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Yahoopolis
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Collana diretta da Edoardo Montolli
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Francesco Viviano
Alessandra Ziniti
I misteri dell’Agenda Rossa
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© 2010 Aliberti editore
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A Giulia a Marta e a nonna Enza
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Introduzione
Le troppe verità ignorate
Nel dicembre del 1991 Giovanni Falcone incontrò
Gaspare Mutolo nel carcere di Spoleto. Si trattava
di un colloquio segreto, mai registrato negli archivi della prigione, ma un colloquio fondamentale.
Mutolo era stato l’attendente di Riina, killer infallibile, l’uomo che, tra i primi, si preparava a collaborare con la giustizia raccontando la Cosa
nostra dei corleonesi. E soprattutto le loro collusioni con le istituzioni, la politica, la magistratura. Nessuno, o quasi, ne seppe nulla fino a quando, dopo la strage di Capaci, analizzando le agende e i pc del giudice, l’allora commissario di polizia Gioacchino Genchi ne trovò traccia in un
appunto digitale. Uno dei pochi appunti rimasti:
i file del computer erano infatti stati manomessi
dopo il sequestro, così come era stata cancellata
una sua agenda elettronica che tanti autorevoli
testimoni, prima, avevano giurato si fosse smagnetizzata in aeroporto. Scomparsa per sempre
anche la memoria esterna delle agende, di cui
rimase soltanto parte dei diari pubblicati nel giugno del ’92 da Liana Milella sul «Sole 24Ore».
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Non si sa come e quando, ma pare che, pur
non essendo nessuno, o quasi, a conoscenza dell’incontro segreto tra Falcone e Mutolo, Riina ne
fosse venuto a conoscenza.
Passarono meno di due mesi. Con la morte del
giudice, Mutolo non fece marcia indietro, ma
chiese espressamente di parlare solo con
Borsellino. Si videro tre volte, fino a due giorni
prima della strage di via D’Amelio. Ciò che il
pentito raccontò, sulle collusioni istituzionali,
non venne verbalizzato. Ci sarebbe voluto diverso tempo. E Borsellino, che non amava particolarmente la tecnologia, segnò ogni dettaglio
sopra un’Agenda Rossa. Nessuno, o quasi, seppe
cosa appuntò lì dentro.
Ma di quest’agenda da cui il magistrato non si
separava mai, com’è noto, non si è mai saputo
nulla. Nella sua borsa ritrovata integra nonostante l’esplosione, non c’era. Le indagini non
hanno portato a nulla. Anzi, secondo i giudici
della sesta sezione penale della Cassazione, non
è affatto detto che fosse custodita all’interno
della sua borsa.
Sicché le morti di Falcone e Borsellino si portano dietro due singolari coincidenze: la scomparsa delle loro annotazioni, e l’argomento principale di quelle stesse annotazioni.
E cioè le dichiarazioni di Mutolo sulla connivenza tra istituzioni e mafia. Dichiarazioni di cui
nessuno, o quasi, doveva sapere nulla.
Oggi a Caltanissetta hanno riaperto le indagini
sui mandanti occulti delle stragi del ’92. Si ipotizza che Borsellino sia stato ucciso perché si oppo10
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se a una trattativa tra lo Stato e Cosa nostra per
far cessare una scia di sangue mai vista prima. E
un sacco di gente sembra avere ritrovato la
memoria, ricordando episodi e fatti che Mutolo
aveva narrato quasi vent’anni fa. Si va alla ricerca di quel “quasi nessuno” che sapeva e che di
fatto fece da trait d’union tra la mafia e lo Stato,
una talpa o forse un’entità in grado di interagire
con entrambi gli apparati.
Di lei, della talpa, o di una di esse, ha parlato
nell’ultimo anno Massimo Ciancimino, figlio di
Don Vito sindaco, chiamandola “signor Franco”
(o signor Carlo), un uomo appartenente ai servizi segreti sempre presente accanto a suo padre
quanto l’ingegner Lo Verde, noto al resto del
mondo come Bernardo Provenzano, l’imprendibile per quarantatré anni che, per contro, era
libero di muoversi per la capitale, andando a
casa di Ciancimino per discutere i loro affari.
Ed è come se tutto ciò costituisse un puzzle, di
cui mancano i tasselli fondamentali, in grado di
collegare Capaci e via D’Amelio alla trattativa, al
Papello, e al tavolo al quale, per tanti, tantissimi
anni, sembrano essersi seduti contemporaneamente boss e servizi segreti, deviati non si sa
bene a favore di chi. Si sa però ora, ormai quasi
con certezza, che i boss non avevano mentito
quando non avevano riconosciuto il pentito
Vincenzo Scarantino, il cui racconto aveva portato alla ricostruzione dell’attentato e del gruppo
di fuoco che costò la vita a Borsellino. La tesi,
dopo le dichiarazioni di un vero killer di Cosa
nostra, e cioè Gaspare Spatuzza, è che qualcuno
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abbia imboccato Scarantino con una falsa verità,
sviando così le indagini. Spatuzza era uomo dei
Graviano e il suo è un racconto che porta dannatamente lontano, per quanto a nessuno è davvero chiaro perché solo diciotto anni dopo la strage
di via D’Amelio abbia deciso di dire che fu lui, e
non Scarantino, a rubare la 126 poi imbottita di
esplosivo e usata per la strage.
E tutto sta diventando febbrile. Diversi poliziotti del gruppo Falcone-Borsellino, che coordinò l’inchiesta su via D’Amelio, sono stati inquisiti. È emerso che forse il capo di quel gruppo, l’ex
questore scomparso Arnaldo La Barbera, era
legato ai servizi col nome in codice “Catullo”.
Ogni dettaglio fa dunque supporre che ci
vorrà ancora molto tempo per arrivare, se ci si
arriverà, alla verità. E a capire, quantomeno, se
la trattativa fu una sola o se ci fu qualcosa di
più. Perché intanto altre cose sono successe.
Pare che la misteriosa morte dell’agente Nino
Agostino, e la scomparsa nel nulla del giovane
Emanuele Piazza, siano da ricondurre alla loro
presenza per conto dei servizi segreti
all’Addaura, quando si consumò il primo attentato fallito ai danni di Falcone. E forse non solo
ai suoi danni. Un attentato del 1989 cui seguì un
anno più tardi, secondo il racconto del pentito
Francesco Di Carlo, un approccio nel carcere
inglese in cui era detenuto, di alcuni esponenti
dei servizi segreti di diversi Stati: gli avrebbero
chiesto un contatto per poter organizzare l’omicidio di Falcone. E lui avrebbe detto loro di
rivolgersi ad Antonino Gioè, uno dei capi allora
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sconosciuti di Cosa nostra, che fu effettivamente tra gli ideatori dell’attentatuni, così come lo
chiamavano in gergo i mafiosi. E che, manco a
farlo apposta, morì suicida in carcere, poco
dopo il suo arresto. Un suicidio misterioso, con
tanto di bigliettino nel quale faceva riferimento
a un infiltrato dai servizi, un certo Paolo Bellini,
in effetti tramite acclarato di una trattativa tra i
carabinieri e Cosa nostra per il recupero di
opere arte rubate.
C’è dunque un filo rosso che collega sempre,
in ogni strage e delitto o suicidio, elementi di
Cosa nostra ed elementi dei servizi segreti, ufficiali o ufficiosi. Un filo che si manifesta fin dal
1989 e che fa pensare che tutto sia cominciato
molto prima e non certo per iniziativa dei
caprai corleonesi.
In questo intricato groviglio, Francesco
Viviano, da giornalista di razza qual è, ha scavato come un cane da tartufo, scoprendo elementi totalmente destabilizzanti. Dopo anni di
silenzio è andato a recuperare Mutolo, diventato pittore come Luciano Liggio, in località
segreta, spillandogli il racconto di quegli incontri con Falcone e Borsellino, e di ciò che accadde durante i loro colloqui. Attraverso un lungo
dialogo con l’ex pm di Caltanissetta Luca
Tescaroli, il primo a credere a un’unica pista
che portava dall’Addaura fino a Capaci, ricostruisce la palude in cui si sono consumate via
via le collusioni tra istituzioni e Cosa nostra. E
infine imbecca il trait d’union, focalizzandosi su
due punti cruciali: le lettere autografe di Vito
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Ciancimino in cui l’ex sindaco chiedeva insistentemente di essere sentito in Parlamento a
proposito di ciò che era accaduto in quel periodo. E, scelto come depositario del testamento
di Massimo Ciancimino, Viviano rivela qui per
la prima volta l’identità del signor Franco, alias
Keller Gross, un tizio forse appartenente ai servizi segreti, ma che comunque sia appare in
una lista insieme a personaggi dell’ex Alto
Commissariato dell’epoca in un documento di
Don Vito.
Un rompicapo cui insieme a Viviano si intrufola e scoperchia un vaso di Pandora Alessandra
Ziniti, tra i giornalisti che più conoscono la realtà della Palermo grigia fin dalla metà degli anni
Ottanta, autrice di miriadi di scoop sui veleni al
Palazzo di giustizia di Palermo dai tempi in cui
il Corvo seminava zizzania attaccando Falcone e
De Gennaro. Ma è un rompicapo a cui non sta a
noi dare risposta. E infatti Viviano e la Ziniti
fanno domande. Una se la pongono a proposito
di Riina che dice che Borsellino «l’hanno ammazzato loro», e cioè lo Stato.
L’altra la fanno suscitare da un documento
straordinario sino a oggi ignorato: un appunto
scritto a mano allegato agli atti sulle stragi in cui
qualcuno segnava i punti da dettare a Scarantino
per la verità che il “falso” pentito doveva raccontare su via D’Amelio.
Non si sa chi fosse quel qualcuno, né per conto
di chi agisse. Probabilmente fa parte di quel
“quasi nessuno” che sapeva e faceva da filtro, o
da talpa, chiamatelo come vi pare.
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L’unica cosa certa è che, dopo la pubblicazione di questi documenti, non si potrà più far
finta di nulla. E qualcuno si dovrà decidere a
riscrivere la storia.
Edoardo Montolli
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Le rivelazioni di Riina:
«Borsellino? L’ammazzarono loro…»
In diciassette anni non ha mai detto una parola
se non, all’inizio, quando cercava di farsi passare per un campagnolo che nulla sapeva se
non di pecore e formaggi, costretto a nascondersi per una vita solo perché inseguito dalle
menzogne degli infami. Poi, un giorno di
marzo di sette anni fa, quando il suo compaesano Vito Ciancimino è morto da pochi mesi e il
suo erede prediletto non è ancora assurto
all’onore delle cronache, dalla sua gabbia del
processo per il fallito attentato dello Stadio
Olimpico, il “capo dei capi” butta sul tappeto
quella che, molti anni dopo, sarebbe diventata
una delle carte giocate dalle Procure di mezza
Italia per cercare di capire sul serio chi fu il
puparo della stagione delle stragi. Non solo
quelle del ’92, Capaci e via D’Amelio, non solo
quelle del ’93, via dei Georgofili, via Fauro, il
Velabro, ma un unico filo rosso, dal tritolo mai
saltato in aria sulla scogliera dell’Addaura
della villa di Giovanni Falcone nel giugno
dell’89, fino al fallito attentato dell’Olimpico
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nel quale a saltare in aria avrebbero dovuto
essere decine di carabinieri.
È lui, Totò Riina, il 25 marzo del 2003, a fare,
inascoltato, per primo, il nome di Massimo
Ciancimino. «Perché – chiede ai giudici – il figlio
di Ciancimino non è stato mai sentito? E perché
non sentite mai l’onorevole Mancino?»
Di cosa parla, Totò Riina se non di quella “trattativa” che, cominciata a cavallo delle stragi del
’92, sarebbe andata avanti a colpi di bombe fino
a quando, ai primi del ’94, Cosa nostra non
avrebbe finalmente stretto il patto con i suoi
nuovi referenti? E tutto tra silenzi, bugie, depistaggi e complicità di pezzi della politica e delle
istituzioni tanto da far ipotizzare, oggi, quasi
vent’anni dopo, che quelle furono vere e proprie
stragi di Stato.
Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza,
nuovi testimoni e nuovi pentiti che abbozzano
una nuova verità e passano un colpo di spugna
su quelle “mezze” verità già consacrate da decine
di ergastoli passati in giudicato. Processi da rifare, sentenze da rivedere, anche qualche innocente in carcere, e diversi responsabili fuori, tra mandanti ed esecutori e depistatori di Stato. Dalla sua
Procura di frontiera dove lavora giorno e notte
insieme a un manipolo di magistrati che non si
fermano mai e a un piccolo gruppo di investigatori sommersi da carte che non si trovano più e
fascicoli da rifare, il procuratore di Caltanissetta
Sergio Lari è lapidario: «La nostra ipotesi non è
che Cosa nostra sia stata eterodiretta da entità
altre ma che, accanto a Cosa nostra, seduti allo
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stesso tavolo con i mafiosi ci siano stati soggetti
deviati dell’apparato istituzionale, che hanno tradito lo Stato con lo scopo di destabilizzare il
Paese con compiti operativi mettendo a disposizione un know-how strategico e militare».
Solo poche settimane prima, nel parlatorio del
carcere, ormai prossimo agli ottant’anni, Riina
aveva affidato al suo avvocato Luca Cianferoni
poche parole da veicolare all’esterno. Per la
prima volta, il vecchio corleonese, l’uomo condannato per tutte le stragi di mafia, aveva deciso
di parlare proprio di quelle stragi, lanciando un
messaggio che oggi appare sempre meno sibillino. «Paolo Borsellino? L’ammazzarono loro…
Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi».
Loro chi? Voi chi? L’allusione a quei pezzi
dello Stato che – rispondendo a qualcuno, ai vertici delle istituzioni – negli ultimi vent’anni
avrebbero camminato fianco a fianco con i
mafiosi seminando sangue, terrore e destabilizzazione, è fin troppo chiara. Ma perché Riina
decide di parlare ora? E cosa vuole dire veramente?
Sono parole, messaggi indirizzati a chi sa, a chi
deve intendere ma anche a chi indaga, tutti da
rileggere. A cominciare da quel suo intervento in
aula, il 25 marzo 2003, passato assolutamente
inosservato, al processo per il fallito attentato
dello Stadio Olimpico.
… Signor Presidente, la verità, è che io, forse allo
Stato servo per parafulmine, perché tutto quello
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che succede in Italia e che è successo in Italia,
all’ultimo si imputa a Riina, Riina è il parafulmine
e Riina sta bene per tutte le “pietanze”, per tutte le
“processe” che si vengono fatte a Riina o ai compagni di Riina. Quindi che cosa succede? Parlo di
questa situazione qua di Firenze, ma se io sono lì
(isolato in carcere, ndr) che non ho contatti con nessuno, a chi lo mandai a dire, come lo mandai a dire,
come sono ideatore, come lo ideai? Allora si cerca
di… quello di Mazara, il pentito che dice… vabbè
ma Riina abitava a Mazara, ma questo Sinacori che
dice che Riina abitava a Mazara dice delle bugiarderie, dice delle cose che non sono vere, perché a
Mazara, Signor Presidente, signori della Corte, c’è
un mio fratello che si è fatto fidanzato nel ’72, si è
sposato nel ’74, ha abitato sempre a Mazara, si è
fatto la famiglia a Mazara, mio fratello è mazarese
perché abita lì. Io da latitante come stavo a Mazara
o facevo il mazarese? Quindi sono anche cose
inventate di questo signor Sinacori e cose…
Si arrampica sugli specchi per cercare di confutare le dichiarazioni di uno fra le decine di pentiti
che lo accusano, il mazarese Vincenzo Sinacori,
ma il messaggio che per la prima volta Totò Riina
prova a far passare a marzo di sette anni fa, è che
ci sono da ricercare responsabilità “altre” che
vanno oltre il “parafulmine” Riina se si vuole far
luce su tutto quello che è successo da un capo
all’altro dell’Italia in quegli anni.
