprovvisti di seduzione (Fig. 3) come nel caso di alcuni scorci della Riviera del Brenta che richiamano il tono garbato delle arcadie fluviali: Si specchiano nelle pigre acque borghi ridenti, ville che vanno dalla semplicità classica alle fiorite eleganze del Settecento, parchi e giardini [...] Gruppi di salici chinano sull’acqua la verde cascata delle foglie, due caval118 li trascinano un burchio all’alzaia, un pescatore cala dal suo battellino la bilancella, traendone pesci luminosi e guizzanti (MOTTA, 1943, p. 385). Con questi testi si cerca dunque di stimolare non solo la percezione di un “paesaggio nazionale unico al mondo”, ma di incoraggiare anche il radicamento localista e l’orgoglio per l’opera dell’uomo che proprio nella Fig. 2. – L’alto Sile secondo Guglielmo Ciardi (1875 circa, Milano, coll. privata). Fig. 3. – Seduzioni della campagna intorno a Venezia (da Le Vie d’Italia, 1943, p. 729). 119 bassa pianura tra Po e Livenza ha “di deserto fatto giardino” (MANACORDA, 1942, p. 733). In questi contesti geografici l’estetica e la topofilia “palustre” del Nievo è ben lontana: Oltre l’ultimo argine, al limite estremo, ancora dominano acque putride e stagnanti, melma e falaschi, la dea febbre e le verdi isole allucinanti: Palude da domare, che sarà domata; desolazione millenaria che rifiorirà in letizia di uomini e di natura (MANACORDA, 1942, p. 733). Anche all’interno della produzione letteraria colta, si avverte come le euforiche aspettative dell’incalzante progresso non sempre godevano di unanimi consensi, propagandosi invece sempre più frequenti abbandoni nostalgici, sorretti spesso da consapevoli azioni di recupero degli antichi valori identitari. E il lento scorrere dei corsi d’acqua ha ancora il suggestivo messaggio simbolico del fluire dell’esistenza, e le caratteristiche attività delle genti di fiume, di cui si percepisce la fragilità al confronto con i moderni assetti produttivi, sono il tenue legame con un passato ormai in estinzione e per questo in perfetta e struggente sintonia, ad esempio, con le melanconiche riflessioni di Paola Drigo, scrittrice trevigiana che, gravemente ammalata, osserva il fiume Bacchiglione da una finestra della casa di Padova: Sul fiume, scesi da Venezia, transitano grossi barconi carichi di carbone, di legna, di materiale di costruzione. Oggi ce n’è uno qui sotto, pesantissimo, colorato di azzurro e di giallo, immerso nelle acque fino al bordo. C’è il cagnolino, il bambino, la donna, la pentola, il camino che fuma [...]. Tra le due basse rive colorate di innumerevoli verdi, guardo l’acqua del fiume, grandi campi arati, colore di terra bagnata, gli Euganei azzurri al limite dell’orizzonte: Quanto bella sei, malgrado morte, o vita, o natura! [...] No, non sono pronta. Lasciami qui ancora un poco, o mio Dio (DRIGO, 1937). Ancora più dettagliati bozzetti fluviali dedicati alle semplici quotidianità dei rivieraschi si devono allo spiccato naturalismo descrittivo di Diego Valeri (ZAMBON, PISCOPO, 1982), il quale si impegna in una retrospettiva nostalgica di un Veneto ormai scomparso; dal suo rimpianto per il passato derivano geografie superficiali e oleografiche anche se animate da una raffinata sensibilità. Anche per Valeri, ad esempio, la Riviera del Brenta non è solo una elegante successione di ville nobiliari; egli percepisce infatti il fascino delle umili opere del presente dalle quali proviene una nuova bellezza. Con leggerezza crepuscolare, a tratti un po’ melensa, evoca gli ultimi protagonisti di un oscuro microcosmo fluviale in estinzione: Le donne scendono al canale, ad attingere l’acqua per i loro bucati; lavano e appendono i panni nell’orticello di lattughe e di pomodori. Un pescatore va lungo le rive con la sua piccola rete, sperando nella buona fortuna [...]. Qualche branco di pecore, qualche cavalluccio; e, dappertutto, oche e galline. 120 La barca va, tirata dai cavalli dell’alzaia, o, quando manchino i cavalli, dai battellanti stessi. [...] Tra la popolazione delle barche e quella delle rive c’è vecchia amicizia: sono tutti di una famiglia, la famiglia del fiume (VALERI, 1977, p. 32). Valeri, oltre che la seduzione del pittoresco “antropologico”, evoca con efficacia anche il decoro urbano assicurato dalle acque fluviali alle città venete, tanto da costituire uno dei più rilevanti elementi di identità localista. Si pensi, ad esempio, all’isola della Pescheria nel cuore medioevale di Treviso che: Tutte le mattine, quando mi affacciavo alla finestra, m’inebbriava gli occhi con la sua alberata fulva e con le sue acque di diafana seta arrossate dal riflesso: isola di fiaba nel cuore della città (VALERI, 1977, p. 67). Ma è soprattutto a Padova, città materna, che la complessa rete di acque interne viene vista come linfa vitale e come poetico spunto memoriale. Alle dolci acque del Bacchiglione il poeta quasi sessantenne riconosce un irresistibile potere rasserenante, ma anche pregiate qualità formali che si dislocano lungo le sponde del fiume e delle sue diramazioni (VALERI, 1944). Il testo di Valeri è forse tra le ultime citazioni letterarie dedicate alle acque padovane prima del brutale interramento del naviglio interno che, nascondendo ponti e banchine portuali di età romana, fu realizzato nel 1958 di pari passo con la distruzione/sostituzione del quartiere medioevale dei Conciapelli, esiti coerenti con l’obiettivo “miracolista” di trasformare Padova nella “Milano” del Veneto (VENTURA, 1990). Di ben altra qualità letteraria sono le citazioni fluviali e lagunari di Giovanni Comisso, in cui le fisionomie anfibie del Veneto sono viste, in sintonia con il contesto geo-culturale già menzionato, come entità naturali non ancora corrotte dalle trasformazioni moderne, ma anzi impreziosite dal permanere di assetti antropici tradizionali popolati da pescatori, ortolani (COMISSO, 1994), pastori, contadini (COMISSO, 1984). Il divagare meandriforme tra le fitte boscaglie dei fiumi di origine sorgiva, specialmente tra il Sile e lo Zero e cioè vicino al suo “ritiro” campestre acquistato nel 1931, riesce non solo a stimolare l’emozione creativa dello scrittore, ma anche a placare con le arcadiche atmosfere il disagio interiore per una quotidianità sempre più ostile e alterata dalla volgarità del progresso. E infatti “Comisso conserverà per tutta la vita una diffidenza, se non un rifiuto, verso la società moderna, industriale, che nelle opere della vecchiaia assumerà i toni della nostalgia e del catonismo” (URETTINI, 1993, p. 205). E così, nel breve racconto Paesaggio sul Sile, Comisso ribadisce gli elementi di un’estetica fluviale in cui la natura si integra con una discreta presenza antropica, fatta di antichi gesti e di ritualità produttive tranquillizzanti: Il sole radente illuminava la distesa dei canneti brillanti di verde e in mezzo l’acqua vitrea, profonda e lenta andava fino ad una svolta lontana. Una barca a remi scendeva con la corrente e un’altra si internò tra i can121 neti; da questa scesero a terra due uomini che la portarono in secca e la capovolsero sulla riva (COMISSO, 1935, p. 49). Il vitalismo percettivo di Comisso mostra un costante riferimento alla identità dei luoghi, sintesi complessa di secolari coesistenze tra uomo e base naturale, definendo il paesaggio come supporto imprescindibile che condiziona gli eventi esistenziali: “Io vivo di paesaggio, riconosco in esso la fonte del mio sangue” (COMISSO, 1984a, p. 6). Dopo gli anni trascorsi all’estero egli si pone nella suggestiva condizione del viaggiatore “in casa”, percorrendo in lungo e in largo il Veneto, nella speranza non solo di arricchire l’inventario delle sue personali geografie, ma di legarsi ai luoghi, condividendone i significati più profondi con i protagonisti ancora attivi e non omologati dagli schemi industrialisti (CORAZZA, 1996). Le culture e i paesaggi dell’acqua, al di là dei suggestivi lessici fisionomici, hanno altresì il potente connotato simbolico della continuità e della fresca vivacità dell’esistenza: L’aria che segue le acque del Piave, non occorre respirarla, penetra da sola. Tra la stretta valle le acque tumultuano smaniose di distendersi, ora giallastre per le valanghe di pioggia e di terra precipitate dai monti imminenti, ora chiare rispecchianti il verde dei boschi o l’azzurro del cielo (COMISSO, 1984a, p. 217). La trasfigurazione poetica del determinismo geografico produce quadri antropici al tempo stesso esaurienti e carichi di suggerimenti per cogliere la più profonda essenza dei luoghi, richiamando il ben noto ésprit de finesse di vidaliana memoria. Ne consegue un’umanità rivierasca ancora una volta radicata alle tradizionali consuetudini di familiarità con il fiume e di cui oggi, in pieno ripensamento ambientalista, si sta tentando di riabilitarne almeno la memoria: Crescono tra le isole ghiaiose [del Piave] cespugli di salice [...] e in queste isole spuntano capanne di frasche dove uomini seminudi sbucciano i virgulti dei salici che tramutano in cesti. Altri uomini lenti cercano tra le distese di sassi verdastri, rossastri, ferrosi, marmorei quelli bianchi di calce da portare alle fornaci [...]. Qualche vecchio vagante con un sacco sulle spalle guada cauto le acque e raccoglie lungo le rive sabbiose i pezzi di legno levigati nel lungo rotolare dalle lontane valli del Cadore [...]. Nell’alta ora meridiana gridano gioiosi i ragazzi che si slanciano al nuoto (COMISSO, 1984a, p. 223). 3. SCRITTURE DEL DISAGIO Nel secondo dopoguerra la letteratura italiana in generale, e quella veneta in particolare, palesa un evidente interesse per le tematiche socio-economiche e politiche che stavano connotando il consistente e repentino passaggio dalla tradizionale realtà contadina a quella urbana e 122 industriale, la cosiddetta “grande trasformazione” (TURRI, 1990). Di questa corsa al benessere, oltre gli effetti positivi sono ben noti anche i vistosi sprechi ambientali, i dissesti idrogeologici, le caotiche proliferazioni urbane (DEMATTEIS, 1995), come pure gli altrettanto devastanti effetti psicologici, le alienazioni quotidiane, il degrado culturale. In terra veneta, la cui armatura urbana è così diversa dai contesti fordisti del triangolo industriale di nord-ovest, basata cioè sul frazionamento e la flessibilità dei cicli produttivi (BAGNASCO, 1977), sono scaturiti peculiari effetti sul territorio, tra i quali il più evidente è certamente quello che si è soliti indicare come città diffusa, ma anche come campagna urbanizzata, entrambe etichette poco lusinghiere che esprimono, fino ad anni recentissimi, un uso irrazionale della base territoriale, innescando molteplici e gravi impatti ambientali (GAZERRO, 1997) che si ritorcono contro le più elementari componenti della quotidianità come la potabilità dell’acqua, il traffico, l’inquinamento atmosferico. In questa situazione di dilagante urbanizzazione all’interno della fitta maglia costruita dalla tradizionale società contadina “la fabbrica appare all’ombra del campanile, si dilata all’interno del verde folto dei filari” (BANDINI, 1983, p. 48). Le dinamiche fin qui evidenziate costituiscono lo sfondo negativo che fa da supporto a buona parte degli scrittori veneti degli anni del boom economico, alimentandone tensioni e inquietudini. Essi infatti, rispetto alla generazione precedente, mostrano un maggiore interesse per i nuovi assetti sociologici legati al rapido rimodellarsi delle geografie tradizionali, valutando la rapida eclissi della civiltà contadina come una sorta di annullamento identitario a cui ci si è sottoposti in modo acritico, fidandosi ciecamente degli abbaglianti vantaggi che effettivamente hanno svincolato le genti venete dalla tradizionale marginalità e sudditanza economica. Fin dagli anni Settanta “i nuovi scrittori (si pensi ad esempio a Meneghello e a Camon) puntano lo sguardo sulle realtà così rapidamente cancellate nel corso dello sviluppo economico e riscoprono l’antica matrice della civiltà contadina. [...] Quanto avviene nel Veneto è sentito come evento, come strappo storico” (BANDINI, 1983, p. 48). Tra tanta letteratura del disagio connessa alla realtà regionale emerge la produzione poetica di Andrea Zanzotto che, attraverso la dissoluzione semantica dei testi, sembra imitare il disordine e l’illeggibilità del mondo attuale, anche se spesso è possibile cogliere lucidi riferimenti di critica nei confronti del brusco passaggio alla modernità. Si consideri, ad esempio, la prosa breve Premesse all’abitazione, in cui il profondo malessere nei confronti della dilagata grettezza non rende più condivisibili le realtà sociali autoctone, prive di consapevolezza e di finalità, ma soprattutto incapaci di controllare le dinamiche e i processi 123 avviati dalla scelta consumistica e perciò schiavi orgogliosi dei paradigmi sviluppisti: E sono riusciti a tirar su, in tal modo, una città giardino [...] e in più i loro capannoni in mezzo, così da poter respirare poliesteri in polvere a tutte le ore [...]. E ci sono le seghe a segare filamenti nervosi, neuroni, a tutte le ore: sotto c’è il laboratorio e sopra l’appartamento gentile, col tetto a farfalla posata su una influorescenza di suoni, così la moglie gode anch’essa con il marito industrializzato (ZANZOTTO, 1995, p. 143). 4. TRA VENETO E FRIULI: LE ACQUE DI PIER PAOLO PASOLINI La letteratura è dunque assai lucida nel precisare i più intimi e oscuri moventi che stanno alla base della modernizzazione industriale e dei conseguenti abbandoni agricoli e omologazioni colturali, responsabili della dispersione sui suoli e sulle acque di fitofarmaci, pesticidi e diserbanti. Straordinario, a tal riguardo, il memorabile contributo di Pier Paolo Pasolini sulla scomparsa delle lucciole: “È una scomparsa fulminea e folgorante che segna il passaggio dall’industrializzazione degli anni Cinquanta a quella degli anni Sessanta, decisiva per una svolta culturale che segna il crollo e la alterazione dei valori” (TENTORI, 1988, p. 14). Pasolini concepisce le sue riflessioni tra i campi e gli argini del Friuli occidentale e anche qui, come nel vicino Veneto, l’euforia per i tempi nuovi lascia dietro di sè una strisciante amarezza tra gli animi più sensibili. Durante gli anni friulani egli matura una sincera e articolata topofilia, che gli consente di cogliere l’essenza profonda e universale del rapporto tra il secolare sedimentarsi delle culture tradizionali e i corrispettivi referenti geografici, prediligendo, ad esempio, la sfera linguistica come codice espressivo necessario al radicamento territoriale (NALDINI, 1993). Dopo gli anni tristi della guerra, il ritorno alla normalità sembra ribadito dalle frequenti gite sul Tagliamento: A Rosa venivano ragazzi di tutti i paesi; Casarsa, S. Giovanni, Gleris e S. Vito, perchè, del Tagliamento, quello era il posto più bello; l’acqua, benché verde e profonda, era così limpida che si vedevano nel fondo i sassolini di ghiaia lucente (PASOLINI, 1978, p. 47) o da brevi viaggi in bicicletta nella verde campagna pordenonese a sud di Casarsa, fatta di rogge e ruscelli sorgivi (Fig. 4). È un paesaggio d’acque rimasto quasi intatto fino agli anni Sessanta quello che Pasolini percorre, ama e rammenta nei suoi testi letterari, appassionandosi a rilevare le infinite “micro-toponomastiche” che denominano una pianura tutt’altro che uniforme: Oltre S. Vito, in direzione di Pravisdomini e di Chions, la cui scoperta io rimandavo da circa due lustri, la campagna mostrava quel mutamento 124 Fig. 4. – La roggia Versa poco a valle di San Vito al Tagliamento. 125 impercettibile, ma così significativo, che me la rendeva diversa, “altra” da quella che mi è famigliare. Qualcosa del litorale o della palude, qualcosa di troppo spazioso o di troppo recente, non aleggiava forse su quella pianura in verde smeraldo? (PASOLINI, 1948, in NALDINI, 1993, p. 157). Egli vede inoltre nelle suggestive morfologie anfibie della pianura tra il Lemene e il Tagliamento, non ancora oltraggiate dalla agronomia intensiva (DE ROCCO, 1994), la viva presenza degli sfondi delineati da Nievo nelle Confessioni di un italiano; si dedica così a frequenti pellegrinaggi letterari in direzione di Portogruaro, soffermandosi in particolare dinanzi alla fontana di Venchieredo: Limpida fontana di Venchieredo, / acque modeste, tenerissimi legni, / oggi a vent’anni, io vi vedo, ed ascolto, / col vecchio murmure indifferente. / Ai miei piedi, nel basso prato, l’acqua / rampolla, e lenta fugge, e interminabile / ricompone il suo canto più lontano (PASOLINI, 1945). Ma nel breve volgere del traumatico eclissarsi del mondo contadino tradizionale anche il cospicuo patrimonio di referenze memoriali e naturalistiche legate all’idrografia tra Friuli e Veneto ha subito un “processo di demolizione di ogni naturalità residua (Fig. 5) e del paesaggio storico che è anche banalizzazione dell’immagine del luogo [...]