PAESAGGI FLUVIALI E LETTERATURA NEL VENETO DELLA

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PAESAGGI FLUVIALI E LETTERATURA NEL VENETO DELLA
FRANCESCO VALLERANI
PAESAGGI FLUVIALI E LETTERATURA
NEL VENETO DELLA MODERNIZZAZIONE
1. L’IDENTITÀ ANFIBIA
La sedimentazione culturale distribuitasi nei secoli lungo la complessa maglia di deflussi che caratterizza l’area veneta sta beneficiando di
un recente e, per molti aspetti, sorprendente riconoscimento sia da parte
degli ambienti scientifici che delle mutevoli percezioni popolari. Ciò
costituisce una significativa controtendenza rispetto alle numerose e
preoccupanti tipologie del degrado formale e funzionale dell’idrografia
regionale che hanno creato, specialmente nei decenni del miracolo economico, un diffuso distacco affettivo e operativo tra i rivieraschi e i corridoi fluviali. Anche senza soffermarsi sulla vistosa obliterazione dei
navigli della Patavium romana conclusasi alla fine degli anni Cinquanta,
il tumultuoso processo di espansione economica regionale non ha esitato
a immolare sull’altare del progresso gran parte del patrimonio di vie d’acqua che per secoli sono stati tra i più significativi elementi della peculiare territorialità della Terraferma.
Il nuovo approccio alla realtà dettato dalle imperanti attitudini
moderniste si avvale di potenti attrezzature meccaniche che consentono di
stravolgere l’ordine preesistente: prelievi di inerti, rettifiche di meandri,
cementificazioni delle sponde, interramento della rete scolante, costruzione di dighe, bonifiche. Se a ciò aggiungiamo il degrado della qualità dell’acqua causato da numerose fonti inquinanti e l’alterazione delle falde
per eccessivi emungimenti da parte della “casta” dei venditori d’acqua
potabile, il panorama dei rischi che minacciano l’identità anfibia del
Veneto è quasi completo. Dico “quasi” perchè non bisogna sottovalutare
il continuo e pulviscolare sfondo di inciviltà quotidiana che, nel più vile
anonimato, abbandona con sconcertante indifferenza ogni sorta di rifiuti
lungo gli argini, tra le boscaglie rivierasche, sui prati golenali. È questo il
vero oltraggio, che preoccupa ancor più, se possibile, della cava in alveo
perchè sancisce in modo inequivocabile non solo il disimpegno etico, ma
soprattutto l’annullamento del senso del luogo e dei legami che radicano
l’abitante al suo territorio.
Ma come accennato in precedenza, questo quadro scoraggiante
lascia spazio da qualche decennio al progressivo affermarsi di nuove attitudini, animate dal bisogno di identità attraverso gli elementi del patrimonio ereditato e in tal senso la rete idraulica qui considerata è davvero
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prodiga di significativi spunti non solo per riabilitare le peculiarità locali,
ma per avviare anche strategie di riqualificazione degli ambiti della quotidianità, sia residenziale che produttiva. A ciò si deve una sempre più diffusa celebrazione del Veneto anfibio, al cui interno sono assai numerosi i
centri urbani che si fregiano del prestigioso marchio di “città d’acqua”,
promuovendo sia a livello di iniziative spontanee che istituzionali una
coralità d’intenti volta al recupero del rapporto tra uomo e acque dell’entroterra. È la prova concreta e incoraggiante che nel Veneto, nonostante il
forte individualismo e il substrato conservatore consolidato dal successo
economico, si sta riconsiderando la convenienza e la fondatezza di un più
maturo e consapevole rapporto con la base territoriale. Ecco che il suddetto sedimentarsi di una ricca e peculiare civiltà delle acque è ancora in
grado di suscitare affascinanti suggestioni tra i viaggiatori che riescono a
distaccarsi per un po’ dal prepotente richiamo delle consuete mete del
turismo veneto. Ma l’idrografia regionale è stata fino allo scoppio del
secondo conflitto mondiale uno stimolo per affettuose celebrazioni pittoriche e letterarie, quasi un topos del “bel luogo”, del paesaggio ideale. La
fattualità geografica si carica di valori estetici e culturali condivisi principalmente dalle classi dominanti, ma con innegabili ricadute anche tra i
subalterni, nonostante che questi ultimi identificassero il corso d’acqua
come ulteriore opportunità di sussistenza
Obiettivo di queste brevi riflessioni sarà quello di evidenziare il ruolo
illuminante di alcuni testi letterari nell’interpretazione delle più profonde
dinamiche socio-culturali che sono alla base del rapporto tra uomo e acque
interne, in una regione da sempre strettamente legata alle peculiarità della
sua complessa e multiforme rete idrografica. L’arco temporale considerato è
quello della modernizzazione novecentesca, identificando due momenti percettivi antitetici, coincidenti con le dinamiche sociali che governano l’idea di
natura. Si tratta cioè di una produzione letteraria che interagisce non solo con
l’atmosfera idealista del primo dopoguerra (SORIANI, VALLERANI, ZANETTO,
1996), dominata dall’irrisolto dualismo tra modernità e tradizione
(PARPAGLIOLO, 1923), ma anche con l’incosciente entusiasmo per la vorticosa trasformazione dell’Italia in paese industrializzato (TURRI, 1990). In tal
senso, all’immaginario fluviale dominato da toni arcadici, in sintonia con la
lezione romantica degli elogi nieviani alle acque tra Livenza e Tagliamento
(VALLERANI, 1994), fa seguito nel secondo dopoguerra una allarmata evocazione delle vie d’acqua come geografie del disagio. Si tratta di trasfigurazioni della realtà territoriale che raccontano la dolorosa consapevolezza che
le regole del profitto non ammettono passaggi all’indietro (ZUNICA, 1987).
Ma è anche un’occasione di incontro tra attitudini geopoetiche e la carica
etica di chi analizza senza ambiguità gli esiti concreti del degrado degli
ambienti anfibi, non esitando a denunciare “la forma arrogante del modello
artificiale” (ZUNICA, 1992, p. 26).
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2. I PAESAGGI FLUVIALI TRA PITTORESCO E ORGOGLIO LOCALISTA
Si è dunque accennato in precedenza che i microcosmi idrografici
del Veneto, anche attraverso l’evoluzione delle percezioni estetiche e il
vorticoso succedersi delle innovazioni tecnologiche, hanno sempre mantenuto vivo il proprio carattere rasserenante e di decoro formale, per cui l’accesso alle sponde o il viaggio a bordo di imbarcazioni erano spesso svincolati dai molteplici usi economici praticabili lungo il loro corso. Durante
la prima metà del Novecento infatti, la presenza di una via d’acqua, specie
in ambito urbano, è sempre stata considerata un’attraente opportunità
ricreativa, connessa soprattutto alla voga da diporto che, insieme al nuoto,
rappresentava un segno concreto della forte familiarità che legava le popolazioni rivierasche ai loro fiumi. Di pari passo con l’espansione urbana e
industriale, si definiscono in questo periodo i termini del fecondo rapporto tra natura e salute (GUÉRIN, LÉVY, 1992) che in seguito, durante il fascismo, ha subito il condizionamento di un progetto terapeutico di massa, sorretto dal diffondersi, nel caso qui considerato degli ambiti fluviali, di associazioni sportive come le Canottieri e le Rari Nantes.
La già menzionata sistemazione ingegneristica dei fiumi e canali
veneti realizzata durante il fascismo non è mai stata percepita in modo
negativo dalle coeve attitudini idealiste, assai attente e severe nei confronti degli schemi modernisti che “alterano l’aspetto del suolo patrio, lo
imbruttiscono, lo immiseriscono, e non potranno non urtare sensibilmente quell’amore alla natura che rappresenta la maggior somma di idealità
di cui l’anima moderna si nutrisce e si esalta” (PARPAGLIOLO, 1923, p. 14).
Anzi, la rettifica di pericolosi meandri, la costruzione di briglie, la cura
nel disegno architettonico delle centrali idroelettriche o degli edifici delle
idrovore e, soprattutto, le vistose trasformazioni di ampi settori anfibi con
la bonifica sono tutti interventi che, al di là degli ovvi vantaggi funzionali, aumentano la qualità estetica del paesaggio (Fig. 1), coniugando l’idea
della natura “bella perchè produttiva” con la retorica nazionalista del
“fervido lavoro umano” (SORIANI, VALLERANI, ZANETTO, 1996, p. 10).
Se l’elevata qualità formale dei paesaggi fluvio-lagunari del Veneto
era già stata rilevata, anche se di sfuggita, in specifici studi geo-economici subordinati ad una palese promozione del discorso modernista, il definitivo riconoscimento sociale di tale patrimonio ambientale è chiaramente evidenziato in numerosi testi letterari, sia cólti che popolari, in cui
all’elogio dei quadri fisionomici si associano i moventi dell’orgoglio
localista. A questo proposito è sufficiente menzionare alcuni dei più rilevanti segmenti di cultura localista nel Veneto del primo dopoguerra e cioè
le riviste mensili Le Tre Venezie e L’Illustrazione della Marca Trevisana
(ribattezzata L’Illustrazione Veneta nel settembre del 1927). Esse assolvono il compito formativo della divulgazione di temi culturali connessi al
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Fig. 1. – Nuovo paesaggio idraulico di età fascista: la briglia di Strà sul Brenta (da MILIANI, 1939).
territorio, valorizzandone le peculiarità storiche e artistiche. Oltre a ciò
convivono anche obiettivi di recupero nostalgico del passato, fatto di paesaggi, di antichi mestieri, memorie di guerra, di ruralità oleografica,
aggiungendovi talvolta una rozza critica al “macchinismo” e ciò ad opera
di modesti intellettuali “impegnati a raccogliere e far rivivere vecchie e
ormai stantie tradizioni popolari, in una logica strapaesana (e profondamente reazionaria) di ritorno ai sani valori della vita rurale” (URETTINI,
1993, p. 210). E l’idrografia veneta viene citata di frequente, sottolineando con assidua ricorrenza i temi forti del Piave “Sacro alla Patria”, delle
chiare e fresche acque del Sile (Fig. 2), dell’aristocratico decoro della
Riviera del Brenta, della bonifica, promuovendo un’estetica fluviale assai
conformista, sorretta da frequenti riferimenti alle coeve scuole pittoriche
influenzate dal vedutismo dei Ciardi (MENEGAZZI, 1991).
Di tono poco difforme sono gli articoli dedicati ai paesaggi fluviali
veneti rinvenibili nei numeri mensili delle Vie d’Italia, bollettino informativo destinato ai soci del Touring Club. Trattandosi di una rivista a
livello nazionale, molti dettagli locali sfuggono, anche se l’innovativa
strategia del Touring era soprattutto la riscoperta dei luoghi negletti, cioè
marginali e poco conosciuti, ma non per questo sprovvisti di seduzione
(Fig. 3) come nel caso di alcuni scorci della Riviera del Brenta che richiamano il tono garbato delle arcadie fluviali:
Si specchiano nelle pigre acque borghi ridenti, ville che vanno dalla semplicità classica alle fiorite eleganze del Settecento, parchi e giardini [...]
Gruppi di salici chinano sull’acqua la verde cascata delle foglie, due caval118
li trascinano un burchio all’alzaia, un pescatore cala dal suo battellino la
bilancella, traendone pesci luminosi e guizzanti (MOTTA, 1943, p. 385).
Con questi testi si cerca dunque di stimolare non solo la percezione
di un “paesaggio nazionale unico al mondo”, ma di incoraggiare anche il
radicamento localista e l’orgoglio per l’opera dell’uomo che proprio nella
Fig. 2. – L’alto Sile secondo Guglielmo Ciardi (1875 circa, Milano, coll. privata).
Fig. 3. – Seduzioni della campagna intorno a Venezia (da Le Vie d’Italia, 1943, p. 729).
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bassa pianura tra Po e Livenza ha “di deserto fatto giardino” (MANACORDA, 1942, p. 733). In questi contesti geografici l’estetica e la topofilia
“palustre” del Nievo è ben lontana:
Oltre l’ultimo argine, al limite estremo, ancora dominano acque putride e
stagnanti, melma e falaschi, la dea febbre e le verdi isole allucinanti:
Palude da domare, che sarà domata; desolazione millenaria che rifiorirà in
letizia di uomini e di natura (MANACORDA, 1942, p. 733).
Anche all’interno della produzione letteraria colta, si avverte come
le euforiche aspettative dell’incalzante progresso non sempre godevano di
unanimi consensi, propagandosi invece sempre più frequenti abbandoni
nostalgici, sorretti spesso da consapevoli azioni di recupero degli antichi
valori identitari. E il lento scorrere dei corsi d’acqua ha ancora il suggestivo messaggio simbolico del fluire dell’esistenza, e le caratteristiche
attività delle genti di fiume, di cui si percepisce la fragilità al confronto
con i moderni assetti produttivi, sono il tenue legame con un passato
ormai in estinzione e per questo in perfetta e struggente sintonia, ad
esempio, con le melanconiche riflessioni di Paola Drigo, scrittrice trevigiana che, gravemente ammalata, osserva il fiume Bacchiglione da una
finestra della casa di Padova:
Sul fiume, scesi da Venezia, transitano grossi barconi carichi di carbone, di
legna, di materiale di costruzione. Oggi ce n’è uno qui sotto, pesantissimo,
colorato di azzurro e di giallo, immerso nelle acque fino al bordo. C’è il
cagnolino, il bambino, la donna, la pentola, il camino che fuma [...]. Tra le
due basse rive colorate di innumerevoli verdi, guardo l’acqua del fiume,
grandi campi arati, colore di terra bagnata, gli Euganei azzurri al limite dell’orizzonte: Quanto bella sei, malgrado morte, o vita, o natura! [...] No, non
sono pronta. Lasciami qui ancora un poco, o mio Dio (DRIGO, 1937).
Ancora più dettagliati bozzetti fluviali dedicati alle semplici quotidianità dei rivieraschi si devono allo spiccato naturalismo descrittivo di
Diego Valeri (ZAMBON, PISCOPO, 1982), il quale si impegna in una retrospettiva nostalgica di un Veneto ormai scomparso; dal suo rimpianto per il
passato derivano geografie superficiali e oleografiche anche se animate da
una raffinata sensibilità. Anche per Valeri, ad esempio, la Riviera del Brenta
non è solo una elegante successione di ville nobiliari; egli percepisce infatti il fascino delle umili opere del presente dalle quali proviene una nuova
bellezza. Con leggerezza crepuscolare, a tratti un po’ melensa, evoca gli
ultimi protagonisti di un oscuro microcosmo fluviale in estinzione:
Le donne scendono al canale, ad attingere l’acqua per i loro bucati; lavano e appendono i panni nell’orticello di lattughe e di pomodori. Un pescatore va lungo le rive con la sua piccola rete, sperando nella buona fortuna
[...]. Qualche branco di pecore, qualche cavalluccio; e, dappertutto, oche
e galline.
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La barca va, tirata dai cavalli dell’alzaia, o, quando manchino i cavalli, dai
battellanti stessi. [...] Tra la popolazione delle barche e quella delle rive
c’è vecchia amicizia: sono tutti di una famiglia, la famiglia del fiume
(VALERI, 1977, p. 32).
Valeri, oltre che la seduzione del pittoresco “antropologico”, evoca con
efficacia anche il decoro urbano assicurato dalle acque fluviali alle città venete, tanto da costituire uno dei più rilevanti elementi di identità localista. Si pensi,
ad esempio, all’isola della Pescheria nel cuore medioevale di Treviso che:
Tutte le mattine, quando mi affacciavo alla finestra, m’inebbriava gli
occhi con la sua alberata fulva e con le sue acque di diafana seta arrossate dal riflesso: isola di fiaba nel cuore della città (VALERI, 1977, p. 67).
Ma è soprattutto a Padova, città materna, che la complessa rete di
acque interne viene vista come linfa vitale e come poetico spunto memoriale. Alle dolci acque del Bacchiglione il poeta quasi sessantenne riconosce un irresistibile potere rasserenante, ma anche pregiate qualità formali che si dislocano lungo le sponde del fiume e delle sue diramazioni
(VALERI, 1944). Il testo di Valeri è forse tra le ultime citazioni letterarie
dedicate alle acque padovane prima del brutale interramento del naviglio
interno che, nascondendo ponti e banchine portuali di età romana, fu realizzato nel 1958 di pari passo con la distruzione/sostituzione del quartiere medioevale dei Conciapelli, esiti coerenti con l’obiettivo “miracolista”
di trasformare Padova nella “Milano” del Veneto (VENTURA, 1990).
Di ben altra qualità letteraria sono le citazioni fluviali e lagunari di
Giovanni Comisso, in cui le fisionomie anfibie del Veneto sono viste, in
sintonia con il contesto geo-culturale già menzionato, come entità naturali
non ancora corrotte dalle trasformazioni moderne, ma anzi impreziosite
dal permanere di assetti antropici tradizionali popolati da pescatori, ortolani (COMISSO, 1994), pastori, contadini (COMISSO, 1984). Il divagare meandriforme tra le fitte boscaglie dei fiumi di origine sorgiva, specialmente tra
il Sile e lo Zero e cioè vicino al suo “ritiro” campestre acquistato nel 1931,
riesce non solo a stimolare l’emozione creativa dello scrittore, ma anche a
placare con le arcadiche atmosfere il disagio interiore per una quotidianità
sempre più ostile e alterata dalla volgarità del progresso. E infatti
“Comisso conserverà per tutta la vita una diffidenza, se non un rifiuto,
verso la società moderna, industriale, che nelle opere della vecchiaia assumerà i toni della nostalgia e del catonismo” (URETTINI, 1993, p. 205). E
così, nel breve racconto Paesaggio sul Sile, Comisso ribadisce gli elementi di un’estetica fluviale in cui la natura si integra con una discreta presenza antropica, fatta di antichi gesti e di ritualità produttive tranquillizzanti:
Il sole radente illuminava la distesa dei canneti brillanti di verde e in
mezzo l’acqua vitrea, profonda e lenta andava fino ad una svolta lontana.