Ed è lui stesso a indicare la linea su cui corre il
filo rosso delle stragi, una linea su cui in più
punti si allungano le inquietanti ombre dei servizi segreti: il volo privato con il quale Falcone
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tornò a Palermo quel 23 maggio del ’92, le misteriose presenze di uffici dei servizi al Castello
Utveggio con un occhio su quel che accadeva in
via D’Amelio...
Nel suo italiano approssimativo, Riina pone
all’attenzione dei giudici questi elementi:
Nel processo Falcone c’è un aereo nel cielo nel
mentre che scoppia la bomba. Quest’aereo non si
può trovare di chi è, allora quindi si condanna
Riina perché certamente Riina è stato a compierlo.
E nel processo di Borsellino, lì sul monte Pellegrino
c’è l’hotel e nell’hotel ci sono i servizi segreti e
quando succede che scoppia la bomba i servizi
segreti scompaiono però non vengono mai citati
perché si condanna a Riina, perché l’Italia così è
combinata. Cioè quando Scalfaro dice «io non ci
sto», io devo dire, Signor Presidente, «io non ci
sto!» a queste condanne così. Queste sono condanne di Stato, fatte a tavolino. Non sono condanne
perché si cerca la verità, perché io ho commesso
questo delitto o ho fatto commettere questo delitto.
È attento Riina al dibattito politico e a quel che
avviene in Italia. Capisce o sa che forse qualcosa
è cambiato, che si è aperta una breccia che può
far oltrepassare un muro fino a oggi invalicabile.
Ricorda le vicissitudini giudiziarie di un vecchio
uomo d’onore, poi diventato collaboratore di
giustizia, Francesco Di Carlo, ritenuto sempre
molto attendibile fino a quando…
Di Carlo viene creduto quando accusa a me o accusa ad altri, ma quando il Di Carlo dice che sono
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andati a trovarlo nel carcere dell’Inghilterra i servizi segreti americani e quelli israeliani e quelli
dell’Inghilterra perché volevano aiuto per uccidere
a Falcone, lui c’ha nominato a suo cugino, quello
che si venne a trovare poi impiccato al carcere di
Roma, quindi che cosa succede? Che il cugino,
poverino, si è messo a disposizione però poi c’ha
lasciato le penne.
Chiediamo a chi sa, riavvolgiamo il nastro indietro fino alla vigilia della mia cattura, propone il
vecchio boss corleonese, convinto com’è di essere stato tradito da più d’uno.
L’appello, rivolto quel giorno di marzo 2003 al
presidente di quella corte, sarebbe caduto nel
vuoto per molti anni ancora:
Signor Presidente, il figlio di Ciancimino non è
stato mai citato, non è stato mai sentito, perché non
si deve sentire il figlio di Ciancimino che era in
contatto con il colonnello dei carabinieri e l’allievo
di quelli che mi hanno arrestato? Perché questo
Ciancimino che collaborava con ’sto colonnello
non ci viene a dire il perché cinque, sei giorni
prima, l’onorevole Mancino ci dice «Riina in questi
giorni viene arrestato», ma a Mancino chi ce lo
disse cinque giorni prima che io venissi arrestato?
E allora ci sono dei signori che mi han venduto?
Allora cercare la verità non è che significa commettere delitti, la verità sta bene a tutti, Signor
Presidente, può stare pure bene a me, ma perché
mi si deve condannare per le cose che io non so,
che io non ho commesso e che io non ho fatto? Io,
Signor Presidente, ringrazio a lei e alla Corte per
avermi sentito, però mi sento la persona additata
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per dire: “Tu sei il parafulmine dell’Italia! Tu devi
pagare il conto di tutti!” E io sono qua, malato…
malandato eh, ci affidiamo alla volontà di Dio…
Che Dio può pensare anche per tutti.
Nel ruolo di vittima innocente messa in mezzo
per proteggere chissà chi, Riina di certo non convince nessuno. Ma alcune delle domande da lui
poste sette anni fa sono quelle che frullano oggi
nelle teste di tutti grazie anche alla “memoria”
improvvisamente ritrovata da tanti che, nell’immediato, avrebbero potuto essere preziosi testimoni: da Luciano Violante, ex presidente della
Commissione antimafia, a Claudio Martelli, ex
ministro della Giustizia, a Nicola Mancino, allora ministro dell’Interno e protagonista di quel
misterioso incontro (da lui ancora negato) dal
quale Paolo Borsellino, a Roma per interrogare il
pentito Gaspare Mutolo che aveva chiesto
espressamente di parlare con lui, uscì stravolto.
Tre giorni prima di saltare in aria in via
D’Amelio.
Già, Paolo Borsellino. «L’ammazzarono loro...»
dice Riina incaricando il suo avvocato Luca
Cianferoni di portare all’esterno, per la sua
prima volta, il suo pensiero sulla strage di via
D’Amelio. Estate 2009, parlatorio del carcere di
Opera. Il legale che difende il capomafia da
dodici anni, la racconta così:
Sono andato a trovarlo al carcere di Opera e l’ho
trovato che stava leggendo alcuni giornali.
Neanche ho fatto in tempo a salutarlo e lui, alludendo al caso Borsellino, mi ha detto quelle paro23
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le… «L’ammazzarono loro…» Mi ha dato incarico
di far sapere fuori, senza messaggi e senza segnali
da decifrare, cosa pensa. Lui è stato molto chiaro.
Mi ha detto: «Avvocato, dico questo senza chiedere niente, non rivendico niente, non voglio trovare
mediazioni con nessuno, non voglio che si pensi ad
altro». Insomma, il mio cliente sa che starà in carcere e non vuole niente. Mi ha ripetuto più volte:
«Avvocato parlo sapendo bene che la mia situazione processuale nell’inchiesta Borsellino non cambierà, fra l’altro adesso c’è anche Gaspare Spatuzza
che sta collaborando con i magistrati quindi…»
Legge e rilegge le carte processuali, Totò Riina,
nella sua cella al 41 bis regime speciale illuminata ventiquattr’ore su ventiquattro. Racconta
ancora l’avvocato:
Non ha mai capito ad esempio perché, dopo
l’esplosione dell’autobomba che ha ucciso il procuratore Borsellino, sia sparito tutto il traffico telefonico in entrata e in uscita da Castel Utveggio. Per carità. Pensa che la sua posizione rimarrà quella che è e
che è sempre stata, non si sposterà di un millimetro.
Ma ora vuole dire anche il resto. E cioè: non guardate solo me, guardatevi dentro anche voi.
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La sentenza di morte contro Falcone
«Sono convinto che Giovanni cominciò a morire
il 18 gennaio ’88, quando il Csm gli preferì Meli
alla guida dell’ufficio istruzione di Palermo. E
non si può negare che c’è stata una campagna,
cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo
ha delegittimato».
Ventiquattro giorni prima di essere dilaniato
insieme alla sua scorta dall’autobomba piazzata
sotto casa della madre in via D’Amelio, Paolo
Borsellino aveva pronunciato quelle parole, la
“sentenza di morte” che era stata già emessa nel
gennaio del 1988 contro il suo amico e collega,
Giovanni Falcone, nell’atrio della biblioteca
comunale di Palermo il 25 giugno del 1992. Era
un dibattito organizzato da «Micromega» dal
significativo titolo È solo mafia?
Borsellino parlava come se fosse già morto
anche lui. Ricordava il suo amico Giovanni
Falcone e accusava il Consiglio superiore della
magistratura («che continua a ucciderlo» disse),
alcuni suoi colleghi “Giuda” che lo tradirono. E
confermava che la “fuga” di Falcone da Palermo
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avvenne perché in Procura «non poteva più lavorare». Borsellino parlò per venti minuti tra
applausi e lacrime di rabbia. E dopo le accuse la
conferma: i «cosiddetti diari» pubblicati dal
«Sole24Ore», sono autentici. Scritti da Falcone e
letti da Borsellino mentre il magistrato era ancora in vita: «Sono proprio gli appunti di
Giovanni». Con Borsellino quella sera c’erano
anche Leoluca Orlando e Nando Dalla Chiesa.
Orlando rivelò fatti inediti. Il 3 agosto 1988, mentre era sindaco di Palermo, convocò un’improvvisa e drammatica conferenza stampa: «Quella
mattina Falcone mi aveva chiamato dicendomi
che temeva di essere ucciso. Ai giornalisti dissi
che la mafia aveva il volto delle istituzioni ed
evitai un funerale di Stato». Poi Orlando aggiunse che qualche mese dopo il fallito attentato
dell’Addaura incontrò Giovanni Falcone e quando gli disse che probabilmente non era stata solo
la mafia a organizzarlo, il giudice rispose: «Ma
che dici? Che dici? È stato Madonia». «Ma – commentò Orlando – non aveva per nulla l’aria di
crederci». La parola passa a Borsellino. Parlò di
“Giovanni” sottolineando di non volersi imbarcare «in questa gara che purtroppo vedo fare in
questi giorni per stabilire chi era più suo amico».
Ma il magistrato non disse tutto quello che sapeva. Prima volle parlare con i magistrati che indagavano sulla strage, «gli unici in grado di valutare quanto queste cose che io so possano essere
utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto
fine alla vita di Giovanni Falcone». Poi parlò
della lunga “agonia” di Giovanni Falcone.
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Borsellino diede ragione a Caponnetto: Falcone
«cominciò a morire nel 1988» anche se – aveva
precisato – con ciò non intendo dire che la strage
sia stata il naturale epilogo di questo processo di
morte». Disse:
Oggi tutti ci rendiamo conto di quale sia stata la
statura di Falcone e ci accorgiamo come il Paese, lo
Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di
chiunque altro, cominciarono a farlo morire proprio nel gennaio ’88, se non addirittura l’anno
prima, quando Leonardo Sciascia sul «Corriere
della Sera» bollò me come un professionista dell’antimafia e l’amico Leoluca Orlando professionista dell’antimafia nella politica.
L’inizio di questo “processo di morte” fu lo scontro tra Falcone e Meli per la carica di consigliere
istruttore. «E quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua candidatura alla
successione di Antonino Caponnetto, qualche
Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro. E
poi il giorno del mio compleanno – aggiunge
Borsellino – il Csm, con motivazioni risibili, il
Csm gli preferì Antonino Meli». Ma nonostante
«lo schiaffo» del Csm «Giovanni che aveva un
altissimo senso delle istituzioni continuò con
impegno nel suo lavoro». Borsellino intuì che
«nel giro di pochi mesi Falcone sarebbe stato
distrutto, e ciò che più mi addolorava è il fatto
che sarebbe morto professionalmente senza che
nessuno se ne accorgesse». Quella sera Paolo
Borsellino parlava a fatica. Quella sera eravamo
presenti anche noi alla biblioteca comunale e le
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sue parole facevano accapponare la pelle.
Quell’intervento era un vero e proprio testamento. Ecco perché ve lo riproponiamo. Perché rappresenta un documento unico, da non dimenticare mai.
Il testamento di Paolo Borsellino
Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto
ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad
allontanarmi prima che questa riunione finisca.
Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario
che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono
un magistrato. E poiché sono un magistrato devo
essere anche cosciente che il mio primo dovere non
è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma
quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre,
oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi
era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di
Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di
parlare in pubblico anche delle opinioni, anche
delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo
tali confidenze, questi elementi che io porto dentro
di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli
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all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di
valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto
fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto
pensare a me, e non soltanto a me, che era finita
una parte della mia e della nostra vita.
Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi –
dal riferire circostanze che probabilmente molti di
voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da
quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni
Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico.
Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando
l’argomento, e per evitare che si possano anche su
questo punto innestare speculazioni fuorvianti,
che questi appunti che sono stati pubblicati dalla
stampa, sul «Sole24Ore» dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… –
Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone.
Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché
non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.
Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in
questo momento i miei ricordi non sono precisi –
un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo
cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di
Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il
perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento
che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne
riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che
cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che que29
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sto, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di
questo processo di morte. Però quello che ha detto
Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti
ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua
vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il
Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più
colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire
il primo gennaio del 1988, se non forse l’anno
prima, in quella data che ha or ora ricordato
Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo
Sciascia sul «Corriere della Sera» che bollava me
come un professionista dell’antimafia, l’amico
Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988,
quando a Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con
motivazioni risibili preferì il consigliere Antonino
Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo
pericolo e a lungo sperammo che Antonino
Caponnetto potesse restare ancora a passare gli
ultimi due anni della sua vita professionale a
Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale
rischiava, perché anziano, perché conduceva una
vita sicuramente non sopportabile da nessuno già
da anni, il quale rischiava di morire a Palermo,
temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto
fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla
successione all’ufficio istruzione al tribunale di
Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio
compleanno il Consiglio superiore della magistra30
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tura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.
Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso
delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di
continuare comunque a fare il lavoro che aveva
inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato,
cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal
Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a
crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un
osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero
stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso
conto subito che nel volgere di pochi mesi
Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che
più mi addolorava era il fatto che Giovanni
Falcone sarebbe allora morto professionalmente
nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse.
Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai
quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca
Orlando, allora presente, dicendo che quella sera
l’aria ci stava pesando addosso per quello che era
stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa
avvenne subito dopo: per aver denunciato questa
verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore
immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io
avevo sollevato, doveva essere eliminato al più
presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo
pure messo nel conto perché ero convinto che lo
avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se
deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve
sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve
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morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.
L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio
superiore della magistratura a rimangiarsi in parte
la sua precedente decisione dei primi di agosto,
tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool
antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della
Cassazione cominciato allora e continuato fino a
ieri (perché, nonostante quello che è successo in
Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E
Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere
uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso
dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla Procura della
Repubblica di Palermo dove, a un certo punto
ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di
espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più
continuare a operare al meglio. Giovanni Falcone è
andato al Ministero di Grazia e Giustizia, e questo
lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un
posto privilegiato, non perché si era innamorato
dei socialisti, non perché si era innamorato di
Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della
sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter
continuare a svolgere a Roma un ruolo importante
e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento
alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver
appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in
quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente per32
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ché io ero molto impegnato professionalmente a
Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta
Giovanni Falcone alla presenza del collega
Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so
come si chiama, l’ordinamento interno del
Ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò a illustrare quel che lì egli poteva fare
e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.
Certo, anch’io talvolta ho assistito con un certo
disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato
improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture,
anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste
dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un
lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per
questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal
primo momento mi illustrò quello che riteneva di
poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei
conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua
permanenza al Ministero di Grazia e Giustizia, il
bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un
bilancio che riguarda soprattutto la creazione di
strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che
potessero funzionare specialmente con riferimento
alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro
che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in
campo nazionale e con leggi dello Stato quelle
esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e
senza che la legge, anche nei momenti di maggiore
successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione,
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ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la
superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai
neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva
lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a
torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per
consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come
egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni
circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di
mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato e
attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato e
attuato proprio nel momento in cui, a mio parere,
si erano concretizzate tutte le condizioni perché
Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della
magistratura, era ormai a un passo, secondo le
notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato
e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute
anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del
Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il
direttore nazionale antimafia.