. Con la semplificazione conseguita alle trasformazioni sono scomparsi anche molti nomi di luoghi, non di rado legati a queste acque o alla vegetazione che cresce in prossimità dell’acqua” (DE ROCCO, 1994, p. 10). I corridoi fluviali iniziano a connotarsi come terra di nessuno, come luoghi dell’abuso, e Pasolini, pochi anni prima della sua morte, constata con amarezza come le radicali trasformazioni della rete idrografica abbiano cancellato l’identità di Casarsa: Ciò che è andato veramente perduto sia nella Casarsa della realtà che nella Casarsa dei sogni sono le rogge. E queste le rimpiangerò tutta la vita [...]. Le rogge sono cose di un tempo, anteriori alla trasformazione capitalistica e cioè perdute nei secoli dell’epoca contadina, senza soluzioni di continuità con le selve romanze, con le invasioni dei barbari, con la chiesa di Cristo. Ora tutto ciò è finito, in una rapida evoluzione, di cui ci vantiamo. E tuttavia non vogliamo ancora arrenderci a dimenticare (PASOLINI, 1970, in DE ROCCO, 1994, p. 9). 5. IL PO TRA GLI ARGINI E IL DELTA Il basso corso del fiume Po e le numerose diramazioni del suo delta hanno pesantemente condizionato la lunga coesistenza con le popolazioni delle circostanti pianure; e in particolare nel Polesine, il cui equilibrio idraulico, oltre che dal Po, dipende anche dagli irregolari deflussi del-l’Adige, si è consolidata una percezione dell’ambiente per molti aspetti fatalista e ras126 segnata nei confronti di calamitosi eventi idraulici che fino a poco tempo fa ci si ostinava a definire “naturali”. Già nel 1940 l’efficace costruzione narrativa del Mulino del Po di Riccardo Bacchelli esprimeva frequenti e amare riflessioni sul degrado del bacino fluviale padano, in cui ai dissesti causati dall’uomo nei settori montani facevano seguito vistosi processi dinamici che ostacolavano il deflusso verso le foci. La tradizionale e consistente letteratura geo-storica dedicata al tratto veneto del Po non poteva certo soffermarsi sull’interpretazione delle valutazioni e percezioni sociali suscitate dalle precarie condizioni esistenziali che hanno connotato fino a poco tempo fa le genti del Polesine. Semmai, l’atavica marginalità di questo spicchio di bassa pianura garantiva indubbie integrità antropiche che si prestavano a frequenti, e per lo più drammatiche, citazioni da parte dei cultori del neorealismo nazionale del secondo dopoguerra (RENZI, 1995). E l’evocazione del dramma stava proprio nel registrare con cura la fragilità dei rivieraschi schiacciati tra le ostili dinamiche di un’acqua matrigna (Fig. 6) e gli esiti incontrollati di una modernizzazione lontana ed estranea. L’alluvione del 1951 è l’evento calamitoso che trasformò il Polesine in area di fuga verso il triangolo industriale del nord-ovest (ARDIGÒ, 1964); le quote più vistose dello spopolamento spettavano ai comuni deltizi e sono questi gli anni in cui la topofobia degli autoctoni è al culmine, in quanto alla costante precarietà della sussistenza si aggiunge l’estenuante coesistenza con l’insicurezza idraulica (ZUNICA, 1984). Sono questi i luoghi e i temi di una letteratura polesana attenta ai disagi quotidiani rilevabili tra i peculiari microcosmi agricoli e pescherecci, la quale proprio nella sciagura collettiva delle rotte ricorrenti riesce a superare la tradizionale vena ruralista inaugurata dal poeta dialettale Gino Piva negli anni Trenta (SEMENZATO, 1984). Le costanti referenze letterarie ai paesaggi fluviali vanno intese dunque come filo conduttore da cui dedurre gli elementi fondanti di uno espace vécu ancora “determinato” dagli eventi atmosferici, dalle dinamiche idrologiche e dalla cattiva gestione delle acque. Ecco che nelle toccanti scritture dialettali di Livio Rizzi si avverte l’incombere sinistro del “motivo della paura dei fiumi, che stringono il Polesine come in una morsa, l’incubo delle rotte, il senso oscuro del pericolo, che sovrasta, come una maledizione, da secoli, le terre coltivate e i poveri paesi della pianura o vicini agli argini o sorti sui dossi” (MARCHIORI, 1969, p. 15). Lo stridente contrasto tra la rappresentazione di un Polesine contadino, talvolta bucolico, e la rassegnata evocazione dell’acqua che distrugge e uccide è in sintonia con le attitudini ambientali pre-ecologiste tipiche degli anni Cinquanta e Sessanta, per molti aspetti incapaci di conseguire un’attenta lettura del rapporto tra azione umana e dinamiche naturali, ignorando infatti troppo spesso le reali responsabilità antropiche. È in questo contesto che si colloca Scano Boa, romanzo di Gianantonio Cibotto, pubblicato nel 1961, in cui la narrazione è dominata dalla paura dell’acqua: 127 Dopo alcuni chilometri la strada piegò sull’argine, e la vista del fiume in piena, sporco di terra e di schiuma torbida, valse a fermarli incantati. Era la prima volta che si trovavano di fronte all’impeto ventoso del suo corso segnato di mulinelli, e la successione di case allagate fino al collo nelle golene invase dall’acqua, comunicò subito loro come un senso funesto d’incubo (CIBOTTO, 1961, p. 24). La storia si sviluppa nell’ampia distesa anfibia del Delta del Po, dove le strade sugli argini, ma anche i villaggi di casoni, le poche osterie, gli edifici delle idrovore, le superfici coltivate sono sottoposte alla minaccia di piene frequenti che, insieme al vento che “si divertiva a carezzare l’erba degli argini” o al tuffo degli aironi, erano valutate come “elementi di un ordine naturale antico, non ancora turbato da presenze estranee” (CIBOTTO, 1961, p. 74). Questa visione naturalistica colloca l’azione umana nel Delta in uno stato di precaria subordinazione rispetto alle dinamiche idrauliche, dimenticando come la moderna orditura idrografica del basso Po fosse l’esito di una secolare e pesante artificializzazione dei tracciati. Ben diversi sono i temi e i moventi culturali che animano le successive visioni letterarie dell’idrografia polesana, efficaci nell’esprimere il crescente malessere che si stava diffondendo tra gli spiriti gentili durante gli anni del rapido affermarsi dei moderni assetti socio-economici. Così nel Delta di Venere di Sandro Zanotto il viandante d’acqua protagonista del romanzo si abbandona all’intricato susseguirsi degli itinerari fluviolagunari che percorrono il delta padano, circondato da un paesaggio più volte oltraggiato nella sua primeva autenticità. Il perdersi tra i canneti, le valli, i bassi fondali e la frequente evocazione di odori e suoni prodotti dal ritmico mescolarsi delle acque dolci con quelle salse alimenta un precario senso di naturalità, troppo spesso smentito dai segni di un degrado ambientale che nei primi anni Settanta (epoca in cui fu scritto il suddetto romanzo) aveva già assunto proporzioni catastrofiche. Sia nel Delta di Venere che nella sua feconda produzione giornalistica, Zanotto esprime un profondo amore per il Delta del Po, “carico di nostalgia tanto più violenta in quanto lo sa aggredito e ferito da ogni parte dalla cosiddetta civiltà moderna, una civiltà che egli odia senza riserve” (DE MANDIARGUES, 1975, p. 7). Il Delta viene quindi rappresentato come collettore terminale di un bacino fluviale asservito agli scarichi di una Padanìa iperattiva e incosciente nella frenesia del miracolo economico: Intanto non perdeva d’occhio quanto lo circondava e notò, guardando con attenzione il velo d’acqua della superficie, che arrivavano fin lì gli scarichi delle concerie [...]. Dovrebbero esserci anche residui velenosi di cromo, forse quelli che avevano fatto quasi sparire piante acquatiche un tempo tanto frequenti (ZANOTTO, 1975, p. 36). Oltre a ciò Zanotto menziona anche l’eccessivo prelievo di risorse ittiche da parte dei pescatori di frodo provenienti da altri lidi, riducendo 128 Fig. 6. – Alluvione in Polesine 1951 (Publifoto). 129 così le opportunità per la sussistenza della gente del Delta, e tale stretta dipendenza dall’ambiente viene caricata di profonde valenze antimoderne, facendo cioè della marginalità esistenziale ed etnografica non solo il simbolo nostalgico di un’antica armonia, ma anche l’antidoto culturale con cui difendere la consapevolezza ambientalista. Negli anni Ottanta si accentuano gli effetti del degrado ambientale lungo la gran parte dei fiumi italiani, ma è sul Po che si concentrano gli sguardi attoniti di molta letteratura del disagio. Emergono immagini forti, come nel caso dei funerei appunti di viaggio redatti da Guido Ceronetti durante il suo Viaggio in Italia, originale riflessione geo-culturale che, al di là di una pervasiva atmosfera nichilista, svela l’essenza profonda sia del fallimento territoriale dei tanto decantati miracoli economici, e non solo a nord-est, sia del preoccupante inaridirsi intellettuale degli attori dei nuovi paesaggi italiani (CERONETTI, 1983). Qui le posizioni antimoderne sono alimentate da un radicato e consapevole rifiuto dello sviluppo scientifico e tecnologico, visto come atteggiamento irresponsabile nei confronti delle molteplici sacralità in cui siamo immersi e di cui si è perso il senso. Le vedute di Ceronetti sono amari pretesti per indignarsi, soffermandosi spesso sull’eloquenza dei paradossi, cercando di conseguire, con il gioco sapiente delle parole, le più bieche raffigurazioni del male liberato dall’uomo sui contesti delle sue già deprimenti quotidianità. La scelta di Ceronetti di viaggiare a piedi, con l’appoggio frequente dei mezzi pubblici che percorrono la fitta rete secondaria che innerva la più profonda provincia italiana, offre illuminanti squarci percettivi, ribadendo la marginalità degli erranti non motorizzati, ai quali gli ordinari e apparentemente inoffensivi elementi dei nuovi paesaggi palesano tutta la loro ostilità. E il corso del Po è spesso al centro della narrazione, per il fascino irresistibile dell’acqua e anche per l’apparente fisionomia di naturalità, un’oasi lineare poco praticata, ma al tempo stesso terra di nessuno, ricettacolo di ogni latitanza, spesso legata alla ricreazione più bruta: I segni del Dominatore: pacchetti di sigarette vuoti, cicche, escrementi, bottigliette, plastica... Vorrei seguire il corso del fiume verso sud... Ritrovo l’acqua, ma stanno arrivando, non più sporadici, con tutta la loro fragorosa indecenza, i Fruitori del Parco. Si portano dietro attaccata la demenza umana, per sguinzagliarla sulle rive, a divorare, a insozzare... Cammino su mucchietti di rifiuti e di tracce di fuochi accesi. Arrivano altre moto. Fuggire, presto (CERONETTI, 1983, pp. 204-205). Quando Ceronetti arriva nel Delta Po, il paesaggio è dominato da qualche anno dalla mole incombente della centrale termoelettrica, percepita dall’autore come macabro refrain che connota l’odierna geografia fluviale del Po, rinnovandosi infatti il malessere già provato a Caorso, a Ostiglia: “Dov’è l’Enel, è la devastazione. Il paesaggio è sconvolto e feb130 bricitante”. Il Po giunge al delta dopo un lungo viaggio come “sventurata fogna abitata” (CERONETTI, 1983, p. 242) e qui subisce l’oltraggio finale, proprio negli anni in cui si iniziavano i primi timidi ripensamenti ecologisti. Non può infatti che disorientare l’eloquente schizofrenia territoriale che vede allo stesso tempo la consacrazione iconica del Delta Po come santuario naturale e la decisione irremovibile di installarvi la centrale. Allo stesso modo lascia sgomenti il contrasto con un contesto geo-antropico ricco di non omologate marginalità morfologiche ed etnografiche: Il Po di Tolle è generoso, immenso, misterioso, fantastico. Dall’acqua si alzano voci antiche, lontane e pie. Alle spalle ho il terzo scomparto di un trittico di Bosch; la smisurata centrale ENEL di Cà Dolfin. Sono due silenzi, due misteri paralleli. Il fiume ha le sue voci; la Centrale il suo sibilo triste, di materia condannata. La bellezza del fiume e il brutto massacrante della Centrale l’occhio se vuole li separa; se mi volto su un lato è la luce del fiume; sull’altro è un mistero d’iniquità; una sapienza e un delitto (CERONETTI, 1983, p. 243). Anche per Gianni Celati il basso Po è un pretesto geografico da cui affrontare il tema più generale della dissoluzione culturale dei localismi consapevoli, sostituiti da sempre più acritici egoismi esistenziali che producono quadri territoriali privi di leggibilità, quando non repulsivi e pericolosi. Nel suo viaggio Verso la foce (anch’egli a piedi o con mezzi pubblici come il viandante Ceronetti) entra in contatto con paesaggi d’acqua omologati dalla regolarità della bonifica e dall’eclissi dei significati: Camminando sempre lungo il canale, adesso questo paesaggio mi sembra il Texas. Piloni dell’alta tensione lo attraversano da un capo all’altro, con fili pendenti su lunghe distanze. La strada è sopraelevata rispetto ai campi, e si vede dovunque il colore delle argille fino a lontanissimo. Tutta una pianura alla mia destra, piatta, con la tinta del deserto che hanno le ocre da queste parti (CELATI, 1993, p. 100). Della geografia del delta padano Celati rileva con cura le peculiari tassonomie della sua antropizzazione e in questa restituzione empirica della fattualità entra in gioco la sua sottile sensibilità percettiva che produce immagini territoriali ricche di suggerimenti interpretativi. Si tratta comunque di valutazioni negative, una costante conferma dell’insuccesso formale, funzionale e morale di una rapida e aggressiva modernizzazione, per nulla rispettosa delle preesistenze geo-culturali e allo stesso tempo incapace di avvalersene per il conseguimento di una più elevata qualità della vita. A tal riguardo si accenna con amarezza agli schemi insediativi del turismo balneare di massa lungo il litorale rodigino e ferrarese: Qui intorno hanno massacrato le spiagge, trasformato la zona in un deserto di domicili estivi, una catastrofe di paccottiglie dovunque. E dovunque arriveranno queste siderali distese d’asfalto, il tutto occupato forever and ever (CELATI, 1993, p. 118). 131 L’effettiva marginalità del Delta Po può ancora suscitare nel visitatore l’illusione di essere all’interno di una realtà “fuori dal tempo” e quindi ricca di una sua esotica autenticità in grado di soddisfare le più bizzarre aspettative degli outsiders. Il cospicuo sedimentarsi della tradizione iconica dedicata al delta “pittoresco” mostra tutt’oggi una ancora vivace capacità di influenzare le attitudini sociali, particolarmente sensibili all’istituzione del Parco naturale, ma anche alle spiagge isolate, al pesce fresco cotto alla brace, ai tramonti infuocati che accendono sconfinati e piatti orizzonti tra lagune, canneti e barche tradizionali alla fonda. È questa l’essenza di una fenomenologia turistica di maniera, primo passo verso la condizione di “non luogo” (AUGÉ, 1993) che sembra avere intaccato ciò che resta della tradizionale realtà peschereccia del Delta, come nel caso del villaggio di Pila: Tutti i luoghi faranno la stessa fine, diventeranno solo astrazioni segnaletiche o progetti tecnici di esperti. Da queste parti creeranno un grande parco turistico, e i turisti verranno in pullman a vedere non so cosa, relitti di vecchie tristezze... Qui [Pila] un cartello giallo per turisti annuncia un VILLAGGIO DI PESCATORI. Il villaggio sarebbe una serie di baracche in lamiera piene di reti e tramagli, tra carrozzerie di macchine sfasciate, pezzi di copertone, barche tirate a secco e mucchi di cannella palustre. E i pescatori che non sono più pescatori da un pezzo, abitano da un’altra parte, in case squadrate a tre piani che assomigliano a caserme (CELATI, 1993, p. 132). 