Una barca a remi scendeva con la corrente e un’altra si internò tra i can121
neti; da questa scesero a terra due uomini che la portarono in secca e la
capovolsero sulla riva (COMISSO, 1935, p. 49).
Il vitalismo percettivo di Comisso mostra un costante riferimento alla
identità dei luoghi, sintesi complessa di secolari coesistenze tra uomo e base
naturale, definendo il paesaggio come supporto imprescindibile che condiziona gli eventi esistenziali: “Io vivo di paesaggio, riconosco in esso la fonte
del mio sangue” (COMISSO, 1984a, p. 6). Dopo gli anni trascorsi all’estero
egli si pone nella suggestiva condizione del viaggiatore “in casa”, percorrendo in lungo e in largo il Veneto, nella speranza non solo di arricchire l’inventario delle sue personali geografie, ma di legarsi ai luoghi, condividendone i significati più profondi con i protagonisti ancora attivi e non omologati dagli schemi industrialisti (CORAZZA, 1996). Le culture e i paesaggi dell’acqua, al di là dei suggestivi lessici fisionomici, hanno altresì il potente
connotato simbolico della continuità e della fresca vivacità dell’esistenza:
L’aria che segue le acque del Piave, non occorre respirarla, penetra da
sola. Tra la stretta valle le acque tumultuano smaniose di distendersi, ora
giallastre per le valanghe di pioggia e di terra precipitate dai monti imminenti, ora chiare rispecchianti il verde dei boschi o l’azzurro del cielo
(COMISSO, 1984a, p. 217).
La trasfigurazione poetica del determinismo geografico produce
quadri antropici al tempo stesso esaurienti e carichi di suggerimenti per
cogliere la più profonda essenza dei luoghi, richiamando il ben noto ésprit
de finesse di vidaliana memoria. Ne consegue un’umanità rivierasca
ancora una volta radicata alle tradizionali consuetudini di familiarità con
il fiume e di cui oggi, in pieno ripensamento ambientalista, si sta tentando di riabilitarne almeno la memoria:
Crescono tra le isole ghiaiose [del Piave] cespugli di salice [...] e in queste isole spuntano capanne di frasche dove uomini seminudi sbucciano i
virgulti dei salici che tramutano in cesti. Altri uomini lenti cercano tra le
distese di sassi verdastri, rossastri, ferrosi, marmorei quelli bianchi di
calce da portare alle fornaci [...]. Qualche vecchio vagante con un sacco
sulle spalle guada cauto le acque e raccoglie lungo le rive sabbiose i pezzi
di legno levigati nel lungo rotolare dalle lontane valli del Cadore [...].
Nell’alta ora meridiana gridano gioiosi i ragazzi che si slanciano al nuoto
(COMISSO, 1984a, p. 223).
3. SCRITTURE DEL DISAGIO
Nel secondo dopoguerra la letteratura italiana in generale, e quella veneta in particolare, palesa un evidente interesse per le tematiche
socio-economiche e politiche che stavano connotando il consistente e
repentino passaggio dalla tradizionale realtà contadina a quella urbana e
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industriale, la cosiddetta “grande trasformazione” (TURRI, 1990). Di
questa corsa al benessere, oltre gli effetti positivi sono ben noti anche i
vistosi sprechi ambientali, i dissesti idrogeologici, le caotiche proliferazioni urbane (DEMATTEIS, 1995), come pure gli altrettanto devastanti
effetti psicologici, le alienazioni quotidiane, il degrado culturale. In
terra veneta, la cui armatura urbana è così diversa dai contesti fordisti
del triangolo industriale di nord-ovest, basata cioè sul frazionamento e
la flessibilità dei cicli produttivi (BAGNASCO, 1977), sono scaturiti peculiari effetti sul territorio, tra i quali il più evidente è certamente quello
che si è soliti indicare come città diffusa, ma anche come campagna
urbanizzata, entrambe etichette poco lusinghiere che esprimono, fino ad
anni recentissimi, un uso irrazionale della base territoriale, innescando
molteplici e gravi impatti ambientali (GAZERRO, 1997) che si ritorcono
contro le più elementari componenti della quotidianità come la potabilità dell’acqua, il traffico, l’inquinamento atmosferico. In questa situazione di dilagante urbanizzazione all’interno della fitta maglia costruita
dalla tradizionale società contadina “la fabbrica appare all’ombra del
campanile, si dilata all’interno del verde folto dei filari” (BANDINI,
1983, p. 48).
Le dinamiche fin qui evidenziate costituiscono lo sfondo negativo che fa da supporto a buona parte degli scrittori veneti degli anni del
boom economico, alimentandone tensioni e inquietudini. Essi infatti,
rispetto alla generazione precedente, mostrano un maggiore interesse
per i nuovi assetti sociologici legati al rapido rimodellarsi delle geografie tradizionali, valutando la rapida eclissi della civiltà contadina
come una sorta di annullamento identitario a cui ci si è sottoposti in
modo acritico, fidandosi ciecamente degli abbaglianti vantaggi che
effettivamente hanno svincolato le genti venete dalla tradizionale marginalità e sudditanza economica. Fin dagli anni Settanta “i nuovi scrittori (si pensi ad esempio a Meneghello e a Camon) puntano lo sguardo
sulle realtà così rapidamente cancellate nel corso dello sviluppo economico e riscoprono l’antica matrice della civiltà contadina. [...]
Quanto avviene nel Veneto è sentito come evento, come strappo storico” (BANDINI, 1983, p. 48).
Tra tanta letteratura del disagio connessa alla realtà regionale
emerge la produzione poetica di Andrea Zanzotto che, attraverso la dissoluzione semantica dei testi, sembra imitare il disordine e l’illeggibilità del mondo attuale, anche se spesso è possibile cogliere lucidi riferimenti di critica nei confronti del brusco passaggio alla modernità. Si
consideri, ad esempio, la prosa breve Premesse all’abitazione, in cui il
profondo malessere nei confronti della dilagata grettezza non rende più
condivisibili le realtà sociali autoctone, prive di consapevolezza e di
finalità, ma soprattutto incapaci di controllare le dinamiche e i processi
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avviati dalla scelta consumistica e perciò schiavi orgogliosi dei paradigmi sviluppisti:
E sono riusciti a tirar su, in tal modo, una città giardino [...] e in più i loro
capannoni in mezzo, così da poter respirare poliesteri in polvere a tutte le
ore [...]. E ci sono le seghe a segare filamenti nervosi, neuroni, a tutte le
ore: sotto c’è il laboratorio e sopra l’appartamento gentile, col tetto a farfalla posata su una influorescenza di suoni, così la moglie gode anch’essa
con il marito industrializzato (ZANZOTTO, 1995, p. 143).
4. TRA VENETO E FRIULI: LE ACQUE DI PIER PAOLO PASOLINI
La letteratura è dunque assai lucida nel precisare i più intimi e oscuri moventi che stanno alla base della modernizzazione industriale e dei
conseguenti abbandoni agricoli e omologazioni colturali, responsabili
della dispersione sui suoli e sulle acque di fitofarmaci, pesticidi e diserbanti. Straordinario, a tal riguardo, il memorabile contributo di Pier Paolo
Pasolini sulla scomparsa delle lucciole: “È una scomparsa fulminea e folgorante che segna il passaggio dall’industrializzazione degli anni Cinquanta a quella degli anni Sessanta, decisiva per una svolta culturale che
segna il crollo e la alterazione dei valori” (TENTORI, 1988, p. 14). Pasolini
concepisce le sue riflessioni tra i campi e gli argini del Friuli occidentale e
anche qui, come nel vicino Veneto, l’euforia per i tempi nuovi lascia dietro di sè una strisciante amarezza tra gli animi più sensibili.
Durante gli anni friulani egli matura una sincera e articolata topofilia, che gli consente di cogliere l’essenza profonda e universale del rapporto tra il secolare sedimentarsi delle culture tradizionali e i corrispettivi referenti geografici, prediligendo, ad esempio, la sfera linguistica come
codice espressivo necessario al radicamento territoriale (NALDINI, 1993).
Dopo gli anni tristi della guerra, il ritorno alla normalità sembra ribadito
dalle frequenti gite sul Tagliamento:
A Rosa venivano ragazzi di tutti i paesi; Casarsa, S. Giovanni, Gleris e S.
Vito, perchè, del Tagliamento, quello era il posto più bello; l’acqua, benché verde e profonda, era così limpida che si vedevano nel fondo i sassolini di ghiaia lucente (PASOLINI, 1978, p. 47)
o da brevi viaggi in bicicletta nella verde campagna pordenonese a sud
di Casarsa, fatta di rogge e ruscelli sorgivi (Fig. 4). È un paesaggio d’acque
rimasto quasi intatto fino agli anni Sessanta quello che Pasolini percorre, ama
e rammenta nei suoi testi letterari, appassionandosi a rilevare le infinite
“micro-toponomastiche” che denominano una pianura tutt’altro che uniforme:
Oltre S. Vito, in direzione di Pravisdomini e di Chions, la cui scoperta io
rimandavo da circa due lustri, la campagna mostrava quel mutamento
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Fig. 4. – La roggia Versa poco a valle di San Vito al Tagliamento.
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impercettibile, ma così significativo, che me la rendeva diversa, “altra” da
quella che mi è famigliare. Qualcosa del litorale o della palude, qualcosa
di troppo spazioso o di troppo recente, non aleggiava forse su quella pianura in verde smeraldo? (PASOLINI, 1948, in NALDINI, 1993, p. 157).
Egli vede inoltre nelle suggestive morfologie anfibie della pianura
tra il Lemene e il Tagliamento, non ancora oltraggiate dalla agronomia
intensiva (DE ROCCO, 1994), la viva presenza degli sfondi delineati da
Nievo nelle Confessioni di un italiano; si dedica così a frequenti pellegrinaggi letterari in direzione di Portogruaro, soffermandosi in particolare
dinanzi alla fontana di Venchieredo:
Limpida fontana di Venchieredo, / acque modeste, tenerissimi legni, / oggi
a vent’anni, io vi vedo, ed ascolto, / col vecchio murmure indifferente. /
Ai miei piedi, nel basso prato, l’acqua / rampolla, e lenta fugge, e interminabile / ricompone il suo canto più lontano (PASOLINI, 1945).
Ma nel breve volgere del traumatico eclissarsi del mondo contadino
tradizionale anche il cospicuo patrimonio di referenze memoriali e naturalistiche legate all’idrografia tra Friuli e Veneto ha subito un “processo di
demolizione di ogni naturalità residua (Fig. 5) e del paesaggio storico che è
anche banalizzazione dell’immagine del luogo [...]. Con la semplificazione
conseguita alle trasformazioni sono scomparsi anche molti nomi di luoghi,
non di rado legati a queste acque o alla vegetazione che cresce in prossimità dell’acqua” (DE ROCCO, 1994, p. 10). I corridoi fluviali iniziano a connotarsi come terra di nessuno, come luoghi dell’abuso, e Pasolini, pochi
anni prima della sua morte, constata con amarezza come le radicali trasformazioni della rete idrografica abbiano cancellato l’identità di Casarsa:
Ciò che è andato veramente perduto sia nella Casarsa della realtà che nella
Casarsa dei sogni sono le rogge. E queste le rimpiangerò tutta la vita [...].
Le rogge sono cose di un tempo, anteriori alla trasformazione capitalistica e cioè perdute nei secoli dell’epoca contadina, senza soluzioni di continuità con le selve romanze, con le invasioni dei barbari, con la chiesa di
Cristo. Ora tutto ciò è finito, in una rapida evoluzione, di cui ci vantiamo.
E tuttavia non vogliamo ancora arrenderci a dimenticare (PASOLINI, 1970,
in DE ROCCO, 1994, p. 9).
5. IL PO TRA GLI ARGINI E IL DELTA
Il basso corso del fiume Po e le numerose diramazioni del suo delta
hanno pesantemente condizionato la lunga coesistenza con le popolazioni
delle circostanti pianure; e in particolare nel Polesine, il cui equilibrio idraulico, oltre che dal Po, dipende anche dagli irregolari deflussi del-l’Adige, si
è consolidata una percezione dell’ambiente per molti aspetti fatalista e ras126
segnata nei confronti di calamitosi eventi idraulici che fino a poco tempo fa
ci si ostinava a definire “naturali”. Già nel 1940 l’efficace costruzione narrativa del Mulino del Po di Riccardo Bacchelli esprimeva frequenti e amare
riflessioni sul degrado del bacino fluviale padano, in cui ai dissesti causati
dall’uomo nei settori montani facevano seguito vistosi processi dinamici
che ostacolavano il deflusso verso le foci. La tradizionale e consistente letteratura geo-storica dedicata al tratto veneto del Po non poteva certo soffermarsi sull’interpretazione delle valutazioni e percezioni sociali suscitate
dalle precarie condizioni esistenziali che hanno connotato fino a poco
tempo fa le genti del Polesine. Semmai, l’atavica marginalità di questo
spicchio di bassa pianura garantiva indubbie integrità antropiche che si prestavano a frequenti, e per lo più drammatiche, citazioni da parte dei cultori
del neorealismo nazionale del secondo dopoguerra (RENZI, 1995). E l’evocazione del dramma stava proprio nel registrare con cura la fragilità dei
rivieraschi schiacciati tra le ostili dinamiche di un’acqua matrigna (Fig. 6)
e gli esiti incontrollati di una modernizzazione lontana ed estranea.
L’alluvione del 1951 è l’evento calamitoso che trasformò il Polesine in area
di fuga verso il triangolo industriale del nord-ovest (ARDIGÒ, 1964); le
quote più vistose dello spopolamento spettavano ai comuni deltizi e sono
questi gli anni in cui la topofobia degli autoctoni è al culmine, in quanto alla
costante precarietà della sussistenza si aggiunge l’estenuante coesistenza
con l’insicurezza idraulica (ZUNICA, 1984).
Sono questi i luoghi e i temi di una letteratura polesana attenta ai disagi quotidiani rilevabili tra i peculiari microcosmi agricoli e pescherecci, la
quale proprio nella sciagura collettiva delle rotte ricorrenti riesce a superare la tradizionale vena ruralista inaugurata dal poeta dialettale Gino Piva
negli anni Trenta (SEMENZATO, 1984). Le costanti referenze letterarie ai paesaggi fluviali vanno intese dunque come filo conduttore da cui dedurre gli
elementi fondanti di uno espace vécu ancora “determinato” dagli eventi
atmosferici, dalle dinamiche idrologiche e dalla cattiva gestione delle
acque. Ecco che nelle toccanti scritture dialettali di Livio Rizzi si avverte
l’incombere sinistro del “motivo della paura dei fiumi, che stringono il
Polesine come in una morsa, l’incubo delle rotte, il senso oscuro del pericolo, che sovrasta, come una maledizione, da secoli, le terre coltivate e i
poveri paesi della pianura o vicini agli argini o sorti sui dossi” (MARCHIORI,
1969, p. 15). Lo stridente contrasto tra la rappresentazione di un Polesine
contadino, talvolta bucolico, e la rassegnata evocazione dell’acqua che
distrugge e uccide è in sintonia con le attitudini ambientali pre-ecologiste
tipiche degli anni Cinquanta e Sessanta, per molti aspetti incapaci di conseguire un’attenta lettura del rapporto tra azione umana e dinamiche naturali,
ignorando infatti troppo spesso le reali responsabilità antropiche. È in questo contesto che si colloca Scano Boa, romanzo di Gianantonio Cibotto,
pubblicato nel 1961, in cui la narrazione è dominata dalla paura dell’acqua:
127
Dopo alcuni chilometri la strada piegò sull’argine, e la vista del fiume in
piena, sporco di terra e di schiuma torbida, valse a fermarli incantati. Era
la prima volta che si trovavano di fronte all’impeto ventoso del suo corso
segnato di mulinelli, e la successione di case allagate fino al collo nelle
golene invase dall’acqua, comunicò subito loro come un senso funesto
d’incubo (CIBOTTO, 1961, p. 24).
La storia si sviluppa nell’ampia distesa anfibia del Delta del Po, dove
le strade sugli argini, ma anche i villaggi di casoni, le poche osterie, gli edifici delle idrovore, le superfici coltivate sono sottoposte alla minaccia di
piene frequenti che, insieme al vento che “si divertiva a carezzare l’erba
degli argini” o al tuffo degli aironi, erano valutate come “elementi di un
ordine naturale antico, non ancora turbato da presenze estranee” (CIBOTTO,
1961, p. 74). Questa visione naturalistica colloca l’azione umana nel Delta
in uno stato di precaria subordinazione rispetto alle dinamiche idrauliche,
dimenticando come la moderna orditura idrografica del basso Po fosse l’esito di una secolare e pesante artificializzazione dei tracciati.
Ben diversi sono i temi e i moventi culturali che animano le successive visioni letterarie dell’idrografia polesana, efficaci nell’esprimere
il crescente malessere che si stava diffondendo tra gli spiriti gentili durante gli anni del rapido affermarsi dei moderni assetti socio-economici. Così
nel Delta di Venere di Sandro Zanotto il viandante d’acqua protagonista
del romanzo si abbandona all’intricato susseguirsi degli itinerari fluviolagunari che percorrono il delta padano, circondato da un paesaggio più
volte oltraggiato nella sua primeva autenticità. Il perdersi tra i canneti, le
valli, i bassi fondali e la frequente evocazione di odori e suoni prodotti dal
ritmico mescolarsi delle acque dolci con quelle salse alimenta un precario
senso di naturalità, troppo spesso smentito dai segni di un degrado
ambientale che nei primi anni Settanta (epoca in cui fu scritto il suddetto
romanzo) aveva già assunto proporzioni catastrofiche. Sia nel Delta di
Venere che nella sua feconda produzione giornalistica, Zanotto esprime
un profondo amore per il Delta del Po, “carico di nostalgia tanto più violenta in quanto lo sa aggredito e ferito da ogni parte dalla cosiddetta civiltà moderna, una civiltà che egli odia senza riserve” (DE MANDIARGUES,
1975, p. 7). Il Delta viene quindi rappresentato come collettore terminale
di un bacino fluviale asservito agli scarichi di una Padanìa iperattiva e
incosciente nella frenesia del miracolo economico:
Intanto non perdeva d’occhio quanto lo circondava e notò, guardando con
attenzione il velo d’acqua della superficie, che arrivavano fin lì gli scarichi delle concerie [...]. Dovrebbero esserci anche residui velenosi di
cromo, forse quelli che avevano fatto quasi sparire piante acquatiche un
tempo tanto frequenti (ZANOTTO, 1975, p. 36).