Ecco perché, forse, ripensandoci, quando
Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del
1988 aveva proprio ragione anche con riferimento
all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per
potere continuare a lavorare. Poi possono essere
avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede
e se avanzate riconoscendo questo intento di
Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò
alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura; si
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può anche dire che per creare questo strumento
egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello
che non si può contestare è che Giovanni Falcone
in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale, lavorò soprattutto per potere al più presto
tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è
stato impedito, perché è questo che faceva paura.
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Antonino Caponnetto,
il “padre spirituale” di Falcone
E quando nel pomeriggio del 23 maggio 1992 le
agenzie e i telegiornali diffusero la notizia che il
giudice Giovanni Falcone era stato ucciso nell’attentato di Capaci insieme alla moglie Francesca
Morvillo e agli uomini della sua scorta, il “padre
spirituale” del magistrato, Antonino Caponnetto
che era andato via da Palermo dopo anni di duro
lavoro insieme a Falcone, Borsellino, Leonardo
Guarnotta… si trovava nella sua casa di Firenze.
Disperatamente tentava di avere notizie, di sapere
se davvero Giovanni era morto. E in un’intervista
dal titolo Scelsero Meli e Giovanni cominciò a morire,
rilasciata a Franca Selvatici di «Repubblica», il
magistrato ricordò quel drammatico giorno: «La
notizia l’ho avuta dal telegiornale. L’attentato, i
morti, Giovanni e la moglie feriti. Ho fatto il numero del cellulare di Paolo Borsellino. Alla fine mi ha
risposto. “Come sta Giovanni?” gli ho chiesto con
il cuore in gola. Silenzio. “Come sta Giovanni?”
Silenzio. Non capivo, insistevo. Poi Paolo è esploso in un singhiozzo e mi ha detto: “È morto due
minuti fa tra le mie braccia”».
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Non fa freddo nel piccolo salotto della casa fiorentina di Antonino Caponnetto. Ma lui, l’ex
consigliere istruttore di Palermo, rabbrividisce.
Sul pianoforte, la foto di Rocco Chinnici, il giudice trucidato dalla mafia. Caponnetto andò a
sostituirlo a Palermo alla fine del 1983. Fu allora
che conobbe Giovanni Falcone.
FRANCA SELVATICI: Quando lo ha sentito l’ultima
volta?
ANTONINO CAPONNETTO: Mi chiamò lui alla fine
di aprile. Aveva saputo in ritardo di una mia
intervista alla «Sicilia» di Catania. Il direttore,
Zambro, mi aveva chiesto un parere sulla superprocura antimafia e se condividevo le critiche di
una parte dei magistrati contro Falcone per la
sua vicinanza con il potere politico. Sulla superprocura avevo confermato le mie perplessità. Su
Falcone avevo reagito duramente. Era stupido
pensare che fosse condizionato dal potere o
aggiogato a un carro politico. Giovanni, con voce
commossa, mi espresse la sua gratitudine. Era
amareggiato dai continui attacchi di chi lo considerava un traditore, venduto al palazzo.
Lei milita nella Rete, e Leoluca Orlando ha attaccato duramente Falcone.
A Genova Alberto La Volpe mi ha accusato con
toni bruschi di non aver parlato degli attacchi
mossi a Falcone da Orlando. Eravamo lì per commemorare Giovanni, non per fare polemiche per38
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sonali. Ho taciuto. Ma ora mi corre l’obbligo di
precisare. Le critiche di Orlando sui processi
tenuti nei cassetti non sono mai state dettate da
malanimo contro Falcone, ma solo da ansia di
giustizia: e c’è una bella differenza. Anche di
recente Orlando ha ripetuto che Giovanni aveva
lottato sempre e fino in fondo contro la mafia. E
questo dovrebbe chiarire i termini di una polemica fin troppo insistita.
Anche se in dissenso, erano tutti e due sullo stesso
fronte.
Sì. E poi è bene ricordare che le lagnanze di
Orlando per il ritardo sui processi Mattarella,
Reina, La Torre non sono del tutto infondate. Ci
sono voluti dieci anni per arrivare a una requisitoria che Pino Arlacchi ha giudicato «brutta,
insufficiente, dove si tirano in ballo i soliti quattro boss senza approfondire le responsabilità
della classe politica dominante». Io stesso chiamai Giovanni per chiedergli perché l’avesse firmata. Mi rispose testualmente: «Nino, ho dovuto firmarla, non mi far dire di più».
Questo ci porta al periodo difficile vissuto da
Falcone alla Procura di Palermo.
Giovanni si muoveva in mezzo a molte
incomprensioni, rivalità e contrasti nella
Procura della Repubblica di Palermo. Ho sempre avuto ritegno a parlarne per non alimentare
polemiche inutili. Ma ora che vedo l’argomento
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trattato da diversi giornali ritengo inutile ogni
mio ulteriore riserbo.
C’erano contrasti fra lui e il procuratore Pietro
Giammanco?
Si sentiva come un leone in gabbia. Gli mancava la libertà di movimento di cui aveva goduto
nell’Ufficio istruzione, gli mancava l’affiatamento con i colleghi. E questo spiega il suo trasferimento a Roma.
Ma quel trasferimento al Ministero disorientò molti
anche fra i suoi amici più cari.
Anch’io gli espressi i miei dubbi e le mie riserve. Mi rispose che il suo proposito era quello di
proseguire da Roma la lotta contro la mafia. Non
si può dimenticare che arrivò a Roma dopo una
serie di cocenti sconfitte. Sono convinto che
Giovanni cominciò a morire il 18 gennaio ’88,
quando il Csm gli preferì Meli alla guida
dell’Ufficio istruzione di Palermo. E non si può
negare che c’è stata una campagna, cui hanno
partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato.
È vero, dunque, che Falcone era sempre più solo?
Sì, e non c’è nulla di più pericoloso per un
magistrato che lotta contro la mafia che l’essere
isolato. Perciò non posso fare a meno di collegare gli omicidi Dalla Chiesa e Falcone: perché in
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tutti e due i casi sono stati colpiti due uomini nel
momento del loro massimo isolamento, e per lo
straziante particolare della presenza delle mogli.
Due delitti molti simili avvenuti a dieci anni di
distanza: dieci anni durante i quali la mafia si è
rafforzata, e non già – come qualcuno ha detto –
«è stata messa con le spalle al muro». Ed è molto
grave che ancora oggi continui a imperversare la
giurisprudenza di Carnevale.
Dottor Caponnetto, Falcone credeva nello Stato, ma
era anche l’uomo che forse più di tutti conosceva il
livello di inquinamento mafioso dello Stato. Era con
lei quando Tommaso Buscetta si rifiutò di fare i nomi
dei politici, non è vero?
Eravamo insieme. Chiesi a Buscetta di fare i
nomi dei politici con cui aveva avuto contatti.
S’irrigidì. Disse: «Non ho fiducia in questo Stato
che sento nemico. Temo che non sia in grado di
sopportare le reazioni che le mie rivelazioni scatenerebbero». Gli dissi: «In fondo lei in America
è sicuro, è protetto». Rispose: «Giudice, se io parlassi non sarei sicuro neanche in America».
Quella frase mi agghiacciò.
Che cosa significava secondo lei?
Evidentemente la presenza in certi settori
delle istituzioni di elementi inquinati, come
dimostrato dall’esperienza acquisita sulle
deviazioni dei servizi segreti. Ed esiste certamente una massa di voti – due o tre milioni nel
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Sud Italia – che la mafia vende in cambio di
favori.
Ma quella frase significa molto di più.
Può darsi. Solo che noi ci siamo fermati dove
Buscetta ci ha fatto fermare.
Il monito di Buscetta
E soltanto dopo la strage di Capaci Tommaso
Buscetta, che a Giovanni Falcone aveva detto:
«Dottore se io faccio i nomi dei politici, io sarò
preso per pazzo e lei sarà ucciso», decise di parlare dei politici, fece il nome dell’ex presidente
del Consiglio e senatore a vita Giulio Andreotti,
parlò dei legami tra mafia e politica, delle sentenze aggiustate. Andreotti fu processato e assolto ma ritenuto responsabile di avere avuto rapporti con Cosa nostra fino alla primavera del
1980, reato gravissimo che però era già prescritto
(escludendo il successivo incontro con il boss
Andrea Manciaracina, uomo di fiducia di Riina,
risalente al 19 agosto 1985).
E dopo la morte di Falcone, Paolo Borsellino,
che era poi stato nominato procuratore aggiunto
di Palermo, fece quella clamorosa denuncia alla
Biblioteca comunale di Palermo.
Borsellino sapeva e registrava sull’Agenda Rossa
Ma nessuno ascoltò Paolo Borsellino. La Procura
di Caltanissetta diretta allora dal procuratore
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Gianni Tinebra, non lo interrogò, nonostante le
pubbliche dichiarazioni di Borsellino che, come
aveva anticipato nell’intervento alla biblioteca
comunale di Palermo, cose da dire ne aveva tante
e non le poteva dire in pubblico perché era anche
un magistrato e, soprattutto, come lui stesso
disse, «un testimone». Un «testimone» particolare, che conosceva i segreti di Giovanni Falcone,
che era pronto a riferirli alla Procura di
Caltanissetta che indagava sulla strage di Capaci.
Eppure, per oltre due mesi, Borsellino non fu mai
convocato. Perché? Non c’è una risposta convincente. Si disse che non ce ne fu il tempo perché
Paolo Borsellino fu ucciso prima ancora di essere
sentito come testimone. Forse non doveva essere
sentito? Forse le sue rivelazioni avrebbero potuto
aprire uno squarcio sulla partecipazione di entità
esterne a Cosa nostra nella strage Falcone? Forse
avrebbe rivelato quel che aveva annotato nella
sua Agenda Rossa che portava sempre con sé e
che scomparve misteriosamente il 19 luglio del
1992, alcuni minuti dopo che il giudice era stato
dilaniato insieme agli uomini della sua scorta.
Morirono tutti alle 16.58 del 19 luglio 1992 in via
Mariano D’Amelio. In quel preciso istante, mentre Borsellino era appena uscito dall’auto blindata avvicinandosi al portone di casa della madre,
qualcuno azionò a distanza un telecomando che
innescò la miscela esplosiva, una carica di circa
cento chilogrammi di tritolo con presenza di T4 e
pentrite che era stato collocato all’interno di una
Fiat 126 posteggiata la sera prima davanti il por43
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tone d’ingresso di via D’Amelio, dove abitava la
madre del giudice Borsellino.
Quel giorno gli autori di questo libro si trovano in automobile, stanno rientrando dal mare.
Un collega che si occupa di sport, Massimo
Norrito, ci telefona dicendoci di avere sentito
una forte esplosione vicino casa sua. Casa sua si
trovava, in linea d’aria, a circa cinque chilometri
di distanza. Cominciamo a telefonare. A bordo
dell’automobile, mentre facciamo ritorno a
Palermo a velocità pazzesca, c’è anche un giovane magistrato che faceva il pm a Sciacca, Morena
Plazzi. Le prime notizie che riusciamo ad
apprendere sono quelle di un attentato al giudice Giuseppe Ayala che abitava in residence a
duecento metri da via D’Amelio. Poi la notizia
“giusta” arriva a Morena Plazzi da un collega
che le dice: «Hanno ammazzato Paolo, Paolo
Borsellino e con lui sono morti anche gli agenti
della sua scorta». Morena scoppia in lacrime, a
fatica ci rivela quella “notizia”. Chiamiamo il
giornale, raccontiamo che c’era stata una strage e
che in quella strage erano morti Paolo Borsellino
e gli agenti della sua scorta, Claudio Traina,
Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li
Muli ed Eddie Walter Cosina.
Quando arriviamo in via D’Amelio il fumo
dell’esplosione è ancora intenso, i vigili del fuoco
tentano di spegnere gli incendi, soprattutto quello sulla Fiat 126 utilizzata come autobomba. Una
scena apocalittica. Quella strada è invasa da centinaia di uomini, poliziotti, carabinieri, vigili
urbani, fotografi, giornalisti. Poi alziamo lo
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sguardo e sulla facciata del palazzo dove abitava
la madre di Paolo Borsellino, brandelli di carne.
Carne umana, quelli di Paolo Borsellino e degli
agenti della sua scorta.
L’Agenda Rossa scompare
Ed è in quel preciso momento che un giovane
capitano dei carabinieri, Giovanni Arcangioli,
viene fotografato mentre tiene in mano la borsa
di pelle del giudice Paolo Borsellino che era
stata appena estratta dalla blindata del magistrato. Dentro di solito c’era l’Agenda Rossa. E
quell’agenda non è stata mai più ritrovata. Quel
fotogramma che immortala il capitano dei carabinieri con la ventiquattrore di Borsellino sotto
braccio viene riesumato soltanto alcuni anni
dopo la strage. Un anonimo avverte gli investigatori che c’è una testimonianza fotografica che
registra quel momento. Il fotografo è Franco
Lannino, la Dia trova quel fotogramma, si avvia
un’indagine, Arcangioli viene indagato ma l’inchiesta è archiviata, sparisce anche lei. Così
commentò
quell’archiviazione
Salvatore
Borsellino, fratello di Paolo.
Già quando il primo aprile 2008 il gup Paolo Scotto
di Luzio aveva prosciolto il colonnello dei carabinieri dei Ros Giovanni Arcangioli dall’accusa del
furto dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino avevo
manifestato il mio sconcerto per il fatto che il processo si fosse chiuso in fase di udienza preliminare
impedendo così a un procedimento di tale importanza di arrivare alla fase dibattimentale nel corso
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della quale, con un’analisi approfondita delle
prove (addirittura fotografiche) e delle testimonianze (incerte e contraddittorie) avrebbe potuto
essere accertata l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato.
Avevo poi sperato, grazie al motivato e circostanziato ricorso presentato dalla Procura di
Caltanissetta contro questa sentenza di proscioglimento che la Corte di cassazione l’annullasse
affermando che «il procedimento in oggetto è un
classico caso in cui è necessario un vaglio dibattimentale» per «colmare i vuoti» e le contraddittorie testimonianze attraverso un «approfondimento dibattimentale».
Era poi arrivato il 17 febbraio 2009 il macigno della
dichiarazione di inammissibilità del ricorso da
parte della Corte di Cassazione, evento con il
quale, come dichiarai all’epoca, era stata posta una
pietra tombale sulla ricerca della verità in questa
vicenda, la sparizione dell’Agenda Rossa del
Giudice che è a mio avviso uno dei motivi fondamentali dell’assassino del Giudice e delle modalità
con cui è stata effettuata la strage: uccidere Paolo
senza fare sparire anche la sua Agenda non sarebbe servito a nulla perché in quell’Agenda sono
sicuramente contenute le prove di crimini e di
complicità che possono inchiodare alle loro terribili responsabilità un’intera classe politica.