6. CONCLUSIONE Il ricorso alle fonti letterarie, pur nei limiti necessari di una scelta parziale, ha evidenziato il rilevante sedimentarsi di significati che sono stati prodotti durante l’ultimo secolo di coesistenza tra uomo e fiumi nel Veneto. La complessa storia idraulica della regione è ancora oggi leggibile attraverso una consistente presenza di segni sul territorio che, nonostante la loro quasi totale eclissi funzionale (e conseguente degradazione strutturale e, talvolta, distruzione), offrono ancora suggestivi spunti per allargare il tradizionale concetto di bene culturale. L’alterazione preoccupante dei tradizionali paesaggi fluvio-lagunari della Terraferma ha compromesso pregiate attrattive fisionomiche, un colpevole e stolto spreco territoriale, alterando inoltre i consueti riferimenti visuali che garantivano il radicamento e l’identità culturale della popolazione. Una volta superato l’inconsapevole entusiasmo per il rapido benessere, anche nel Veneto si sta lentamente rafforzando una sempre più forte domanda di identità locale, di tutela del senso del luogo, di qualità della vita, di umanizzazione del quotidiano. A questa evoluzione delle attitudini non sono certo estranee le severe sferzate provenienti dalla letteratura del disagio, che ha 132 elaborato riflessioni e pesanti valutazioni critiche circa il modello veneto, in seguito riprese e divulgate da una controcultura “popolare” legata al movimento ambientalista, alle sezioni locali di Italia Nostra, agli spontanei comitati di tutela, molto spesso costituitisi attorno ad un problema idraulico (Comitato della Brenta, Amici del Piovego, Gruppo Sinistra Piave, Centro Ecologico Alto Sile etc.). Le frequenti citazioni fluviali, sia nella letteratura colta che in quella popolare, evidenziano dunque l’importanza culturale dell’idrografia, non più valutata solamente come opportunità per lo sviluppo economico, in particolare gli usi idroelettrici e agronomici, ma anche come elemento per soddisfare componenti non monetizzabili dell’esistenza, come ad esempio il godimento estetico del paesaggio. Oggi sono sempre più numerose le azioni territoriali dedicate al recupero funzionale e culturale di antiche consuetudini fluviali anche se resta però molto da fare, e in particolare nei settori extraurbani, dove l’assalto al fiume non è ancora sotto il controllo di entità istituzionali adeguate e sensibili a un lessico tecnocratico sostenibile, ma risente anzi di un tutt’altro che declinante approccio ingegneristico “ad alto impatto affaristico”. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI A. ARDIGÒ, Polesine area di fuga, Milano, Comunità, 1964. M. AUGÉ, Nonluoghi. 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ZUNICA, Ambiente costiero e valutazione d’impatto, Bologna, Pàtron, 1992. 134 GRAZIANO ROTONDI IMMIGRAZIONE STRANIERA IN VENETO: NUOVI ASSETTI DISTRIBUTIVI E STRUTTURALI 1. PREMESSA Le prime anticipazioni sul Dossier Statistico 2000 della Caritas, la fonte forse più autorevole in materia di immigrazione in Italia, giunta al suo 10° anno di edizione, ci restituiscono un quadro del fenomeno che tanto a livello nazionale come regionale si va sempre più complessificando. Alla repentina crescita numerica dei nuovi arrivi, all’estrema diversificazione delle aree di provenienza, alla duplice connotazione persistente su cui già si è entrati nel merito (ROTONDI, 1999) – di precarietà ed emergenza da un lato, e di stabilizzazione, dall’altro – si vanno ora aggiungendo nuove forme pertinenti soprattutto agli aspetti strutturali della componente straniera. Si tratta di aspetti che meritano una riflessione poiché è fondamentale capirne caratteri e modificazioni se si vogliono, in sede propositiva, fornire elementi di aiuto per una gestione del fenomeno stesso che sia più oculata, che superi il contingente, che vada oltre, insomma, a quell’impressione di estemporaneità, di emotività, e talvolta pure di strumentalizzazione, che ha connotato l’atteggiamento politico in materia immigratoria. Scopriamo così che l’Italia a fine millennio, con circa un milione e mezzo di regolari, è divenuta il quarto paese in Europa – dopo, nell’ordine, Germania, Francia e Regno Unito – per numero di stranieri, e il loro ritmo di crescita, pur con aggiustamenti connessi a situazioni congiunturali, si mantiene piuttosto costante. All’interno del nostro paese, dopo una iniziale prevalenza del Centro-Sud, attualmente è il Nord che registra il maggior numero di immigrati e, a scala regionale, il Veneto è terzo, preceduto da Lombardia e Lazio. Non si tratta ovviamente di proporre primati e graduatorie che tutto sommato rivestono una scarsa rilevanza, quanto di invitare, attraverso lo studio del dato, all’assunzione – nel breve – di nuove responsabilità che non si limitino alla semplice politica della prima accoglienza. Conseguentemente, un contributo in questa direzione può provenire dalla disamina dei caratteri quantitativi, distributivi e strutturali che connotano l’universo migratorio nella nostra regione, osservata in relazione al più ampio contesto nazionale; e in questa ricerca preliminare si tenterà di fare il punto sugli aspetti in questione cartografandone alcune particolarità. 135 2. UN TREND IN FORTE CRESCITA Va innanzi tutto ricordato come in una ricerca dove è fondamentale il ricorso al dato statistico e alla sua elaborazione in chiave cartografica, il problema dell’attendibilità delle fonti assurge a un ruolo di non poco conto. Se in precedenti lavori si è avuto modo di esprimere perplessità al riguardo, bisogna pur ammettere che, nonostante il persistere di lacune e degli immancabili limiti nei diversi rilevamenti, data anche la particolarità stessa del fenomeno e l’estrema mobilità ed eterogeneità delle sue componenti, in questi anni s’è fatto molto per apportare quei correttivi che rendessero le informazioni il meno generiche possibile. E se riconosciamo come lo stesso censimento della popolazione italiana sia talvolta lacunoso e non completamente affidabile, resta la regola dettata dal buonsenso di accettare un dato come indicativo e certamente non esaustivo della significatività di un fenomeno o di taluni suoi aspetti. Poter poi accedere al sito web dell’ISTAT (<http://demo.istat.it>) e consultare l’effettivo della popolazione straniera con regolare permesso di soggiorno, disaggregata per sesso e nazionalità di provenienza, perfino a scala comunale e per tutto il Paese, con aggiornamenti al 31.12.2000, non è certo cosa da poco. Gli anni Settanta – è risaputo – sono gli anni di una rivoluzionaria inversione di tendenza in campo demografico (DAGRADI, 1986), in una Italia che dopo il baby-boom del decennio precedente si stava avviando verso un inarrestabile declino, quel baby-bust che la porterà ad essere il paese con il più basso tasso di fecondità e con ritmi di invecchiamento della popolazione tra i più sostenuti al mondo (BRUNETTA, ROTONDI, 1989). Sono stati pure gli anni dei grandi sconvolgimenti territoriali, della deurbanizzazione, del decentramento produttivo e insediativo, del crollo nei tassi di nuzialità, causa ed effetto delle modificazioni nella tradizionale struttura dei nuclei familiari, ma soprattutto – per quel che ci riguarda – è proprio allora che, da paese di secolare emigrazione, l’Italia si stava proponendo come area dapprima caratterizzata dai rientri dei propri migranti all’estero, e poi in paese di vera e propria immigrazione. Bastano alcuni dati – reperibili in una bibliografia sempre più cospicua e aggiornata – a esplicitare la rilevanza di questo processo, nuovo quanto repentino. Di decennio in decennio, da quando il fenomeno ha iniziato ad essere monitorato con sistematicità, la popolazione immigrata è tesa sostanzialmente a raddoppiare: le 156.179 unità del 1971 sono divenute 331.665 nel 1981, hanno raggiunto quota 648.935 nel 1991 fino ad attestarsi sul valore di 1.251.994 a fine ’99. Tale ultima cifra, di fonte ISTAT e basata sui permessi rilasciati dal Ministero dell’Interno tramite le questure, viene aggiustata a 1.489.873 presenze: è una prassi seguita dal Centro Studi della Caritas che tiene in conto quei permessi ancora in fase di registrazione e non annoverati dal Ministero solo per ritardi burocrati136 ci, così come il fatto che i minori sono usualmente iscritti nel documento d’ingresso del capofamiglia e quindi non vengono computati (CARITAS DI ROMA, 2000). Recentissime anticipazioni sempre di fonte Caritas fissano i regolari al 31.12.2000 in 1.388.153 unità, riportate a 1.686.606 in base al suddetto correttivo, con un’incidenza sulla popolazione italiana pari al 3%. La Fig. 1 evidenzia l’evoluzione quantitativa del fenomeno in tutta la sua rilevanza e fa pure richiamo al peso esercitato dalle diverse “sanatorie” che si sono accompagnate ai principali interventi legislativi in materia. Al numero dei regolarizzati a seguito della travagliata Legge 40/1998 e successive modifiche (Decreto legislativo 113/1999), che assommavano a 145.759 unità, sono state aggiunte le 91.102 istanze di regolarizzazione rispondenti ai requisiti richiesti, ma ancora in attesa di esame da parte degli organi competenti. Ma al di là del dato l’attenzione va riposta oggi sulla variegatura delle nazionalità coinvolte, oltre 150, sinonimo di un mix culturale senza precedenti (ORIV, 1998), e sulla struttura della popolazione immigrata, che nel breve lasso di neanche un decennio è mutata anche profondamente: ci appare ormai obsoleta l’iconografia di un’immigrazione mascolina e giovanile, costituita essenzialmente da single che giungevano da precisi contesti geografici. Si possono pertanto ravvisare, a questo punto, tutti quegli elementi che confortano l’ipotesi di un sostanziale mutamento in atto nel processo migratorio. Fig. 1. – Andamento della presenza straniera in Italia [Fonte: BRUNETTA, 1996, modificato; CARITAS DI ROMA, 2000]. 137 3. LE DUE FACCE DELLA STESSA REALTÀ In una prima fase gli arrivi erano piuttosto assimilabili a episodi temporanei e contingenti, collegati non tanto a reali effetti attrattivi (meglio noti come fattori pull) da parte dell’Italia nei confronti dei Paesi di provenienza dei flussi, quanto invece alla sua posizione di cerniera fra Nord e Sud del mondo, un Sud in cui è risaputo come prevalgano gli elementi espulsivi (i fattori push) connessi a un’elevata pressione demografica, traducibile assai spesso in vera e propria pressione migratoria (BRUNETTA, ROTONDI, 1996). Questa prima fase si è distinta per l’aspetto di precarietà e di emergenza che i nuovi arrivati rivestivano; e anche le normative in materia immigratoria erano improntate essenzialmente alla gestione di tali emergenze (COLLINSON, 1993; BONIFAZI, 1998): basta osservare la lunga sequenza di “sanatorie” che sono state messe in atto finora. Attualmente invece, nella fase matura – accanto a quegli aspetti di emergenza che pure persistono, ma sono riferibili sostanzialmente al segmento degli ultimi arrivati – una volta individuate e occupate precise nicchie nel mercato del lavoro, e assunto pienamente il ruolo di “nuovo attore sociale”, l’immigrato in Italia si propone in una veste completamente diversa. Egli fa parte integrante del nostro tessuto produttivo, resta semmai tutto da verificare se gli sia concesso altrettanto facilmente di fare parte anche del nostro tessuto sociale. Si ponga mente, a titolo di esempio, alle difficoltà burocratiche connesse alla richiesta di ricongiungimento familiare, al perenne e irrisolto problema dell’alloggio, al non facile riconoscimento di titoli di studio acquisiti all’estero, alla persistente e magari velata, ma certo non sopita, discriminazione nel mondo del lavoro, alla diffidenza reciproca che inquina un rapporto di convivenza civile già di per sé difficile, alla mancanza di luoghi di aggregazione e via dicendo. Parrebbe, insomma, secondo certa parte dell’opinione pubblica e precisi ambiti della classe politica, che solidarietà significhi limitarsi a fornire all’ospite straniero un posto di lavoro, quando è ben noto lo svantaggio economico derivante all’Italia dal fatto che molte occupazioni non vengono più ricoperte dalla manodopera locale. Da quanto appena citato non si può che evincere, allora, come il binomio precarietà in opposizione alla stabilizzazione non dia conto della effettiva realtà italiana. Se la precarietà è sì pertinente agli ultimi arrivati, altre forme di precarietà si possono comunque ravvisare pure nel processo della stabilizzazione, dal momento che colui che da tempo ormai è inserito nel nostro Paese richiede con forza per sé e per la propria famiglia di poter contare su un più agevole accesso ai servizi, alla stessa stregua di quanto avviene per la popolazione autoctona. È fuori di dubbio come – tanto a livello legislativo che applicativo – negli ultimi tempi molto sia 138 stato fatto anche in questa direzione, ma proporzionalmente molto di più deve ancora essere attuato. Le voci vibranti che insorgono durante incontri e dibattiti in materia, dove siano coinvolte pure le rappresentanze degli stranieri, non ultimo il convegno sugli Stati generali sull’immigrazione: politiche locali e percorsi di integrazione, tenutosi a Vicenza a inizio 2001, presente il Ministro per gli Affari Sociali Livia Turco, in cui non sono mancati momenti di tensione, la dicono lunga sulle questioni rimaste ancora aperte e in attesa di adeguate e dignitose soluzioni. 4. UN PARTICOLARE PATTERN DISTRIBUTIVO Quando si intenda operare una disamina sulla distribuzione spaziale della presenza immigratoria nel nostro paese emerge subito la peculiarità del caso veneto, tanto più originale quanto più è consolidata l’immagine, a scala nazionale, di una immigrazione indirizzata, almeno in origine, prevalentemente verso gli ambiti urbani. Se è ormai paradigmatico il caso di Roma che da sola assorbe intorno al 90% della complessiva presenza straniera in Lazio, che Milano o Torino registrano comunque cospicue percentuali di manodopera immigrata in rapporto ai rispettivi contesti regionali, in Veneto – è stato ampiamente sottolineato – da sempre l’immigrazione straniera ha assunto caratteri di estrema diffusione spaziale. Tale aspetto si rifà alla ben nota correlazione tra mercato del lavoro e immigrazione: se, in altre parole, ricordiamo come il modello produttivo veneto sia quello più pertinente all’area NEC, alla Terza Italia che si accompagna ad un’industrializzazione diffusa, e se riconosciamo come sia l’industria il principale settore di attrazione per la forza lavoro immigrata, va da sé come questa si distribuisca sul territorio in termini altrettanto spazialmente diffusi. Poter contare su fonti differenti ma comunque sufficientemente affidabili e confrontabili, ci permette di osservare, nell’arco del decennio appena trascorso, questa distribuzione degli stranieri. Stranieri, va ribadito per inciso, provenienti dai PVS, escludendo dunque dal novero quelle presenze di non scarso rilievo, pari a circa il 30% del totale regionale, appartenenti all’Unione Europea o ad altri paesi a sviluppo avanzato, che certo non accusano le problematiche di inserimento oggetto di queste note. Per lo più tale distribuzione ricalca in pieno l’immagine di un Veneto che, a ben vedere, permane tuttora disaggregato per aree omogenee, le stesse che consentono l’individuazione di un Veneto forte e particolarmente dinamico nella sua parte centrale o, viceversa, ancora interessato da aspetti di marginalità relativa nell’area montana, sia essa bellunese o vicentina, in certa parte del Polesine e nell’estremo lembo orientale della provincia di Venezia. Quella marginalità si ritrova, seppure in forma 139 minore, nei segmenti più meridionali delle province di Verona, Vicenza e Padova, le “Basse” notoriamente aree di transizione in termini economico-strutturali (IRSEV, 1985; BRUNETTA, ROTONDI, 1996). La Fig. 2 dunque, fissando la presenza immigratoria al 1991, sostanzialmente consente di evincere come i veri protagonisti siano quei comuni del Veneto centrale e del Pedemonte connotati da elevati tassi di industrializzazione. Essi sono per lo più caratterizzati dalla presenza, nell’ambito di un modello definito di tipo misto-tradizionale (IRSEV, 1986), di segmenti della produzione ormai non più graditi alla manodopera locale, come l’attività cavatoria del marmo e altri materiali lapidei nella Valpolicella o in numerose valli prealpine del Veronese e del Vicentino. Lo stesso dicasi per le fasi più nocive nel ciclo di trasformazione delle pelli – l’attività conciaria essenzialmente incentrata nelle valli dell’Agno e del Chiampo in provincia di Vicenza – pressoché rifiutate dagli autoctoni. Anche il comparto dell’edilizia, delle meccaniche e del metallurgico, almeno nei processi più pericolosi e “sporchi” della trasformazione, vede un forte coinvolgimento della manodopera straniera. Fig. 2. – La presenza extracomunitaria nel Veneto al 1991 [Fonte: CRIACPV-IRSEV, 1992]. 