Oltre a ciò Zanotto menziona anche l’eccessivo prelievo di risorse
ittiche da parte dei pescatori di frodo provenienti da altri lidi, riducendo
128
Fig. 6. – Alluvione in Polesine 1951 (Publifoto).
129
così le opportunità per la sussistenza della gente del Delta, e tale stretta
dipendenza dall’ambiente viene caricata di profonde valenze antimoderne, facendo cioè della marginalità esistenziale ed etnografica non solo il
simbolo nostalgico di un’antica armonia, ma anche l’antidoto culturale
con cui difendere la consapevolezza ambientalista.
Negli anni Ottanta si accentuano gli effetti del degrado ambientale
lungo la gran parte dei fiumi italiani, ma è sul Po che si concentrano gli
sguardi attoniti di molta letteratura del disagio. Emergono immagini forti,
come nel caso dei funerei appunti di viaggio redatti da Guido Ceronetti
durante il suo Viaggio in Italia, originale riflessione geo-culturale che, al
di là di una pervasiva atmosfera nichilista, svela l’essenza profonda sia
del fallimento territoriale dei tanto decantati miracoli economici, e non
solo a nord-est, sia del preoccupante inaridirsi intellettuale degli attori dei
nuovi paesaggi italiani (CERONETTI, 1983). Qui le posizioni antimoderne
sono alimentate da un radicato e consapevole rifiuto dello sviluppo scientifico e tecnologico, visto come atteggiamento irresponsabile nei confronti delle molteplici sacralità in cui siamo immersi e di cui si è perso il
senso.
Le vedute di Ceronetti sono amari pretesti per indignarsi, soffermandosi spesso sull’eloquenza dei paradossi, cercando di conseguire, con
il gioco sapiente delle parole, le più bieche raffigurazioni del male liberato dall’uomo sui contesti delle sue già deprimenti quotidianità. La scelta
di Ceronetti di viaggiare a piedi, con l’appoggio frequente dei mezzi pubblici che percorrono la fitta rete secondaria che innerva la più profonda
provincia italiana, offre illuminanti squarci percettivi, ribadendo la marginalità degli erranti non motorizzati, ai quali gli ordinari e apparentemente inoffensivi elementi dei nuovi paesaggi palesano tutta la loro ostilità. E il corso del Po è spesso al centro della narrazione, per il fascino
irresistibile dell’acqua e anche per l’apparente fisionomia di naturalità,
un’oasi lineare poco praticata, ma al tempo stesso terra di nessuno, ricettacolo di ogni latitanza, spesso legata alla ricreazione più bruta:
I segni del Dominatore: pacchetti di sigarette vuoti, cicche, escrementi,
bottigliette, plastica... Vorrei seguire il corso del fiume verso sud...
Ritrovo l’acqua, ma stanno arrivando, non più sporadici, con tutta la loro
fragorosa indecenza, i Fruitori del Parco. Si portano dietro attaccata la
demenza umana, per sguinzagliarla sulle rive, a divorare, a insozzare...
Cammino su mucchietti di rifiuti e di tracce di fuochi accesi. Arrivano
altre moto. Fuggire, presto (CERONETTI, 1983, pp. 204-205).
Quando Ceronetti arriva nel Delta Po, il paesaggio è dominato da
qualche anno dalla mole incombente della centrale termoelettrica, percepita dall’autore come macabro refrain che connota l’odierna geografia
fluviale del Po, rinnovandosi infatti il malessere già provato a Caorso, a
Ostiglia: “Dov’è l’Enel, è la devastazione. Il paesaggio è sconvolto e feb130
bricitante”. Il Po giunge al delta dopo un lungo viaggio come “sventurata
fogna abitata” (CERONETTI, 1983, p. 242) e qui subisce l’oltraggio finale,
proprio negli anni in cui si iniziavano i primi timidi ripensamenti ecologisti. Non può infatti che disorientare l’eloquente schizofrenia territoriale
che vede allo stesso tempo la consacrazione iconica del Delta Po come
santuario naturale e la decisione irremovibile di installarvi la centrale.
Allo stesso modo lascia sgomenti il contrasto con un contesto geo-antropico ricco di non omologate marginalità morfologiche ed etnografiche:
Il Po di Tolle è generoso, immenso, misterioso, fantastico. Dall’acqua si
alzano voci antiche, lontane e pie. Alle spalle ho il terzo scomparto di un
trittico di Bosch; la smisurata centrale ENEL di Cà Dolfin. Sono due
silenzi, due misteri paralleli. Il fiume ha le sue voci; la Centrale il suo sibilo triste, di materia condannata. La bellezza del fiume e il brutto massacrante della Centrale l’occhio se vuole li separa; se mi volto su un lato è
la luce del fiume; sull’altro è un mistero d’iniquità; una sapienza e un
delitto (CERONETTI, 1983, p. 243).
Anche per Gianni Celati il basso Po è un pretesto geografico da cui
affrontare il tema più generale della dissoluzione culturale dei localismi
consapevoli, sostituiti da sempre più acritici egoismi esistenziali che producono quadri territoriali privi di leggibilità, quando non repulsivi e pericolosi. Nel suo viaggio Verso la foce (anch’egli a piedi o con mezzi pubblici come il viandante Ceronetti) entra in contatto con paesaggi d’acqua
omologati dalla regolarità della bonifica e dall’eclissi dei significati:
Camminando sempre lungo il canale, adesso questo paesaggio mi sembra
il Texas. Piloni dell’alta tensione lo attraversano da un capo all’altro, con
fili pendenti su lunghe distanze. La strada è sopraelevata rispetto ai campi,
e si vede dovunque il colore delle argille fino a lontanissimo. Tutta una
pianura alla mia destra, piatta, con la tinta del deserto che hanno le ocre
da queste parti (CELATI, 1993, p. 100).
Della geografia del delta padano Celati rileva con cura le peculiari
tassonomie della sua antropizzazione e in questa restituzione empirica
della fattualità entra in gioco la sua sottile sensibilità percettiva che produce immagini territoriali ricche di suggerimenti interpretativi. Si tratta
comunque di valutazioni negative, una costante conferma dell’insuccesso
formale, funzionale e morale di una rapida e aggressiva modernizzazione,
per nulla rispettosa delle preesistenze geo-culturali e allo stesso tempo
incapace di avvalersene per il conseguimento di una più elevata qualità
della vita. A tal riguardo si accenna con amarezza agli schemi insediativi
del turismo balneare di massa lungo il litorale rodigino e ferrarese:
Qui intorno hanno massacrato le spiagge, trasformato la zona in un deserto di domicili estivi, una catastrofe di paccottiglie dovunque. E dovunque
arriveranno queste siderali distese d’asfalto, il tutto occupato forever and
ever (CELATI, 1993, p. 118).
131
L’effettiva marginalità del Delta Po può ancora suscitare nel visitatore l’illusione di essere all’interno di una realtà “fuori dal tempo” e quindi ricca di una sua esotica autenticità in grado di soddisfare le più bizzarre aspettative degli outsiders. Il cospicuo sedimentarsi della tradizione
iconica dedicata al delta “pittoresco” mostra tutt’oggi una ancora vivace
capacità di influenzare le attitudini sociali, particolarmente sensibili all’istituzione del Parco naturale, ma anche alle spiagge isolate, al pesce fresco cotto alla brace, ai tramonti infuocati che accendono sconfinati e piatti orizzonti tra lagune, canneti e barche tradizionali alla fonda. È questa
l’essenza di una fenomenologia turistica di maniera, primo passo verso la
condizione di “non luogo” (AUGÉ, 1993) che sembra avere intaccato ciò
che resta della tradizionale realtà peschereccia del Delta, come nel caso
del villaggio di Pila:
Tutti i luoghi faranno la stessa fine, diventeranno solo astrazioni segnaletiche o progetti tecnici di esperti. Da queste parti creeranno un grande
parco turistico, e i turisti verranno in pullman a vedere non so cosa, relitti di vecchie tristezze... Qui [Pila] un cartello giallo per turisti annuncia un
VILLAGGIO DI PESCATORI. Il villaggio sarebbe una serie di baracche
in lamiera piene di reti e tramagli, tra carrozzerie di macchine sfasciate,
pezzi di copertone, barche tirate a secco e mucchi di cannella palustre. E
i pescatori che non sono più pescatori da un pezzo, abitano da un’altra
parte, in case squadrate a tre piani che assomigliano a caserme (CELATI,
1993, p. 132).
6. CONCLUSIONE
Il ricorso alle fonti letterarie, pur nei limiti necessari di una scelta
parziale, ha evidenziato il rilevante sedimentarsi di significati che sono
stati prodotti durante l’ultimo secolo di coesistenza tra uomo e fiumi nel
Veneto. La complessa storia idraulica della regione è ancora oggi leggibile attraverso una consistente presenza di segni sul territorio che, nonostante la loro quasi totale eclissi funzionale (e conseguente degradazione
strutturale e, talvolta, distruzione), offrono ancora suggestivi spunti per
allargare il tradizionale concetto di bene culturale. L’alterazione preoccupante dei tradizionali paesaggi fluvio-lagunari della Terraferma ha compromesso pregiate attrattive fisionomiche, un colpevole e stolto spreco
territoriale, alterando inoltre i consueti riferimenti visuali che garantivano
il radicamento e l’identità culturale della popolazione. Una volta superato l’inconsapevole entusiasmo per il rapido benessere, anche nel Veneto
si sta lentamente rafforzando una sempre più forte domanda di identità
locale, di tutela del senso del luogo, di qualità della vita, di umanizzazione del quotidiano. A questa evoluzione delle attitudini non sono certo
estranee le severe sferzate provenienti dalla letteratura del disagio, che ha
132
elaborato riflessioni e pesanti valutazioni critiche circa il modello veneto,
in seguito riprese e divulgate da una controcultura “popolare” legata al
movimento ambientalista, alle sezioni locali di Italia Nostra, agli spontanei comitati di tutela, molto spesso costituitisi attorno ad un problema
idraulico (Comitato della Brenta, Amici del Piovego, Gruppo Sinistra
Piave, Centro Ecologico Alto Sile etc.).
Le frequenti citazioni fluviali, sia nella letteratura colta che in quella popolare, evidenziano dunque l’importanza culturale dell’idrografia,
non più valutata solamente come opportunità per lo sviluppo economico,
in particolare gli usi idroelettrici e agronomici, ma anche come elemento
per soddisfare componenti non monetizzabili dell’esistenza, come ad
esempio il godimento estetico del paesaggio. Oggi sono sempre più
numerose le azioni territoriali dedicate al recupero funzionale e culturale
di antiche consuetudini fluviali anche se resta però molto da fare, e in particolare nei settori extraurbani, dove l’assalto al fiume non è ancora sotto
il controllo di entità istituzionali adeguate e sensibili a un lessico tecnocratico sostenibile, ma risente anzi di un tutt’altro che declinante approccio ingegneristico “ad alto impatto affaristico”.
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134
GRAZIANO ROTONDI
IMMIGRAZIONE STRANIERA IN VENETO:
NUOVI ASSETTI DISTRIBUTIVI E STRUTTURALI
1. PREMESSA
Le prime anticipazioni sul Dossier Statistico 2000 della Caritas, la
fonte forse più autorevole in materia di immigrazione in Italia, giunta al
suo 10° anno di edizione, ci restituiscono un quadro del fenomeno che
tanto a livello nazionale come regionale si va sempre più complessificando. Alla repentina crescita numerica dei nuovi arrivi, all’estrema
diversificazione delle aree di provenienza, alla duplice connotazione
persistente su cui già si è entrati nel merito (ROTONDI, 1999) – di precarietà ed emergenza da un lato, e di stabilizzazione, dall’altro – si vanno
ora aggiungendo nuove forme pertinenti soprattutto agli aspetti strutturali della componente straniera. Si tratta di aspetti che meritano una
riflessione poiché è fondamentale capirne caratteri e modificazioni se si
vogliono, in sede propositiva, fornire elementi di aiuto per una gestione
del fenomeno stesso che sia più oculata, che superi il contingente, che
vada oltre, insomma, a quell’impressione di estemporaneità, di emotività, e talvolta pure di strumentalizzazione, che ha connotato l’atteggiamento politico in materia immigratoria.
Scopriamo così che l’Italia a fine millennio, con circa un milione e
mezzo di regolari, è divenuta il quarto paese in Europa – dopo, nell’ordine, Germania, Francia e Regno Unito – per numero di stranieri, e il loro
ritmo di crescita, pur con aggiustamenti connessi a situazioni congiunturali, si mantiene piuttosto costante. All’interno del nostro paese, dopo una
iniziale prevalenza del Centro-Sud, attualmente è il Nord che registra il
maggior numero di immigrati e, a scala regionale, il Veneto è terzo, preceduto da Lombardia e Lazio. Non si tratta ovviamente di proporre primati e graduatorie che tutto sommato rivestono una scarsa rilevanza,
quanto di invitare, attraverso lo studio del dato, all’assunzione – nel breve
– di nuove responsabilità che non si limitino alla semplice politica della
prima accoglienza.
Conseguentemente, un contributo in questa direzione può provenire dalla disamina dei caratteri quantitativi, distributivi e strutturali che
connotano l’universo migratorio nella nostra regione, osservata in relazione al più ampio contesto nazionale; e in questa ricerca preliminare si
tenterà di fare il punto sugli aspetti in questione cartografandone alcune
particolarità.
135
2. UN TREND IN FORTE CRESCITA
Va innanzi tutto ricordato come in una ricerca dove è fondamentale
il ricorso al dato statistico e alla sua elaborazione in chiave cartografica, il
problema dell’attendibilità delle fonti assurge a un ruolo di non poco
conto. Se in precedenti lavori si è avuto modo di esprimere perplessità al
riguardo, bisogna pur ammettere che, nonostante il persistere di lacune e
degli immancabili limiti nei diversi rilevamenti, data anche la particolarità stessa del fenomeno e l’estrema mobilità ed eterogeneità delle sue componenti, in questi anni s’è fatto molto per apportare quei correttivi che rendessero le informazioni il meno generiche possibile. E se riconosciamo
come lo stesso censimento della popolazione italiana sia talvolta lacunoso
e non completamente affidabile, resta la regola dettata dal buonsenso di
accettare un dato come indicativo e certamente non esaustivo della significatività di un fenomeno o di taluni suoi aspetti. Poter poi accedere al sito
web dell’ISTAT (<http://demo.istat.it>) e consultare l’effettivo della popolazione straniera con regolare permesso di soggiorno, disaggregata per
sesso e nazionalità di provenienza, perfino a scala comunale e per tutto il
Paese, con aggiornamenti al 31.12.2000, non è certo cosa da poco.
Gli anni Settanta – è risaputo – sono gli anni di una rivoluzionaria
inversione di tendenza in campo demografico (DAGRADI, 1986), in una
Italia che dopo il baby-boom del decennio precedente si stava avviando
verso un inarrestabile declino, quel baby-bust che la porterà ad essere il
paese con il più basso tasso di fecondità e con ritmi di invecchiamento
della popolazione tra i più sostenuti al mondo (BRUNETTA, ROTONDI,
1989). Sono stati pure gli anni dei grandi sconvolgimenti territoriali, della
deurbanizzazione, del decentramento produttivo e insediativo, del crollo
nei tassi di nuzialità, causa ed effetto delle modificazioni nella tradizionale struttura dei nuclei familiari, ma soprattutto – per quel che ci riguarda – è proprio allora che, da paese di secolare emigrazione, l’Italia si stava
proponendo come area dapprima caratterizzata dai rientri dei propri
migranti all’estero, e poi in paese di vera e propria immigrazione.
Bastano alcuni dati – reperibili in una bibliografia sempre più cospicua e aggiornata – a esplicitare la rilevanza di questo processo, nuovo
quanto repentino. Di decennio in decennio, da quando il fenomeno ha iniziato ad essere monitorato con sistematicità, la popolazione immigrata è
tesa sostanzialmente a raddoppiare: le 156.179 unità del 1971 sono divenute 331.665 nel 1981, hanno raggiunto quota 648.935 nel 1991 fino ad
attestarsi sul valore di 1.251.994 a fine ’99. Tale ultima cifra, di fonte
ISTAT e basata sui permessi rilasciati dal Ministero dell’Interno tramite le
questure, viene aggiustata a 1.489.873 presenze: è una prassi seguita dal
Centro Studi della Caritas che tiene in conto quei permessi ancora in fase
di registrazione e non annoverati dal Ministero solo per ritardi burocrati136
ci, così come il fatto che i minori sono usualmente iscritti nel documento
d’ingresso del capofamiglia e quindi non vengono computati (CARITAS DI
ROMA, 2000). Recentissime anticipazioni sempre di fonte Caritas fissano
i regolari al 31.12.2000 in 1.388.153 unità, riportate a 1.686.606 in base
al suddetto correttivo, con un’incidenza sulla popolazione italiana pari al
3%. La Fig. 1 evidenzia l’evoluzione quantitativa del fenomeno in tutta la
sua rilevanza e fa pure richiamo al peso esercitato dalle diverse “sanatorie” che si sono accompagnate ai principali interventi legislativi in materia. Al numero dei regolarizzati a seguito della travagliata Legge 40/1998
e successive modifiche (Decreto legislativo 113/1999), che assommavano
a 145.759 unità, sono state aggiunte le 91.102 istanze di regolarizzazione
rispondenti ai requisiti richiesti, ma ancora in attesa di esame da parte
degli organi competenti.