Le motivazioni della sentenza emessa dalla tristemente nota sesta sezione penale della Corte di cassazione, oggi riprese da Apcom, vanno addirittura
al di là di questo già di per sé osceno quadro di evidenze negate, di verità nascoste e di crimini occultati. Si arriva addirittura a negare che la borsa del
Giudice contenesse l’Agenda Rossa asserendo che
«gli unici accertamenti compiuti in epoca prossima
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ai fatti portavano addirittura a escludere che la
borsa presa in consegna dal capitano Giovanni
Arcangioli contenesse un’agenda». Si prendono
cioè per buone le dichiarazioni contraddittorie
date in tempi diversi dall’imputato chiamando in
causa testimoni che lo hanno smentito, come l’ex
magistrato (al momento del fatto) Giuseppe Ayala
o addirittura non presenti sul luogo della strage,
come Vittorio Teresi, e non si dà alcun valore alla
testimonianza della moglie del Giudice, Agnese
Borsellino, che vide Paolo riporre l’Agenda nella
borsa, dopo averla consultata nel pomeriggio di
quel 19 luglio, prima di andare all’appuntamento
con la sua morte annunciata.
A questo punto non resta che trarre le inevitabili
conseguenze da questa sentenza della Corte di cassazione, incriminare la moglie del Giudice per falsa
testimonianza e processare tutti i familiari del
Giudice, figli, moglie, fratelli e sorelle per la sottrazione e l’occultamento dell’Agenda. Dato che
Paolo non se ne separava mai, solo i suoi familiari
possono averla sottratta e occultata. Contro la
madre del Giudice non si potrà procedere per
sopravvenuta morte dell’imputato.
E tutti i misteri sull’Agenda Rossa di Borsellino e
il depistaggio dell’inchiesta scoperto soltanto nel
2010, quando il pentito Gaspare Spatuzza svela
che fu lui, e non Scarantino, a rubare la 126 che
fu imbottita di tritolo per uccidere il magistrato,
cominciano proprio in via D’Amelio quel 19
luglio del ’92.
Alcune ore dopo l’attentato gli investigatori
della squadra mobile guidata allora da Arnaldo
La Barbera (diventato poi questore e prefetto e
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morto alcuni anni fa) scoprono che l’autobomba
era intestata a Maria D’Aguanno, rubata e
denunciata il 10 luglio 1992 presso i carabinieri
della stazione di Palermo-Oreto da Pietrina
Valenti.
Sul luogo dell’esplosione viene trovata anche
la targa di un’altra Fiat 126 intestata a Anna
Maria Sferrazza, il cui furto è denunciato la mattina del 20 luglio 1992 da Giuseppe Orofino, titolare di una carrozzeria, dove l’auto di Anna
Maria Sferrazza è stata lasciata per riparazioni.
Ma l’automobile non era stata rubata, erano stati
rubati i documenti e la targa.
A fare quella segnalazione alla squadra mobile
è il Sisde, il servizio segreto civile, che gira l’informazione alla squadra mobile. Ma, si è scoperto soltanto nel 2010, già a quell’epoca anche
Arnaldo La Barbera, con il nome in codice
“Catullo”, faceva parte dei servizi segreti.
Misteri su misteri. Gli investigatori intercettano
l’utenza telefonica di Simone Furnari, marito di
Pietrina Valenti, proprietaria della 126. Da quelle
intercettazioni si scopre un caso di violenza carnale commesso su Cinzia Angiuli da parte di
Luciano Valenti, fratello di Pietrina Valenti, da
parte di Roberto Valenti e di Salvatore Candura.
E qui comincia l’altro depistaggio. Salvatore
Candura viene sospettato di avere preso parte al
furto della 126 e quando viene interrogato “confessa” di avere rubato l’utilitaria per conto di
Vincenzo Scarantino, personaggio equivoco, piccolo spacciatore di droga e cognato però di un
mafioso, Salvatore Profeta, che fu imputato
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anche nel primo maxiprocesso a Cosa nostra.
Il 26 settembre 1992 Vincenzo Scarantino viene
arrestato per strage e furto aggravato. Scarantino
nega, anche i suoi familiari organizzano manifestazioni a favore del picciotto sostenendo che,
con quella strage, Enzuccio non aveva nulla a
che fare e che la polizia aveva preso un abbaglio.
Scarantino viene rinchiuso in carcere e alcuni
mesi dopo un certo Francesco Andriotta, anche
lui un piccolo delinquente, si “pente” e racconta
che tra il giugno e l’agosto del 1993, aveva passato un periodo di detenzione insieme a Vincenzo
Scarantino, il quale gli aveva confidato che
Giuseppe Orofino, uno degli imputati finito in
carcere per la strage e condannato all’ergastolo
da innocente, gli aveva ordinato di rubare la Fiat
126 utilizzata per la strage di via D’Amelio.
Sempre Andriotta racconta di avere saputo da
Scarantino che un certo Scotto, fratello di un
mafioso della borgata dell’Arenella e dipendente
di un’azienda telefonica, aveva intercettato per
conto di Cosa nostra il telefono della madre di
Paolo Borsellino.
I componenti della famiglia Fiore-Borsellino
raccontano agli investigatori di aver visto un
operaio intento ad armeggiare nella cassetta dei
fili telefonici con una Panda azzurra della Elte
ricordando che già un paio di mesi prima della
strage avevano notato anomalie nel funzionamento del telefono. Gli investigatori decidono
allora di analizzare la rete telefonica del condominio di via D’Amelio numero 19 per vedere se
è rimasta traccia di intercettazioni sulla linea
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della famiglia Fiore-Borsellino. Questa analisi
mette in evidenza che le anomalie di funzionamento possono derivare da un’intercettazione
abusiva realizzata in modo rudimentale attraverso un circuito di derivazione poi rimosso.
Forniscono poi una descrizione precisa dell’operaio e lo riconoscono sia fotograficamente che di
persona, nel corso del dibattimento, come Pietro
Scotto, che lavora in qualità di dipendente della
ditta Elte spa.
Scarantino viene rinchiuso nel carcere di
Pianosa, i suoi familiari e lui stesso raccontano
che in carcere viene torturato perché la polizia
vuole costringerlo a pentirsi. E il 24 giugno del
1994, due anni dopo la strage, Scarantino “salta il
fosso”, “decide” di collaborare e il depistaggio è
bello e concluso.
Vengono rinviati a giudizio Vincenzo
Scarantino, Giuseppe Orofino, Salvatore Profeta
e Pietro Scotto. Il primo processo per la strage di
via D’Amelio si conclude il 26 gennaio del 1996:
la Corte d’assise presieduta da Renato Di Natale
condanna all’ergastolo Salvatore Profeta,
Giuseppe Orofino e Pietro Scotto, mentre
Vincenzo Scarantino viene condannato a diciotto
anni. La condanna di Scarantino è diventata definitiva in quanto la sentenza, stranamente, non
viene appellata dall’imputato.
Il pentito ammette di aver partecipato alla strage
e poi ritratta più volte. Nel 1998 Scarantino decide di fare un altro “dietro front” e in aula dichiara di «aver accusato solo innocenti» e di essersi
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inventato le accuse «spinto da magistrati e investigatori». La Procura nissena ordina il suo arresto revocandogli il programma di protezione. I
giudici del primo processo di appello rimettono
in discussione l’impianto accusatorio, assolvendo
Pietro Scotto e Giuseppe Orofino, condannati
all’ergastolo in primo grado. Il primo era considerato il tecnico che dispose l’intercettazione
sulla linea della madre del magistrato, il secondo
era il titolare dell’autocarrozzeria nella quale la
126 venne imbottita di tritolo. Questa è la storia
del processo cosiddetto “Borsellino primo”, il
processo contro i manovali della strage.
Ma il primo febbraio del 2002, nel corso del
processo d’appello del cosiddetto “Borsellino
bis” con un altro colpo di scena Scarantino cambia di nuovo versione: «Ho ritrattato perché mi
hanno minacciato, la verità è quella che ho detto
nel processo di primo grado» confessa. La ritrattazione, secondo Scarantino, fu determinata da
una serie di segnali mandati da Cosa nostra e poi
da precise indicazioni di Antonio, nipote di
Pietro Scotto, il presunto telefonista dell’agguato, assolto nel processo di primo grado. Antonio
chiacchierava e l’altro parlava dei pentiti e diceva: «Sono morti che camminano… A un certo
punto» racconta Scarantino, «incominciai a
vedere Tonino anche davanti alla scuola dei
bambini e davanti casa, spesso mi chiedeva come
stavano, come crescevano. Così un giorno andai
a Modena da mio fratello e gli dissi che volevo
ritrattare, lui doveva diffondere la voce a
Palermo. E così fece». Tonino allora gli svelò che
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sapeva tutto: «“Ancora non l’hai capito” – mi
disse – “io lo so che tu sei Scarantino, so tutto
quello che fai. Cerca di ritrattare, devi dire che
sono stati la polizia e i magistrati che ti hanno
fatto fare quelle dichiarazioni. Tu puoi uscirne
fuori, ti facciamo dare l’infermità mentale, c’è
una nuova legge, ti fissiamo un appuntamento
con gli avvocati…”»
Scarantino però non torna indietro e conferma
nuovamente le accuse nei confronti di innocenti
che sono ancora in galera. E dunque oltre al processo sugli esecutori, dalla strage di via
D’Amelio prendono il via altri processi: il processo Borsellino bis, il processo a diciotto mafiosi,
tra cui i boss Totò Riina e Pietro Aglieri, accusati
di avere ordinato la strage del 19 luglio ’92. Per il
processo d’appello del Borsellino bis, viene riaperta l’istruttoria dibattimentale dopo l’ulteriore
ritrattazione di Vincenzo Scarantino, Giovanni
Brusca e Salvatore Cancemi. Il 18 marzo 2002 la
Corte d’assise d’appello di Caltanissetta infligge
tredici ergastoli nei confronti dei presunti mandanti ed esecutori della strage: Totò Riina,
Salvatore Biondino, Pietro Aglieri, Giuseppe
Graviano, Carlo Greco, Gaetano Scotto e
Francesco Tagliavia. L’ergastolo viene inflitto
anche a Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina,
Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe
Urso e Gaetano Murana, che erano stati invece
assolti in primo grado. Dieci anni di reclusione
per associazione mafiosa, sentenza confermata,
vengono inflitti a Giuseppe Calascibetta e
Salvatore Vitale, otto anni e sei mesi a Salvatore
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Tomaselli e otto anni ad Antonio Gambino.
Poi c’è un altro processo, il Borsellino ter, in
questo dibattimento sono imputati altri ventisei
boss, tra cui Mariano Agate e Benedetto
Santapaola, accusati di essere responsabili a
vario titolo della strage. Nove ergastoli vengono
confermati e altri due vengono inflitti dalla Corte
d’assise d’appello di Caltanissetta, nel processo
Borsellino ter. Confermate le condanne per i boss
Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michelangelo
La Barbera, Raffaele Ganci, Domenico Ganci.
Condannati al carcere a vita Francesco Madonia,
Giuseppe Montalto, Filippo Graviano, Cristoforo
Cannella, Salvatore Biondo di quarantasette anni
e Salvatore Biondo (omonimo) di quarantacinque anni.
Ma tutti questi processi non risolvono nulla. La
verità è ancora tutta da scoprire. Sulla strage di
via D’Amelio la Procura di Caltanissetta avvia
un quarto troncone d’indagine, quello sui mandanti occulti e che riguarda gli intrecci tra mafia,
imprenditoria e uomini politici e, soprattutto, la
presenza di agenti dei servizi segreti italiani e
stranieri, sempre presenti in queste stragi. Sin
dal fallito attentato dell’Addaura al giudice
Giovanni Falcone, alla strage di Capaci dove
Falcone poi morì e alla strage di via D’Amelio e
quelle nel “continente”, Roma, Milano e Firenze.
Presenze anomale che per anni hanno partecipato ai depistaggi e, come emerge proprio dalle
ultime indagini di Caltanissetta, anche alle stragi. Non solo Cosa nostra, dunque, ma anche
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“convergenze” parallele esterne di apparati
deviati che per vari motivi hanno condizionato
la democrazia italiana. Presenze che adesso sono
state denunciate anche da due personaggi che
hanno movimentato le inchieste sulla “trattativa” e sulle stragi: Massimo Ciancimino, figlio di
Don Vito, il defunto ex sindaco mafioso di
Palermo, e il pentito Gaspare Spatuzza.
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Il testamento di Ciancimino junior
di Francesco Viviano
Sia Ciancimino che Spatuzza hanno dichiarato a
verbale di avere avuto rapporti o di avere visto
appartenenti ai servizi segreti che, a vario titolo,
parteciparono alla “trattativa” e, addirittura, alla
preparazione della strage di via D’Amelio.
Ciancimino ha anche fatto il nome di questo
“agente” speciale, non si sa ancora di quale
Stato, che si faceva chiamare “signor Franco”. Il
suo nome, come viene documentato in questo
libro che pubblica un manoscritto di Vito
Ciancimino con il nome del “signor Franco”,
sarebbe Keller Gross. Compare in una lista insieme a ex alti commissari per la lotta alla mafia, ex
capi della polizia, ex dirigenti del Sisde. E, sempre questo «signor Franco», secondo quanto
dichiarato da Massimo Ciancimino, sarebbe
stato l’anello di congiunzione tra Cosa nostra e
alcune istituzioni italiane, in particolare servizi
segreti e alcuni politici che ancora oggi tacciono
o ricordano vagamente.
Il signor Franco è anche il personaggio che per
oltre vent’anni avrebbe “protetto” Vito
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In questo manoscritto inedito di Vito Ciciancimino viene rivelata
per la prima volta l’identità del signor Franco, alias Keller Gross.
Il nome di quest’uomo, probabilmente appartenente ai servizi
segreti, appare in una lista insieme a personaggi dell’ex Alto
Commissariato dell’epoca per la lotta alla mafia.
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Ciancimino e il suo amico “padrino”, Bernardo
Provenzano. E, come documenta una lettera consegnata nell’aprile del 2004 a chi scrive, poco
prima dell’arresto di Provenzano, Massimo
Ciancimino viene avvertito proprio dal “signor
Franco”. E a quel punto Massimo Ciancimino
comincia ad avere paura di essere ucciso perché
Bernardo Provenzano era l’uomo che aveva sempre protetto Don Vito Ciancimino con il quale
aveva fatto anche affari e deciso le strategie politiche non solo siciliane per oltre un ventennio. È
il 3 aprile del 2009 e Ciancimino junior consegna
la sua lettera-testamento nel caso di una sua
“prematura scomparsa” autorizzando chi scrive,
nel caso in cui questa “prematura scomparsa”
fosse avvenuta, di prelevare presso un avvocato
romano tutti i documenti di Vito Ciancimino che
erano custoditi da Massimo. Il rampollo di Don
Vito scrive:
Io sottoscritto Massimo Ciancimino, nato a
Palermo il 16-02-1963, residente in Roma, via San
Sebastianello nr. 9, con la presente autorizzo l’avvocato…, mio legale di fiducia, a consegnare il
manoscritto di mio padre e relativi allegati e titolato A Vito Ciancimino, in ipotesi di mia prematura
scomparsa e a farlo consultare in sua presenza a
farne copia di parti che riterrà più opportuno, al
sig. Francesco Viviano, nato a Palermo il 26-021949, unica persona di mia fiducia oltre al mio
legale. Certo di un corretto uso del materiale relativo alle vicissitudini di mio padre e agli anni ed episodi descritti nello stesso.