140 Non è viceversa sempre facile spiegare concentrazioni anche elevate, sia in termini assoluti che in rapporto alla popolazione residente, in comuni di piccole dimensioni e non particolarmente investiti da processi di industrializzazione. Tale aspetto fa verosimilmente richiamo al fatto che occupazione e alloggio spesso seguono percorsi e regole differenti: è cruciale il problema della casa, prioritario allo stesso problema del reperimento di un posto di lavoro. Per tale motivo certe aree, anche se economicamente marginalizzate, possono divenire attrattive solo perché dotate di una maggiore disponibilità di alloggi: poco conta se trattasi di dimore spesso fatiscenti, sovraffollate e con canoni d’affitto esorbitanti. E ciò inevitabilmente comporta anche importanti spostamenti pendolari, del tutto atipici rispetto all’originario modello economico veneto (IRSEV, 1985), quello della “fabbrica che insegue la manodopera”. Per contro non sfuggirà una cospicua presenza di stranieri pure nei capoluoghi come Verona e Vicenza e nell’immediato hinterland: trattasi di città che comunque non hanno abbandonato il loro carattere industriale, connotate da precise tipologie produttive – basti pensare al ramo agroalimentare del veronese (quello dei dolci da ricorrenza ne è un tipico esempio), un comparto prettamente labour-intensive e caratterizzato da elevata stagionalità – tipologie che richiedono un alto turn-over di manodopera e rapporti occupazionali a termine, poco graditi a chi necessiti di uno stipendio costante. Per di più, nella breve storia dell’immigrazione veneta, non va sottaciuta quella “peculiarità spiegabile, almeno nella fase iniziale, grazie alle relazioni tra Italia e Ghana che passano attraverso missioni religiose che hanno le case madri nella regione” (TONIOLO TRIVELLATO, 1992, p. 20), peculiarità che dà conto della consolidata presenza di popolazioni dall’Africa guineiana, grazie all’attività di prima accoglienza e di inserimento svolta ad esempio dai Comboniani o dagli Scalabrini. Eloquente è il caso ghanese che, nonostante un’ovvia, fisiologica ridistribuzione territoriale più propria della fase matura della filiera migratoria, a fine ’99 registra ancora un terzo dei regolari concentrati in Veneto, e di questi la metà risiede in Vicenza e provincia, mentre a Verona è la componente nigeriana che rimane elevata. 5. IL QUADRO A FINE ANNI ’90 A fronte di meno d’una decina di comuni che non registravano alcuna presenza straniera, il cartogramma di Fig. 3 riferito a dicembre ’94 rivela – rispetto alla situazione osservata precedentemente – una tendenziale diffusione degli immigrati che, procedendo dall’area centrale, ha coinvolto l’intero contesto regionale, interessando pure quelle zone che prima ne risultavano escluse. Crescita numerica dunque, e ridistribuzione 141 spaziale: sembrano queste le principali caratteristiche del nuovo quadro immigratorio. Accanto al consolidamento della presenza nelle aree tradizionalmente attrattive, infatti, si noterà il consistente aumento degli stranieri in provincia di Belluno, dove è chiaro il richiamo da parte dei comuni turistici per impieghi stagionali, negli esercizi alberghieri e nella ristorazione, come pure nel settore delle costruzioni e della manutenzione; ma è altrettanto visibile la cospicua presenza in quell’asse forte che da Ponte nelle Alpi sale lungo l’asta del Piave fino a Lozzo di Cadore passando per Longarone, dove un’industrializzazione recente quanto dinamica abbisogna di forza lavoro anche estera. Vistosa e altrettanto chiara nelle motivazioni è pure la crescita nei comuni litoranei, tanto della costa adriatica quanto della riviera gardesana. Non sembra invece così facile interpretare una significativa, anche se a pelle di leopardo, presenza nell’alto Polesine, quel segmento della provincia di Rovigo che accusa un relativo ritardo in termini di crescita economica: è verosimilmente il settore primario ad attirare immigrati, ma sembra più credibile pensare anche a una maggiore disponibilità di alloggi per una manodopera dedita soprattutto Fig. 3. – La presenza extracomunitaria nel Veneto al 1994 [Fonte: COSES, 1997]. 142 all’ambulantato, come certa parte della comunità marocchina e di quella senegalese, ovvero manodopera disposta anche a percorrere lunghe distanze per lavorare, superato il Po, nelle contigue province di Ferrara e Mantova. Semmai ciò che il dato non esplicita è il mutamento avvenuto in altri caratteri della comunità straniera. Gli sconvolgimenti geopolitici che hanno interessato l’Est europeo dal 1989 in poi si sono ripercossi in una crescita sostenuta da parte della componente di origine balcanica fino a superare numericamente lo stesso segmento maghrebino, quello per tradizione più rappresentativo; e tale fenomeno si amplificherà nell’ultimo scorcio del decennio in esame. I marocchini, nel 1991, costituivano la principale componente extracomunitaria in Veneto (5.374 casi, pari al 23,7% del totale) seguiti dall’ex-Jugoslavia (2.768 casi, pari al 12,2%); ma già nel 1994 questo paese con 10.261 casi, pari al 25,2% del totale, si poneva in prima posizione davanti al Marocco (8.402 casi, pari al 20,6%) (COSES, 1997) e la proporzione – in base alle indicazioni ISTAT – è rimasta pressoché immutata al ’99 con 24.291 immigrati dall’ex-Jugoslavia e, seconda nazionalità per presenze, sempre il Marocco con 20.527 casi. Il quadro immigratorio di fine anni ’90, come si evince dalla Fig. 4, ben ripropone l’evolversi delle tendenze già in atto nei periodi precedentemente considerati. Si noterà dunque il totale e forte coinvolgimento dei comuni appartenenti alle province di Verona, Vicenza e Treviso, con una diffusione a macchia d’olio che risparmia solo pochi spazi interstiziali; e se variegata rimane la situazione delle restanti aree, significativo è questa volta il fatto che quasi tutti i comuni capoluogo di provincia segnalano elevati tassi di immigrazione. Anche questo appare come elemento di ulteriore novità che vorrebbe allineare la situazione regionale alle tendenze più proprie di altre realtà nazionali. Sostenere che il richiamo della città si correli a una maggiore disponibilità di alloggi risponde al vero solo in parte, e comunque non dà conto della citata peculiarità veneta. Troppe variabili entrano in gioco e si concatenano: si può ipotizzare per un verso la maggiore richiesta di collaboratrici domestiche, un tempo reperibili tra la popolazione locale come lavoro a part-time, e lo riproverebbe l’aumento tra i nuovi arrivi della componente femminile, sia dall’Est europeo che dalle Filippine o dall’area caraibica. Per altri versi il mutato quadro regionale suggerisce il profilo dell’immigrato che non ricopre esclusivamente i tradizionali “lavori pesanti o sporchi”: nelle strutture sanitarie è crescente il ricorso a manodopera straniera qualificata, in particolare nel settore paramedico. Le ditte di spedizione e di autotrasporti, con sede prevalentemente nelle città o nei comuni di prima cintura, fanno sempre più ricorso a immigrati d’oltre confine, e lo stesso dicasi per le imprese di pulizie che – in relazione all’attività svolta – mantengono un’ubicazione prettamente urbana. Quel “multiculturalismo soft”, che connota gli spazi urbani anche veneti, 143 vede poi il fiorire di ristoranti e negozi “etnici” gestiti da imprese miste e pure questo aspetto costituisce un fattore di richiamo dall’estero, non solo nella conduzione dell’esercizio commerciale, ma anche nella stessa fase della produzione di beni di consumo tramite laboratori artigianali con manodopera quasi totalmente straniera: la comunità cinese, nelle sue diversificate attività che vanno oltre il classico settore della ristorazione, ci fornisce un esempio paradigmatico nel ramo dell’abbigliamento, dei tovagliati, del tessile in generale. E i forti vincoli di solidarietà che legano i membri di questa comunità nei confronti dei nuovi arrivati, ne fanno persistere la presenza, com’era avvenuto nella fase di primo insediamento, in ambito preferibilmente urbano. L’invecchiamento della popolazione poi, richiama immigrati disposti, pur con relativi bassi salari, ad accudire gli anziani e questo è soprattutto un problema “metropolitano” se è vero che in Veneto, nel Veneto fino a ieri rurale, la famiglia allargata e la cura dei vecchi all’interno della stessa è un aspetto che ancora permane ma è certamente più diffuso in campagna che non nella città. Fig. 4. – La presenza extracomunitaria nel Veneto al 1999 [Fonte: elaborazione personale su dati ISTAT, <http://demo.istat.it>]. 144 Ciò che per contro si è indotti a leggere come elemento di emergenza, restando sempre in ambito urbano, è il fatto che anche questa regione – a differenza di quanto accadeva precedentemente – è divenuta terra di prima immigrazione, sia da parte di popolazione dall’Est europeo che dal Maghreb. E nella mancanza di un chiaro progetto migratorio sarà la città, non uno sconosciuto comune minore, la prima destinazione, il primo momento di approccio per il nuovo arrivato. La totale ignoranza della lingua, delle regole sociali, della situazione nel mercato del lavoro e degli alloggi, sommate alla scarsità di risorse finanziarie indispensabili nella fase delicata dell’inserimento nel tessuto sociale ospitante, sono elementi che possono concorrere ad acuire il disagio e l’autoemarginazione con scelte di sopravvivenza che talvolta si spingono anche oltre i limiti del legale: non è un caso se episodi di microcriminalità sono più frequenti nelle aree urbane. E sempre nelle città venete, in particolare quelle a prevalente carattere terziario – segnatamente Padova e Venezia – il rapporto tra regolarizzati e clandestini è molto più sbilanciato di quanto non avvenga nel resto del territorio. Ma sarebbe un imperdonabile errore, lo stesso che troppo di frequente sentiamo evocare nelle istanze di certa parte politica, perpetuare l’equazione “clandestino = illegalità”. Il Veneto del successo consiste fondamentalmente in due sistemi produttivi che convivono: quello che per mantenersi competitivo nel mercato punta sull’innovazione e quello che viceversa basa la propria competitività sull’abbattimento dei costi della manodopera, con ovvio ricorso al sommerso e coinvolgendo ampi segmenti di manodopera marginale sia autoctona che, soprattutto, straniera. Un aspetto di matrice economica che deborda ampiamente nella sfera dell’etica, e a mio avviso non è stato adeguatamente recepito e stigmatizzato dall’opinione pubblica. Così si spiega la forte diffidenza persistente nei confronti dell’extracomunitario che si trova spesso a vivere sulla propria pelle un paradosso tipicamente italiano e pure veneto: quello di essere illegale in termini burocratici ma di essere al tempo stesso perfettamente inserito nel nostro apparato produttivo. 6. L’EVOLUZIONE PIÙ RECENTE DEL FENOMENO L’osservazione della presenza straniera nel Veneto attraverso i tre cartogrammi proposti (Figg. 2-4) ne ha recuperato gli aspetti evolutivi in una chiave rigorosamente diacronica. Volendo comunque individuare gli ambiti oggi maggiormente coinvolti era necessario mutare le classi precedentemente adottate e dunque, in Fig. 5, lo stesso tema è rappresentato con valori di riferimento differenti (sono stati esattamente raddoppiati) consentendo così interessanti riflessioni. La nuova classazione, oltre a ribadire quanto già espresso, conferma la maggiore presenza nei comuni delle province di Verona, Vicenza e Treviso, enfatizzando però il ruolo di 145 quelli pedemontani e vallivi che si caratterizzano per le citate attività industriali poco appetite dagli autoctoni. Interessante novità è l’estensione in termini di crescita numerica verso i comuni del Basso Vicentino, come pure di altri contesti regionali di per sé meno industrializzati, dove l’indagine diretta sul campo ha consentito di verificare una maggiore disponibilità di alloggi o comunque canoni d’affitto più abbordabili, in un mercato ormai incapace di soddisfare la domanda abitativa, vero nodo cruciale per l’immigrato, soprattutto se con la famiglia al seguito. I comuni di Verona e Vicenza, a loro volta, segnalano gli indici di presenze più elevati rispetto ai restanti capoluoghi e non può che valere quanto già ipotizzato. Le aree più marginali continuano a presentare percentuali oggettivamente inferiori di immigrazione e la disomogeneità che emerge dal cartogramma, sfuggendo a regole generali, presuppone l’avvio di indagini specifiche, poiché è spesso la casualità a costituire elemento di attrazione: un matrimonio misto che può innescare catene di solidarietà, una parrocchia più attiva nell’opera di inserimento dell’immigrato, Fig. 5. – La presenza extracomunitaria nel Veneto al 1999 (con differente classazione) [Fonte: elaborazione personale su dati ISTAT, <http://demo.istat.it>]. 146 un’amministrazione comunale più attenta e disponibile nella riconversione di immobili dismessi, gli stessi datori di lavoro che si mobilitano per cercare un alloggio alle loro maestranze in difficoltà, il ruolo innegabile di un volontariato presente sul territorio in modo quasi capillare, ovvero forme di colonizzazione apparentemente estranee a qualsiasi logica da parte di precise comunità straniere in precisi contesti territoriali. Che ci fanno 34 cinesi su un totale di 41 immigrati a Villanova Marchesana, un comune di 1.050 anime nel medio Polesine, o 17 peruviani a Portoviro, sul delta del Po, o 16 nigeriani a Villadose, giusto tra Adria e Rovigo? E quali percorsi migratori hanno attuato e da quali progetti sono motivati? Sembrano queste le componenti che fondamentalmente contribuiscono alla costruzione della variegata geografia dell’immigrazione veneta. Ma quello che pare rivelarsi come elemento di novità è il cambiamento della popolazione extracomunitaria nei suoi caratteri strutturali: se si confrontano le piramidi d’età delle Figg. 6 e 7, non sfuggirà l’evoluzione sopravvenuta nel corso dell’ultimo decennio. Chiaramente i due grafici non possono intendersi esaustivi nella rappresentazione dell’intero universo migratorio regionale, ma costituiscono pur sempre – in mancanza di dati più approfonditi – una testimonianza inequivocabile delle tendenze in atto. La piramide del 1991, che rappresenta gli immigrati dell’intera provincia di Treviso, disaggregati per sesso e classi di età, investigati in sede di tesi di laurea con un’indagine svolta comune per comune (SIMONETTI, 1993), dava conto di un’immigrazione spiccatamente mascolina, giovanile, con forte componente maghrebina: quella caratterizzante, insomma, il Veneto di fine anni ’80. La piramide di metà anno 2000, riferita al comune di Lonigo nel Basso Vicentino, visualizza la realtà di un’area che – s’è già visto – più che a causa di specifiche opportunità di lavoro si distingue per la relativa vicinanza ai grandi distretti industriali, con inoltre una maggiore disponibilità di alloggi. Sembra dunque a pieno titolo un modello da acquisire come esempio pertinente alla più generalizzata situazione veneta di fine anni ’90. E in effetti vi leggeremo un maggiore riequilibrio nella sex-ratio a seguito di un’aumentata partecipazione della componente femminile; ma ancor più, l’alta presenza dei minori, ben diversa dalla situazione di inizio decennio, costituisce un segnale forte sul mutamento in corso nei progetti migratori che – attraverso la scelta del ricongiungimento dei nuclei familiari – da progetti temporanei sembrano orientati attualmente verso caratteri di più lungo termine. Ciò fa dunque richiamo alla necessità di mettere in atto una serie di infrastrutture e interventi che rendano più facile l’accessibilità ai servizi di cui una normale famiglia – poco conta se di origine autoctona o immigrata – abbisogna. Molto più diversificate che non in precedenza risultano poi le nazionalità di origine (ovviamente non graficizzate): ad esempio a 147 Fig. 6. – Struttura della popolazione extracomunitaria in provincia di Treviso (1991) [Fonte: SIMONETTI, 1994]. Fig. 7. – Struttura della popolazione extracomunitaria a Lonigo - VI (2000) [Fonte: elaborazione personale su dati Ufficio Anagrafe Comune di Lonigo, che qui si ringrazia per la disponibilità]. Lonigo, coerentemente con le tendenze regionali, accanto alla componente tradizionale di jugoslavi, marocchini, ghanesi e albanesi (nell’ordine), compaiono gruppi di bangladeshi, indiani e cinesi a riprova della multiculturalità che ormai sta prendendo piede e da cui non è possibile prescindere. Contatti e scambi di opinioni con osservatori privilegiati, in prima linea sul fronte immigratorio, suggeriscono che l’attivazione di opportune 148 strategie non necessariamente comporta un elevato carico finanziario. Si possono semplicemente ottimizzare le risorse già disponibili. Il settore del no profit, il volontariato, dovrebbe farsi carico dell’emergenza, come da sempre ha svolto egregiamente, ma altre strutture già operanti e finanziate dallo Stato, come ad esempio i CTP (Centri Territoriali Permanenti per l’educazione e la formazione in età adulta) andrebbero incoraggiate, poiché oltre a costituire elementi di monitoraggio del fenomeno migratorio nei suoi aspetti meno appariscenti, ma non per questo meno importanti, è ad essi che si rivolge l’immigrato che intende imparare l’italiano, che desidera quindi inserirsi a pieno titolo nel nostro tessuto sociale e assurgono pertanto a punti di riferimento, a costruttivi momenti di incontro se non proprio di aggregazione tra società ospitante e lavoratori ospiti. S’è dunque parlato di forti mutamenti in corso su questo campo, e allora basti un esempio tra i tanti: “Ieri immigrati precari, oggi imprenditori”. Così titolava un articolo di F. Jori su Il Gazzettino del 15 marzo 2001, sottolineando come nel Nordest vi siano 25.755 imprenditori immigrati, e pure dai tradizionali PVS (1.945 dalla Jugoslavia, 880 dall’Argentina, 830 dalla Cina, 780 dal Marocco… e via dicendo), immigrati che “dopo aver lavorato sotto padrone hanno creato una partita IVA, hanno messo in piedi una società, hanno assunto loro connazionali o altri immigrati, se non addirittura italiani. Aprendo centri medici, call-center, agenzie immobiliari, ristoranti, negozi, imprese edili…”. Insomma, pare questa la migliore risposta alla diffidenza purtroppo diffusa nell’opinione pubblica, agli stereotipi ancora radicati quando trattasi di immigrazione, alimentati spesso da atteggiamenti e sortite provocatorie quanto discutibili da parte di alcuni amministratori veneti: un fenomeno altamente dannoso che non favorisce il dialogo né getta le premesse per un rapporto che quantomeno si strutturi in termini di semplice, civile convivenza e di rispetto reciproco. 