Ma al di là del dato l’attenzione va riposta oggi sulla variegatura
delle nazionalità coinvolte, oltre 150, sinonimo di un mix culturale senza
precedenti (ORIV, 1998), e sulla struttura della popolazione immigrata,
che nel breve lasso di neanche un decennio è mutata anche profondamente: ci appare ormai obsoleta l’iconografia di un’immigrazione mascolina
e giovanile, costituita essenzialmente da single che giungevano da precisi contesti geografici. Si possono pertanto ravvisare, a questo punto, tutti
quegli elementi che confortano l’ipotesi di un sostanziale mutamento in
atto nel processo migratorio.
Fig. 1. – Andamento della presenza straniera in Italia [Fonte: BRUNETTA, 1996, modificato;
CARITAS DI ROMA, 2000].
137
3. LE DUE FACCE DELLA STESSA REALTÀ
In una prima fase gli arrivi erano piuttosto assimilabili a episodi
temporanei e contingenti, collegati non tanto a reali effetti attrattivi
(meglio noti come fattori pull) da parte dell’Italia nei confronti dei Paesi
di provenienza dei flussi, quanto invece alla sua posizione di cerniera fra
Nord e Sud del mondo, un Sud in cui è risaputo come prevalgano gli elementi espulsivi (i fattori push) connessi a un’elevata pressione demografica, traducibile assai spesso in vera e propria pressione migratoria
(BRUNETTA, ROTONDI, 1996).
Questa prima fase si è distinta per l’aspetto di precarietà e di emergenza che i nuovi arrivati rivestivano; e anche le normative in materia
immigratoria erano improntate essenzialmente alla gestione di tali emergenze (COLLINSON, 1993; BONIFAZI, 1998): basta osservare la lunga sequenza di “sanatorie” che sono state messe in atto finora.
Attualmente invece, nella fase matura – accanto a quegli aspetti di
emergenza che pure persistono, ma sono riferibili sostanzialmente al segmento degli ultimi arrivati – una volta individuate e occupate precise nicchie nel mercato del lavoro, e assunto pienamente il ruolo di “nuovo attore sociale”, l’immigrato in Italia si propone in una veste completamente
diversa. Egli fa parte integrante del nostro tessuto produttivo, resta semmai tutto da verificare se gli sia concesso altrettanto facilmente di fare
parte anche del nostro tessuto sociale. Si ponga mente, a titolo di esempio, alle difficoltà burocratiche connesse alla richiesta di ricongiungimento familiare, al perenne e irrisolto problema dell’alloggio, al non facile riconoscimento di titoli di studio acquisiti all’estero, alla persistente e
magari velata, ma certo non sopita, discriminazione nel mondo del lavoro, alla diffidenza reciproca che inquina un rapporto di convivenza civile
già di per sé difficile, alla mancanza di luoghi di aggregazione e via
dicendo. Parrebbe, insomma, secondo certa parte dell’opinione pubblica
e precisi ambiti della classe politica, che solidarietà significhi limitarsi a
fornire all’ospite straniero un posto di lavoro, quando è ben noto lo svantaggio economico derivante all’Italia dal fatto che molte occupazioni non
vengono più ricoperte dalla manodopera locale.
Da quanto appena citato non si può che evincere, allora, come il
binomio precarietà in opposizione alla stabilizzazione non dia conto della
effettiva realtà italiana. Se la precarietà è sì pertinente agli ultimi arrivati,
altre forme di precarietà si possono comunque ravvisare pure nel processo
della stabilizzazione, dal momento che colui che da tempo ormai è inserito nel nostro Paese richiede con forza per sé e per la propria famiglia di
poter contare su un più agevole accesso ai servizi, alla stessa stregua di
quanto avviene per la popolazione autoctona. È fuori di dubbio come –
tanto a livello legislativo che applicativo – negli ultimi tempi molto sia
138
stato fatto anche in questa direzione, ma proporzionalmente molto di più
deve ancora essere attuato. Le voci vibranti che insorgono durante incontri e dibattiti in materia, dove siano coinvolte pure le rappresentanze degli
stranieri, non ultimo il convegno sugli Stati generali sull’immigrazione:
politiche locali e percorsi di integrazione, tenutosi a Vicenza a inizio 2001,
presente il Ministro per gli Affari Sociali Livia Turco, in cui non sono mancati momenti di tensione, la dicono lunga sulle questioni rimaste ancora
aperte e in attesa di adeguate e dignitose soluzioni.
4. UN PARTICOLARE PATTERN DISTRIBUTIVO
Quando si intenda operare una disamina sulla distribuzione spaziale della presenza immigratoria nel nostro paese emerge subito la peculiarità del caso veneto, tanto più originale quanto più è consolidata l’immagine, a scala nazionale, di una immigrazione indirizzata, almeno in origine, prevalentemente verso gli ambiti urbani. Se è ormai paradigmatico il
caso di Roma che da sola assorbe intorno al 90% della complessiva presenza straniera in Lazio, che Milano o Torino registrano comunque cospicue percentuali di manodopera immigrata in rapporto ai rispettivi contesti regionali, in Veneto – è stato ampiamente sottolineato – da sempre
l’immigrazione straniera ha assunto caratteri di estrema diffusione spaziale. Tale aspetto si rifà alla ben nota correlazione tra mercato del lavoro e immigrazione: se, in altre parole, ricordiamo come il modello produttivo veneto sia quello più pertinente all’area NEC, alla Terza Italia che
si accompagna ad un’industrializzazione diffusa, e se riconosciamo come
sia l’industria il principale settore di attrazione per la forza lavoro immigrata, va da sé come questa si distribuisca sul territorio in termini altrettanto spazialmente diffusi.
Poter contare su fonti differenti ma comunque sufficientemente affidabili e confrontabili, ci permette di osservare, nell’arco del decennio
appena trascorso, questa distribuzione degli stranieri. Stranieri, va ribadito
per inciso, provenienti dai PVS, escludendo dunque dal novero quelle presenze di non scarso rilievo, pari a circa il 30% del totale regionale, appartenenti all’Unione Europea o ad altri paesi a sviluppo avanzato, che certo
non accusano le problematiche di inserimento oggetto di queste note.
Per lo più tale distribuzione ricalca in pieno l’immagine di un
Veneto che, a ben vedere, permane tuttora disaggregato per aree omogenee, le stesse che consentono l’individuazione di un Veneto forte e particolarmente dinamico nella sua parte centrale o, viceversa, ancora interessato da aspetti di marginalità relativa nell’area montana, sia essa bellunese o vicentina, in certa parte del Polesine e nell’estremo lembo orientale
della provincia di Venezia. Quella marginalità si ritrova, seppure in forma
139
minore, nei segmenti più meridionali delle province di Verona, Vicenza e
Padova, le “Basse” notoriamente aree di transizione in termini economico-strutturali (IRSEV, 1985; BRUNETTA, ROTONDI, 1996).
La Fig. 2 dunque, fissando la presenza immigratoria al 1991,
sostanzialmente consente di evincere come i veri protagonisti siano quei
comuni del Veneto centrale e del Pedemonte connotati da elevati tassi di
industrializzazione. Essi sono per lo più caratterizzati dalla presenza, nell’ambito di un modello definito di tipo misto-tradizionale (IRSEV, 1986),
di segmenti della produzione ormai non più graditi alla manodopera locale, come l’attività cavatoria del marmo e altri materiali lapidei nella
Valpolicella o in numerose valli prealpine del Veronese e del Vicentino.
Lo stesso dicasi per le fasi più nocive nel ciclo di trasformazione delle
pelli – l’attività conciaria essenzialmente incentrata nelle valli dell’Agno
e del Chiampo in provincia di Vicenza – pressoché rifiutate dagli autoctoni. Anche il comparto dell’edilizia, delle meccaniche e del metallurgico, almeno nei processi più pericolosi e “sporchi” della trasformazione,
vede un forte coinvolgimento della manodopera straniera.
Fig. 2. – La presenza extracomunitaria nel Veneto al 1991 [Fonte: CRIACPV-IRSEV, 1992].
140
Non è viceversa sempre facile spiegare concentrazioni anche elevate, sia in termini assoluti che in rapporto alla popolazione residente, in
comuni di piccole dimensioni e non particolarmente investiti da processi
di industrializzazione. Tale aspetto fa verosimilmente richiamo al fatto
che occupazione e alloggio spesso seguono percorsi e regole differenti: è
cruciale il problema della casa, prioritario allo stesso problema del reperimento di un posto di lavoro. Per tale motivo certe aree, anche se economicamente marginalizzate, possono divenire attrattive solo perché dotate
di una maggiore disponibilità di alloggi: poco conta se trattasi di dimore
spesso fatiscenti, sovraffollate e con canoni d’affitto esorbitanti. E ciò inevitabilmente comporta anche importanti spostamenti pendolari, del tutto
atipici rispetto all’originario modello economico veneto (IRSEV, 1985),
quello della “fabbrica che insegue la manodopera”.
Per contro non sfuggirà una cospicua presenza di stranieri pure nei
capoluoghi come Verona e Vicenza e nell’immediato hinterland: trattasi
di città che comunque non hanno abbandonato il loro carattere industriale, connotate da precise tipologie produttive – basti pensare al ramo
agroalimentare del veronese (quello dei dolci da ricorrenza ne è un tipico
esempio), un comparto prettamente labour-intensive e caratterizzato da
elevata stagionalità – tipologie che richiedono un alto turn-over di manodopera e rapporti occupazionali a termine, poco graditi a chi necessiti di
uno stipendio costante. Per di più, nella breve storia dell’immigrazione
veneta, non va sottaciuta quella “peculiarità spiegabile, almeno nella fase
iniziale, grazie alle relazioni tra Italia e Ghana che passano attraverso missioni religiose che hanno le case madri nella regione” (TONIOLO TRIVELLATO, 1992, p. 20), peculiarità che dà conto della consolidata presenza di
popolazioni dall’Africa guineiana, grazie all’attività di prima accoglienza
e di inserimento svolta ad esempio dai Comboniani o dagli Scalabrini.
Eloquente è il caso ghanese che, nonostante un’ovvia, fisiologica ridistribuzione territoriale più propria della fase matura della filiera migratoria,
a fine ’99 registra ancora un terzo dei regolari concentrati in Veneto, e di
questi la metà risiede in Vicenza e provincia, mentre a Verona è la componente nigeriana che rimane elevata.
5. IL QUADRO A FINE ANNI ’90
A fronte di meno d’una decina di comuni che non registravano alcuna presenza straniera, il cartogramma di Fig. 3 riferito a dicembre ’94
rivela – rispetto alla situazione osservata precedentemente – una tendenziale diffusione degli immigrati che, procedendo dall’area centrale, ha
coinvolto l’intero contesto regionale, interessando pure quelle zone che
prima ne risultavano escluse. Crescita numerica dunque, e ridistribuzione
141
spaziale: sembrano queste le principali caratteristiche del nuovo quadro
immigratorio. Accanto al consolidamento della presenza nelle aree tradizionalmente attrattive, infatti, si noterà il consistente aumento degli stranieri in provincia di Belluno, dove è chiaro il richiamo da parte dei comuni turistici per impieghi stagionali, negli esercizi alberghieri e nella ristorazione, come pure nel settore delle costruzioni e della manutenzione; ma
è altrettanto visibile la cospicua presenza in quell’asse forte che da Ponte
nelle Alpi sale lungo l’asta del Piave fino a Lozzo di Cadore passando per
Longarone, dove un’industrializzazione recente quanto dinamica abbisogna di forza lavoro anche estera. Vistosa e altrettanto chiara nelle motivazioni è pure la crescita nei comuni litoranei, tanto della costa adriatica
quanto della riviera gardesana. Non sembra invece così facile interpretare una significativa, anche se a pelle di leopardo, presenza nell’alto
Polesine, quel segmento della provincia di Rovigo che accusa un relativo
ritardo in termini di crescita economica: è verosimilmente il settore primario ad attirare immigrati, ma sembra più credibile pensare anche a una
maggiore disponibilità di alloggi per una manodopera dedita soprattutto
Fig. 3. – La presenza extracomunitaria nel Veneto al 1994 [Fonte: COSES, 1997].
142
all’ambulantato, come certa parte della comunità marocchina e di quella
senegalese, ovvero manodopera disposta anche a percorrere lunghe
distanze per lavorare, superato il Po, nelle contigue province di Ferrara e
Mantova.
Semmai ciò che il dato non esplicita è il mutamento avvenuto in
altri caratteri della comunità straniera. Gli sconvolgimenti geopolitici che
hanno interessato l’Est europeo dal 1989 in poi si sono ripercossi in una
crescita sostenuta da parte della componente di origine balcanica fino a
superare numericamente lo stesso segmento maghrebino, quello per tradizione più rappresentativo; e tale fenomeno si amplificherà nell’ultimo
scorcio del decennio in esame. I marocchini, nel 1991, costituivano la
principale componente extracomunitaria in Veneto (5.374 casi, pari al
23,7% del totale) seguiti dall’ex-Jugoslavia (2.768 casi, pari al 12,2%);
ma già nel 1994 questo paese con 10.261 casi, pari al 25,2% del totale, si
poneva in prima posizione davanti al Marocco (8.402 casi, pari al 20,6%)
(COSES, 1997) e la proporzione – in base alle indicazioni ISTAT – è rimasta pressoché immutata al ’99 con 24.291 immigrati dall’ex-Jugoslavia e,
seconda nazionalità per presenze, sempre il Marocco con 20.527 casi.
Il quadro immigratorio di fine anni ’90, come si evince dalla Fig. 4,
ben ripropone l’evolversi delle tendenze già in atto nei periodi precedentemente considerati. Si noterà dunque il totale e forte coinvolgimento dei
comuni appartenenti alle province di Verona, Vicenza e Treviso, con una
diffusione a macchia d’olio che risparmia solo pochi spazi interstiziali; e se
variegata rimane la situazione delle restanti aree, significativo è questa volta
il fatto che quasi tutti i comuni capoluogo di provincia segnalano elevati
tassi di immigrazione. Anche questo appare come elemento di ulteriore
novità che vorrebbe allineare la situazione regionale alle tendenze più proprie di altre realtà nazionali. Sostenere che il richiamo della città si correli
a una maggiore disponibilità di alloggi risponde al vero solo in parte, e
comunque non dà conto della citata peculiarità veneta. Troppe variabili
entrano in gioco e si concatenano: si può ipotizzare per un verso la maggiore richiesta di collaboratrici domestiche, un tempo reperibili tra la popolazione locale come lavoro a part-time, e lo riproverebbe l’aumento tra i
nuovi arrivi della componente femminile, sia dall’Est europeo che dalle
Filippine o dall’area caraibica. Per altri versi il mutato quadro regionale
suggerisce il profilo dell’immigrato che non ricopre esclusivamente i tradizionali “lavori pesanti o sporchi”: nelle strutture sanitarie è crescente il
ricorso a manodopera straniera qualificata, in particolare nel settore paramedico. Le ditte di spedizione e di autotrasporti, con sede prevalentemente
nelle città o nei comuni di prima cintura, fanno sempre più ricorso a immigrati d’oltre confine, e lo stesso dicasi per le imprese di pulizie che – in relazione all’attività svolta – mantengono un’ubicazione prettamente urbana.
Quel “multiculturalismo soft”, che connota gli spazi urbani anche veneti,
143
vede poi il fiorire di ristoranti e negozi “etnici” gestiti da imprese miste e
pure questo aspetto costituisce un fattore di richiamo dall’estero, non solo
nella conduzione dell’esercizio commerciale, ma anche nella stessa fase
della produzione di beni di consumo tramite laboratori artigianali con
manodopera quasi totalmente straniera: la comunità cinese, nelle sue diversificate attività che vanno oltre il classico settore della ristorazione, ci fornisce un esempio paradigmatico nel ramo dell’abbigliamento, dei tovagliati, del tessile in generale. E i forti vincoli di solidarietà che legano i membri di questa comunità nei confronti dei nuovi arrivati, ne fanno persistere
la presenza, com’era avvenuto nella fase di primo insediamento, in ambito
preferibilmente urbano.
L’invecchiamento della popolazione poi, richiama immigrati disposti, pur con relativi bassi salari, ad accudire gli anziani e questo è soprattutto un problema “metropolitano” se è vero che in Veneto, nel Veneto
fino a ieri rurale, la famiglia allargata e la cura dei vecchi all’interno della
stessa è un aspetto che ancora permane ma è certamente più diffuso in
campagna che non nella città.
Fig. 4. – La presenza extracomunitaria nel Veneto al 1999 [Fonte: elaborazione personale su dati
ISTAT, <http://demo.istat.it>].
144
Ciò che per contro si è indotti a leggere come elemento di emergenza, restando sempre in ambito urbano, è il fatto che anche questa regione –
a differenza di quanto accadeva precedentemente – è divenuta terra di prima
immigrazione, sia da parte di popolazione dall’Est europeo che dal
Maghreb. E nella mancanza di un chiaro progetto migratorio sarà la città,
non uno sconosciuto comune minore, la prima destinazione, il primo
momento di approccio per il nuovo arrivato. La totale ignoranza della lingua, delle regole sociali, della situazione nel mercato del lavoro e degli
alloggi, sommate alla scarsità di risorse finanziarie indispensabili nella fase
delicata dell’inserimento nel tessuto sociale ospitante, sono elementi che
possono concorrere ad acuire il disagio e l’autoemarginazione con scelte di
sopravvivenza che talvolta si spingono anche oltre i limiti del legale: non è
un caso se episodi di microcriminalità sono più frequenti nelle aree urbane.