Il sottoscritto avvocato… dichiara di ben conosce-
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re il luogo dove è custodito il detto manoscritto e di
eseguire la volontà dello stesso essendo l’unico
autorizzato alla gestione dello stesso.
In fede, Massimo Ciancimino.
Il documento in cui Massimo Ciancimino, ipotizzando la sua prematura scomparsa, nomina Francesco Viviano depositario del
suo testamento.
E per ben quattro anni ho conservato in luogo
segreto questo “testamento” che mi era stato
consegnato dopo le promesse di Massimo
Ciancimino, che seguivo costantemente, di consegnarmi l’ormai noto Papello, le richieste di
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Cosa nostra allo Stato durante le fasi della “trattativa” tra le stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Per quattro anni ho tenuto segreto questo
“testamento”, avendo tuttavia informato i vertici
del mio giornale perché il mio scopo era quello
di ottenere copia del Papello e di altri documenti che Vito Ciancimino aveva consegnato al figlio
prima della sua morte. Ma le cose precipitano di
lì a qualche giorno.
Subito dopo la consegna del “testamento”
Massimo Ciancimino incontra un uomo del
“signor Franco” che lo invita ad allontanarsi da
Palermo perché sarebbe accaduto qualcosa di
molto eclatante. Massimo Ciancimino si fida ciecamente del “signor Franco”, è sempre stato lui il
“garante” della sopravvivenza del padre, custode di moltissimi segreti italiani, e dello stesso
Massimo che, in fretta e furia, lascia Palermo per
una “vacanza” non programmata, in Egitto. Va
via con la moglie Carlotta e il figlio Vito Andrea
portandosi appresso anche uno dei suoi avvocati, Roberto Mangano. Da Sharm El Sheikh
Massimo telefona due o tre volte al giorno, chiede se ci sono novità a Palermo. La “novità” c’è,
come previsto dal “signor Franco” qualche giorno dopo l’11 aprile dello stesso 2006, sette giorni
dopo che Massimo Ciancimino consegna il suo
“testamento” e tre giorni prima da quando il
“signor Franco” gli suggerisce di cambiare aria e
di allontanarsi da Palermo. Semplici coincidenze? Ed è da quel momento che Massimo
Ciancimino comincia a vuotare il sacco.
Comincia a raccontare alle Procure di Palermo e
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di Caltanissetta quel che sa, quel che ha appreso
dal padre con il quale aveva vissuto intensamente gli ultimi quindici anni perché, da quando
Vito Cinciamino finì in galera, Massimo
Ciancimino diventò di fatto il suo “assistente”. E
fu a lui che Vito Ciancimino affidò i suoi beni, i
suoi soldi, ma anche tutte le carte di molti segreti italiani.
Massimo Ciancimino probabilmente decide di
vuotare il sacco perché ormai non ha più garanzie, Bernardo Provenzano è agli arresti ed era
l’unico capomafia che poteva forse ancora proteggerlo. Così inizia la nuova epopea di
Ciancimino junior che, a spizzichi e bocconi, consegna ai magistrati che indagano sulla “trattativa” e sulle stragi di Capaci e via D’Amelio, documenti riservati del padre che aveva custodito per
anni e che aveva messo a disposizione nel caso di
sua “prematura scomparsa”. Consegna anche il
Papello, le condizioni poste da Cosa nostra che
voleva l’abolizione del 41 bis, la legge sulla confisca dei beni ai mafiosi, e tanti altri vantaggi in
cambio della “pace”, promettendo che la mafia
avrebbe abbandonato la strategia stragista.
Vere o false che siano le cose dette da Massimo
Ciancimino, e le “carte” del padre che adesso
sono quasi tutte nelle mani dei magistrati di
Palermo e Caltanissetta, l’unico fatto positivo è
che Ciancimino junior sia stato ascoltato. Così
non era avvenuto per il padre che più volte e con
lettere scritte alla Commissione parlamentare
d’inchiesta – come dimostra il documento pubblicato in questo libro – aveva chiesto di essere
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sentito. Ma nessuno lo volle mai ascoltare. Come
Paolo Borsellino nessuno lo interrogò mai.
L’ultima richiesta avanzata da Vito Ciancimino
alla Commissione parlamentare antimafia porta
la data del 29 ottobre del 1992. Attenzione a questa data, 29 ottobre 1992, soltanto pochi mesi
dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Era
chiaro che Vito Ciancimino qualcosa sapeva,
qualcosa poteva dirlo considerato che era stato il
protagonista della “trattativa” tra Cosa nostra e
lo Stato proprio nel periodo a cavallo delle due
stragi.
Perché non venne sentito? Nessuno aveva la
curiosità di sapere quel che voleva dire Vito
Ciancimino? Forse si temeva quel che
Ciancimino poteva sapere e dire?
Ecco il testo dalla lettera inviata dall’ex sindaco mafioso di Palermo alla Commissione antimafia che porta il protocollo numero 0356 e la data
del 29 ottobre 1992.
On. Presidente della Commissione
Parlamentare Antimafia
Palazzo San Macuto
Roma
La Commissione Parlamentare Antimafia, prima
versione, senza mai ascoltarmi, nonostante da me
sollecitata sin dal 1970, mi ha condannato “irrevocabilmente” e le sue “sentenze” sono diventate la
“prova” delle mie presunte colpe, davanti alla pubblica opinione e alla magistratura.
Il 27 luglio 1990 mi misi a disposizione della
Commissione Antimafia su richiesta del suo
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Presidente, onorevole Chiaromonte, per essere
ascoltato. Chiesi però che l’audizione avvenisse
pubblicamente e in diretta televisiva, non per fare
spettacolo, ma perché volevo che l’opinione pubblica potesse giudicarmi direttamente e non per
interposta persona, cioè per il tramite dei giornalisti a volte imprecisi, spesso sintetici e superficiali e
quasi sempre obbedienti al sistema politico-finanziario interessato non alla verità ma alla difesa di
certe posizioni.
Non avendo ottenuto la diretta televisiva, ritenni
di dovere rinunziare all’audizione.
Continuo a ritenere che sarebbe giusto offrire alla
pubblica opinione la possibilità di un giudizio non
mediato ma oggi, dopo le clamorose iniziative giudiziarie della settimana scorsa, non ne faccio –
della diretta televisiva – una “conditio sine qua
non”. Lascio alla Commissione Antimafia la valutazione del problema. Il “delitto Lima” (l’europarlamentare ed ex segretario della Dc in Sicilia, nonché capo della corrente andreottiana nell’isola ucciso nel marzo del ’92, nda) non può essere liquidato con ipotesi semplicistiche sul suo movente.
L’omicidio dell’onorevole Lima è di quelli che
vanno oltre la persona della vittima e puntano in
alto, un avvertimento, come si suol dire. Sono stato
per molti anni, testimone e in parte protagonista di
un certo contesto politico. Sono convinto che questo delitto faccia parte di un disegno più vasto. Un
disegno che potrebbe spiegare altre cose, molte
altre cose. Ancora oggi sono, pertanto, a disposizione di codesta Commissione Antimafia se vorrà
ascoltarmi.
Vito Ciancimino
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La lettera inviata da Vito Ciancimino alla Commissione
Parlamentare Antimafia il 29 ottobre 1992 in cui l’ex sindaco di
Palermo chiede nuovamente di essere ascoltato in merito all’omicidio dell’onorevole Lima.
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Il caso Scarantino
Presidente di quella Commissione parlamentare
antimafia era l’onorevole Luciano Violante. Ma
nessuno volle ascoltarlo. Nessuno volle sapere
qual era il “disegno più vasto” che poteva «spiegare altre cose, molte altre cose». Nessuno ebbe
curiosità di quelle gravissime affermazioni e
denunce di Vito Ciancimino che, come detto, non
era un signor nessuno. Era un personaggio che
per anni aveva influenzato la vita politica siciliana e nazionale e che aveva un rapporto diretto
con Bernardo Provenzano. E che aveva fatto da
intermediario nella “trattativa” tra Stato e Cosa
nostra. Perché?
Adesso si ascolta invece Massimo Ciancimino
che però può rivelare soltanto de relato quel che
gli aveva raccontato in vita suo padre Don Vito e
che ha aperto nuovi interrogativi e nuove piste
investigative, anche sulle stragi del ’92.
Ed è in questo contesto che si inseriscono
anche le recentissime rivelazioni del pentito
Gaspare Spatuzza che aveva chiamato in causa
Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sostenendo
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di avere appreso dai fratelli boss Giuseppe e
Filippo Graviano che i due politici erano i nuovi
“referenti” di Cosa nostra. Soltanto un sentito
dire. Ma quello che non ha sentito dire, e che ha
fatto lui personalmente, è svelare il drammatico
retroscena della strage di via D’Amelio. Verità
incontrovertibili, verificate e riscontrare dai
magistrati di Caltanissetta che hanno riaperto
l’inchiesta sulla strage iscrivendo nel registro
degli indagati i poliziotti che coordinarono quell’indagine che portò all’arresto, e al successivo
pentimento, di Vincenzo Scarantino. Un bugiardo e sulle cui bugie i pm di Caltanissetta, e tra
questi Anna Maria Palma, attualmente capo di
gabinetto del presidente del Senato, Renato
Schifani, chiesero e ottennero la condanna di
molti innocenti. Adesso quel processo è tutto da
rifare e gli innocenti che già hanno scontato oltre
quindici anni di galera usciranno dal carcere perché Spatuzza ha raccontato un’altra verità. E cioè
che fu lui, e non Vincenzo Scarantino, a rubare e
preparare la Fiat 126 che fu utilizzata per la strage di via D’Amelio.
E così nel 2009, dopo anni di silenzi e depistaggi, Gaspare Spatuzza decide di parlare e di raccontare, finalmente, la verità sulla strage in cui
morì il giudice Paolo Borsellino.
E per la prima volta si scopre che nelle fasi preparatorie dell’attentato del 19 luglio del ’92 contro il giudice Borsellino era presente anche uno
“sconosciuto”, lo stesso personaggio, non mafioso e appartenente all’epoca al Sisde, riconosciuto
anche da Massimo Ciancimino.
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Lo fa la prima volta con i magistrati di Firenze
che indagano sulle stragi di Roma, Firenze e
Milano del ’93 e racconta anche come e quando
Cosa nostra si procurò l’esplosivo per utilizzarlo
nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Dice delle
verità che rimettono tutto in discussione. Rivela
che l’esplosivo per la strage di via D’Amelio fu
addirittura prelevato prima di quella di Capaci.
Racconta Spatuzza:
L’esplosivo doveva arrivare da fuori e fu ancora
prima di Capaci. Io ebbi modo di maneggiarlo perché in quel periodo io ero “attivo” nella famiglia
mafiosa di Brancaccio (quella dei fratelli Filippo e
Giuseppe Graviano, nda) e l’esplosivo lo andammo
a prelevare a Porticello (un paese marinaro a venticinque chilometri da Palermo, nda).
L’esplosivo era arrivato a bordo di un peschereccio ed era stato «nascosto» dentro robusti sacchi
di tela e plastica sospesi sott’acqua sulla paratia
dell’imbarcazione. Quel fatto Spatuzza lo ricorda benissimo perché quando prelevarono
l’esplosivo e lo caricarono su un’automobile
rischiarono di essere fermati a un posto di blocco
dei carabinieri. E a quel punto Spatuzza rivela
che quando l’esplosivo fu piazzato dentro la Fiat
126 utilizzata per la strage, in quel garage era
presente anche uno “sconosciuto”.
«Ma nell’ambito di queste strategie di Cosa
nostra, di contatti, di relazioni con ambienti fuori
di Cosa nostra, ha contezza?» chiedono i pm fiorentini a Spatuzza. E il pentito ricorda:
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C’è una questione su via D’Amelio che io c’ho una
figura di persona che io non avevo mai visto e che
non conosco. E quando io consegno la Fiat 126 a
Renzino Tinnirello in questo garage c’è questa persona che io sconosco, non avevo mai visto. Quindi
se era una persona a me vicina, sicuramente io
l’avrei riconosciuta Ma era uno che non avevo mai
visto. Quindi c’è questa figura che rimane in sospeso. Ora, siccome tutti gli attentati che noi abbiamo
fatto con il telecomando grazie a Dio sono tutti falliti, ne abbiamo discusso, ma in via D’Amelio
disgraziatamente, è riuscito tutto.
Come a dire che per gli altri attentati falliti, per
esempio quello che era stato progettato allo stadio Olimpico di Roma contro i carabinieri, quello di via D’Amelio e di Capaci riuscirono perché
erano coinvolti personaggi “esterni” e soprattutto “esperti”. E uno di questi personaggi
Spatuzza lo riconosce in una delle foto di agenti
dei servizi segreti che i pm di Caltanissetta gli
mostrano durante un interrogatorio. Questo 007,
lo stesso incontrato altre volte da Massimo
Ciancimino, adesso è iscritto nel registro degli
indagati della Procura di Caltanissetta.
Spatuzza dunque, per quanto riguarda la parte
operativa della strage, è più che convincente e,
soprattutto, porta riscontri oggettivi non smentibili e che faranno riaprire il processo sulla strage
di via D’Amelio. Non solo Spatuzza ha confermato e raccontato queste cose anche durante i
confronti avuti con i principali “pentiti” della
strage Borsellino, primo fra tutti Vincenzo
Scarantino.
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Due si sono messi a piangere e hanno chiesto
«perdono» confessando di avere rilasciato false
dichiarazioni nell’inchiesta sulla strage
Borsellino, perché «pressati» dagli investigatori.
Il terzo, il «pentito» Vincenzo Scarantino, le cui
affermazioni hanno sostanziato tre processi e
numerose condanne all’ergastolo per la strage di
via D’Amelio, ha chiesto la sospensione del confronto perché davanti alle dichiarazioni di
Gaspare Spatuzza, è entrato in tilt, non sapendo
più cosa controbattere. I drammatici confronti
tra Spatuzza, Vincenzo Scarantino e gli altri pentiti di via D’Amelio, sono stati fatti a
Caltanissetta sul finire del 2009. Spatuzza ha
smontato pezzo per pezzo il castello di accuse di
Scarantino. La Procura di Caltanissetta ritiene
credibile la versione resa da Spatuzza nei suoi
confronti, ed è ora orientata a chiedere la revisione del processo per la strage che costò la vita a
Paolo Borsellino e agli uomini della sua scorta.
«Li ho sbugiardati su via D’Amelio» racconta
Spatuzza ai pm di Firenze Crini e Nicolosi.
Questi confronti (con Scarantino, Francesco
Andriotta e Salvatore Candura, ndr) li ho chiesti io,
innanzitutto. Sono arrivato a Caltanissetta e ho
avuto questi colloqui. Che problema c’è: sono
entrato e ho fatto il primo confronto con Francesco
Trombetta, (un manovale della cosca di Brancaccio,
ndr), che come mi vede mi abbraccia e si mette a
piangere e mi chiede perdono. Non poteva fare
altro che chiedermi perdono.