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TONIOLO TRIVELLATO, “La geografia della presenza extracomunitaria nel Veneto”, in CRIACPV-IRSEV, La domanda abitativa, op. cit., 1992, pp. 17-30. 150 DAVIDE PAPOTTI I PAESAGGI ETNICI DELL’IMMIGRAZIONE STRANIERA IN ITALIA L’apporto della geografia allo studio dei processi di formazione della società multiculturale è tradizionalmente legato all’analisi dei fattori spaziali chiamati in causa dal fenomeno immigratorio (ambiti di provenienza, dislocazione dei flussi, mete di destinazione, meccanismi di distribuzione, concentrazioni e dispersioni a diverse scale, ecc.) (WHITE, WOODS, 1980). All’interno di questo interesse per la dimensione spaziale si possono inserire specifici campi di studio che prendano in considerazione un aspetto qualitativo del fenomeno immigratorio. Fra questi, di particolare rilievo sembra essere quello dell’“impatto ambientale” di una comunità immigrata nel tessuto insediativo preesistente. Il consolidarsi di ragnatele migratorie e l’affermarsi di processi cumulativi di immigrazione (attraverso i quali i nuovi arrivati si inseriscono in un contesto organizzato dai connazionali che li hanno preceduti), insieme a meccanismi di ghettizzazione che in ambiente urbano finiscono per concentrare la popolazione immigrata in specifiche aree (siano esse centrali o periferiche), tendono a creare zone abbastanza chiaramente demarcate ad alta densità di popolazione straniera. Questi luoghi di concentrazione, più o meno stabili e più o meno diversificati al loro interno, possiedono un “gradiente di visibilità” nei confronti del resto della popolazione. Tale fattore è indice sia della coesione interna del gruppo sia del suo grado di accettabilità agli occhi dei residenti “autoctoni”. Scenario privilegiato di queste dinamiche è il contesto urbano, nel quale tende a concentrarsi la popolazione immigrata1. All’interno dei complessi fenomeni che legano l’identità del singolo e dei gruppi alle forme insediative e di organizzazione della comunità, i paesaggi urbani si caratterizzano oggi anche per questa presenza, recente per quanto riguarda il contesto italiano, di segni espliciti di una presenza multietnica. L’analisi di quest’espressione di identità collettiva – soprattutto, ma non solo, di natura visuale2 –, che d’ora in poi si designerà con il termine “paesaggio etnico”, coinvolge in primo piano il ruolo interpretativo della geografia, che nello studio dei paesaggi urbani può vantare una sedimentata tradizione di ricerca. “Lo spazio degli immigrati è più spesso urbano, è ancora da conquistare stabilmente e da mantenere; e quindi l’integrazione etnica è ancora tutta da costruire, ed anzi essa è sentita e assume configurazioni differenti [...]” (GASPARINI, 2000, p. 72). 2 Per un approfondito studio sui rapporti fra il concetto di paesaggio e la componente percettiva visuale cf. JAKLE, 1987. 1 151 La componente qualitativa dell’analisi degli scenari cittadini è entrata da tempo nel mirino della variegata “cassetta degli attrezzi” dell’interpretazione geografica, sulla scorta delle analisi di Kevin Lynch (1964 e 1980) legate all’interpretazione delle “mappe mentali” (GOULD e WHITE, 1974) e all’identificazione dell’esprit di una regione. È nel contesto statunitense che si sviluppa un’attenzione, su una simile direzione qualitativa di indagine, ai paesaggi dell’etnicità (CONZEN, 1990; NOBLE, 1992) che, nell’ambito del melting pot connaturato e storicamente assestato della società americana3, possiedono un macroscopico risalto. Lo studio dei meccanismi con i quali si organizza e si rende percepibile una “visibilità etnica” coinvolge il sapere concettuale e gli strumenti d’indagine della geografia urbana e della geografia della percezione, e specificamente di quel settore d’indagine recentemente messo a fuoco da David Sibley (1995) con il termine collettivo “geografie dell’esclusione”4. Se la situazione in Italia differisce per fattori quantitativi, per profondità temporale del fenomeno, per ampia frammentazione della provenienza etnica degli immigrati, nondimeno si può identificare, in una fase insieme di consolidamento e di crescita della presenza straniera sul territorio, uno specifico interesse nell’esame dei paesaggi dell’etnicità. Attraverso l’esame della “visibilità” territoriale dei gruppi etnici si possono ricavare utili informazioni sulle dinamiche di inserimento delle popolazioni straniere nel tessuto urbano, comparare differenti situazioni regionali e locali, seguire e verificare le dinamiche di mobilità e di evoluzione distributiva della popolazione straniera. L’analisi della presenza di un “altro” visuale che s’innesta nel panorama percepibile delle realtà urbane italiane riprende una zona d’indagine di frontiera fra diverse scienze sociali, ed in particolar modo si avvicina alle categorie di alterità elaborate nell’ambito della cosiddetta “antropologia del vicino” (SEGALEN, 1989; AUGÉ, 1994)5. Questo avvicinamento alle categorie dell’analisi antropologica non deriva tuttavia dall’affermarsi di “mode” o passeggeri portati interdisciplinari, ma si radica in un processo di evoluzione della società che richiede nuovi e coordinati mezzi di indagine: “Non è, come teme Louis Dumont, l’antropologia a lasciare terreni esotici per rivolgersi ad orizzonti più famiSui limiti dell’esperienza americana, con utili indicazioni anche sul versante dei “paesaggi etnici”, cf. STEINBERG, 1989; FUCHS, 1990. 4 Il cautelativo plurale è dovuto alla vastità e diversità degli approcci e delle scale di indagini possibili, a partire dall’assunto che “the human landscape can be read as a landscape of exclusion” (SIBLEY, 1995, p. IX). 5 L’interesse antropologico per la società contemporanea occidentale è rilevante anche, come ricorda SIBLEY (1995, p. XVII), nei lavori di Paul Rabinow (1986) e risale, come invito critico, già ad uno scritto di Robert Park di settantacinque anni fa (1925). 3 152 liari col rischio di perdere la propria continuità. È il mondo contemporaneo stesso che, a causa delle sue trasformazioni accelerate, richiama lo sguardo antropologico, cioè una riflessione rinnovata e metodica sulla categoria dell’alterità” (AUGÉ, 1993, p. 27). Né il coinvolgimento del sapere interpretativo correlato alla geografia sembra azione opportunistica o epistemologicamente forzata se si considera che una delle caratteristiche fondanti dello stesso concetto di “surmodernità” (con il quale Augé definisce la situazione della società contemporanea) è identificato nella “sovrabbondanza di spazio” (1993, pp. 33-37). In questa prospettiva, conclude l’antropologo francese, “abbiamo bisogno di reimparare a pensare lo spazio” (1993, p. 37)6. All’interno di questo auspicabile ripensamento delle categorie spaziali si può inserire l’analisi, soprattutto in relazione ai paesaggi urbani, dei segni di appartenenza etnica. 1. ELEMENTI DEL PAESAGGIO ETNICO I fenomeni di organizzazione e di appropriazione degli spazi da parte delle comunità di immigranti sono alla base del “collante identitario” di una comunità. Tanto più importante quanto esso viene a cementificare un gruppo sociale sradicato dal suo ambiente di origine: “il dispositivo spaziale è allo stesso tempo ciò che esprime l’identità del gruppo (le origini del gruppo sono spesso diverse, ma è l’identità del luogo che lo fonda, lo raccoglie e lo unifica) e ciò che il gruppo deve difendere contro le minacce esterne e interne perché il linguaggio dell’identità conservi un senso” (AUGÉ, 1993, p. 45). Le aree preferenziali (elettive e/o obbligate) di residenza dei gruppi di immigrati sono identificate all’interno di una complessa rete di interrelazioni fra le leggi economiche che influenzano e regolano il mercato immobiliare (la selezione “per censo” dell’accesso abitativo alle aree urbane, la gentrification, la tendenza ad occupare spazi abitativi residuali che offrono i prezzi di affitto più bassi, ecc.) e le ancora più impalpabili regole sociali che ne modulano l’applicazione (la difficoltà per gli immigrati extracomunitari di ottenere affitti in determinate aree, anche indipendentemente dal potere economico e dalla posi- La centralità dell’aspetto spaziale negli studi antropologici, con sfumature che calzano a pennello nell’indagine dei paesaggi dell’etnicità, viene ribadita in più punti da Augé: “È proprio perché ogni antropologia è antropologia dell’antropologia degli altri che il luogo, il luogo antropologico, è simultaneamente principio di senso per coloro che l’abitano e principio di intelligibilità per colui che l’osserva” (1993, p. 51). Per un panorama del concetto antropologico di paesaggio cf. HIRSCH, O’HANLON, 1995. 6 153 zione lavorativa, i pregiudizi razziali impliciti od espliciti, ecc.)7. Una volta che tale concentrazione abitativa si è instaurata sul territorio, inizia il processo di formazione del paesaggio etnico8. Augé identifica (1993, p. 44) quattro categorie di geografia che l’etnologo cerca di definire nel suo lavoro: economica, sociale, politica e religiosa. Queste geografie, su piani diversi ma compenetrati, caratterizzano lo spazio di una comunità. Si possono utilizzare queste chiavi di indagine anche per l’analisi del paesaggio etnico, nel quale si identificheranno dunque segni economici, sociali, politici e religiosi. I segni economici sono quelli relativi ad attività di lavoro che fortemente caratterizzano un’etnia (le insegne e gli arredi dei ristoranti di cucina etnica, ad esempio). I segni sociali sono espressione delle dinamiche comunitarie delle relazioni fra le persone (cartelli ed indicazioni nella lingua del paese d’origine, giornali in lingua appesi in luoghi pubblici, ad es.). I segni politici sono quelli legati ad un’organizzazione “ufficiale” della comunità immigrata che la pone al livello di interlocutore politico nei confronti delle istituzioni del governo locale (sedi di associazioni che raggruppano gruppi etnici, ad es.). I segni religiosi sono quelli correlati allo svolgimento delle pratiche e dei rituali religiosi, sia a livello architettonico (la costruzione di elementi “forti” nello skyline di un’intera città, come il minareto di una moschea) sia a livello di arredo urbano (i segnali che identificano una casa di preghiera o uno spazio utilizzato per culto). Le categorie qui esposte sono indicative e non vogliono certo porre ferrei confini fra i complessi elementi di iconologia identitaria di una collettività9. Alcuni segni (come ad esempio due categorie di esercizi pubblici fino a pochi anni fa assai poco diffusi in Italia, e oggi sicuri Non si intende qui generalizzare il destino di una fascia sociale così eterogenea come quella degli immigrati. Si è ben consci dell’infinita molteplicità dei casi singoli e della dispersione centrifuga dei destini individuali. Si concentra l’attenzione in questa sede solo sui fenomeni di aggregazione comunitaria, per cui i membri di gruppi etnicamente differenziati tendono ad aggregarsi in una o più aree urbane nelle quali il meccanismo insediativo si fa cumulativo. Si prende in considerazione dunque, consapevoli dell’opportunità sempre aperta di altre soluzioni meno strutturate e “deterministiche”, solo una delle possibili tipologie insediative degli immigrati, che comunque dimostra una discreta diffusione e frequenza sul territorio. Quanto alla definizione di etnia, si rinvia alla spiegazione offerta da Conzen: “La definizione di etnicità impiegata qui riguarda i membri di un gruppo etnico che condividono alcune caratteristiche che sono il prodotto di una comune eredità e di tradizioni culturali [...]. Non inclusi in questa definizione sono gruppi la cui coesione è definita solamente sulla base di una particolare religione o ideologia” (1994, p. 388, n. 1; questa e le altre traduzioni da Conzen sono mie). 8 Sulla degenerazione dei processi di separazione e di ghettizzazione – basata su fattori non solamente etnici – e sul processo di formazione dei cosiddetti “paesaggi della disperazione” si rinvia alle analisi, effettuate in contesto statunitense, da DEAR e WOLCH (1987) e da GOLDSMITH e BLAKELY (1992). Sulla degenerazione della sicurezza individuale e la spirale della criminalità come conseguenza della ghettizzazione cf. SKOGAN, 1990. 9 Per un’analisi del significato di “segno etnico” cf. RINALDI, 1996. 7 154 indicatori territoriali di presenza multietnica, i centri telefonici per chiamate internazionali e i centri specializzati nelle transazioni internazionali di denaro) si pongono a cavallo fra diverse categorie; nella fattispecie fra i segni economici ed i segni sociali, in quanto facilmente l’esercizio etnicamente orientato diviene luogo di socializzazione per gli immigrati. Il fine di tale classificazione è piuttosto quello di suggerire la complessità del panorama potenziale di indizi che un gruppo etnico stratifica sul territorio attraverso la propria presenza. 