E sempre nelle città venete, in particolare quelle a prevalente carattere terziario – segnatamente Padova e Venezia – il rapporto tra regolarizzati e
clandestini è molto più sbilanciato di quanto non avvenga nel resto del territorio. Ma sarebbe un imperdonabile errore, lo stesso che troppo di frequente sentiamo evocare nelle istanze di certa parte politica, perpetuare l’equazione “clandestino = illegalità”. Il Veneto del successo consiste fondamentalmente in due sistemi produttivi che convivono: quello che per mantenersi competitivo nel mercato punta sull’innovazione e quello che viceversa basa la propria competitività sull’abbattimento dei costi della manodopera, con ovvio ricorso al sommerso e coinvolgendo ampi segmenti di
manodopera marginale sia autoctona che, soprattutto, straniera. Un aspetto
di matrice economica che deborda ampiamente nella sfera dell’etica, e a
mio avviso non è stato adeguatamente recepito e stigmatizzato dall’opinione pubblica. Così si spiega la forte diffidenza persistente nei confronti dell’extracomunitario che si trova spesso a vivere sulla propria pelle un paradosso tipicamente italiano e pure veneto: quello di essere illegale in termini burocratici ma di essere al tempo stesso perfettamente inserito nel nostro
apparato produttivo.
6. L’EVOLUZIONE PIÙ RECENTE DEL FENOMENO
L’osservazione della presenza straniera nel Veneto attraverso i tre
cartogrammi proposti (Figg. 2-4) ne ha recuperato gli aspetti evolutivi in
una chiave rigorosamente diacronica. Volendo comunque individuare gli
ambiti oggi maggiormente coinvolti era necessario mutare le classi precedentemente adottate e dunque, in Fig. 5, lo stesso tema è rappresentato
con valori di riferimento differenti (sono stati esattamente raddoppiati)
consentendo così interessanti riflessioni. La nuova classazione, oltre a
ribadire quanto già espresso, conferma la maggiore presenza nei comuni
delle province di Verona, Vicenza e Treviso, enfatizzando però il ruolo di
145
quelli pedemontani e vallivi che si caratterizzano per le citate attività
industriali poco appetite dagli autoctoni. Interessante novità è l’estensione in termini di crescita numerica verso i comuni del Basso Vicentino,
come pure di altri contesti regionali di per sé meno industrializzati, dove
l’indagine diretta sul campo ha consentito di verificare una maggiore disponibilità di alloggi o comunque canoni d’affitto più abbordabili, in un
mercato ormai incapace di soddisfare la domanda abitativa, vero nodo
cruciale per l’immigrato, soprattutto se con la famiglia al seguito. I
comuni di Verona e Vicenza, a loro volta, segnalano gli indici di presenze più elevati rispetto ai restanti capoluoghi e non può che valere quanto
già ipotizzato. Le aree più marginali continuano a presentare percentuali
oggettivamente inferiori di immigrazione e la disomogeneità che emerge
dal cartogramma, sfuggendo a regole generali, presuppone l’avvio di
indagini specifiche, poiché è spesso la casualità a costituire elemento di
attrazione: un matrimonio misto che può innescare catene di solidarietà,
una parrocchia più attiva nell’opera di inserimento dell’immigrato,
Fig. 5. – La presenza extracomunitaria nel Veneto al 1999 (con differente classazione) [Fonte: elaborazione personale su dati ISTAT, <http://demo.istat.it>].
146
un’amministrazione comunale più attenta e disponibile nella riconversione di immobili dismessi, gli stessi datori di lavoro che si mobilitano per
cercare un alloggio alle loro maestranze in difficoltà, il ruolo innegabile
di un volontariato presente sul territorio in modo quasi capillare, ovvero
forme di colonizzazione apparentemente estranee a qualsiasi logica da
parte di precise comunità straniere in precisi contesti territoriali. Che ci
fanno 34 cinesi su un totale di 41 immigrati a Villanova Marchesana, un
comune di 1.050 anime nel medio Polesine, o 17 peruviani a Portoviro,
sul delta del Po, o 16 nigeriani a Villadose, giusto tra Adria e Rovigo? E
quali percorsi migratori hanno attuato e da quali progetti sono motivati?
Sembrano queste le componenti che fondamentalmente contribuiscono
alla costruzione della variegata geografia dell’immigrazione veneta.
Ma quello che pare rivelarsi come elemento di novità è il cambiamento della popolazione extracomunitaria nei suoi caratteri strutturali: se
si confrontano le piramidi d’età delle Figg. 6 e 7, non sfuggirà l’evoluzione sopravvenuta nel corso dell’ultimo decennio. Chiaramente i due
grafici non possono intendersi esaustivi nella rappresentazione dell’intero universo migratorio regionale, ma costituiscono pur sempre – in mancanza di dati più approfonditi – una testimonianza inequivocabile delle
tendenze in atto. La piramide del 1991, che rappresenta gli immigrati dell’intera provincia di Treviso, disaggregati per sesso e classi di età, investigati in sede di tesi di laurea con un’indagine svolta comune per comune (SIMONETTI, 1993), dava conto di un’immigrazione spiccatamente
mascolina, giovanile, con forte componente maghrebina: quella caratterizzante, insomma, il Veneto di fine anni ’80. La piramide di metà anno
2000, riferita al comune di Lonigo nel Basso Vicentino, visualizza la realtà di un’area che – s’è già visto – più che a causa di specifiche opportunità di lavoro si distingue per la relativa vicinanza ai grandi distretti industriali, con inoltre una maggiore disponibilità di alloggi. Sembra dunque
a pieno titolo un modello da acquisire come esempio pertinente alla più
generalizzata situazione veneta di fine anni ’90. E in effetti vi leggeremo
un maggiore riequilibrio nella sex-ratio a seguito di un’aumentata partecipazione della componente femminile; ma ancor più, l’alta presenza dei
minori, ben diversa dalla situazione di inizio decennio, costituisce un
segnale forte sul mutamento in corso nei progetti migratori che – attraverso la scelta del ricongiungimento dei nuclei familiari – da progetti
temporanei sembrano orientati attualmente verso caratteri di più lungo
termine. Ciò fa dunque richiamo alla necessità di mettere in atto una serie
di infrastrutture e interventi che rendano più facile l’accessibilità ai servizi di cui una normale famiglia – poco conta se di origine autoctona o
immigrata – abbisogna.
Molto più diversificate che non in precedenza risultano poi le
nazionalità di origine (ovviamente non graficizzate): ad esempio a
147
Fig. 6. – Struttura della popolazione extracomunitaria in provincia di Treviso (1991) [Fonte:
SIMONETTI, 1994].
Fig. 7. – Struttura della popolazione extracomunitaria a Lonigo - VI (2000) [Fonte: elaborazione
personale su dati Ufficio Anagrafe Comune di Lonigo, che qui si ringrazia per la disponibilità].
Lonigo, coerentemente con le tendenze regionali, accanto alla componente tradizionale di jugoslavi, marocchini, ghanesi e albanesi (nell’ordine),
compaiono gruppi di bangladeshi, indiani e cinesi a riprova della multiculturalità che ormai sta prendendo piede e da cui non è possibile prescindere.
Contatti e scambi di opinioni con osservatori privilegiati, in prima
linea sul fronte immigratorio, suggeriscono che l’attivazione di opportune
148
strategie non necessariamente comporta un elevato carico finanziario. Si
possono semplicemente ottimizzare le risorse già disponibili. Il settore del
no profit, il volontariato, dovrebbe farsi carico dell’emergenza, come da
sempre ha svolto egregiamente, ma altre strutture già operanti e finanziate
dallo Stato, come ad esempio i CTP (Centri Territoriali Permanenti per l’educazione e la formazione in età adulta) andrebbero incoraggiate, poiché
oltre a costituire elementi di monitoraggio del fenomeno migratorio nei
suoi aspetti meno appariscenti, ma non per questo meno importanti, è ad
essi che si rivolge l’immigrato che intende imparare l’italiano, che desidera quindi inserirsi a pieno titolo nel nostro tessuto sociale e assurgono pertanto a punti di riferimento, a costruttivi momenti di incontro se non proprio di aggregazione tra società ospitante e lavoratori ospiti.
S’è dunque parlato di forti mutamenti in corso su questo campo, e
allora basti un esempio tra i tanti: “Ieri immigrati precari, oggi imprenditori”. Così titolava un articolo di F. Jori su Il Gazzettino del 15 marzo
2001, sottolineando come nel Nordest vi siano 25.755 imprenditori immigrati, e pure dai tradizionali PVS (1.945 dalla Jugoslavia, 880 dall’Argentina, 830 dalla Cina, 780 dal Marocco… e via dicendo), immigrati che
“dopo aver lavorato sotto padrone hanno creato una partita IVA, hanno
messo in piedi una società, hanno assunto loro connazionali o altri immigrati, se non addirittura italiani. Aprendo centri medici, call-center, agenzie immobiliari, ristoranti, negozi, imprese edili…”.
Insomma, pare questa la migliore risposta alla diffidenza purtroppo
diffusa nell’opinione pubblica, agli stereotipi ancora radicati quando trattasi di immigrazione, alimentati spesso da atteggiamenti e sortite provocatorie quanto discutibili da parte di alcuni amministratori veneti: un
fenomeno altamente dannoso che non favorisce il dialogo né getta le premesse per un rapporto che quantomeno si strutturi in termini di semplice,
civile convivenza e di rispetto reciproco.
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150
DAVIDE PAPOTTI
I PAESAGGI ETNICI
DELL’IMMIGRAZIONE STRANIERA IN ITALIA
L’apporto della geografia allo studio dei processi di formazione
della società multiculturale è tradizionalmente legato all’analisi dei fattori spaziali chiamati in causa dal fenomeno immigratorio (ambiti di provenienza, dislocazione dei flussi, mete di destinazione, meccanismi di distribuzione, concentrazioni e dispersioni a diverse scale, ecc.) (WHITE,
WOODS, 1980). All’interno di questo interesse per la dimensione spaziale
si possono inserire specifici campi di studio che prendano in considerazione un aspetto qualitativo del fenomeno immigratorio. Fra questi, di
particolare rilievo sembra essere quello dell’“impatto ambientale” di una
comunità immigrata nel tessuto insediativo preesistente. Il consolidarsi di
ragnatele migratorie e l’affermarsi di processi cumulativi di immigrazione (attraverso i quali i nuovi arrivati si inseriscono in un contesto organizzato dai connazionali che li hanno preceduti), insieme a meccanismi di
ghettizzazione che in ambiente urbano finiscono per concentrare la popolazione immigrata in specifiche aree (siano esse centrali o periferiche),
tendono a creare zone abbastanza chiaramente demarcate ad alta densità
di popolazione straniera. Questi luoghi di concentrazione, più o meno stabili e più o meno diversificati al loro interno, possiedono un “gradiente di
visibilità” nei confronti del resto della popolazione. Tale fattore è indice
sia della coesione interna del gruppo sia del suo grado di accettabilità agli
occhi dei residenti “autoctoni”. Scenario privilegiato di queste dinamiche
è il contesto urbano, nel quale tende a concentrarsi la popolazione immigrata1. All’interno dei complessi fenomeni che legano l’identità del singolo e dei gruppi alle forme insediative e di organizzazione della comunità, i paesaggi urbani si caratterizzano oggi anche per questa presenza,
recente per quanto riguarda il contesto italiano, di segni espliciti di una
presenza multietnica. L’analisi di quest’espressione di identità collettiva –
soprattutto, ma non solo, di natura visuale2 –, che d’ora in poi si designerà con il termine “paesaggio etnico”, coinvolge in primo piano il ruolo
interpretativo della geografia, che nello studio dei paesaggi urbani può
vantare una sedimentata tradizione di ricerca.
“Lo spazio degli immigrati è più spesso urbano, è ancora da conquistare stabilmente e da mantenere; e quindi l’integrazione etnica è ancora tutta da costruire, ed anzi
essa è sentita e assume configurazioni differenti [...]” (GASPARINI, 2000, p. 72).
2
Per un approfondito studio sui rapporti fra il concetto di paesaggio e la componente percettiva visuale cf. JAKLE, 1987.
1
151
La componente qualitativa dell’analisi degli scenari cittadini è
entrata da tempo nel mirino della variegata “cassetta degli attrezzi” dell’interpretazione geografica, sulla scorta delle analisi di Kevin Lynch
(1964 e 1980) legate all’interpretazione delle “mappe mentali” (GOULD
e WHITE, 1974) e all’identificazione dell’esprit di una regione. È nel
contesto statunitense che si sviluppa un’attenzione, su una simile direzione qualitativa di indagine, ai paesaggi dell’etnicità (CONZEN, 1990;
NOBLE, 1992) che, nell’ambito del melting pot connaturato e storicamente assestato della società americana3, possiedono un macroscopico
risalto. Lo studio dei meccanismi con i quali si organizza e si rende percepibile una “visibilità etnica” coinvolge il sapere concettuale e gli strumenti d’indagine della geografia urbana e della geografia della percezione, e specificamente di quel settore d’indagine recentemente messo a
fuoco da David Sibley (1995) con il termine collettivo “geografie dell’esclusione”4.
Se la situazione in Italia differisce per fattori quantitativi, per profondità temporale del fenomeno, per ampia frammentazione della provenienza etnica degli immigrati, nondimeno si può identificare, in una fase
insieme di consolidamento e di crescita della presenza straniera sul territorio, uno specifico interesse nell’esame dei paesaggi dell’etnicità.
Attraverso l’esame della “visibilità” territoriale dei gruppi etnici si possono ricavare utili informazioni sulle dinamiche di inserimento delle popolazioni straniere nel tessuto urbano, comparare differenti situazioni regionali e locali, seguire e verificare le dinamiche di mobilità e di evoluzione
distributiva della popolazione straniera.
L’analisi della presenza di un “altro” visuale che s’innesta nel
panorama percepibile delle realtà urbane italiane riprende una zona
d’indagine di frontiera fra diverse scienze sociali, ed in particolar modo
si avvicina alle categorie di alterità elaborate nell’ambito della cosiddetta “antropologia del vicino” (SEGALEN, 1989; AUGÉ, 1994)5. Questo
avvicinamento alle categorie dell’analisi antropologica non deriva tuttavia dall’affermarsi di “mode” o passeggeri portati interdisciplinari, ma
si radica in un processo di evoluzione della società che richiede nuovi e
coordinati mezzi di indagine: “Non è, come teme Louis Dumont, l’antropologia a lasciare terreni esotici per rivolgersi ad orizzonti più famiSui limiti dell’esperienza americana, con utili indicazioni anche sul versante dei
“paesaggi etnici”, cf. STEINBERG, 1989; FUCHS, 1990.
4
Il cautelativo plurale è dovuto alla vastità e diversità degli approcci e delle scale
di indagini possibili, a partire dall’assunto che “the human landscape can be read as a
landscape of exclusion” (SIBLEY, 1995, p. IX).
5
L’interesse antropologico per la società contemporanea occidentale è rilevante
anche, come ricorda SIBLEY (1995, p. XVII), nei lavori di Paul Rabinow (1986) e risale,
come invito critico, già ad uno scritto di Robert Park di settantacinque anni fa (1925).
3
152
liari col rischio di perdere la propria continuità. È il mondo contemporaneo stesso che, a causa delle sue trasformazioni accelerate, richiama
lo sguardo antropologico, cioè una riflessione rinnovata e metodica
sulla categoria dell’alterità” (AUGÉ, 1993, p. 27). Né il coinvolgimento
del sapere interpretativo correlato alla geografia sembra azione opportunistica o epistemologicamente forzata se si considera che una delle
caratteristiche fondanti dello stesso concetto di “surmodernità” (con il
quale Augé definisce la situazione della società contemporanea) è identificato nella “sovrabbondanza di spazio” (1993, pp. 33-37). In questa
prospettiva, conclude l’antropologo francese, “abbiamo bisogno di reimparare a pensare lo spazio” (1993, p. 37)6. All’interno di questo auspicabile ripensamento delle categorie spaziali si può inserire l’analisi,
soprattutto in relazione ai paesaggi urbani, dei segni di appartenenza
etnica.
1. ELEMENTI DEL PAESAGGIO ETNICO
I fenomeni di organizzazione e di appropriazione degli spazi da
parte delle comunità di immigranti sono alla base del “collante identitario” di una comunità. Tanto più importante quanto esso viene a cementificare un gruppo sociale sradicato dal suo ambiente di origine: “il dispositivo spaziale è allo stesso tempo ciò che esprime l’identità del gruppo
(le origini del gruppo sono spesso diverse, ma è l’identità del luogo che
lo fonda, lo raccoglie e lo unifica) e ciò che il gruppo deve difendere contro le minacce esterne e interne perché il linguaggio dell’identità conservi un senso” (AUGÉ, 1993, p. 45). Le aree preferenziali (elettive e/o obbligate) di residenza dei gruppi di immigrati sono identificate all’interno di
una complessa rete di interrelazioni fra le leggi economiche che influenzano e regolano il mercato immobiliare (la selezione “per censo” dell’accesso abitativo alle aree urbane, la gentrification, la tendenza ad occupare spazi abitativi residuali che offrono i prezzi di affitto più bassi, ecc.) e
le ancora più impalpabili regole sociali che ne modulano l’applicazione
(la difficoltà per gli immigrati extracomunitari di ottenere affitti in determinate aree, anche indipendentemente dal potere economico e dalla posi-
La centralità dell’aspetto spaziale negli studi antropologici, con sfumature che
calzano a pennello nell’indagine dei paesaggi dell’etnicità, viene ribadita in più punti da
Augé: “È proprio perché ogni antropologia è antropologia dell’antropologia degli altri
che il luogo, il luogo antropologico, è simultaneamente principio di senso per coloro che
l’abitano e principio di intelligibilità per colui che l’osserva” (1993, p. 51). Per un panorama del concetto antropologico di paesaggio cf. HIRSCH, O’HANLON, 1995.
6
153
zione lavorativa, i pregiudizi razziali impliciti od espliciti, ecc.)7. Una
volta che tale concentrazione abitativa si è instaurata sul territorio, inizia
il processo di formazione del paesaggio etnico8.