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Poi seguono altri due confronti con Salvatore
Candura e Francesco Andriotta. Il primo si è
autoaccusato di avere rubato, per conto di
Scarantino, la Fiat 126 che fu imbottita di tritolo
ed esplosa in via D’Amelio nel momento in cui
il giudice Borsellino stava per entrare nel palazzo dove abitava la madre. Pure Candura, messo
alle strette, perché la 126 fu rubata da Gaspare
Spatuzza, cosa che è stata accertata dai pm di
Caltanissetta che hanno trovato riscontri «inoppugnabili», comincia a piangere e confessa di
avere detto bugie perché «pressato» dagli investigatori della polizia. Poi c’è il confronto con
Scarantino che con le sue dichiarazioni, oltre
agli esponenti della Cupola di Cosa nostra, condannati all’ergastolo come mandanti, ha anche
accusato incensurati che sono stati processati e
condannati al carcere a vita e che adesso, alla
luce delle rivelazioni di Gaspare Spatuzza,
risultano completamente estranei alla strage di
via D’Amelio. Tra questi Gaetano Morana,
Cosimo Vernengo, Francesco Urso e altri pregiudicati, Salvatore Profeta (cognato di
Scarantino), Giuseppe La Mattina e Natale
Gambino. «E dopo il confronto con Candura –
racconta sempre Spatuzza – mi trovo davanti
Vincenzo Scarantino. Diceva bugie, raccontava
falsità e quando l’ho messo davanti alle evidenze, Scarantino ha chiesto la sospensione del
confronto con me e sono felice di avere fatto
questi confronti».
Ai magistrati di Caltanissetta e di Firenze
Gaspare Spatuzza ha anche raccontato che fu pro70
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prio lui, incaricato dal suo capo, Giuseppe
Graviano (condannato all’ergastolo anche per la
strage Borsellino, non per le accuse di Scarantino
ma per quelle di altri pentiti e per i tabulati telefonici che hanno dimostrato che il giorno della strage Graviano si trovava proprio in via D’Amelio),
a procurare l’esplosivo utilizzato per imbottire la
Fiat 126 da lui stesso rubata. Esplosivo che fu procurato prima ancora della strage del giudice
Falcone avvenuta il 23 maggio del ’92.
Ma ci voleva Spatuzza per smentire le clamorose bugie di Vincenzo Scarantino e i depistaggi
di chi condusse all’epoca quelle indagini?
Assolutamente no.
Chi scrive ha assistito ad alcuni confronti
durante le fasi dei processi per la strage di via
D’Amelio tra pentiti storici di Cosa nostra e
Vincenzo Scarantino. Tutti lo trattavano a pesci
in faccia. Lo deridevano, lo sbugiardavano, lo
hanno considerato sempre una nullità, un personaggio mandato da chissà chi e perché. Non si
trattava di pentiti di basso o medio calibro, ma di
collaboratori di giustizia di grande peso che nelle
stragi avevano avuto un ruolo di primo piano.
Come Giovanni Brusca che premette il telecomando per la strage di Capaci, Salvatore
Cancemi e Mario Santo Di Matteo, padre di quel
bambino che fu sciolto nell’acido da Giovani
Brusca perché si era pentito.
Ecco il confronto tra Salvatore Cancemi e
Vicenzo Scarantino. Basta leggerlo per capire chi
sia Scarantino e chiedersi come sia stato possibile che gli abbiano creduto.
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L’anno 1995 addì 13 del mese di gennaio alle ore
10.30 davanti al pm Anna Maria Palma, Carmelo
Petralia, Antonino Di Matteo.
L’interrogatorio si svolge all’interno della caserma
dei Ros di Roma dov’è presente anche l’allora maggiore Mauro Obinu.
Cancemi si rivolge subito a Scarantino e gli dice:
«Guarda, Guardami! Ti posso dare del tu? Perché
io non ti conosco, non ti ho mai visto nella mia
vita…»
Scarantino: «Io lo conosco».
Cancemi: «Guardi dottor Petralia, io gentilmente
vorrei cominciare così, voglio invitare questo
signore che io nella mia vita non l’ho mai visto,
questa è la prima volta. Di ricordarsi bene… io
posso attendere due minuti, cinque minuti, se non
si ricorda bene, lo invito a ricordarsi bene. Ma tu
sei uomo d’onore? Sai che significa, che vuol dire
uomo d’onore? Che intendi tu? Spiega che significa uomo d’onore. Tu non lo sai cosa significa uomo
d’onore, tu sei un bugiardo.
Chi è che t’ha detto questa lezione? Chi te l’ha fatta
questa lezione? Dicci la verità, devi dire la verità,
ma chi ti conosce, ma chi sei? Ma questa lezione chi
te l’ha fatta?
Ascoltami, ascoltami, io t’invito a dire la verità
qua, in presenza di questi signori giudici, chi ti
ha fatto questa lezione? Chi ti ha detto di dire
queste cose? Chi ti ha messo queste parole in
bocca? Tu se sei veramente una persona seria…
Chi te l’ha detto? Dici la verità. Qua se tu hai
coraggio, se sei uomo d’onore, perché tu nemmeno sai che significa la parola uomo d’onore. Tu
non hai fatto parte mai di nessuna organizzazione chiamata Cosa nostra? Tu, assolutamente, ma
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tu chi sei? Chi ti ha fatto questa lezione?»
Scarantino sostiene di conoscere Cancemi e di
essere un uomo d’onore riservato e poi snocciola
un’altra serie di storie che non hanno né capo né
coda e Cancemi perde la pazienza e sbotta:
Ma a questo come gli date ascolto? Nossignori, già
sto perdendo la pazienza, ma veramente date
ascolto a questo individuo? Signori giudici, questo
(Scarantino, nda) sta offendendo l’Italia, tutta
l’Italia sta offendendo costui! Ma chi è questo?
Questo nemmeno sa che significa uomo d’onore!
L’avete sentito “uomo d’onore”? Non mi ha saputo nemmeno rispondere a questa domanda, questo
nemmeno sa il significato di uomo d’onore. Questo
non l’ho mai visto nella mia vita…
Scarantino insiste sostenendo di conoscerlo e di
averlo visto con i baffi. Cancemi lo smentisce e
gli dice che ci sono anche riprese televisive dei
carabinieri che lo sbugiardano e che i baffi se li
fece crescere quando si diede alla latitanza e si
consegnò ai carabinieri.
Cancemi si rivolge ai magistrati:
Attenzione, state attenti è falso, non credete nemmeno a una virgola di quello che vi sta dicendo,
perché non so chi è, non lo conosco, io sono convinto, io sono convintissimo… che a questo qua
(Scarantino, ndr) queste parole gliele hanno messe
in bocca, gli hanno fatto una lezione e ora la sta
ripetendo, perché io dico questo, attenzione, perché mi costa a me! Io sono sicuro che non è vero.
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Non ho mai portato baffi nella mia vita, a chi vendi
queste bugie? A chi le vendi? Queste (i magistrati,
ndr) vedi che sono persone intelligenti e ti capiscono abbastanza bene che tu sei un falso, hai capito?… Chi ti ha fatto questa lezione? Tu eri persona
riservata? A te di dovevano “riservare” a te? Ma
chi sei? Vedi a chi dovevano riservare!
Poi Scarantino parla delle riunioni a casa
Calascibetta dove c’erano Totò Riina e altri capi
mandamenti compreso Cancemi, Di Matteo
Giovanni Brusca. Ma Cancemi lo smentisce su
tutto il fronte e alla fine conclude così:
Io voglio concludere, dottor Petralia, io sono felice,
contentissimo di potere dare, come ho dato, alla
Giustizia, alla parte onesta dello Stato, quello che
ho dato. Voglio continuare sempre a darlo però
questo confronto (con Scarantino, ndr) per me è
stato offensivo, offensivo, ve lo ripeto di nuovo.
Il boss Cancemi dunque, che aveva avuto una
parte attiva nella strage di via D’Amelio, intuisce
subito che Vincenzo Scarantino «è mandato» da
qualcuno che gli ha anche fatto «la lezione» da
ripetere ai magistrati. Lo dice più volte e avverte
anche i giudici che lo interrogano: «State attenti
questo è falso, qualcuno gli ha messo quelle storie in bocca».
Che qualcuno possa avere imbeccato Vincenzo
Scarantino e l’abbia convinto a raccontare storie
inventate di sana pianta per depistare ormai è
stato accertato. E si sta tentando anche di decifrare un documento che vi proponiamo in queste
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pagine. Si tratta di appunti scritti a mano allegati, e venuti fuori per caso, in uno degli interrogatori di Scarantino. Appunti che lasciano molto
perplessi perché è come se si trattasse di suggerimenti e correzioni da apportare alle dichiarazioni già rese da Scarantino, anche sui motivi che
avevano provocato il suo pentimento.
«Quali motivazioni dare alla decisione di collaborare?» sta scritto, tra l’altro, in questi appunti scritti a mano.
Appunti allegati all’interrogatorio di Scarantino il 24 giugno
1994
4) Chiarimenti riconoscimento Ganci Raffaele
(prima riconosciuto – poi no – infine riconosciuto nuovamente)
Chiarimenti perché Graviano prima c’era e poi non c’era,
infine era presente al garage.
2) Tomasello & trasporto 126 (chi guidava!)
– Giustificare il riconoscimento di Sbeglia.
Occasione in cui ha visto Ganci Raffaele.
Nel “caricamento”. Non citati Pino La Mattina – Di Matteo &
Graviano.
Furto 126 (la macchina non era già “pronta”)
Consegna 126 (via Roma non piazza Guadagna)
Non è citata l’opposizione di Ganci alla riunione.
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7) Nominati quali componenti alla riunione Di Matteo, Cancemi,
La Barbera, Ganci, zu Di Maggio.
Confusione riconoscimento foto.
15) Data riunione.
Giovanni Brusca alla riunione.
– Al garage c’era Di Matteo.
Riguardo dichiarazioni di Prestero Carmela come giustificare la sua asserita “buona condotta” verso Scarantino che lo
inquietava continuamente.
In merito all’accusa di essere gay può citare l’episodio dell’avvocato Petronio.
Può citare il particolare del “falso pentito”.
Alla fine della testimonianza al processo può rivolgere alcune osservazioni all’avv. Petronio?
Motivazioni del pentimento (cosa deve dire?).
Posso citare altri episodi al dibattimento? (non inerenti alla
strage ma concernenti episodi di cui è a conoscenza).
Immoralità – tradimenti coniugali.
– Come giustificare le dichiarazioni contrastanti riguardanti i quotidiani (in alcuni verbali dichiara che li leggeva, in
altri dichiara il contrario).
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In queste pagine le annotazioni in allegato agli atti sulle stragi in
cui sono elencati i punti da dettare a Scarantino per la verità che
il “falso” pentito doveva raccontare su via D’Amelio.
Eppure non succede nulla. Scarantino, un signor
nessuno, smentito da un mafioso, anzi da un
capo mafia componente della Cupola, viene creduto. La sua “verità” è quella che più convince e
che spedisce in carcere gente innocente.
Anche nel confronto con Santo Di Matteo la
musica non cambia. È il 13 gennaio del 1995. I
due sono faccia a faccia in un’aula di giustizia.
Scarantino dice di conoscerlo e Di Matteo:
Questa è la prima volta che lo vedo, io non so come
risponderti perché io prima di tutto a Marino
Mannoia che tu stai citando lo conosco per via
della televisione. E quando ti vedo di nuovo è la
prima volta, per me tutto quello che stai a dire qua,
per me è tutto falso. Io non sono stato in nessuna
riunione con Giovanni Brusca né con Pietro
Aglieri, né con Totò Riina, questa è la verità è inutile che dico. Io non so da dove hai preso tutte que79
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ste cose perché secondo me tu non sai quello che
dici. Io non so come tu stai collaborando, stai
dicendo un sacco di cazzate che neanche te lo
immagini. Io non ho niente da dire perché questo
qua (Scarantino, ndr) sta dicendo talmente delle
cazzate che… Io non so come fai a dire che hai partecipato alla strage Borsellino…
Ma oltre a Santo Di Matteo ancora un altro pentito di rango, Giovanni Brusca, messo davanti a
quello “sconosciuto” di Vincenzo Scarantino,
rivolgendosi ai magistrati dice: «Ma chi è questo?» E lo deride anche quando Scarantino
sostiene di essere un uomo d’onore “riservato”.
«Riservato di che?» Brusca, come Cancemi,
avverte i magistrati: guardate che questo è un
bugiardo, non sa nulla e inventa tutto.
E Brusca svela anche che Paolo Borsellino fu
ucciso perché aveva saputo della “trattativa” tra
Stato e mafia e si era opposto a questo disegno.
Il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo
Borsellino, venne ammazzato perché voleva fermare la trattativa tra pezzi dello Stato e i corleonesi avviata dopo la strage di Capaci. Cosa
nostra fu informata da una «talpa» e «accelerò»
la morte del magistrato. Per questo, a soli cinquantasette giorni dalla strage di Capaci, la
mafia fu “costretta” a un altro attentato libanese.
È una dichiarazione che segna la clamorosa
svolta nelle indagini sui mandanti occulti delle
stragi che arriva nove anni dopo, dalle ultime
rivelazioni del “pentito” Giovanni Brusca
supersecretate dai magistrati delle Procure di
Palermo e Firenze. «Il giudice Paolo Borsellino
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era contrario alla trattativa che Riina aveva
intrapreso con lo Stato e rappresentava quindi
un ostacolo, per questo è stato assassinato».
Brusca, che poi ripete in un’udienza questa
vicenda, non fa il nome del presunto interlocutore politico di Totò Riina nella trattativa. «Non
lo so con certezza», poi però quel nome lo fa, è
quello di Nicola Mancino, allora ministro degli
Interni, lo stesso nome che Gaspare Mutolo
rivela dopo la morte del magistrato.
Resta comunque il fatto che il boss di San
Giuseppe Jato, l’uomo che premette il telecomando nella strage di Capaci e che ordinò di
sciogliere nell’acido il figlio dodicenne del pentito Santo Di Matteo, ruppe ogni indugio decidendo di vuotare completamente il sacco. Brusca ha
raccontato ai magistrati che l’uccisione di Paolo
Borsellino, che era in progetto da anni «subì
un’improvvisa accelerazione» subito dopo la
strage di Capaci. «Dopo Falcone, Riina – ha raccontato Brusca – aveva programmato di uccidere
l’ex ministro Dc, Calogero Mannino, dandomi
l’incarico di eseguirlo. Improvvisamente cambiò
decisione, e mi disse che c’era un lavoro più
urgente da fare, l’assassinio del giudice Paolo
Borsellino». L’«accelerazione» dell’attentato a
Paolo Borsellino è stata confermata anche da un
altro capomafia pentito, Salvatore Cancemi, che
era a conoscenza dei segreti di Totò Riina.
Brusca ha rivelato di avere appreso della “trattativa” direttamente da Totò Riina che aveva preparato un “Papello” (richieste allo Stato, nda) per
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interrompere la strategia stragista in cambio di
vantaggi per i mafiosi. E di questo si parlò durante una riunione ristretta della “Commissione”
alla quale parteciparono anche Salvatore
Cancemi e Salvatore Biondino, braccio destro di
Riina. «In quell’occasione» racconta Brusca,
«Biondino fece vedere a Totò Riina i verbali di un
interrogatorio del pentito Gaspare Mutolo che
era stato ascoltato dal giudice Paolo Borsellino
due giorni prima della strage dicendo: “Quando
Mutolo dice le cose vere nessuno gli crede”».