2. PER UNA GEOGRAFIA DEI PAESAGGI ETNICI Il processo di interpretazione svolto attraverso gli strumenti concettuali della geografia si situa all’interno di quel costante meccanismo di trapasso dall’attenzione (provocata dagli oggetti empirici, nel caso in questione i segni visuali dell’etnicità) alla riflessione (che li trasforma in oggetti intellettuali) (AUGÉ, 1993, p. 20). Il portato concettuale ed operativo della geografia non si riduce ad una pure assai importante operazione di mappatura e localizzazione del fenomeno. Attraverso il sistema di visualizzazione dell’etnicità si afferma un senso di radicamento nel luogo. L’“altro” afferma dunque volontariamente la propria identità e la rende visibile e percepibile. Ad essere sollecitato da questo messaggio visuale è a sua volta lo stesso senso di appartenenza della popolazione “autoctona”, che, nel gioco di specchi dell’alterità, viene portata ad interrogarsi sul proprio collante identitario. La presenza di paesaggi “multiculturali” definisce per opposizione il nuovo ruolo-bandiera di quelli che vengono definiti i lieux de mémoire, i luoghi della memoria storica e collettiva della società. Nel contesto italiano il concetto di paesaggio etnico non assume quel ruolo a tutto campo che possiede invece negli Stati Uniti, dove la minore profondità storica dei processi di organizzazione territoriale e di fondazione urbana ha offerto e offre tuttora agli immigrati maggior libertà di azione nel plasmare i paesaggi. Nel suo studio Ethnicity on the land (1994), che rappresenta un imprescindibile punto di partenza per l’inquadramento metodologico e contenutistico di questo settore di studi geografici, Michael Conzen si sofferma per esteso su diversi elementi che conservano un ethnic flavour, un sapore etnico, a partire dall’organizzazione territoriale agricola, dalla forma dei villaggi, delle fattorie, degli edifici ausiliari, per arrivare alle tipologie architettoniche delle case e degli edifici comunitari in ambiente urbano. Questo tipo di influenza etnica sul paesaggio non può ovviamente essere riscontrato nell’Italia contemporanea, nella quale l’impatto quantitativamente rilevante dell’immigrazione è recentissimo, e le ondate di nuovi arrivati si sono trovate ad operare in un paese dotato di un assetto territoriale e di tipologie urbanistiche stratificate da secoli. Le componenti del 155 paesaggio etnico saranno dunque da ricercare nel contesto della penisola in elementi “decorativi” ed “ausiliari” più che in elementi strutturali, in connotazioni più che in denotazioni. Tra le componenti dei paesaggi etnici statunitensi individuate da Conzen possono resistere ad una trasposizione nel contesto italiano quelle strutture di organizzazione di base che segnano una fase primaria di appropriazione dello spazio: i community buildings, cioè gli edifici che svolgono una funzione comunitaria, i luoghi di culto, i neighborhood retails, cioè i negozi di quartiere che servono una clientela specifica etnicamente orientata (legata, in alcuni casi, come quello dei negozi di alimentari, a regole sanitarie, religiose, o semplicemente di gusto), e i luoghi di ricreazione (bar, associazioni sportive, ecc.). Nell’analisi dei paesaggi dell’etnicità si possono identificare due categorie di segni: i segni “endogeni” ed i segni “esogeni”. I segni “endogeni” sono quelli che, rivolgendosi ai membri della comunità, assolvono una funzione “interna” di informazione ed insieme di conferma identitaria. Essi non si preoccupano di essere comunicativi al di fuori della ristretta cerchia di residenti della zona. Il loro alfabeto simbolico deve infatti risultare comprensibile soprattutto e prioritariamente ai membri della comunità etnica (indicazioni degli edifici a funzione collettiva, segni religiosi, avvisi, giornali stampati nella lingua di origine, segni correlati allo svolgimento di passatempi o di sport, ecc.). Al contrario, i “segni esogeni” devono attirare l’attenzione della popolazione appartenente al ceppo etnico ospitante, “indigeno”. I segni dell’etnicità acquisiscono addirittura un valore di marketing se utilizzati per identificare un certo tipo di servizio (le insegne laccate di rosso con decorazioni tipiche di un supermarket che vende prodotti cinesi, un sombrero appeso all’ingresso di un ristorante messicano, ecc.). I segni dell’etnicità in questo caso devono essere il più possibile riconoscibili e devono proporsi come “marchi etnici” a costo di voler accondiscendere ai più banali stereotipi correlati alla nazione di provenienza. Se il segno endogeno in un certo senso “marchia” il territorio, il segno esogeno si presenta come un biglietto da visita, una garanzia di etnicità, che viene ricercata dall’esterno in base a precise aspettative culturali, ricreative, enogastronomiche, ecc. Il delicato rapporto fra segni esogeni e segni endogeni, d’altra parte, bene esprime il livello di permeabilità raggiunto dalla presenza straniera. In una fase di stabilizzazione, infatti, i segni endogeni campeggiano indisturbati insieme ai segni esogeni, che possono rappresentare, da soli, una fase iniziale di “conquista di legittimità”. Conzen identifica tre fattori principali che sono alla base del paesaggio etnico: il volume quantitativo dell’immigrazione in rapporto alle sue coordinate spazio-temporali, il tipo di potenziale economico della comunità immigrata e la sua coesione in termini di valori culturali, religiosi, linguistici (1994, pp. 239-241). Nel contesto italiano il movimento immigratorio, nonostante la brusca impennata del fenomeno nell’ultimo decennio, non ha raggiunto i valori percentuali di altri paesi europei. Esso 156 offre inoltre un’estrema diversificazione per nazione di appartenenza: non solo la percentuale degli immigrati sulla popolazione in generale è ancora, almeno in ottica comparativa, bassa, ma, all’interno di questa categoria, nessun gruppo è largamente dominante sugli altri. Di solito poi gli immigrati si posizionano in nicchie di lavoro che si situano nei gradini di base della piramide produttiva. Di norma solo il terzo fattore – quello della coesione culturale – può costituire un punto di forza in quanto, all’interno delle più di cento nazionalità straniere rappresentate nel territorio italiano, i meccanismi di autodifesa identitaria possono far acquisire alle comunità etniche una compattezza abbastanza rilevante. Tuttavia questo collante identitario si sviluppa come uno strumento di difesa più che come un ponte comunicativo verso l’esterno. Tra i fattori che influenzano negativamente il formarsi di paesaggi etnici Conzen elenca invece situazioni ed elementi che in Italia sono comuni e al momento “costituzionali” al fenomeno: “correnti migratorie eterogenee, destinazioni disperse, scarsa tendenza al raggruppamento, mancanza di successo nella colonizzazione (che conduce alla mobilità geografica)” (1994, p. 241). Per questa convergenza di debolezza delle forze modellatrici e di acutezza dei fattori controproducenti i paesaggi etnici italiani assumono aspetti peculiari, che ne riducono l’impatto strutturale ma non ne eliminano le funzioni, giungendo a creare paesaggi di sussistenza “leggeri” e immateriali. Nell’organizzazione dei “paesaggi etnici” si esprimono dunque in sintesi visuale le caratteristiche della costante dialettica che la comunità etnicamente caratterizzata sta svolgendo e negoziando sia verticalmente (con la società del paese ospitante) che orizzontalmente (con le altre comunità etniche di immigrati). Rimane comunque importante, all’interno dell’ottica geografica di analisi, lo studio della distribuzione dei paesaggi etnici e del loro gradiente di “centralità”. Occorre infatti verificare la loro ricorrenza nelle zone centrali ed in quelle periferiche, e le eventuali diversità riscontrate in relazione alla localizzazione. Un’analisi della distribuzione dei paesaggi etnici in un sistema urbano rappresenta un tentativo di misurare, a cavallo fra l’esame quantitativo delle occorrenze e quello qualitativo dei significati, la consistenza delle barriere invisibili, dei confini costantemente in mutazione ed evoluzione che segnano la distribuzione degli immigranti nel tessuto residenziale di un centro abitato. 3. LA VISIBILITÀ DI UN PAESAGGIO ETNICO L’impatto visuale di un paesaggio etnico è correlato all’effettiva coe-renza e forza del paesaggio sociale del paese ospitante. Qualora il profilo identitario di quest’ultimo, a livello di iconologia paesaggistica, soprattutto urbana, sia un modello consolidato da una consistente tradi157 zione storica – ed è certamente il caso dell’Italia – ogni variazione e sfida a questo tessuto risulta amplificata; a maggior ragione se ai paesaggi urbani arride un forte successo d’immagine turistica. In questi casi l’interferenza provocata da paesaggi etnici diversificati rappresenta un elemento di “disturbo” all’unicità e al carattere scenografico e “pittoresco” dei luoghi della concentrazione turistica. L’aspetto perturbante di un paesaggio etnico risiede in fattori costituzionali e in fattori contingenti: “se gli immigrati allarmano tanto (spesso assai astrattamente) gli ‘indigeni’, è forse innanzi tutto perché essi dimostrano la relatività delle certezze iscritte nel suolo. È l’emigrato ciò che nel personaggio dell’immigrato li allarma e li affascina allo stesso tempo” (AUGÉ, 1993, p. 109). La presenza di enclaves etniche nel tessuto urbano delle città (fatto inusitato nella tradizione della penisola, almeno negli ultimi due secoli), insieme alla possibilità di imbattersi in simboli endogeni non comprensibili a causa di barriere linguistiche e culturali, rendono questi spazi estranei agli abitanti della città, e perciò potenzialmente minacciosi o comunque percepiti come fastidiosi, in quanto introducono una vera e propria barriera confinaria. Per capire questa estraneità dei paesaggi etnici ci si può rifare alla definizione di “paese retorico” suggerita da Vincent Descombes: “Il paese retorico di un personaggio trova un limite laddove i suoi interlocutori non comprendono più le spiegazioni che egli fornisce delle sue azioni e dei suoi gesti, né dei risentimenti che prova o delle ammirazioni che manifesta. Una difficoltà di comunicazione retorica segna il passaggio di una frontiera, che va ovviamente pensata come una zona di frontiera, un dislivello, e non come una linea chiaramente tracciata” (1987, p. 179). Un membro dell’etnia sociale autoctona può quindi scoprire più o meno repentinamente la presenza di inaspettate barriere confinarie all’interno di spazi ritenuti fino a quel momento familiari e sicuri. Il volatile “borsino” dell’opinione pubblica in relazione alle ondate di immigrazione e al gradiente di accettabilità di una comunità etnica è correlato anche ad eventi storici che contribuiscono a porre sotto i riflettori dell’attenzione mondiale, e a colorare di connotazioni positive o negative, l’immagine di certe nazioni o di certe etnie. Rimanendo nel campo di un settore limitato e numericamente ridotto, rispetto alla popolazione straniera inserita saldamente nel tessuto produttivo agricolo, industriale e commerciale, i valori di accettabilità dei paesaggi etnici legati al commercio ambulante e alla questua sono correlati anche ai corsi e ricorsi della politica internazionale. Lo scolorarsi dei confini fra il profilo dell’“immigrato” e quello del “profugo” rappresenta un valore aggiunto per chi è in cerca di solidarietà da parte del pubblico dei passanti. Alcuni paesaggi etnici, se facilmente riconoscibili, possono acquistare maggiore “sostenibilità” rispetto ad altri, e quindi i segni che li caratterizzano e li rendono distinguibili aumentano di conseguenza in intensità e in frequenza. 158 Il gradiente di visibilità di un paesaggio etnico è anche un riflesso della tolleranza espressa dal paese ospitante, in due direzioni: quella dell’apertura giuridica ufficiale e quella dell’accettazione sociale. La possibilità di rendere e lasciare “visibili” i segni dell’etnicità in una zona di passaggio o, a maggior ragione, in una zona centrale del tessuto urbano testimonia un’avvenuta accettazione, o almeno una tolleranza, nei confronti della presenza degli immigrati. Tale accettazione costituisce una conditio sine qua non per uno dei possibili passi successivi, quello della conquista di uno spazio fisico e di un tessuto sociale coerente. In questa prospettiva lo stato dei paesaggi etnici si configura come un termometro di quella sfida alla cittadinanza che è alla base del problema dell’inserimento degli stranieri nelle strutture politiche e sociali dei paesi membri dell’Unione Europea (BRUSA, 1998). Il dibattito critico in sede di studi di urbanistica individua una “tenuta” contemporanea del sistema-città proprio in virtù della sua possibilità di essere ancora luogo di incontro: “La città esiste e serve ancora, nella sua essenziale caratteristica di luogo di intense possibilità di interazione sociale non predeterminata” (SERNINI, 1996, p. 15). Al contempo, però, sottolinea il ruolo della scala dimensionale di indagine, che può influenzare il livello qualitativo della comunicazione sociale: “La grande città è lo spazio dove maggiore è la eterogeneità delle popolazioni. Spesso vi sono deboli legami sociali, ma anche una fitta rete di relazioni diverse, e più le reti sono interconnesse più è possibile trovare modi non conflittuali di rapporto sociale. E la grande città, provano ricerche europee, è più tollerante” (SERNINI, 1996, p. 16). Se l’eterogeneità, come afferma Sernini, è maggiore nelle grandi città, questo può essere vero in termini quantitativi, ma non sempre in termini percentuali. Accade talvolta, e basti pensare a certe realtà del Triveneto a forte vocazione industriale, che piccole città o paesi possono ospitare alte percentuali di popolazione straniera in virtù di un elevato fabbisogno di manodopera. In questi casi le dinamiche innestate sono diversificate rispetto a quelle delle grandi città e mettono in gioco caratteristiche specifiche del sistema insediativo e sociale. Le analisi geografiche dei paesaggi etnici si confrontano su più livelli con il problema di scala: non solo in relazione al livello scelto per il rilevamento dei dati (che può andare dal singolo edificio all’isolato, dal quartiere al sistema urbano in generale) ma anche in relazione alle dimensioni della realtà ospitante (campagna, paese, città piccola, media, metropoli, ecc.). 4. PAESAGGI FISICI E PAESAGGI UMANI Si è dato fino ad ora maggior rilievo agli elementi statici del paesaggio, ai segni che, in maniera più o meno temporanea, fanno parte dell’assetto e dell’arredo urbano di una città. Assecondando la natura complessa insita nello stesso concetto di paesaggio, tuttavia, ed inserendo nel 159 panorama delle varianti in gioco la presenza umana, il quadro diviene insieme più stratificato e più sfuggente10. Se l’impatto dell’etnicità sulle componenti materiali del paesaggio rimane, in ambito italiano, sostanzialmente limitato e relativo più a sfumature e coloriture che ad aspetti strutturali, esso acquista rilievo assai maggiore qualora si consideri il panorama antropico di una città contemporanea. La visibilità sociale degli immigrati è molto alta, data anche la natura precaria di alcune attività di lavoro (commercio ambulante, servizio di lavavetri ai semafori, quando non direttamente la questua) e la conseguente necessità di porsi bene in vista e di posizionarsi in luoghi di transito. Spesso la ricerca del mercato migliore per lo svolgimento del commercio ambulante porta alla concentrazione di venditori in luoghi di alto richiamo sociale o turistico. In tali contesti i paesaggi etnici sono caratterizzati da una natura effimera e da un basso assetto strutturale, ma al contempo anche da un alto impatto visuale. La presenza massiccia di venditori ambulanti, spesso a forte coerenza etnica di appartenenza, si condensa infatti nei punti di maggior passaggio, ma è anche allo stesso tempo in grado (per problemi di legalità non solo legati al permesso di soggiorno, ma anche alle autorizzazioni per lo svolgimento di un’attività commerciale e all’autenticità e provenienza della merce in vendita) di muoversi con estrema tempestività ed efficacia e di “volatilizzare” il paesaggio etnico qualora si profili il pericolo di un controllo da parte delle forze di polizia. Questa continua precarietà dell’esercizio commerciale, che costruisce dei veri e propri paesaggi effimeri, è stata efficacemente ritratta in alcune opere letterarie della “prima” generazione di immigrati a partire dagli anni Ottanta: fra i vari esempi possibili, il romanzo di Pap Kouma (1990), che rappresenta un’interessante descrizione dall’interno di questo mondo di “precariato etnico”11. La costituzionale natura effimera di tali paesaggi è anche correlata al fatto che queste sovrastrutture di piccolo commercio ambulante vanno a posizionarsi in scenari che hanno spesso risonanza mondiale, veri e propri marchi d’immagine del “prodotto Italia” che vengono utilizzati nella promozione turistica su scala internazionale. Tali scenari turistici sono dunque al centro dell’attenzione delle amministrazioni locali per quanto riguarda l’arredo urbano, la piacevolezza estetica, la razionalità d’uso degli spazi, ecc. Questi luoghi di norma possono tollerare un impatto forte dei paesaggi etnici legati al commercio ambulante solo se questi si mantengono liberi da infrastrutture permanenti, e si conservano nei termini di una presenza sicuramente visibile, a tratti invadente, ma sempre mobile e rimovibile. 10 Per un panorama dei paesaggi “invisibili” legati a valori culturali e a fattori psicologici e sociali cf. RYDEN, 1993. 11 Per una approfondita analisi della letteratura degli immigrati in lingua italiana cf. PARATI, 1999. 