Augé identifica (1993, p. 44) quattro categorie di geografia che l’etnologo cerca di definire nel suo lavoro: economica, sociale, politica e religiosa. Queste geografie, su piani diversi ma compenetrati, caratterizzano lo
spazio di una comunità. Si possono utilizzare queste chiavi di indagine
anche per l’analisi del paesaggio etnico, nel quale si identificheranno dunque segni economici, sociali, politici e religiosi. I segni economici sono
quelli relativi ad attività di lavoro che fortemente caratterizzano un’etnia (le
insegne e gli arredi dei ristoranti di cucina etnica, ad esempio). I segni
sociali sono espressione delle dinamiche comunitarie delle relazioni fra le
persone (cartelli ed indicazioni nella lingua del paese d’origine, giornali in
lingua appesi in luoghi pubblici, ad es.). I segni politici sono quelli legati ad
un’organizzazione “ufficiale” della comunità immigrata che la pone al
livello di interlocutore politico nei confronti delle istituzioni del governo
locale (sedi di associazioni che raggruppano gruppi etnici, ad es.). I segni
religiosi sono quelli correlati allo svolgimento delle pratiche e dei rituali
religiosi, sia a livello architettonico (la costruzione di elementi “forti” nello
skyline di un’intera città, come il minareto di una moschea) sia a livello di
arredo urbano (i segnali che identificano una casa di preghiera o uno spazio
utilizzato per culto). Le categorie qui esposte sono indicative e non vogliono certo porre ferrei confini fra i complessi elementi di iconologia identitaria di una collettività9. Alcuni segni (come ad esempio due categorie di esercizi pubblici fino a pochi anni fa assai poco diffusi in Italia, e oggi sicuri
Non si intende qui generalizzare il destino di una fascia sociale così eterogenea
come quella degli immigrati. Si è ben consci dell’infinita molteplicità dei casi singoli e
della dispersione centrifuga dei destini individuali. Si concentra l’attenzione in questa
sede solo sui fenomeni di aggregazione comunitaria, per cui i membri di gruppi etnicamente differenziati tendono ad aggregarsi in una o più aree urbane nelle quali il meccanismo insediativo si fa cumulativo. Si prende in considerazione dunque, consapevoli dell’opportunità sempre aperta di altre soluzioni meno strutturate e “deterministiche”, solo
una delle possibili tipologie insediative degli immigrati, che comunque dimostra una discreta diffusione e frequenza sul territorio. Quanto alla definizione di etnia, si rinvia alla
spiegazione offerta da Conzen: “La definizione di etnicità impiegata qui riguarda i membri di un gruppo etnico che condividono alcune caratteristiche che sono il prodotto di una
comune eredità e di tradizioni culturali [...]. Non inclusi in questa definizione sono gruppi la cui coesione è definita solamente sulla base di una particolare religione o ideologia” (1994, p. 388, n. 1; questa e le altre traduzioni da Conzen sono mie).
8
Sulla degenerazione dei processi di separazione e di ghettizzazione – basata su fattori non solamente etnici – e sul processo di formazione dei cosiddetti “paesaggi della
disperazione” si rinvia alle analisi, effettuate in contesto statunitense, da DEAR e WOLCH
(1987) e da GOLDSMITH e BLAKELY (1992). Sulla degenerazione della sicurezza individuale e la spirale della criminalità come conseguenza della ghettizzazione cf. SKOGAN, 1990.
9
Per un’analisi del significato di “segno etnico” cf. RINALDI, 1996.
7
154
indicatori territoriali di presenza multietnica, i centri telefonici per chiamate internazionali e i centri specializzati nelle transazioni internazionali di
denaro) si pongono a cavallo fra diverse categorie; nella fattispecie fra i
segni economici ed i segni sociali, in quanto facilmente l’esercizio etnicamente orientato diviene luogo di socializzazione per gli immigrati. Il fine di
tale classificazione è piuttosto quello di suggerire la complessità del panorama potenziale di indizi che un gruppo etnico stratifica sul territorio attraverso la propria presenza.
2. PER UNA GEOGRAFIA DEI PAESAGGI ETNICI
Il processo di interpretazione svolto attraverso gli strumenti concettuali della geografia si situa all’interno di quel costante meccanismo di trapasso dall’attenzione (provocata dagli oggetti empirici, nel caso in questione i segni visuali dell’etnicità) alla riflessione (che li trasforma in
oggetti intellettuali) (AUGÉ, 1993, p. 20). Il portato concettuale ed operativo della geografia non si riduce ad una pure assai importante operazione
di mappatura e localizzazione del fenomeno. Attraverso il sistema di visualizzazione dell’etnicità si afferma un senso di radicamento nel luogo.
L’“altro” afferma dunque volontariamente la propria identità e la rende
visibile e percepibile. Ad essere sollecitato da questo messaggio visuale è
a sua volta lo stesso senso di appartenenza della popolazione “autoctona”,
che, nel gioco di specchi dell’alterità, viene portata ad interrogarsi sul proprio collante identitario. La presenza di paesaggi “multiculturali” definisce
per opposizione il nuovo ruolo-bandiera di quelli che vengono definiti i
lieux de mémoire, i luoghi della memoria storica e collettiva della società.
Nel contesto italiano il concetto di paesaggio etnico non assume quel
ruolo a tutto campo che possiede invece negli Stati Uniti, dove la minore
profondità storica dei processi di organizzazione territoriale e di fondazione urbana ha offerto e offre tuttora agli immigrati maggior libertà di azione
nel plasmare i paesaggi. Nel suo studio Ethnicity on the land (1994), che
rappresenta un imprescindibile punto di partenza per l’inquadramento
metodologico e contenutistico di questo settore di studi geografici, Michael
Conzen si sofferma per esteso su diversi elementi che conservano un ethnic
flavour, un sapore etnico, a partire dall’organizzazione territoriale agricola,
dalla forma dei villaggi, delle fattorie, degli edifici ausiliari, per arrivare alle
tipologie architettoniche delle case e degli edifici comunitari in ambiente
urbano. Questo tipo di influenza etnica sul paesaggio non può ovviamente
essere riscontrato nell’Italia contemporanea, nella quale l’impatto quantitativamente rilevante dell’immigrazione è recentissimo, e le ondate di nuovi
arrivati si sono trovate ad operare in un paese dotato di un assetto territoriale e di tipologie urbanistiche stratificate da secoli. Le componenti del
155
paesaggio etnico saranno dunque da ricercare nel contesto della penisola in
elementi “decorativi” ed “ausiliari” più che in elementi strutturali, in connotazioni più che in denotazioni. Tra le componenti dei paesaggi etnici statunitensi individuate da Conzen possono resistere ad una trasposizione nel
contesto italiano quelle strutture di organizzazione di base che segnano una
fase primaria di appropriazione dello spazio: i community buildings, cioè gli
edifici che svolgono una funzione comunitaria, i luoghi di culto, i neighborhood retails, cioè i negozi di quartiere che servono una clientela specifica etnicamente orientata (legata, in alcuni casi, come quello dei negozi di
alimentari, a regole sanitarie, religiose, o semplicemente di gusto), e i luoghi di ricreazione (bar, associazioni sportive, ecc.).
Nell’analisi dei paesaggi dell’etnicità si possono identificare due categorie di segni: i segni “endogeni” ed i segni “esogeni”. I segni “endogeni” sono
quelli che, rivolgendosi ai membri della comunità, assolvono una funzione
“interna” di informazione ed insieme di conferma identitaria. Essi non si
preoccupano di essere comunicativi al di fuori della ristretta cerchia di residenti della zona. Il loro alfabeto simbolico deve infatti risultare comprensibile
soprattutto e prioritariamente ai membri della comunità etnica (indicazioni
degli edifici a funzione collettiva, segni religiosi, avvisi, giornali stampati nella
lingua di origine, segni correlati allo svolgimento di passatempi o di sport,
ecc.). Al contrario, i “segni esogeni” devono attirare l’attenzione della popolazione appartenente al ceppo etnico ospitante, “indigeno”. I segni dell’etnicità
acquisiscono addirittura un valore di marketing se utilizzati per identificare un
certo tipo di servizio (le insegne laccate di rosso con decorazioni tipiche di un
supermarket che vende prodotti cinesi, un sombrero appeso all’ingresso di un
ristorante messicano, ecc.). I segni dell’etnicità in questo caso devono essere il
più possibile riconoscibili e devono proporsi come “marchi etnici” a costo di
voler accondiscendere ai più banali stereotipi correlati alla nazione di provenienza. Se il segno endogeno in un certo senso “marchia” il territorio, il segno
esogeno si presenta come un biglietto da visita, una garanzia di etnicità, che
viene ricercata dall’esterno in base a precise aspettative culturali, ricreative,
enogastronomiche, ecc. Il delicato rapporto fra segni esogeni e segni endogeni, d’altra parte, bene esprime il livello di permeabilità raggiunto dalla presenza straniera. In una fase di stabilizzazione, infatti, i segni endogeni campeggiano indisturbati insieme ai segni esogeni, che possono rappresentare, da soli,
una fase iniziale di “conquista di legittimità”.
Conzen identifica tre fattori principali che sono alla base del paesaggio etnico: il volume quantitativo dell’immigrazione in rapporto alle
sue coordinate spazio-temporali, il tipo di potenziale economico della
comunità immigrata e la sua coesione in termini di valori culturali, religiosi, linguistici (1994, pp. 239-241). Nel contesto italiano il movimento
immigratorio, nonostante la brusca impennata del fenomeno nell’ultimo
decennio, non ha raggiunto i valori percentuali di altri paesi europei. Esso
156
offre inoltre un’estrema diversificazione per nazione di appartenenza: non
solo la percentuale degli immigrati sulla popolazione in generale è ancora, almeno in ottica comparativa, bassa, ma, all’interno di questa categoria, nessun gruppo è largamente dominante sugli altri. Di solito poi gli
immigrati si posizionano in nicchie di lavoro che si situano nei gradini di
base della piramide produttiva. Di norma solo il terzo fattore – quello
della coesione culturale – può costituire un punto di forza in quanto,
all’interno delle più di cento nazionalità straniere rappresentate nel territorio italiano, i meccanismi di autodifesa identitaria possono far acquisire alle comunità etniche una compattezza abbastanza rilevante. Tuttavia
questo collante identitario si sviluppa come uno strumento di difesa più
che come un ponte comunicativo verso l’esterno.
Tra i fattori che influenzano negativamente il formarsi di paesaggi etnici Conzen elenca invece situazioni ed elementi che in Italia sono comuni e al
momento “costituzionali” al fenomeno: “correnti migratorie eterogenee,
destinazioni disperse, scarsa tendenza al raggruppamento, mancanza di successo nella colonizzazione (che conduce alla mobilità geografica)” (1994, p.
241). Per questa convergenza di debolezza delle forze modellatrici e di acutezza dei fattori controproducenti i paesaggi etnici italiani assumono aspetti
peculiari, che ne riducono l’impatto strutturale ma non ne eliminano le funzioni, giungendo a creare paesaggi di sussistenza “leggeri” e immateriali.
Nell’organizzazione dei “paesaggi etnici” si esprimono dunque in
sintesi visuale le caratteristiche della costante dialettica che la comunità
etnicamente caratterizzata sta svolgendo e negoziando sia verticalmente
(con la società del paese ospitante) che orizzontalmente (con le altre
comunità etniche di immigrati). Rimane comunque importante, all’interno dell’ottica geografica di analisi, lo studio della distribuzione dei paesaggi etnici e del loro gradiente di “centralità”. Occorre infatti verificare
la loro ricorrenza nelle zone centrali ed in quelle periferiche, e le eventuali diversità riscontrate in relazione alla localizzazione. Un’analisi della
distribuzione dei paesaggi etnici in un sistema urbano rappresenta un tentativo di misurare, a cavallo fra l’esame quantitativo delle occorrenze e
quello qualitativo dei significati, la consistenza delle barriere invisibili,
dei confini costantemente in mutazione ed evoluzione che segnano la distribuzione degli immigranti nel tessuto residenziale di un centro abitato.
3. LA VISIBILITÀ DI UN PAESAGGIO ETNICO
L’impatto visuale di un paesaggio etnico è correlato all’effettiva
coe-renza e forza del paesaggio sociale del paese ospitante. Qualora il
profilo identitario di quest’ultimo, a livello di iconologia paesaggistica,
soprattutto urbana, sia un modello consolidato da una consistente tradi157
zione storica – ed è certamente il caso dell’Italia – ogni variazione e sfida
a questo tessuto risulta amplificata; a maggior ragione se ai paesaggi
urbani arride un forte successo d’immagine turistica. In questi casi l’interferenza provocata da paesaggi etnici diversificati rappresenta un elemento di “disturbo” all’unicità e al carattere scenografico e “pittoresco” dei luoghi della concentrazione turistica.
L’aspetto perturbante di un paesaggio etnico risiede in fattori costituzionali e in fattori contingenti: “se gli immigrati allarmano tanto (spesso
assai astrattamente) gli ‘indigeni’, è forse innanzi tutto perché essi dimostrano la relatività delle certezze iscritte nel suolo. È l’emigrato ciò che nel
personaggio dell’immigrato li allarma e li affascina allo stesso tempo”
(AUGÉ, 1993, p. 109). La presenza di enclaves etniche nel tessuto urbano
delle città (fatto inusitato nella tradizione della penisola, almeno negli ultimi due secoli), insieme alla possibilità di imbattersi in simboli endogeni
non comprensibili a causa di barriere linguistiche e culturali, rendono questi spazi estranei agli abitanti della città, e perciò potenzialmente minacciosi o comunque percepiti come fastidiosi, in quanto introducono una vera e
propria barriera confinaria. Per capire questa estraneità dei paesaggi etnici
ci si può rifare alla definizione di “paese retorico” suggerita da Vincent
Descombes: “Il paese retorico di un personaggio trova un limite laddove i
suoi interlocutori non comprendono più le spiegazioni che egli fornisce
delle sue azioni e dei suoi gesti, né dei risentimenti che prova o delle ammirazioni che manifesta. Una difficoltà di comunicazione retorica segna il passaggio di una frontiera, che va ovviamente pensata come una zona di frontiera, un dislivello, e non come una linea chiaramente tracciata” (1987, p.
179). Un membro dell’etnia sociale autoctona può quindi scoprire più o
meno repentinamente la presenza di inaspettate barriere confinarie all’interno di spazi ritenuti fino a quel momento familiari e sicuri.
Il volatile “borsino” dell’opinione pubblica in relazione alle ondate
di immigrazione e al gradiente di accettabilità di una comunità etnica è
correlato anche ad eventi storici che contribuiscono a porre sotto i riflettori dell’attenzione mondiale, e a colorare di connotazioni positive o negative, l’immagine di certe nazioni o di certe etnie. Rimanendo nel campo di
un settore limitato e numericamente ridotto, rispetto alla popolazione straniera inserita saldamente nel tessuto produttivo agricolo, industriale e
commerciale, i valori di accettabilità dei paesaggi etnici legati al commercio ambulante e alla questua sono correlati anche ai corsi e ricorsi della
politica internazionale. Lo scolorarsi dei confini fra il profilo dell’“immigrato” e quello del “profugo” rappresenta un valore aggiunto per chi è in
cerca di solidarietà da parte del pubblico dei passanti. Alcuni paesaggi etnici, se facilmente riconoscibili, possono acquistare maggiore “sostenibilità”
rispetto ad altri, e quindi i segni che li caratterizzano e li rendono distinguibili aumentano di conseguenza in intensità e in frequenza.
158
Il gradiente di visibilità di un paesaggio etnico è anche un riflesso della
tolleranza espressa dal paese ospitante, in due direzioni: quella dell’apertura
giuridica ufficiale e quella dell’accettazione sociale. La possibilità di rendere e lasciare “visibili” i segni dell’etnicità in una zona di passaggio o, a maggior ragione, in una zona centrale del tessuto urbano testimonia un’avvenuta accettazione, o almeno una tolleranza, nei confronti della presenza degli
immigrati. Tale accettazione costituisce una conditio sine qua non per uno
dei possibili passi successivi, quello della conquista di uno spazio fisico e di
un tessuto sociale coerente. In questa prospettiva lo stato dei paesaggi etnici
si configura come un termometro di quella sfida alla cittadinanza che è alla
base del problema dell’inserimento degli stranieri nelle strutture politiche e
sociali dei paesi membri dell’Unione Europea (BRUSA, 1998).
Il dibattito critico in sede di studi di urbanistica individua una “tenuta”
contemporanea del sistema-città proprio in virtù della sua possibilità di essere ancora luogo di incontro: “La città esiste e serve ancora, nella sua essenziale caratteristica di luogo di intense possibilità di interazione sociale non
predeterminata” (SERNINI, 1996, p. 15). Al contempo, però, sottolinea il ruolo
della scala dimensionale di indagine, che può influenzare il livello qualitativo della comunicazione sociale: “La grande città è lo spazio dove maggiore
è la eterogeneità delle popolazioni. Spesso vi sono deboli legami sociali, ma
anche una fitta rete di relazioni diverse, e più le reti sono interconnesse più è
possibile trovare modi non conflittuali di rapporto sociale. E la grande città,
provano ricerche europee, è più tollerante” (SERNINI, 1996, p. 16). Se l’eterogeneità, come afferma Sernini, è maggiore nelle grandi città, questo può essere vero in termini quantitativi, ma non sempre in termini percentuali. Accade
talvolta, e basti pensare a certe realtà del Triveneto a forte vocazione industriale, che piccole città o paesi possono ospitare alte percentuali di popolazione straniera in virtù di un elevato fabbisogno di manodopera. In questi casi
le dinamiche innestate sono diversificate rispetto a quelle delle grandi città e
mettono in gioco caratteristiche specifiche del sistema insediativo e sociale.
Le analisi geografiche dei paesaggi etnici si confrontano su più livelli con il
problema di scala: non solo in relazione al livello scelto per il rilevamento dei
dati (che può andare dal singolo edificio all’isolato, dal quartiere al sistema
urbano in generale) ma anche in relazione alle dimensioni della realtà ospitante (campagna, paese, città piccola, media, metropoli, ecc.).