In quell’interrogatorio Gaspare Mutolo raccontava che prima della strage di via D’Amelio,
si era incontrato con il magistrato a Roma perché
aveva deciso di pentirsi. Raccontò Gaspare
Mutolo dopo la strage di via D’Amelio:
Io dissi al giudice Borsellino che non volevo verbalizzare niente su quello che sapevo su alcuni giudici e su alcuni funzionari dello Stato collusi, se
prima non parlavo della mafia. E mentre m’interrogava Borsellino interruppe la conversazione e mi
disse: «Sai Gaspare, debbo smettere perché mi ha
telefonato il ministro, manco una mezz’oretta e
ritorno». E quando il giudice ritornò era tutto
arrabbiato, agitato, preoccupato, fumava così
distrattamente che aveva due sigarette accese in
mano. Gli chiesi cosa avesse e il giudice Borsellino
mi rispose dicendo che invece d’incontrare il ministro si era incontrato con il dottor Parisi (il defunto
capo della Polizia) e con il dottor Contrada (l’ex
funzionario del Sisde accusato di mafia e assolto
nel processo di secondo grado, ndr) e mi disse di
mettere subito a verbale quello che gli avevo detto.
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Brusca mette in relazione quell’incontro al
Ministero con la “trattativa”. L’incontro fu
smentito dal senatore Nicola Mancino che s’era
insediato al Ministero dell’Interno proprio quel
giorno anche se, interrogato dai magistrati di
Caltanissetta, disse che forse lo aveva incontrato ma non gli aveva parlato. Ma nell’Agenda di
Paolo Borsellino, sparita subito dopo la strage
di via D’Amelio e ritrovata qualche tempo
dopo, il magistrato aveva scritto che il primo
luglio del 1992, alle ore 19.30, aveva avuto un
incontro con il ministro dell’Interno, una visita
della durata di trenta minuti.
È tutto finito
Borsellino morì diciotto giorni dopo dilaniato
dall’autobomba. E quando l’indomani il suo
“padre” spirituale, Antonino Caponnetto, finalmente raggiunse Palermo per i funerali, davanti
a quella bara, davanti alla moglie e ai figli del
magistrato ucciso, davanti a tanti colleghi e tanta
parte di Palermo, si lasciò andare a un tragico
sconforto che commosse tutti gli italiani. E attraverso i microfoni della Rai, intercettato per pochi
secondi dal giornalista Gianfranco D’Anna,
disse: «È TUTTO FINITO».
Quella frase, «è tutto finito», era diventata un
peso pronunciata in un momento di grande
dolore e scoramento. E prendendo la parola
lesse una «preghiera laica ma fervente» per
Giovanni e Paolo:
Queste sono le parole di un vecchio ex magistrato
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che è venuto nello spazio di due mesi due volte a
Palermo con il cuore a pezzi a portare l’ultimo
saluto ai suoi figli, fratelli e amici con i quali ho
diviso anni di lavoro, di sacrificio, di gioia, anche
di amarezza. Soltanto poche parole per un ricordo,
per un doveroso atto di contrizione che poi vi dirò
e per una preghiera laica ma fervente.
Il ricordo è per l’amico Paolo, per la sua generosità, per la sua umanità, per il coraggio con cui ha
affrontato la vita e con cui è andato incontro alla
morte annunciata, per la sua radicata fede cattolica, per il suo amore immenso portato alla famiglia
e agli amici tutti. Era un dono naturale che Paolo
aveva, di spargere attorno a sé amore. Mi ricordo
ancora il suo appassionato e incessante lavoro,
divenuto frenetico negli ultimi tempi, quasi che
egli sentisse incombere la fine. Ognuno di noi, e
non solo lo Stato, gli è debitore; a ognuno di noi
egli ha donato qualcosa di prezioso e di raro che
tutti conserveremo in fondo al cuore, e a me in particolare mancheranno terribilmente quelle sue telefonate che invariabilmente concludeva con le parole: «Ti voglio bene Antonio» e io replicavo: «Anche
io ti voglio bene Paolo».
C’è un altro peso che ancora mi opprime ed è il
rimorso per quell’attimo di sconforto e di debolezza da cui sono stato colto dopo avere posato l’ultimo bacio sul viso ormai gelido, ma ancora sereno,
di Paolo. Nessuno di noi, e io meno di chiunque
altro, può dire che ormai tutto è finito.
Pensavo in quel momento di desistere dalla lotta
contro la delinquenza mafiosa, mi sembrava che
con la morte dell’amico fraterno tutto fosse finito.
Ma in un momento simile, in un momento come
questo, coltivare un pensiero del genere, e me ne
sono subito convinto, equivale a tradire la memo84
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ria di Paolo come pure quella di Giovanni e di
Francesca.
In questi pochi giorni di dolore trascorsi a Palermo
che io vi confesso non vorrei lasciare più, ho sentito
in gran parte della popolazione la voglia di liberarsi
da questa barbara e sanguinosa oppressione che ne
cancella i diritti più elementari e ne vanifica la speranza di rinascita. E da qui nasce la mia preghiera
dicevo laica ma fervente e la rivolgo a te, presidente, che da tanto tempo mi onori della tua amicizia,
che è stata sempre ricambiata con ammirazione infinita. La gente di Palermo e dell’intera Sicilia, ti ama
presidente, ti rispetta, e soprattutto ha fiducia nella
tua saggezza e nella tua fermezza. Paolo è morto
servendo lo Stato in cui credeva così come prima di
lui Giovanni e Francesca. Ma ora questo stesso Stato
che essi hanno servito fino al sacrificio, deve dimostrare di essere veramente presente in tutte le sue
articolazioni, sia con la sua forza sia con i suoi servizi. È giunto il tempo, mi sembra, delle grandi decisioni e delle scelte di fondo, non è più l’ora delle collusioni, degli attendismi, dei compromessi e delle
furberie, e dovranno essere, presidente, dovranno
essere uomini credibili, onesti, dai politici ai magistrati, a gestire con le tue illuminate direttive questa
fase necessaria di rinascita morale: è questo a mio
avviso il primo e fondamentale problema preliminare a una vera e decisa lotta alla barbarie mafiosa. Io
ho apprezzato le tue parole, noi tutti le abbiamo
apprezzate, le tue parole molto ferme al Csm dove
hai parlato di una nuova rinascita che è quella che
noi tutti aspettiamo, e laddove anche con la fermezza che ti conosco hai giustamente condannato, censurato, quegli errori che hanno condotto martedì
pomeriggio a disordini che altrimenti non sarebbero
accaduti perché nessuno voleva che accadessero.
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Solo così, attraverso questa rigenerazione collettiva, questa rinascita morale, non resteranno inutili i
sacrifici di Giovanni, di Francesca, di Paolo e di
otto agenti di servizio. Anche a quegli agenti che
hanno seguito i loro protetti fino alla morte va il
nostro pensiero, la nostra riconoscenza, il nostro
tributo di ammirazione. Tra i tanti fiori che ho visto
in questi giorni lasciati da persone che spesso non
firmavano nemmeno il biglietto come è stato in
questo caso, ho visto un bellissimo lilium, splendido fiore il lilium, e sotto c’erano queste poche parole senza firma: «Un solo grande fiore per un grande uomo solo». Mi ha colpito, presidente, questa
frase che mi è rimasta nel cuore e credo che mi
rimarrà per sempre.
Ma io vorrei dire a questo grande uomo, diletto
amico, che non è solo, che accanto a lui batte il cuore
di tutta Palermo, batte il cuore dei familiari, degli
amici, di tutta la Nazione. Caro Paolo, la lotta che
hai sostenuto fino al sacrificio dovrà diventare e
diventerà la lotta di ciascuno di noi, questa è una
promessa che ti faccio solenne come un giuramento.
Antonino Caponnetto
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GASPARE MUTOLO
«BORSELLINO? IO L’AVEVO AVVISATO»*
di Francesco Viviano
L’incontro con Mutolo avviene in un luogo segreto. Lui, per Cosa nostra, resta un pentito e la legge
non scritta ma rispettata rigorosamente, prevede
sempre la pena di morte. Ancora sotto protezione
Mutolo sa però che nessuna protezione potrà fornirgli garanzie se i killer di Cosa nostra decidessero di eliminarlo. Insieme a Tommaso Buscetta,
Giuseppe Calderone, Francesco Marino Mannoia
e Totuccio Contorno, Gaspare Mutolo ha contribuito a smantellare dalle fondamenta Cosa nostra.
L’organizzazione grazie proprio alle dichiarazioni
di questi pentiti è allo sbando. Restano ancora
degli adepti, ma non hanno la potenza di una
volta. C’è ancora in giro qualche capo mafia vero,
ma i mammasantissima, Totò Riina, Bernardo
Provenzano, Pippo Calò, Pietro Aglieri, Mariano
Agate, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, sono
ormai in galera da molti anni e difficilmente
potranno ritornare in libertà. C’è ancora in giro
qualche capo mafia, come Matteo Messina
* Per una scelta editoriale l’intervista riporta fedelmente le parole e le espressioni di Gaspare Mutolo.
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Denaro, ma è troppo solo per rimettere in piedi
una organizzazione come Cosa nostra che era la
società criminale più forte al mondo.
Di Gaspare Mutolo ne avevo sempre sentito
parlare. Per i cosiddetti “casi della vita” anch’io,
come Gaspare Mutolo vivevo nel quartiere dove
dominava la sua “famiglia” mafiosa, quella compresa tra Pallavicino e Partanna Mondello. Lo
conoscevo di fama, lui non faceva parte del
“giro” di ragazzi che frequentavo io ma che poi
erano diventati mafiosi anche loro, come i fratelli Totino e Michele Micalizzi, come Totò Davi e
qualche altro con i quali avevo uno strettissimo
rapporto. Giocavamo assieme all’oratorio del
Villaggio Ruffini, andavamo a ballare assieme,
facevamo tante cose assieme. Ma il destino, per
me fortunato, per loro molto meno, ha voluto che
a un certo punto della nostra vita, le strade si
separassero. Io adesso, purtroppo scrivo di loro,
ma molti di loro non ci sono più, sono stati
ammazzati o finiti in galera a vita. Erano mafiosi
e accusati di essere dei killer a disposizione del
grande capo Rosario Riccobono. Anche Gaspare
Mutolo faceva parte di quel gruppo di fuoco.
Ed è quantomeno singolare che proprio quando Gaspare Mutolo decide di parlare, chiedendo
di incontrare il giudice Giovanni Falcone e poi
Paolo Borsellino, che i due magistrati vengono
assassinati. Mutolo era stato il primo pentito che
stava svelando gli intrecci tra mafia e politica, tra
mafia e apparati deviati dei servizi segreti.
Falcone non poteva più interrogarlo perché non
era più un pubblico ministero, poiché in quel
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momento era diventato direttore degli affari
penali al ministero di Grazia e giustizia e indicò
a Mutolo di parlare con Paolo Borsellino. E dopo
questi incontri, entrambi furono trucidati.
FRANCESCO VIVIANO: Signor Gaspare Mutolo, lei è
stato un mafioso, un uomo d’onore. È stato anche un
assassino, è stato un killer, ha compiuto molti omicidi, tanti omicidi. Ha conosciuto Riina, ha conosciuto
Provenzano, ha conosciuto il suo capo, Saro
Riccobono, ha conosciuto tanti mafiosi, con alcuni dei
quali ha ucciso anche altre persone. Poi quando la sua
vita è cambiata ha conosciuto altre persone “diverse”,
una di queste era Giovanni Falcone. L’altra, quando
lui è morto, Paolo Borsellino. Entrambi assassinati in
due agguati, due stragi, in cui sono morti anche poliziotti, gli autisti, la moglie del giudice Falcone, che era
pure lei un magistrato, sulle quali c’è sempre stata
l’ombra di qualcosa anche estranea a Cosa nostra.
Non sarebbe stata soltanto Cosa nostra a compiere
queste due stragi. Lo stesso Totò Riina recentemente
ha detto pubblicamente: «Perché non cercano dentro
casa loro?» intendendo dire: «Li hanno ammazzati
anche loro». “Anche loro” vuol dire elementi estranei
a Cosa nostra, quindi personaggi, entità, chiamiamole così, diverse dalla mafia che potrebbero essere
appartenenti a, chiamiamole per facilità, per comodità, servizi deviati, che hanno avuto un interesse a eliminare questi due personaggi che tanto male alla
mafia avevano fatto. Ecco, quando Riina dice: «Li
hanno ammazzati loro», quando Riina pubblicamente
dice in aula a Firenze ai magistrati che lo interrogano
sulle stragi del ’93 in via dei Georgofili: «Perché non
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interrogate il senatore Mancino, perché non interrogate il figlio di Vito Ciancimino, Massimo
Ciancimino?» Tutto ciò cosa le fa pensare, che vuol
dire, c’è qualcosa di strano in queste due stragi?
GASPARE MUTOLO:
Guardi, io faccio una piccola
premessa, cioè io quando ci sono state le stragi
ero in galera, quindi non partecipo fortunatamente – diciamo – a queste stragi mafiose che
non erano opera soltanto della mafia. Dico non
soltanto della mafia, perché io ho avuto la fortuna e la sfortuna, chiamiamola fortuna, perché se
non entravo in Cosa nostra sicuramente sarei
stato eliminato come tanti altri giovani, malavitosi palermitani, insomma che non erano mafiosi venivano eliminati. Però io ho avuto quella
fortuna, diciamo, che sono entrato in Cosa nostra
quando si stava ricomponendo l’organizzazione
mafiosa reduce da un attacco allo Stato con le
Giuliette al tritolo che furono fatte esplodere nel
1963 a Ciaculli dove morirono molti carabinieri.
Lo Stato allora reagì ma fece la sciocchezza di
mandare questi mafiosi fuori dalla Sicilia ed è
stato peggio.
Anche i processi furono fatti “fuori” come quello ai
centoquattordici mafiosi che fu celebrato a Catanzaro.
No, no ma io non parlo soltanto del processo
114, io parlo anche… di altri processi, per esempio il processo ai corleonesi quando ci fu la guerra tra i vecchio capo mafia Michele Navarra e gli
altri corleonesi che facevano allora capo a
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Luciano Liggio. Purtroppo i giudici non conoscevano la realtà mafiosa perché intorno agli anni
Ottanta ancora c’era anche qualche magistrato
che metteva in dubbio se la mafia esistesse o
meno. Quindi io ho avuto questa “fortuna” dopo
il 1973, ho conosciuto, diciamo, personaggi, i più
importanti mafiosi palermitani e siciliani e qualcuno anche al di fuori della Sicilia, personaggi
che facevano parte di questa organizzazione.
Cioè questa organizzazione non era soltanto
malavitosa ma c’erano dei personaggi che erano
al di fuori del contesto mafioso. Per esempio
c’erano contatti con delle persone della P2, c’erano contatti con dei politici ma questi, i politici o
gli appartenenti alla P2 non erano “operativi”,
non uccidevano le persone, ma erano dei cuscinetti che ai mafiosi interessavano molto. Infatti ci
fu un periodo in cui nel Palermitano c’erano
associazioni criminali perché c’era un patto,
diciamo, tra Cosa nostra e questi personaggi
importantissimi…
Un patto tra la politica, la P2…
Sì, e i mafiosi... E infatti, siamo intorno al ’74’75, diciamo questo patto dura fino a poco prima
che i corleonesi invadessero Palermo e la Sicilia,
fino a quando non arriva il giudice Chinnici…
Rocco Chinnici, il magistrato capo dell’ufficio
istruzione che fu ucciso nel 1982 con un’autobomba
piazzata sotto la sua abitazione.