160 5. MULTISENSORIALITÀ E PLURIDIMENSIONALITÀ DEI PAESAGGI ETNICI L’impatto visuale è sicuramente uno dei fattori sensoriali più importanti nella percezione dei paesaggi etnici. Tuttavia, non occorre sottovalutare il ruolo degli altri sensi nella costruzione di una coscienza della multietnicità. I paesaggi delle comunità etniche immigrate sono anche, ad esempio, paesaggi sonori: molte occasioni che nel quotidiano ricordano la presenza delle comunità straniere nelle città italiane sono offerte per l’appunto da “panorami verbali” e da “paesaggi acustici”. Si possono aggiungere a questa dimensione sonora anche i “paesaggi olfattivi” – che diventano tangibili, ad esempio, nei mercati che espongano spezie e cibi importati – e persino i paesaggi “del gusto”, cioè l’assaggio di cibi etnicamente caratterizzati. Non occorre sottovalutare queste componenti integranti della percezione dell’alterità etnica: il cibo rappresenta uno dei più importanti e popolari “biglietti da visita” per l’ingresso ed il consolidamento di una coscienza di alterità etnica nell’immaginario collettivo di una popolazione. In questa direzione i paesaggi etnici acquistano una dimensione multisensoriale che contribuisce a renderli paesaggi a tutto tondo, dotati di una concretezza e di una vitalità che li eleva al di sopra del ruolo di semplici scenari visuali di sfondo: “Il cibo riveste un senso ancora più ampio, dato che nella società industriale contemporanea non riflette più la preoccupazione della semplice sussistenza ma si carica di significati che riguardano le identità culturali. [...] I prodotti alimentari fungono, allora, anche da marcatori geografici, un fatto che il commercio via Internet e il turismo gastronomico amplificano in misura ulteriore. [...] Le cucine etniche sembrano costituire una sorta di ‘interfaccia’ che mette in comunicazione gli abitanti delle città occidentali e gli emigrati” (LAI, 2000, p. 95). Il processo di allargamento dei gusti alimentari e gastronomici – che in altre nazioni è maggiormente sedimentato nel tempo12 – segue un modello abbastanza assestato: dapprima i ristoranti e bar “etnici” servono la comunità di immigrati, poi a poco a poco si aprono un varco e un ruolo nelle abitudini nutrizionali della popolazione autoctona, “[...] diventano dei luoghi in cui si mettono ‘in scena’ le differenze, e in cui è possibile — ‘con un felice malinteso’ — entrare in contatto con un’altra lingua e un’altra cultura attraverso l’assaggio dei suoi piatti ‘tipici’” (LAI, 2000, p. 95; citazioni tratte da LA CECLA, 1998, p. 59). Per questo motivo i segni etnici correlati all’alimentazione sono fra quelli maggiormente tollerati, e pertanto fra i più diffusi. Essi seguono inoltre la differenziazione sopra menzionata fra segni “endogeni” e segni “esogeni”, nel senso che gli 12 Per il processo di “osmosi gastronomico-culturale” fra immigrati e popolazione residente, e sull’acquisizione di una dimensione internazionale delle abitudini alimentari in Gran Bretagna cf. HARRISON, 1998. 161 esercizi commerciali (ristoranti, bar, negozi di alimentari) si specializzano in due categorie: quelli che si concentrano su un’utenza interna al gruppo etnico (ed in questo caso il panorama dei segni dell’etnicità è solamente un portato indiretto) e quelli che si concentrano invece sull’utenza “esterna” (e pertanto tendono ad enfatizzare i segni promozionali di appartenenza etnica, a renderli altamente visibili e riconoscibili). Riprendendo l’espressione “mettere in scena” utilizzata da Franco Lai nella citazione sopra riportata è doveroso accennare all’importanza del ruolo svolto dalle rappresentazioni culturali dei paesaggi etnici a teatro, al cinema, in letteratura. La presenza, all’interno della produzione culturale di una nazione, di personaggi e tematiche legate all’immigrazione è insieme specchio e produttrice della visibilità dei paesaggi etnici. Da una parte testimonia l’avvenuto riconoscimento e l’affermata spendibilità in fase di produzione culturale delle problematiche legate alla multicultura. Dall’altra svolge un’azione promotrice e “pioniera” di educazione alla multietnicità. Si pensi, a titolo esemplificativo, al lavoro svolto dalla compagnia Ravenna Teatro nella rivisitazione della tradizionale figura di Arlecchino, icona identitaria italiana per eccellenza. In uno spettacolo allestito nel 1993, Arlecchino era impersonato dall’attore africano Mor Awa Niang e il canovaccio goldoniano Les vingtdeux infortunes d’Arlequin, scritto a Parigi nel 1763, diveniva grazie alla riscrittura di Marco Martinelli I ventidue infortuni di Mor Arlecchino (1993), ambientato in una Milano delle periferie con protagonista un immigrato alle prese con le comuni difficoltà di inserimento nella società italiana13. Tali operazioni culturali – che creano dei “paesaggi etnici al quadrato”, esponenziali proprio in quanto filtrati dalla messinscena artistica – contribuiscono alla diffusione degli scenari dell’etnicità e ad aprire le porte ad un’educazione alla multicultura. 6. “MARKETING” TURISTICO E PAESAGGI ETNICI La specificità individuale, la chiarezza e l’accettabilità di un paesaggio etnico sono strettamente correlate alla vitalità turistica della nazione di provenienza. Essendo il turismo una delle forme più importanti, unitamente ai mezzi di informazione di massa, per lo sviluppo della conoscenza dei paesi esteri, la percezione di una minoranza etnica è influenzata dal “gradiente di turisticità”, e conseguente appetibilità, del paese di origine degli immigrati. I fattori in gioco sono complessi ed aleatori, rile13 Per un’approfondita analisi della genesi e dei contenuti dello spettacolo si veda la recente traduzione inglese del testo, accompagnata da saggi di diversi studiosi (PICARAZZI, FEINSTEIN, 1997). 162 vabili solo attraverso indagini nel campo perennemente in movimento delle immagini mentali e delle percezioni individuali o collettive. Sembra perlomeno doveroso, nondimeno, tenere in considerazione certi fattori immateriali che possono contribuire a variare il grado di “tolleranza” nei confronti di un paesaggio etnico. Nella stessa direzione di sfruttamento turistico, ma nell’altro verso di percorrenza, il potenziale turistico “interno” di un marchio d’immagine etnico è fattore consolidato in paesi ad antica tradizione di melting pot interetnico quali gli Stati Uniti. In alcuni casi può essere la stessa amministrazione locale a corroborare per fini turistici la connotazione etnica di un quartiere, aggiustando ad hoc la cartellonistica stradale o l’arredo urbano, come avviene ad esempio nelle Chinatowns delle maggiori metropoli: “Si aggiunga a ciò [la presenza di segni architettonici spontanei di sapore etnico] la persuasione dei funzionari delle municipalità di contribuire con arredo urbano di motivo appropriatamente cinese — lampioni, indicazioni delle vie, cabine telefoniche e, occasionalmente, archi trionfali — e l’effetto generale derivatone è quello di un forte stampo etnico sul locale paesaggio urbano” (CONZEN, 1994, p. 236). Tale politica di arredo etnico non si è ancora sviluppata in Italia, ma non è da escludere che, vista la crescente attenzione verso le potenzialità del “marketing etnico”, iniziative simili non appaiano in un prossimo futuro. L’interpretazione dei segni dell’etnicità si situa d’altro canto in quel complesso di fenomeni visuali che sempre più interessano e coinvolgono il senso dell’abitare e la dialettica fra le diverse scale del globale e del locale. Augé attribuisce ai mass-media, alla televisione in primis, il fatto che certi paysages vengano a far parte di alcuni “marchi iconografici” a forte riconoscibilità (1993, p. 34). Anche se sfugge il significato profondo e tradizionale di un’icona etnica di riconoscibilità, tanto più se esposta come “segnale turistico” o di servizio (per differenziare, ad esempio, un tipo di cucina servito in un ristorante), gli elementi del paesaggio etnico funzionano perché “riconoscibili”: “[...] È una caratteristica degli universi simbolici il fatto di costituire un mezzo di riconoscimento piuttosto che di conoscenza” (AUGÉ, 1993, p. 35). 7. RIFLESSIONI CONCLUSIVE Lo studio dei paesaggi dell’etnicità in Italia si presenta, per la scarsa profondità temporale dei fenomeni immigratori, per l’ancora bassa incidenza quantitativa delle popolazioni di provenienza straniera, per la loro relativa “esclusione” e segregazione economica, come una ricerca indiziaria di segni a basso impatto sul paesaggio urbano. La visibilità della popolazione straniera sembra differenziata a seconda delle categorie e anche, talvolta, 163 delle etnie. Gruppi come quello di etnia cinese insediatosi nel distretto tessile di Prato, ad esempio, possiedono un altissimo grado di inserimento nella realtà produttiva, sia legale che legata al lavoro nero, ma presentano una ridottissima visibilità sociale, facendo spesso coincidere luogo di lavoro con luogo di residenza e concentrandosi in un’attività manifatturiera svolta in spazi interni. Al contrario, la visibilità è molto alta per le frange meno strutturate e più precarie della popolazione straniera, cioè gli ambulanti e i questuanti, che finiscono, anche se magari numericamente rappresentano solo una minoranza, per incarnare agli occhi dell’opinione pubblica lo stereotipo dell’immigrato per eccellenza. Si aggiunge a questa diversità costituzionale del gradiente di visibilità la costruzione di un paesaggio virtuale dell’etnicità da parte dei mass-media. Televisione, radio, riviste e quotidiani hanno moltiplicato la visibilità degli stranieri, con un tamtam cronachistico che non ha esitato a sfoderare, secondo gli stilemi di esagerazione e di roboante retorica ormai usuali nel linguaggio giornalistico, termini come “invasione”, “orda”, “sbarco”, ecc. Si assiste così, in parallelo a quella che APPADURAI (1990) e BHABHA (1994) hanno definito una delle caratteristiche della globalizzazione, cioè la deterritorializzazione delle culture (che fa sì che i continui spostamenti di popolazione, insieme ai sempre più frequenti scambi fra culture e società, rendano sempre più complessi e indefiniti i confini sociali), ad una smaterializzazione dei paesaggi etnici, che si fanno sempre più paesaggi umani e sempre meno paesaggi architettonici e territoriali, quando non interamente paesaggi virtuali legati all’immaginario collettivo, cui pochi segni di alta riconoscibilità bastano per ricomporre l’immagine di un’identità etnica. Il discorso si sposta dunque sempre di più verso il livello di accettazione di questa alterità etnica, non solo sul piano mentale, ma anche su quello sociale e su quello giuridico. Se durante il corso della storia, secondo i suggerimenti di Jacques Levy (1994), si è passati da uno spazio pre-statale dominato da un’ottica militare, attraverso uno spazio statale dominato dall’ordine sociale e politico, ad uno spazio contemporaneo in cui è imperante il concetto di legittimità (insieme giuridica e sociale), compito primario diventa quello di indagare i meccanismi con i quali tale legittimità viene costruita e giudicata. Sul fronte dell’analisi spaziale, la geografia è dunque chiamata ad un monitoraggio dei paesaggi etnici che riflettono ed insieme esprimono lo stato di permeabilità e di accettabilità delle minoranze di cui essi sono espressione. 164 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI A. APPADURAI, “Disjuncture and difference in the global cultural economy”, in M. 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PREMESSA1 Con la riforma della Politica Agricola Comunitaria (PAC d’ora in poi), in vigore dal 1992, l’agricoltura europea ha subito modificazioni sostanziali e rivoluzionarie. Abolito il tradizionale sostegno dei prezzi istituzionali, caposaldo della vecchia Europa Verde, viene introdotto un nuovo sistema di aiuti al reddito agricolo, corrisposto per ettaro di seminativo e commisurato alle rese medie storiche. La drastica riduzione dei prezzi agricoli (soprattutto dei cereali al fine di allinearli a quelli medi del mercato mondiale) ha rappresentato un provvedimento di forte impatto sul mondo agricolo, assolutamente indispensabile, purtroppo, per conferire competitività all’agricoltura europea e restituirla alle leggi del mercato. Le motivazioni dell’importante cambiamento sarebbero tutte da ricondursi al mutato obiettivo della PAC, determinato dal passaggio rapido, avvenuto in poco più di un ventennio, da un’agricoltura comunitaria fortemente deficitaria ad un’agricoltura eccedentaria che, grazie ai meccanismi di sostegno fittizio dei prezzi, era divenuta non solo bastevole per l’autosufficienza ma addirittura esuberante di surplus in diversi settori. Era necessario invertire il sistema produttivo e promuovere forme di agricoltura meno intensive, volte non solo al contenimento delle rese, ma anche più sensibili alle problematiche ambientali. Così, rispetto alle linee direttrici che avevano guidato la vecchia politica agricola, intrapresa alla fine degli anni Cinquanta, quando la Comunità Economica Europea lamentava gravi carenze alimentari, la nuova Europa Verde innesca una vera e propria inversione di tendenza nel tentativo di sanare gli effetti negativi che il regime di sovvenzione dei prezzi agricoli CEE, disancorato dall’andamento dei mercati, aveva prodotto a causa delle abbondanti produzioni, degli accumuli onerosi delle eccedenze e del forte aggravio della spesa agricola. Si ritiene utile, al fine di facilitare la comprensione dei complicati meccanismi della riforma, una breve riflessione sui criteri che avevano 1 Con il presente contributo si intende proporre una brevissima sintesi sulla storia della Politica Agricola Comunitaria (PAC) dal Trattato di Roma (1957) alla Riforma Mac Sharry (1992). Per un commento personale più approfondito, anche se parziale, sui nuovi e complessi meccanismi di intervento si rinvia a RIGOTTI 1998, 2000. 167 sorretto la vecchia PAC e dei principali eventi che ne determinarono la fine, accelerando nel contempo la revisione integrale della stessa. 2. LA VECCHIA PAC PER UN’AGRICOLTURA DEFICITARIA Come è noto la PAC era stata avviata di fatto nel 1962 rendendo attuativi gli obiettivi espressi nell’art. 39 del Trattato di Roma del 1957, che, relativamente al settore primario, miravano in sostanza ad aumentare la produzione agricola sviluppando il progresso tecnologico, ad assicurare un approvvigionamento stabile a prezzi ragionevoli per i consumatori e a garantire un livello di vita dignitoso alla popolazione agricola. Il tutto sarebbe stato perseguibile attraverso l’unicità del mercato europeo (prezzo unico), la preferenza comunitaria a favore dei prodotti dei paesi firmatari e la solidarietà finanziaria realizzata attraverso il sostegno economico alle politiche di sviluppo comunitarie. È necessario sottolineare che tali provvedimenti venivano presi in un’epoca davvero cruciale per l’Europa a causa dell’inadeguatezza delle sue produzioni e per giunta con una popolazione in espansione; è comprensibile, pertanto, che i suoi meccanismi fossero stati concepiti tenendo conto di tale situazione. Inoltre, val la pena di ricordare che alla fine degli anni Cinquanta era l’America il grande fornitore di derrate alimentari di base per l’Europa: cereali e semi oleosi vi pervenivano soprattutto dagli USA; dall’Argentina, invece, venivano importate per lo più carni congelate. Dei Paesi europei solo la Francia era riuscita a superare l’autosufficienza nel 1957 e ad evitare consistenti importazioni di grano e carni dall’oltreoceano, mentre le produzioni agricole degli altri Stati erano largamente insufficienti a sfamare le popolazioni in crescita e richiedevano una soluzione efficace in grado di potenziarle; tra l’altro la memoria della carestia bellica e del razionamento postbellico erano ancora ben vivi nella mente delle genti europee. La PAC prometteva garanzia di un approvvigionamento costante a prezzi stabili svincolato dalle fluttuazioni dei mercati mondiali: soltanto così sembrava possibile rinvigorire l’agricoltura europea. Era certo, infatti, che senza il valido supporto del sostegno dei prezzi l’agricoltura europea mai avrebbe potuto competere con i costi di produzione delle agricolture estensive del resto del mondo, perché la relativa limitata disponibilità di risorse naturali e la forte pressione demografica esistente nell’area comunitaria imponevano che un aumento dell’offerta agricola venisse perseguito solo attraverso una intensivizzazione delle colture e delle produzioni. Purtroppo, questo, avrebbe dovuto realizzarsi senza alcuna “protezione” per le condizioni ambientali. Non deve quindi stupire il fatto che i prezzi comunitari siano stati fissati a livelli nettamente superiori a quelli allora vigenti sul mercato internazionale. 