4. PAESAGGI FISICI E PAESAGGI UMANI
Si è dato fino ad ora maggior rilievo agli elementi statici del paesaggio, ai segni che, in maniera più o meno temporanea, fanno parte dell’assetto e dell’arredo urbano di una città. Assecondando la natura complessa insita nello stesso concetto di paesaggio, tuttavia, ed inserendo nel
159
panorama delle varianti in gioco la presenza umana, il quadro diviene
insieme più stratificato e più sfuggente10. Se l’impatto dell’etnicità sulle
componenti materiali del paesaggio rimane, in ambito italiano, sostanzialmente limitato e relativo più a sfumature e coloriture che ad aspetti strutturali, esso acquista rilievo assai maggiore qualora si consideri il panorama antropico di una città contemporanea. La visibilità sociale degli immigrati è molto alta, data anche la natura precaria di alcune attività di lavoro
(commercio ambulante, servizio di lavavetri ai semafori, quando non direttamente la questua) e la conseguente necessità di porsi bene in vista e di
posizionarsi in luoghi di transito. Spesso la ricerca del mercato migliore
per lo svolgimento del commercio ambulante porta alla concentrazione di
venditori in luoghi di alto richiamo sociale o turistico. In tali contesti i paesaggi etnici sono caratterizzati da una natura effimera e da un basso assetto strutturale, ma al contempo anche da un alto impatto visuale. La presenza massiccia di venditori ambulanti, spesso a forte coerenza etnica di
appartenenza, si condensa infatti nei punti di maggior passaggio, ma è
anche allo stesso tempo in grado (per problemi di legalità non solo legati
al permesso di soggiorno, ma anche alle autorizzazioni per lo svolgimento
di un’attività commerciale e all’autenticità e provenienza della merce in
vendita) di muoversi con estrema tempestività ed efficacia e di “volatilizzare” il paesaggio etnico qualora si profili il pericolo di un controllo da
parte delle forze di polizia. Questa continua precarietà dell’esercizio commerciale, che costruisce dei veri e propri paesaggi effimeri, è stata efficacemente ritratta in alcune opere letterarie della “prima” generazione di
immigrati a partire dagli anni Ottanta: fra i vari esempi possibili, il romanzo di Pap Kouma (1990), che rappresenta un’interessante descrizione dall’interno di questo mondo di “precariato etnico”11.
La costituzionale natura effimera di tali paesaggi è anche correlata al
fatto che queste sovrastrutture di piccolo commercio ambulante vanno a
posizionarsi in scenari che hanno spesso risonanza mondiale, veri e propri
marchi d’immagine del “prodotto Italia” che vengono utilizzati nella promozione turistica su scala internazionale. Tali scenari turistici sono dunque
al centro dell’attenzione delle amministrazioni locali per quanto riguarda
l’arredo urbano, la piacevolezza estetica, la razionalità d’uso degli spazi,
ecc. Questi luoghi di norma possono tollerare un impatto forte dei paesaggi etnici legati al commercio ambulante solo se questi si mantengono liberi da infrastrutture permanenti, e si conservano nei termini di una presenza
sicuramente visibile, a tratti invadente, ma sempre mobile e rimovibile.
10
Per un panorama dei paesaggi “invisibili” legati a valori culturali e a fattori psicologici e sociali cf. RYDEN, 1993.
11
Per una approfondita analisi della letteratura degli immigrati in lingua italiana
cf. PARATI, 1999.
160
5. MULTISENSORIALITÀ E PLURIDIMENSIONALITÀ DEI PAESAGGI ETNICI
L’impatto visuale è sicuramente uno dei fattori sensoriali più importanti nella percezione dei paesaggi etnici. Tuttavia, non occorre sottovalutare il ruolo degli altri sensi nella costruzione di una coscienza della
multietnicità. I paesaggi delle comunità etniche immigrate sono anche, ad
esempio, paesaggi sonori: molte occasioni che nel quotidiano ricordano la
presenza delle comunità straniere nelle città italiane sono offerte per l’appunto da “panorami verbali” e da “paesaggi acustici”.
Si possono aggiungere a questa dimensione sonora anche i “paesaggi olfattivi” – che diventano tangibili, ad esempio, nei mercati che espongano spezie e cibi importati – e persino i paesaggi “del gusto”, cioè l’assaggio di cibi etnicamente caratterizzati. Non occorre sottovalutare queste
componenti integranti della percezione dell’alterità etnica: il cibo rappresenta uno dei più importanti e popolari “biglietti da visita” per l’ingresso
ed il consolidamento di una coscienza di alterità etnica nell’immaginario
collettivo di una popolazione. In questa direzione i paesaggi etnici acquistano una dimensione multisensoriale che contribuisce a renderli paesaggi
a tutto tondo, dotati di una concretezza e di una vitalità che li eleva al di
sopra del ruolo di semplici scenari visuali di sfondo: “Il cibo riveste un
senso ancora più ampio, dato che nella società industriale contemporanea
non riflette più la preoccupazione della semplice sussistenza ma si carica
di significati che riguardano le identità culturali. [...] I prodotti alimentari
fungono, allora, anche da marcatori geografici, un fatto che il commercio
via Internet e il turismo gastronomico amplificano in misura ulteriore. [...]
Le cucine etniche sembrano costituire una sorta di ‘interfaccia’ che mette
in comunicazione gli abitanti delle città occidentali e gli emigrati” (LAI,
2000, p. 95). Il processo di allargamento dei gusti alimentari e gastronomici – che in altre nazioni è maggiormente sedimentato nel tempo12 –
segue un modello abbastanza assestato: dapprima i ristoranti e bar “etnici”
servono la comunità di immigrati, poi a poco a poco si aprono un varco e
un ruolo nelle abitudini nutrizionali della popolazione autoctona, “[...]
diventano dei luoghi in cui si mettono ‘in scena’ le differenze, e in cui è
possibile — ‘con un felice malinteso’ — entrare in contatto con un’altra
lingua e un’altra cultura attraverso l’assaggio dei suoi piatti ‘tipici’” (LAI,
2000, p. 95; citazioni tratte da LA CECLA, 1998, p. 59). Per questo motivo
i segni etnici correlati all’alimentazione sono fra quelli maggiormente tollerati, e pertanto fra i più diffusi. Essi seguono inoltre la differenziazione
sopra menzionata fra segni “endogeni” e segni “esogeni”, nel senso che gli
12
Per il processo di “osmosi gastronomico-culturale” fra immigrati e popolazione residente, e sull’acquisizione di una dimensione internazionale delle abitudini alimentari in Gran Bretagna cf. HARRISON, 1998.
161
esercizi commerciali (ristoranti, bar, negozi di alimentari) si specializzano
in due categorie: quelli che si concentrano su un’utenza interna al gruppo
etnico (ed in questo caso il panorama dei segni dell’etnicità è solamente un
portato indiretto) e quelli che si concentrano invece sull’utenza “esterna”
(e pertanto tendono ad enfatizzare i segni promozionali di appartenenza
etnica, a renderli altamente visibili e riconoscibili).
Riprendendo l’espressione “mettere in scena” utilizzata da Franco
Lai nella citazione sopra riportata è doveroso accennare all’importanza
del ruolo svolto dalle rappresentazioni culturali dei paesaggi etnici a teatro, al cinema, in letteratura. La presenza, all’interno della produzione
culturale di una nazione, di personaggi e tematiche legate all’immigrazione è insieme specchio e produttrice della visibilità dei paesaggi etnici.
Da una parte testimonia l’avvenuto riconoscimento e l’affermata spendibilità in fase di produzione culturale delle problematiche legate alla multicultura. Dall’altra svolge un’azione promotrice e “pioniera” di educazione alla multietnicità. Si pensi, a titolo esemplificativo, al lavoro svolto
dalla compagnia Ravenna Teatro nella rivisitazione della tradizionale
figura di Arlecchino, icona identitaria italiana per eccellenza. In uno spettacolo allestito nel 1993, Arlecchino era impersonato dall’attore africano
Mor Awa Niang e il canovaccio goldoniano Les vingtdeux infortunes
d’Arlequin, scritto a Parigi nel 1763, diveniva grazie alla riscrittura di
Marco Martinelli I ventidue infortuni di Mor Arlecchino (1993), ambientato in una Milano delle periferie con protagonista un immigrato alle
prese con le comuni difficoltà di inserimento nella società italiana13. Tali
operazioni culturali – che creano dei “paesaggi etnici al quadrato”, esponenziali proprio in quanto filtrati dalla messinscena artistica – contribuiscono alla diffusione degli scenari dell’etnicità e ad aprire le porte ad
un’educazione alla multicultura.
6. “MARKETING” TURISTICO E PAESAGGI ETNICI
La specificità individuale, la chiarezza e l’accettabilità di un paesaggio etnico sono strettamente correlate alla vitalità turistica della nazione di provenienza. Essendo il turismo una delle forme più importanti, unitamente ai mezzi di informazione di massa, per lo sviluppo della conoscenza dei paesi esteri, la percezione di una minoranza etnica è influenzata dal “gradiente di turisticità”, e conseguente appetibilità, del paese di
origine degli immigrati. I fattori in gioco sono complessi ed aleatori, rile13
Per un’approfondita analisi della genesi e dei contenuti dello spettacolo si veda
la recente traduzione inglese del testo, accompagnata da saggi di diversi studiosi (PICARAZZI, FEINSTEIN, 1997).
162
vabili solo attraverso indagini nel campo perennemente in movimento
delle immagini mentali e delle percezioni individuali o collettive. Sembra
perlomeno doveroso, nondimeno, tenere in considerazione certi fattori
immateriali che possono contribuire a variare il grado di “tolleranza” nei
confronti di un paesaggio etnico.
Nella stessa direzione di sfruttamento turistico, ma nell’altro verso
di percorrenza, il potenziale turistico “interno” di un marchio d’immagine etnico è fattore consolidato in paesi ad antica tradizione di melting pot
interetnico quali gli Stati Uniti. In alcuni casi può essere la stessa amministrazione locale a corroborare per fini turistici la connotazione etnica di
un quartiere, aggiustando ad hoc la cartellonistica stradale o l’arredo
urbano, come avviene ad esempio nelle Chinatowns delle maggiori
metropoli: “Si aggiunga a ciò [la presenza di segni architettonici spontanei di sapore etnico] la persuasione dei funzionari delle municipalità di
contribuire con arredo urbano di motivo appropriatamente cinese — lampioni, indicazioni delle vie, cabine telefoniche e, occasionalmente, archi
trionfali — e l’effetto generale derivatone è quello di un forte stampo etnico sul locale paesaggio urbano” (CONZEN, 1994, p. 236). Tale politica di
arredo etnico non si è ancora sviluppata in Italia, ma non è da escludere
che, vista la crescente attenzione verso le potenzialità del “marketing etnico”, iniziative simili non appaiano in un prossimo futuro.
L’interpretazione dei segni dell’etnicità si situa d’altro canto in quel
complesso di fenomeni visuali che sempre più interessano e coinvolgono
il senso dell’abitare e la dialettica fra le diverse scale del globale e del
locale. Augé attribuisce ai mass-media, alla televisione in primis, il fatto
che certi paysages vengano a far parte di alcuni “marchi iconografici” a
forte riconoscibilità (1993, p. 34). Anche se sfugge il significato profondo e tradizionale di un’icona etnica di riconoscibilità, tanto più se esposta
come “segnale turistico” o di servizio (per differenziare, ad esempio, un
tipo di cucina servito in un ristorante), gli elementi del paesaggio etnico
funzionano perché “riconoscibili”: “[...] È una caratteristica degli universi simbolici il fatto di costituire un mezzo di riconoscimento piuttosto che
di conoscenza” (AUGÉ, 1993, p. 35).
7. RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Lo studio dei paesaggi dell’etnicità in Italia si presenta, per la scarsa
profondità temporale dei fenomeni immigratori, per l’ancora bassa incidenza quantitativa delle popolazioni di provenienza straniera, per la loro relativa “esclusione” e segregazione economica, come una ricerca indiziaria di
segni a basso impatto sul paesaggio urbano. La visibilità della popolazione
straniera sembra differenziata a seconda delle categorie e anche, talvolta,
163
delle etnie. Gruppi come quello di etnia cinese insediatosi nel distretto tessile di Prato, ad esempio, possiedono un altissimo grado di inserimento
nella realtà produttiva, sia legale che legata al lavoro nero, ma presentano
una ridottissima visibilità sociale, facendo spesso coincidere luogo di lavoro con luogo di residenza e concentrandosi in un’attività manifatturiera
svolta in spazi interni. Al contrario, la visibilità è molto alta per le frange
meno strutturate e più precarie della popolazione straniera, cioè gli ambulanti e i questuanti, che finiscono, anche se magari numericamente rappresentano solo una minoranza, per incarnare agli occhi dell’opinione pubblica lo stereotipo dell’immigrato per eccellenza. Si aggiunge a questa diversità costituzionale del gradiente di visibilità la costruzione di un paesaggio
virtuale dell’etnicità da parte dei mass-media. Televisione, radio, riviste e
quotidiani hanno moltiplicato la visibilità degli stranieri, con un tamtam
cronachistico che non ha esitato a sfoderare, secondo gli stilemi di esagerazione e di roboante retorica ormai usuali nel linguaggio giornalistico, termini come “invasione”, “orda”, “sbarco”, ecc.
Si assiste così, in parallelo a quella che APPADURAI (1990) e BHABHA
(1994) hanno definito una delle caratteristiche della globalizzazione, cioè
la deterritorializzazione delle culture (che fa sì che i continui spostamenti di popolazione, insieme ai sempre più frequenti scambi fra culture e
società, rendano sempre più complessi e indefiniti i confini sociali), ad
una smaterializzazione dei paesaggi etnici, che si fanno sempre più paesaggi umani e sempre meno paesaggi architettonici e territoriali, quando
non interamente paesaggi virtuali legati all’immaginario collettivo, cui
pochi segni di alta riconoscibilità bastano per ricomporre l’immagine di
un’identità etnica.
Il discorso si sposta dunque sempre di più verso il livello di accettazione di questa alterità etnica, non solo sul piano mentale, ma anche su
quello sociale e su quello giuridico. Se durante il corso della storia,
secondo i suggerimenti di Jacques Levy (1994), si è passati da uno spazio
pre-statale dominato da un’ottica militare, attraverso uno spazio statale
dominato dall’ordine sociale e politico, ad uno spazio contemporaneo in
cui è imperante il concetto di legittimità (insieme giuridica e sociale),
compito primario diventa quello di indagare i meccanismi con i quali tale
legittimità viene costruita e giudicata. Sul fronte dell’analisi spaziale, la
geografia è dunque chiamata ad un monitoraggio dei paesaggi etnici che
riflettono ed insieme esprimono lo stato di permeabilità e di accettabilità
delle minoranze di cui essi sono espressione.
164
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166
FULVIA RIGOTTI
RIFLESSIONE IN MARGINE ALLA RIFORMA
DELLA POLITICA AGRICOLA COMUNITARIA
1. PREMESSA1
Con la riforma della Politica Agricola Comunitaria (PAC d’ora in
poi), in vigore dal 1992, l’agricoltura europea ha subito modificazioni
sostanziali e rivoluzionarie.
Abolito il tradizionale sostegno dei prezzi istituzionali, caposaldo
della vecchia Europa Verde, viene introdotto un nuovo sistema di aiuti al
reddito agricolo, corrisposto per ettaro di seminativo e commisurato alle
rese medie storiche. La drastica riduzione dei prezzi agricoli (soprattutto
dei cereali al fine di allinearli a quelli medi del mercato mondiale) ha rappresentato un provvedimento di forte impatto sul mondo agricolo, assolutamente indispensabile, purtroppo, per conferire competitività all’agricoltura europea e restituirla alle leggi del mercato.
Le motivazioni dell’importante cambiamento sarebbero tutte da
ricondursi al mutato obiettivo della PAC, determinato dal passaggio rapido, avvenuto in poco più di un ventennio, da un’agricoltura comunitaria
fortemente deficitaria ad un’agricoltura eccedentaria che, grazie ai meccanismi di sostegno fittizio dei prezzi, era divenuta non solo bastevole per
l’autosufficienza ma addirittura esuberante di surplus in diversi settori.
Era necessario invertire il sistema produttivo e promuovere forme di agricoltura meno intensive, volte non solo al contenimento delle rese, ma
anche più sensibili alle problematiche ambientali.
Così, rispetto alle linee direttrici che avevano guidato la vecchia
politica agricola, intrapresa alla fine degli anni Cinquanta, quando la
Comunità Economica Europea lamentava gravi carenze alimentari, la
nuova Europa Verde innesca una vera e propria inversione di tendenza nel
tentativo di sanare gli effetti negativi che il regime di sovvenzione dei
prezzi agricoli CEE, disancorato dall’andamento dei mercati, aveva prodotto a causa delle abbondanti produzioni, degli accumuli onerosi delle
eccedenze e del forte aggravio della spesa agricola.
Si ritiene utile, al fine di facilitare la comprensione dei complicati
meccanismi della riforma, una breve riflessione sui criteri che avevano
1
Con il presente contributo si intende proporre una brevissima sintesi sulla storia
della Politica Agricola Comunitaria (PAC) dal Trattato di Roma (1957) alla Riforma Mac
Sharry (1992). Per un commento personale più approfondito, anche se parziale, sui nuovi
e complessi meccanismi di intervento si rinvia a RIGOTTI 1998, 2000.
167
sorretto la vecchia PAC e dei principali eventi che ne determinarono la
fine, accelerando nel contempo la revisione integrale della stessa.
2. LA VECCHIA PAC PER UN’AGRICOLTURA DEFICITARIA
Come è noto la PAC era stata avviata di fatto nel 1962 rendendo
attuativi gli obiettivi espressi nell’art. 39 del Trattato di Roma del 1957,
che, relativamente al settore primario, miravano in sostanza ad aumentare la produzione agricola sviluppando il progresso tecnologico, ad assicurare un approvvigionamento stabile a prezzi ragionevoli per i consumatori e a garantire un livello di vita dignitoso alla popolazione agricola. Il
tutto sarebbe stato perseguibile attraverso l’unicità del mercato europeo
(prezzo unico), la preferenza comunitaria a favore dei prodotti dei paesi
firmatari e la solidarietà finanziaria realizzata attraverso il sostegno economico alle politiche di sviluppo comunitarie.