168 Per ogni prodotto compreso nella PAC, non tutti però, solo per cereali, carne e lattiero caseari, vigeva una Organizzazione Comune di Mercato e all’inizio di ogni annata agraria venivano stabiliti i prezzi: il prezzo indicativo (anche obiettivo) su cui impostare il mercato, il prezzo di intervento garantito ai produttori agricoli (dagli organismi nazionali di raccolta alla consegna del prodotto), il prezzo soglia stabilito alla frontiera per le importazioni dai paesi terzi. Unitamente a tale politica dei prezzi veniva approvata anche la creazione di un Fondo Europeo di Orientamento e Garanzia (FEOGA) che avrebbe finanziato tutte le iniziative della PAC. Erano assicurati, inoltre, sia il sostegno alle esportazioni con sussidi definiti restituzioni, sia la protezione dalle importazioni tramite i prelievi inclusi nel prezzo soglia. Sostanzialmente risultavano così garantiti contestualmente sia il sostegno dei prezzi interni sia la salvaguardia delle frontiere, e al produttore agricolo veniva corrisposto un prezzo più alto rispetto al prezzo mondiale, per assicurargli un più elevato tenore di vita in linea con gli altri settori produttivi. Dei tre prezzi indicati quello che interessava il coltivatore-produttore era, ovviamente, il prezzo d’intervento: se il mercato interno della CEE faceva scendere i prezzi di un determinato prodotto al di sotto del livello previsto, il FEOGA acquistava, attraverso le varie strutture nazionali di raccolta e stoccaggio (l’AIMA per l’Italia), la produzione degli agricoltori e ne assicurava la conservazione, in attesa di una più favorevole situazione dei mercati. Inoltre, per evitare che le importazioni di cereali provenienti dai Paesi tradizionalmente esportatori superassero la frontiera CEE ad un prezzo nettamente inferiore di quello praticato dal mercato interno europeo, la PAC applicava il cosiddetto prelievo sulle importazioni, variabile secondo i prezzi mondiali dei prodotti importati, che comunque si posizionavano sempre ad un livello generalmente più basso di quelli europei. Il prelievo veniva aggiunto alle normali tariffe doganali per assicurare che il prodotto importato non creasse difficoltà al mercato interno. La PAC incoraggiava pure le esportazioni di prodotti CEE attraverso il sistema delle restituzioni, ossia il pagamento sotto forma di sussidi alle esportazioni comunitarie pari alla differenza tra il prezzo interno CEE e quello, più basso, del mercato mondiale. È stata proprio questa la voce che col tempo è venuta a pesare notevolmente sulle spese del FEOGA assorbendone una parte via via sempre più rilevante a causa dello smercio delle eccedenze. In ogni caso – occorre ammetterlo – tale politica ha contribuito alla crescita economica ed ha consentito di offrire ai consumatori europei un’ampia gamma di prodotti alimentari di qualità a prezzi accessibili. Purtroppo il sistema della PAC, sia pur adeguato inizialmente ad una agricoltura fortemente deficitaria, non avrebbe potuto mantenersi a lungo effi169 cace, perché una volta innescato avrebbe funzionato come un inarrestabile meccanismo incentivante le produzioni col risultato che, oltrepassato il livello dell’autosufficienza, si sarebbero create rapidamente eccedenze produttive sempre più ingenti per la maggior parte dei prodotti agricoli. Comunque, sia pur foriero di effetti negativi, tale meccanismo di sostegno dei prezzi ha funzionato senza sostanziali modificazioni fino all’inizio degli anni Ottanta, dando luogo a una crescita vertiginosa della produzione agricola comunitaria. E, sotto questo aspetto, non si può certo negare che l’obiettivo del già ricordato art. 39 del Trattato di Roma, che aveva assegnato alla PAC il compito di “accrescere la produttività dell’agricoltura sviluppandone il progresso tecnologico”, non sia stato raggiunto, semmai esso è stato perseguito con troppa fermezza se ha trasformato l’Europa, nel giro di poco più di un ventennio, da importatore netto di cereali ad esportatore cerealicolo. E alla base della prodigiosa spinta produttiva, segnalata da tutti i comparti agricoli, stanno proprio sia il sostegno politico dei prezzi sia il poderoso supporto tecnologico. A titolo di esempio, la resa cerealicola è passata dai circa 18 quintali per ettaro in media della fine degli Cinquanta ai 40 quintali degli anni Settanta per raggiungere nel decennio successivo i 60 quintali per ettaro. Anche la produzione di latte è migliorata notevolmente e, grazie alla selezione artificiale e alle nuove tecniche di alimentazione, il rendimento medio di una vacca da latte, che si attestava all’inizio degli anni Sessanta attorno ai 2500 chili, raggiunge i 4400 chili circa alla metà degli anni Ottanta. Durante il periodo della vecchia PAC gli agricoltori producono con un certo margine di sicurezza protetti dalla garanzia dei prezzi che li tutela dalle fluttuazioni dei mercati; unica preoccupazione ad affliggerli era l’incognita climatica, ineludibile, come si sa, perché connaturata con la stessa pratica agricola. Il prezzo d’intervento fungeva da ancora di salvezza per l’agricoltore, garantendogli sempre, e comunque, il ritiro illimitato della produzione. 3. L’AUTOSUFFICIENZA DEGLI ANNI SETTANTA Sostenuta dai suddetti provvedimenti politici, la produzione agricola globale comunitaria si è, via via, accresciuta ad un ritmo superiore alla capacità di assorbimento del mercato, tanto che tra il 1973 e il 1988 il volume della produzione agricola CEE è aumentato del 2% all’anno contro un consumo interno annuo solo dello 0,5%. Inoltre, alla metà degli anni Settanta l’autosufficienza per il grano e i cereali minori era ormai raggiunta (110%), anche se per il mais rimaneva ancora lontana (70%). Per giunta, alla fine degli anni Settanta, il trend demografico 170 europeo aveva invertito la tendenza con l’inizio del contenimento delle nascite. D’altra parte, però, questo sostegno indiretto al reddito, fondato esclusivamente su garanzie di prezzo per i produttori, risultava ampiamente proporzionale al volume della produzione, concentrando, pertanto, la quota sostanziale del sostegno sulle aziende più grandi e più intensive. Basti considerare che la maggior parte della produzione cerealicola totale (60%) derivava soltanto dal 6% delle aziende, tutte di grandi dimensioni e detentrici di circa la metà della superficie cerealicola totale. Non desta meraviglia, quindi, se ben l’80% del sostegno economico del FEOGA veniva assorbito solo dal 20% delle aziende. Ne conseguiva che un sistema così impostato, che privilegiava la quantità prodotta e premiava i grandi produttori, non tenesse in considerazione i redditi del foltissimo contingente dei piccoli e medi produttori agricoli. È noto come questi si concentrino soprattutto nei paesi mediterranei, la cui agricoltura poggia prevalentemente su aziende familiari di limitata dimensione e, proprio per questo, affatto corresponsabili degli eccessivi surplus, creatisi in seno alla CEE. L’Italia, ad esempio, presenta un’ampiezza media aziendale di superficie agricola utilizzata di appena 5,6 ettari e ancora più contenuta a 4,3 ettari quella della Grecia, mentre la vicina Francia, dispone di unità produttive dalla dimensione media di ben 27 ettari. Inoltre, se fino agli inizi degli anni Settanta il reddito medio agricolo era cresciuto in maniera soddisfacente, anche se con forti disparità regionali, è stato nella seconda metà di tale decennio, e in coincidenza col periodo di massimo accumulo delle eccedenze, che il potere di acquisto degli agricoltori, in particolare dei piccoli, ha rallentato notevolmente la sua crescita. Tale evoluzione appare preoccupante se si considera che la popolazione agricola della CEE era nel frattempo diminuita in maniera significativa; situazione, questa, accompagnata, pure, da un avanzato processo di senilizzazione. 4. LE ECCEDENZE PRODUTTIVE E LA CRISI DEGLI ANNI OTTANTA Gli esiti negativi della vecchia PAC erano divenuti più vistosi e seri negli anni Ottanta. La situazione eccedentaria dei mercati agricoli comunitari si era accentuata notevolmente fino a raggiungere il valore di 12 milioni di ECU nel 1987 e la spesa per la politica di sostegno dei prezzi aveva continuato la sua accelerata ascesa: il bilancio FEOGA garanzia, che era pari a 4,5 miliardi di ECU nel 1975, era salito a 11 mld di Ecu nel 1981, per balzare a ben 31 mld di Ecu nel 1991. L’incremento della spesa era legato alle restituzioni per le esportazioni e alla gestione delle ecce171 denze, che erano attribuibili, però, dobbiamo ricordarlo, a pochi paesi membri, in primo luogo alla Francia2. Era necessaria, se non urgente, l’adozione di provvedimenti importanti che ponessero un freno al principio della garanzia illimitata dei prezzi. Non che in precedenza non fossero state studiate misure atte ad evitare il fallimento della PAC. Si ricordi il famoso e tempestivo Memorandum sulla riforma dell’agricoltura, meglio noto come Piano Mansholt, già elaborato nel 1968, in cui si prevedeva il superamento delle eccedenze produttive ed il contenimento della spesa per la politica di sostegno dei prezzi attraverso un piano di rinnovamento e ammodernamento strutturale delle aziende agricole. Il dettagliato piano non fu accettato per la sua impostazione troppo rigida soprattutto per quanto riguardava la realizzazione delle cosiddette aziende agricole “vitali”, la cui pretesa dimensione mal si conciliava con l’effettiva realtà delle strutture agricole esistenti. Così pure non hanno mai trovato realizzazione le altre soluzioni proposte successivamente per risolvere le incongruenze della PAC3. Solo negli anni Ottanta la situazione è stata seriamente affrontata; è in questo decennio, infatti, che si registrarono i più profondi cambiamenti in seno alla vecchia politica agricola, che, seppur tardivi, miravano a porre un limite, sia all’aumento della spesa agricola della Comunità, sia alle eccedenze produttive. Ha inizio così un vero e proprio processo di revisione della politica agricola concretizzatosi con l’adozione, specie nella seconda metà del decennio, di provvedimenti via via sempre più energici ed incisivi nell’intento di correggere gli effetti distorsivi del vecchio sistema. Si tratta dei “prelievi di corresponsabilità” dei produttori per il latte e per i cereali, delle “quote fisiche di produzione” ed, infine, degli “stabilizzatori di bilancio”, istituiti, quest’ultimi, nel 1988. Tutti provvedimenti, comunque, che hanno consentito di avviare una politica più restrittiva dei prezzi. La più efficace delle misure, però, forse perché la più coercitiva, è rappresentata dagli stabilizzatori, che prevedevano per quasi tutti i Va precisato che la situazione di eccedenza di un prodotto a livello comunitario può essere accompagnata dalla presenza di deficit a livello nazionale. L’Italia ad esempio presenta deficit per prodotti quali grano, latte, carne di cui esistono a livello comunitario delle forti eccedenze (FANFANI, 1990, p. 105). 3 Pochi anni dopo il Piano Manshot, nel 1972, sono state approvate le direttive socio-strutturali sull’ammodernamento delle aziende agricole con l’intento di favorire lo sviluppo di aziende in grado di fornire redditi agricoli comparabili a quelli degli altri settori. Il fatto, poi, che in realtà alla politica strutturale fosse stato assegnato appena il 5% della spesa che annualmente la Comunità destinava alla politica di sostegno dei prezzi ha contribuito a rendere inapplicabili, soprattutto in Italia, tali direttive per tutti gli anni Settanta. Solo più tardi, ma si dovrà attendere fino al 1985, con il Regolamento N. 797 verrà riproposta una nuova politica strutturale impostata su criteri più realistici. 2 172 prodotti la riduzione automatica e progressiva del prezzo d’intervento per l’annata successiva qualora la produzione dell’annata in corso avesse superato la quota massima garantita a livello comunitario. È con tale disposizione che, per la prima volta nella sua storia, la PAC imponeva delle limitazioni quantitative alle grandi produzioni. Sebbene gli stabilizzatori avessero rappresentato davvero la modifica più rilevante ed efficace, anzi un vero e proprio tentativo di riforma in extremis, essi non sono stati in grado di evitare la fine del sistema: erano necessari, purtroppo, ulteriori e più convincenti cambiamenti perché la PAC risultasse compatibile sul piano internazionale. Infatti, era ormai più che evidente che il vecchio meccanismo della PAC doveva essere radicalmente cambiato, perché, oltre ad incentivare l’intensificazione della produzione e lo sviluppo di sistemi produttivi ad elevato impatto ambientale, su di esso gravava pure la responsabilità di aver creato forti tensioni sul mercato internazionale, tanto che i suoi esiti negativi vi si stavano ripercuotendo pesantemente tra il generalizzato dissenso dei paesi grandi esportatori. Così, la situazione era diventata insostenibile per la CEE, cui si presentavano grandi difficoltà nel gestire il negoziato agricolo in seno all’Uruguay Round del GATT4, specie per la pressante richiesta degli USA di ridurre l’eccessivo protezionismo da anni praticato. Per comprendere l’origine del contenzioso all’interno del suddetto negoziato basti evidenziare soltanto il fatto che tra il 1980 e il 1989 i Paesi tradizionalmente grandi esportatori (e in prima posizione gli USA) avevano subito una riduzione considerevole nella loro quota delle esportazioni agroalimentari mondiali (dal 31,5% al 25,5%). Questo spazio era stato virtualmente occupato proprio dalle esportazioni dei paesi CEE che avevano registrato, invece, un concomitante aumento della loro quota che nello stesso lasso di tempo era, infatti, aumentata dal 31,5% al 37,5% (ZUPPIROLI, 1993, p. 40). Queste motivazioni, unitamente alle altre contingenti, hanno indotto la Comunità a riconsiderare seriamente ed integralmente la politica di sostegno dei prezzi cercando di adeguarla alle esigenze del mercato mondiale, smantellando nel contempo il sistema delle sovvenzioni. Per giunta, la Comunità stava avvertendo forte anche il bisogno, fino ad allora del tutto ignorato, di reimpostare le basi per un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente, nel tentativo di far recuperare all’attività primaria per eccellenza il perduto equilibrio del rapporto uomo-ambiente, che ancora vigeSi tratta dell’Ottavo Round del GATT (General Agreements on Tarrifs and Trade), detto dell’Uruguay Round, il più lungo, iniziato nel settembre 1986 a Punta del Este e conclusosi solo il 15 aprile 1994 con l’accordo di Marrakech. I precedenti Rounds del GATT sono stati: Ginevra (1947); Annecy (1949), Torquay (1951), Ginevra (1955), Dillon Round (1961-1962), Kennedy Round (1963-1967), Tokio Round (1973-1979). 4 173 va in età preindustriale. Come pure, si stava affermando da ogni parte l’esigenza di porre rimedio anche alla questione ecologica, esplosa con la pratica di un utilizzo del suolo ormai caratterizzato dallo sfruttamento troppo aggressivo dei terreni, “stressati” per l’uso, o meglio l’abuso di concimi, pesticidi e fitofarmaci. Così, con l’individuazione di nuove valenze e funzioni da attribuire all’agricoltura del prossimo futuro, si è venuta a rafforzare la necessità di una politica agricola integralmente modificata nei suoi obiettivi, nei suoi principi nonché negli strumenti di intervento specifici per il settore primario. Già nel “libro verde” della Commissione del 1985 compaiono le più significative innovazioni che avrebbero condotto alla grande e complessa Riforma della PAC, nota come Riforma Mac Sharry, che rappresenta, dopo giusto un trentennio, una svolta davvero epocale, destinata a sconvolgere quasi tutta l’agricoltura, apportando significativi ed evidenti mutamenti agli scenari agricoli. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CEE, “Regolamento 1765/92 del Consiglio del 20 giugno 1992 che istituisce un regime di sostegno a favore dei coltivatori di taluni seminativi”, Gazz. Uff., 20/8/1992. CEE, “Regolamento 1766/92 del Consiglio del 20 giugno 1992 relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore dei cereali”, Gazz. Uff., 20/8/1992. R. FANFANI, Lo sviluppo della politica agricola comunitaria, Roma, Nuova Italia Scientifica, 1990. G. PAGGI, Economia del mercato agricolo comune, Bologna, Edagricole, 1988. F. RIGOTTI, “Quale futuro per l’agricoltura dopo la riforma delle PAC?”, in M.G. 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