È necessario sottolineare che tali provvedimenti venivano presi in
un’epoca davvero cruciale per l’Europa a causa dell’inadeguatezza delle
sue produzioni e per giunta con una popolazione in espansione; è comprensibile, pertanto, che i suoi meccanismi fossero stati concepiti tenendo
conto di tale situazione.
Inoltre, val la pena di ricordare che alla fine degli anni Cinquanta era
l’America il grande fornitore di derrate alimentari di base per l’Europa:
cereali e semi oleosi vi pervenivano soprattutto dagli USA; dall’Argentina,
invece, venivano importate per lo più carni congelate. Dei Paesi europei
solo la Francia era riuscita a superare l’autosufficienza nel 1957 e ad evitare consistenti importazioni di grano e carni dall’oltreoceano, mentre le produzioni agricole degli altri Stati erano largamente insufficienti a sfamare le
popolazioni in crescita e richiedevano una soluzione efficace in grado di
potenziarle; tra l’altro la memoria della carestia bellica e del razionamento
postbellico erano ancora ben vivi nella mente delle genti europee.
La PAC prometteva garanzia di un approvvigionamento costante a
prezzi stabili svincolato dalle fluttuazioni dei mercati mondiali: soltanto
così sembrava possibile rinvigorire l’agricoltura europea. Era certo, infatti, che senza il valido supporto del sostegno dei prezzi l’agricoltura europea mai avrebbe potuto competere con i costi di produzione delle agricolture estensive del resto del mondo, perché la relativa limitata disponibilità di risorse naturali e la forte pressione demografica esistente nell’area comunitaria imponevano che un aumento dell’offerta agricola venisse perseguito solo attraverso una intensivizzazione delle colture e delle
produzioni. Purtroppo, questo, avrebbe dovuto realizzarsi senza alcuna
“protezione” per le condizioni ambientali. Non deve quindi stupire il fatto
che i prezzi comunitari siano stati fissati a livelli nettamente superiori a
quelli allora vigenti sul mercato internazionale.
168
Per ogni prodotto compreso nella PAC, non tutti però, solo per
cereali, carne e lattiero caseari, vigeva una Organizzazione Comune di
Mercato e all’inizio di ogni annata agraria venivano stabiliti i prezzi: il
prezzo indicativo (anche obiettivo) su cui impostare il mercato, il prezzo
di intervento garantito ai produttori agricoli (dagli organismi nazionali di
raccolta alla consegna del prodotto), il prezzo soglia stabilito alla frontiera per le importazioni dai paesi terzi. Unitamente a tale politica dei prezzi veniva approvata anche la creazione di un Fondo Europeo di Orientamento e Garanzia (FEOGA) che avrebbe finanziato tutte le iniziative
della PAC. Erano assicurati, inoltre, sia il sostegno alle esportazioni con
sussidi definiti restituzioni, sia la protezione dalle importazioni tramite i
prelievi inclusi nel prezzo soglia.
Sostanzialmente risultavano così garantiti contestualmente sia il
sostegno dei prezzi interni sia la salvaguardia delle frontiere, e al produttore agricolo veniva corrisposto un prezzo più alto rispetto al prezzo mondiale, per assicurargli un più elevato tenore di vita in linea con gli altri settori produttivi. Dei tre prezzi indicati quello che interessava il coltivatore-produttore era, ovviamente, il prezzo d’intervento: se il mercato interno della CEE faceva scendere i prezzi di un determinato prodotto al di
sotto del livello previsto, il FEOGA acquistava, attraverso le varie strutture nazionali di raccolta e stoccaggio (l’AIMA per l’Italia), la produzione degli agricoltori e ne assicurava la conservazione, in attesa di una più
favorevole situazione dei mercati.
Inoltre, per evitare che le importazioni di cereali provenienti dai Paesi
tradizionalmente esportatori superassero la frontiera CEE ad un prezzo nettamente inferiore di quello praticato dal mercato interno europeo, la PAC
applicava il cosiddetto prelievo sulle importazioni, variabile secondo i
prezzi mondiali dei prodotti importati, che comunque si posizionavano
sempre ad un livello generalmente più basso di quelli europei. Il prelievo veniva aggiunto alle normali tariffe doganali per assicurare che il prodotto importato non creasse difficoltà al mercato interno. La PAC incoraggiava pure le esportazioni di prodotti CEE attraverso il sistema delle
restituzioni, ossia il pagamento sotto forma di sussidi alle esportazioni
comunitarie pari alla differenza tra il prezzo interno CEE e quello, più
basso, del mercato mondiale. È stata proprio questa la voce che col
tempo è venuta a pesare notevolmente sulle spese del FEOGA assorbendone una parte via via sempre più rilevante a causa dello smercio delle
eccedenze.
In ogni caso – occorre ammetterlo – tale politica ha contribuito alla
crescita economica ed ha consentito di offrire ai consumatori europei
un’ampia gamma di prodotti alimentari di qualità a prezzi accessibili.
Purtroppo il sistema della PAC, sia pur adeguato inizialmente ad una agricoltura fortemente deficitaria, non avrebbe potuto mantenersi a lungo effi169
cace, perché una volta innescato avrebbe funzionato come un inarrestabile
meccanismo incentivante le produzioni col risultato che, oltrepassato il
livello dell’autosufficienza, si sarebbero create rapidamente eccedenze produttive sempre più ingenti per la maggior parte dei prodotti agricoli.
Comunque, sia pur foriero di effetti negativi, tale meccanismo di
sostegno dei prezzi ha funzionato senza sostanziali modificazioni fino
all’inizio degli anni Ottanta, dando luogo a una crescita vertiginosa della
produzione agricola comunitaria. E, sotto questo aspetto, non si può certo
negare che l’obiettivo del già ricordato art. 39 del Trattato di Roma, che
aveva assegnato alla PAC il compito di “accrescere la produttività dell’agricoltura sviluppandone il progresso tecnologico”, non sia stato raggiunto, semmai esso è stato perseguito con troppa fermezza se ha trasformato
l’Europa, nel giro di poco più di un ventennio, da importatore netto di
cereali ad esportatore cerealicolo.
E alla base della prodigiosa spinta produttiva, segnalata da tutti i
comparti agricoli, stanno proprio sia il sostegno politico dei prezzi sia il
poderoso supporto tecnologico. A titolo di esempio, la resa cerealicola è
passata dai circa 18 quintali per ettaro in media della fine degli Cinquanta
ai 40 quintali degli anni Settanta per raggiungere nel decennio successivo
i 60 quintali per ettaro. Anche la produzione di latte è migliorata notevolmente e, grazie alla selezione artificiale e alle nuove tecniche di alimentazione, il rendimento medio di una vacca da latte, che si attestava all’inizio degli anni Sessanta attorno ai 2500 chili, raggiunge i 4400 chili circa
alla metà degli anni Ottanta.
Durante il periodo della vecchia PAC gli agricoltori producono con
un certo margine di sicurezza protetti dalla garanzia dei prezzi che li tutela dalle fluttuazioni dei mercati; unica preoccupazione ad affliggerli era
l’incognita climatica, ineludibile, come si sa, perché connaturata con la
stessa pratica agricola. Il prezzo d’intervento fungeva da ancora di salvezza per l’agricoltore, garantendogli sempre, e comunque, il ritiro illimitato della produzione.
3. L’AUTOSUFFICIENZA DEGLI ANNI SETTANTA
Sostenuta dai suddetti provvedimenti politici, la produzione agricola globale comunitaria si è, via via, accresciuta ad un ritmo superiore
alla capacità di assorbimento del mercato, tanto che tra il 1973 e il 1988
il volume della produzione agricola CEE è aumentato del 2% all’anno
contro un consumo interno annuo solo dello 0,5%. Inoltre, alla metà
degli anni Settanta l’autosufficienza per il grano e i cereali minori era
ormai raggiunta (110%), anche se per il mais rimaneva ancora lontana
(70%). Per giunta, alla fine degli anni Settanta, il trend demografico
170
europeo aveva invertito la tendenza con l’inizio del contenimento delle
nascite.
D’altra parte, però, questo sostegno indiretto al reddito, fondato
esclusivamente su garanzie di prezzo per i produttori, risultava ampiamente proporzionale al volume della produzione, concentrando, pertanto,
la quota sostanziale del sostegno sulle aziende più grandi e più intensive.
Basti considerare che la maggior parte della produzione cerealicola totale (60%) derivava soltanto dal 6% delle aziende, tutte di grandi dimensioni e detentrici di circa la metà della superficie cerealicola totale. Non
desta meraviglia, quindi, se ben l’80% del sostegno economico del
FEOGA veniva assorbito solo dal 20% delle aziende.
Ne conseguiva che un sistema così impostato, che privilegiava la
quantità prodotta e premiava i grandi produttori, non tenesse in considerazione i redditi del foltissimo contingente dei piccoli e medi produttori
agricoli. È noto come questi si concentrino soprattutto nei paesi mediterranei, la cui agricoltura poggia prevalentemente su aziende familiari di
limitata dimensione e, proprio per questo, affatto corresponsabili degli
eccessivi surplus, creatisi in seno alla CEE. L’Italia, ad esempio, presenta un’ampiezza media aziendale di superficie agricola utilizzata di appena 5,6 ettari e ancora più contenuta a 4,3 ettari quella della Grecia, mentre la vicina Francia, dispone di unità produttive dalla dimensione media
di ben 27 ettari.
Inoltre, se fino agli inizi degli anni Settanta il reddito medio agricolo era cresciuto in maniera soddisfacente, anche se con forti disparità
regionali, è stato nella seconda metà di tale decennio, e in coincidenza col
periodo di massimo accumulo delle eccedenze, che il potere di acquisto
degli agricoltori, in particolare dei piccoli, ha rallentato notevolmente la
sua crescita. Tale evoluzione appare preoccupante se si considera che la
popolazione agricola della CEE era nel frattempo diminuita in maniera
significativa; situazione, questa, accompagnata, pure, da un avanzato processo di senilizzazione.
4. LE ECCEDENZE PRODUTTIVE E LA CRISI DEGLI ANNI OTTANTA
Gli esiti negativi della vecchia PAC erano divenuti più vistosi e seri
negli anni Ottanta. La situazione eccedentaria dei mercati agricoli comunitari si era accentuata notevolmente fino a raggiungere il valore di 12
milioni di ECU nel 1987 e la spesa per la politica di sostegno dei prezzi
aveva continuato la sua accelerata ascesa: il bilancio FEOGA garanzia,
che era pari a 4,5 miliardi di ECU nel 1975, era salito a 11 mld di Ecu nel
1981, per balzare a ben 31 mld di Ecu nel 1991. L’incremento della spesa
era legato alle restituzioni per le esportazioni e alla gestione delle ecce171
denze, che erano attribuibili, però, dobbiamo ricordarlo, a pochi paesi
membri, in primo luogo alla Francia2. Era necessaria, se non urgente, l’adozione di provvedimenti importanti che ponessero un freno al principio
della garanzia illimitata dei prezzi. Non che in precedenza non fossero
state studiate misure atte ad evitare il fallimento della PAC. Si ricordi il
famoso e tempestivo Memorandum sulla riforma dell’agricoltura, meglio
noto come Piano Mansholt, già elaborato nel 1968, in cui si prevedeva il
superamento delle eccedenze produttive ed il contenimento della spesa
per la politica di sostegno dei prezzi attraverso un piano di rinnovamento
e ammodernamento strutturale delle aziende agricole. Il dettagliato piano
non fu accettato per la sua impostazione troppo rigida soprattutto per
quanto riguardava la realizzazione delle cosiddette aziende agricole “vitali”, la cui pretesa dimensione mal si conciliava con l’effettiva realtà delle
strutture agricole esistenti. Così pure non hanno mai trovato realizzazione le altre soluzioni proposte successivamente per risolvere le incongruenze della PAC3.
Solo negli anni Ottanta la situazione è stata seriamente affrontata; è
in questo decennio, infatti, che si registrarono i più profondi cambiamenti in seno alla vecchia politica agricola, che, seppur tardivi, miravano a
porre un limite, sia all’aumento della spesa agricola della Comunità, sia
alle eccedenze produttive. Ha inizio così un vero e proprio processo di
revisione della politica agricola concretizzatosi con l’adozione, specie
nella seconda metà del decennio, di provvedimenti via via sempre più
energici ed incisivi nell’intento di correggere gli effetti distorsivi del vecchio sistema.
Si tratta dei “prelievi di corresponsabilità” dei produttori per il latte
e per i cereali, delle “quote fisiche di produzione” ed, infine, degli “stabilizzatori di bilancio”, istituiti, quest’ultimi, nel 1988. Tutti provvedimenti, comunque, che hanno consentito di avviare una politica più restrittiva
dei prezzi. La più efficace delle misure, però, forse perché la più coercitiva, è rappresentata dagli stabilizzatori, che prevedevano per quasi tutti i
Va precisato che la situazione di eccedenza di un prodotto a livello comunitario
può essere accompagnata dalla presenza di deficit a livello nazionale. L’Italia ad esempio presenta deficit per prodotti quali grano, latte, carne di cui esistono a livello comunitario delle forti eccedenze (FANFANI, 1990, p. 105).
3
Pochi anni dopo il Piano Manshot, nel 1972, sono state approvate le direttive
socio-strutturali sull’ammodernamento delle aziende agricole con l’intento di favorire lo
sviluppo di aziende in grado di fornire redditi agricoli comparabili a quelli degli altri settori. Il fatto, poi, che in realtà alla politica strutturale fosse stato assegnato appena il 5%
della spesa che annualmente la Comunità destinava alla politica di sostegno dei prezzi
ha contribuito a rendere inapplicabili, soprattutto in Italia, tali direttive per tutti gli anni
Settanta. Solo più tardi, ma si dovrà attendere fino al 1985, con il Regolamento N. 797
verrà riproposta una nuova politica strutturale impostata su criteri più realistici.
2
172
prodotti la riduzione automatica e progressiva del prezzo d’intervento per
l’annata successiva qualora la produzione dell’annata in corso avesse
superato la quota massima garantita a livello comunitario. È con tale disposizione che, per la prima volta nella sua storia, la PAC imponeva delle
limitazioni quantitative alle grandi produzioni. Sebbene gli stabilizzatori
avessero rappresentato davvero la modifica più rilevante ed efficace, anzi
un vero e proprio tentativo di riforma in extremis, essi non sono stati in
grado di evitare la fine del sistema: erano necessari, purtroppo, ulteriori e
più convincenti cambiamenti perché la PAC risultasse compatibile sul
piano internazionale.
Infatti, era ormai più che evidente che il vecchio meccanismo della
PAC doveva essere radicalmente cambiato, perché, oltre ad incentivare
l’intensificazione della produzione e lo sviluppo di sistemi produttivi ad
elevato impatto ambientale, su di esso gravava pure la responsabilità di
aver creato forti tensioni sul mercato internazionale, tanto che i suoi esiti
negativi vi si stavano ripercuotendo pesantemente tra il generalizzato dissenso dei paesi grandi esportatori.
Così, la situazione era diventata insostenibile per la CEE, cui si presentavano grandi difficoltà nel gestire il negoziato agricolo in seno
all’Uruguay Round del GATT4, specie per la pressante richiesta degli USA
di ridurre l’eccessivo protezionismo da anni praticato. Per comprendere
l’origine del contenzioso all’interno del suddetto negoziato basti evidenziare soltanto il fatto che tra il 1980 e il 1989 i Paesi tradizionalmente
grandi esportatori (e in prima posizione gli USA) avevano subito una riduzione considerevole nella loro quota delle esportazioni agroalimentari
mondiali (dal 31,5% al 25,5%). Questo spazio era stato virtualmente occupato proprio dalle esportazioni dei paesi CEE che avevano registrato, invece, un concomitante aumento della loro quota che nello stesso lasso di
tempo era, infatti, aumentata dal 31,5% al 37,5% (ZUPPIROLI, 1993, p. 40).
Queste motivazioni, unitamente alle altre contingenti, hanno indotto la Comunità a riconsiderare seriamente ed integralmente la politica di
sostegno dei prezzi cercando di adeguarla alle esigenze del mercato mondiale, smantellando nel contempo il sistema delle sovvenzioni. Per giunta, la Comunità stava avvertendo forte anche il bisogno, fino ad allora del
tutto ignorato, di reimpostare le basi per un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente, nel tentativo di far recuperare all’attività primaria per eccellenza il perduto equilibrio del rapporto uomo-ambiente, che ancora vigeSi tratta dell’Ottavo Round del GATT (General Agreements on Tarrifs and
Trade), detto dell’Uruguay Round, il più lungo, iniziato nel settembre 1986 a Punta del
Este e conclusosi solo il 15 aprile 1994 con l’accordo di Marrakech. I precedenti Rounds
del GATT sono stati: Ginevra (1947); Annecy (1949), Torquay (1951), Ginevra (1955),
Dillon Round (1961-1962), Kennedy Round (1963-1967), Tokio Round (1973-1979).
4
173
va in età preindustriale. Come pure, si stava affermando da ogni parte l’esigenza di porre rimedio anche alla questione ecologica, esplosa con la
pratica di un utilizzo del suolo ormai caratterizzato dallo sfruttamento
troppo aggressivo dei terreni, “stressati” per l’uso, o meglio l’abuso di
concimi, pesticidi e fitofarmaci.
Così, con l’individuazione di nuove valenze e funzioni da attribuire
all’agricoltura del prossimo futuro, si è venuta a rafforzare la necessità di
una politica agricola integralmente modificata nei suoi obiettivi, nei suoi
principi nonché negli strumenti di intervento specifici per il settore primario. Già nel “libro verde” della Commissione del 1985 compaiono le
più significative innovazioni che avrebbero condotto alla grande e complessa Riforma della PAC, nota come Riforma Mac Sharry, che rappresenta, dopo giusto un trentennio, una svolta davvero epocale, destinata a
sconvolgere quasi tutta l’agricoltura, apportando significativi ed evidenti
mutamenti agli scenari agricoli.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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