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Sì, proprio lui, Rocco Chinnici che come altri
personaggi della polizia e dei carabinieri che non
potevano sopportare questa invadenza, perché
allora i mafiosi, diciamo, avevamo una sorta di
lasciapassare. Insomma…
Eravate i padroni della città...
Eravamo i padroni, diciamo, ma i padroni nel
vero senso della parola, cioè c’era il rispetto della
polizia, dei carabinieri, insomma… le cose cambiano, le cose cambiano perché effettivamente il
dottor Chinnici aveva capito che c’era questa
connivenza e che non potevano fare così e
comincia con un gruppetto di poliziotti e carabinieri a indagare su Cosa nostra e spuntano i
primi rapporti di polizia sulla mafia. Cosa nostra
lo viene a sapere perché aveva “contatti” dappertutto.
Cioè delle “talpe” a servizio della mafia?
Sì c’erano delle talpe, allora era normale
c’era anche chi “tifava” per la mafia perché la
mafia era anche un supporto che teneva a
bada, diciamo, anche la città, diciamo, dei
delinquenti, dei terroristi, insomma di tutte
queste persone che potevano darle fastidio.
Quindi si comincia a sapere anche perché,
diciamo, Salvatore Riina, sia per fattori che
c’erano dei politici che ci interessava, ci interessavano l’edilizia, le costruzioni, perché io,
per come ho parlato vent’anni fa conoscevo un
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certo Graziano che costruiva… è quello che ha
costruito l’albergo Politeama, ha fatto a
Mondello, diciamo, tutto quel villaggio dove
non si poteva costruire. Io ero in buoni rapporti con lui tanto che dopo che l’hanno arrestato,
perché io ho dichiarato che m’aveva dato un
appartamento e quindi lo hanno accusato…
quindi c’erano questi contatti e questo
Graziano lavorava per il segretario provinciale
della Dc Michele Reina che è stato poi ucciso.
Michele Reina...
Sì, Michele Reina. Quindi, allora questi impicci, questi interessi, che vengono fuori ora in
modo molto più specifico delle dichiarazioni che
fa Massimo Ciancimino, diciamo che c’erano
personaggi politici che erano negli appalti, nei
grossi appalti, nei grossi affari...
Sì, politici e mafiosi...
Quindi che cosa succede? Comincia, diciamo,
l’invasione da parte dei corleonesi di Salvatore
Riina che non rispetta più alcune regole e quindi
comincia, di nuovo, loro, a uccidere personaggi,
diciamo, magistrati, politici… anche se i contatti
con i politici c’erano sempre perché ogni personaggio mafioso aveva il suo politico di riferimento.
Anche nella magistratura…
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Sì, anche nella magistratura ma anche nella
nobiltà palermitana perché la mafia non è soltanto, diciamo, “manovalanza”, per esempio c’era il
“Principe” di San Vincenzo che era…
Vanni Calvello…
...Vanni Calvello che io ho conosciuto e che
come altre persone importanti erano accanto alla
mafia, ma non tanto magari perché erano, volevano bene alla mafia, perché la storia, la cultura
com’era…
… ci dovevano convivere…
… ci dovevano convivere. Quindi io mi ricordo perfettamente che nel 1980, quando ci sono i
terroristi in Italia, e a Palermo ce n’erano pochissimi, diciamo, in qualche processo importantissimo gli avvocati che hanno un ruolo molto importante anche nel volere, diciamo, liberare, cioè, la
città di Palermo dalla mafia mentre ce n’erano
altri che erano molto vicini a Cosa nostra. Allora
che succedeva? Che molti di questi personaggi…
chi conosceva all’ispettore, chi il colonnello, chi il
politico, quindi questa convivenza c’è stata sempre e ci sarà fino a quando il governo non dirà
basta perché tutto sta al governo, perché fin
quando il governo capirà che sia per le votazioni
(elezioni, nda), sia per qualche altra cosa, diciamo, ci fa comodo mantenere questi ruoli politici
nel governo, la mafia, la camorra, la ’ndrangheta
sicuramente non finirà mai. E quindi ritornando
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a Palermo all’inizio degli anni Ottanta, c’è questo
magistrato, Rocco Chinnici, che vuole cambiare
le cose perché ormai la cosa è veramente vergognosa ma uccidono anche lui. Ma con Chinnici,
nell’ufficio istruzione di Palermo c’era anche
Giovanni Falcone e tutti quei rapporti di polizia
e carabinieri su Cosa nostra, li riuniscono tutti e
diventa il grande rapporto che porta al primo
maxiprocesso alla mafia. Però io mi ricordo che
già si vociferava che c’erano mafiosi, ancora
prima addirittura di Buscetta, c’era qualche personaggio mafioso parente di Michele Greco che
passava qualche notizia ai carabinieri e alla polizia. Ma le talpe ci avvertivano sempre perché
l’ingranaggio era talmente oliato che questo connubio tra i mafiosi e i personaggi dello Stato,
c’era sempre. C’erano dei personaggi apparentemente puliti perché se lei pensa per esempio gli
esattori Ignazio e Nino Salvo che erano i personaggi economicamente più ricchi della Sicilia. Se
personaggi politici come Lima, Matta, Di Fresco
– qualche persona è ancora viva – che avevano
questi stretti contatti con i mafiosi, quindi qualsiasi cosa esce sempre ma non è magari perché si
rendevano conto, ma perché il mafioso pulito,
diciamo, si informava con questi personaggi e
quella persona che non aveva sicuramente nessun problema nel senso che non era mafioso,
magistrati e i politici tutti personaggi di fiducia,
che parlavano con i mafiosi. Io mi ricordo piccolino, per esempio, sono cresciuto a Villa
Caravella, diciamo là c’erano tutti mafiosi, erano
tutti personaggi, diciamo, notabili. Che succede?
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Che dopo, nel 1983-1984, questo giudice Falcone
i mafiosi lo individuano come il personaggio più
pericoloso perché si era fatto una cultura su Cosa
nostra e metteva paura, perché quando ce ne
siamo accorti, allora anche io purtroppo ero
mafioso, noi che vedevamo che il dottor Falcone
ogni persona che arrestava, o che fermava, lui
subito individuava in quale famiglia era, e allora
non è che c’erano i computer...
Quindi era a conoscenza del sistema…
… io non lo so, si era fatto una cultura che,
quando ricordo c’è stato il maxiprocesso, che
vedevamo, diciamo, quasi trecento detenuti in
due sezioni, parlavamo, io per esempio conobbi
il fratello di Provenzano, conobbi Luciano
Liggio, un certo Rizzuto, Mariano Agate, cioè
personaggi…
Importantissimi…
... importantissimi della mafia. Cioè quando si
parlava di Falcone, si parlava sempre, diciamo,
come di un personaggio mistico che era però
destinato a morire.
Poteva fare male a Cosa nostra…
Faceva male, tanto faceva male che, questo mi
dispiace dirlo, anche allora c’erano diversi magistrati, diversi giudici che non lo vedevano di
buon occhio, perché magari questi avevano delle
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amicizie con i mafiosi che magari non si rendevano conto che erano mafiosi, per essere buoni.
Lei è troppo buono.
No no, io non sono buono, cerco di giustificare
un sistema in cui, diciamo, in cui io ho condiviso
e ho capito e spero, e spero con tutto il cuore che
non ci siano più questi legami perché sarebbe
veramente una cosa aberrante per quelli che crescono, però allora si veniva, così, da un mondo,
diciamo, diverso. Lo Stato era a Roma e non interessava, la Sicilia, Palermo, eravamo noi, eravamo noi (La mafia, nda) che pensavamo a fare
lavorare le persone nell’edilizia, nelle fabbriche
mentre noi facevamo i nostri affari, noi facevamo
le sigarette, facevamo il contrabbando, le rapine,
andavamo al Nord a fare i sequestri di persona.
La Sicilia era la Sicilia; Roma, anzi i romani, i
milanesi per noi erano fonte di guadagno perché
si partiva…
… e si facevano i sequestri…
… si facevano i sequestri… Quindi, diciamo,
questo connubio tra la mafia e le istituzioni c’è
stato sempre tranquillo in una maniera molto...
Io mi sono trovato, diciamo, nel 1978-1979-1980
nel carcere di Teramo e ho avuto modo di conoscere, diciamo, questo Fabbri dei servizi segreti.
L’ho conosciuto tramite un certo Gasperini che
era amico del direttore del carcere di Roma, però
a questi non ci interessavano i mafiosi, anzi i
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mafiosi eravamo persone perbene. Io pensavo
che l’amicizia con questo Fabbri fosse una cosa
tranquilla, cioè a me interessava e io l’avevo fatto
presente ai mafiosi a Palermo che avevo questo
amico nei servizi segreti…
Ricapitolando: lei aveva un uomo dei servizi segreti che si chiamava Fabbri, che lo contatta e quindi lei
comincia ad avere dei rapporti con questo uomo dei
servizi segreti. Lei però per proteggersi informa i vertici di Cosa nostra che ha rapporti con i servizi segreti. E i vertici di Cosa nostra, e in questo caso Riina,
Riccobono e altri le dicono di coltivare questa amicizia.
Di coltivarla sì, ma addirittura, che io l’ho
dichiarato e se fanno un censimento la trovano,
la mamma di Riccobono, mentre Riccobono è
latitante fa una domanda di grazia per il figlio
perché ci doveva essere un interessamento di
questo Fabbri…
… dei servizi segreti.
Sì, dei servizi segreti. Dopo la cosa non si fa
perché Saro Riccobono viene ucciso e questo
Fabbri, non lo so, forse questa mia conoscenza gli
è pesata. Fatto sta che quando il giudice Falcone
lo interroga, questo Fabbri gli dice che io possedevo un Kalashnikov, un mitra AK-47…
Un Kalashnikov…
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… un Kalashnikov, e siccome Dalla Chiesa e
altre persone erano state uccise con questo fucile, quindi sicuramente il fucile ce l’avevo io, anzi
addirittura ci dice che l’avevo io quello che...
E invece non era vero...
… invece non era vero.
C’è sempre stato un interesse da parte dei servizi
segreti di servirsi della mafia, di utilizzare la mafia e
di cercare contatti con i mafiosi…
… con i mafiosi, con i terroristi, con la malavita.
Con la malavita in genere. Lei poi, a un certo punto,
diceva di Falcone che era un uomo che dava fastidio e
che quindi già negli anni Ottanta si era deciso di
ammazzarlo. Quando lei incontra Falcone, perché lo
fa?
Allora io mi trovavo nel carcere di Spoleto,
incontro Falcone il 15 dicembre, credo del 1991,
prima che, insomma, gli succeda quella disgrazia. Però prima gli avevo mandato un avvocato
mio, in via Giulia, per dirgli che volevo parlargli.
E il 15 dicembre del 1991 me lo vedo arrivare.
Viene con il suo collega che era anche magistrato…
… al Ministero di Grazia e giustizia...
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… mi viene a trovare, vengono a Spoleto, lui
ha l’accortezza di venire quando tutti i detenuti
si erano ritirati, quindi non c’erano detenuti. Io ci
vado, mi presento con le stampelle, mezzo
ammalato, lui in maniera scherzosa mi dice:
«Ancora con le stampelle?» e io me le tolgo.
Insomma c’era dialogo, un certo feeling fra noi
perché mentre io, faccio un passo indietro, mentre io mi trovo a Trapani, durante il maxiprocesso, quindi siamo nel 1986-’87 e sono con
Mangano, con Vittorio Mangano ci fu un cognato mio, un certo Enzo, che non è mafioso questo
però, siccome avevano arrestato il figlio insieme
a me per associazione, per traffico di droga, questo si preoccupò e a un certo punto va dal giudice Falcone e si mette a dire: «Quello è mafioso,
quello è mafioso». Qualche mafioso c’era, qualche mafioso non c’era ma comunque, io quando
sento questo vado a Trapani, vado all’ufficio
matricola e vado a dire che volevo presenziare al
processo. Quindi in fretta e furia da Trapani
organizzano la scorta per portarmi a Palermo.
Lui, il giudice Falcone, diciamo, ha la delicatezza, io almeno ho capito questo, di avvisare gli
avvocati. Io ero… e la scorta mi porta nell’ufficio
di Giovanni Falcone che già mi conosceva per
altri processi per droga, che avevano sequestrato
una nave, insomma. Però sempre in una maniera gentile, insomma, anzi, molto cortese, perché
non inveiva mai contro le persone che erano
fuori dal contesto mafioso, altrimenti doveva
arrestarmi con tutta la famiglia, invece lui se la
prendeva con me perché capiva…
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… che solo lei era mafioso…
… che ero io soltanto il mafioso. Vado là, quindi lui mi dice «ma per forza a Palermo dobbiamo
andare», perché lui si preoccupava che mi potesse succedere qualche cosa, perché mio cognato,
insomma, aveva detto queste cose, allora io c’ho
detto: «No, io desidero ritornare in mezzo ai miei
compagni perché mio cognato non è mafioso per
come non lo sono io e, anzi, la prego di farmi
ritornare nella sezione in cui io ero». Perché a
Palermo c’era già una sezione, la seconda, in cui
c’erano quelli che un pochettino si preoccupavano di essere sotto corrente e se ne andavano un
po’ isolati, non era una sezione di isolamento,
però, era, diciamo, una sezione, poco guardata. E
io dissi: «Mi faccia la cortesia, mi porti nella
sezione da dove io sono partito» altrimenti i
mafiosi potevano pensare che io avessi collaborato. Abbiamo parlato, diciamo, di quello che
avevano detto mio cognato, mio fratello, e altre
persone che erano implicate, diciamo, in questo
processo e io automaticamente ho negato, ho
detto: «Non è vero niente». Ho detto: «Questi
non capiscono niente…» quindi io ho avuto
anche, diciamo, questi momenti, diciamo, anche
se siamo lui di là e io di qua che lui è una persona molto gentile, molto cortese...
E soprattutto capisce…
… e soprattutto comprende, perché prima di
andarmene mi dice: «Deve andare per forza nella
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tana del lupo?», e io gli ho detto: «Guardi, io...
che non ho fatto niente quindi...» e fu buono perché quando tornai in cella vidi Pippo Calò e altri
della Commissione di Cosa nostra e un cugino di
Salvatore Riina, vedendomi rientrare nella loro
stessa sezione del carcere, dice: «No Gaspare lo
stesso fatto che è qua è una garanzia per noi, ora
vediamo come rintracciare il cognato».
Quindi lei conosce Falcone in questa prima occasione…
Io l’avevo conosciuto che mi aveva interrogato
quando sequestrarono un carico di droga e mi
chiedevo come mai Falcone riusciva a capire che
c’ero implicato anch’io. Perché ero stato detenuto nel carcere a Teramo e a Teramo era detenuto
anche Fioravanti Palestini, quello che col martello faceva la pubblicità alla Plasmon. E Fioravanti
era sulla nave insieme ad altri sette greci che
furono tutti arrestati.
E Falcone mi dice: «Come mai un abruzzese
solo in una nave con sette greci?» Guarda, scopre
che io ero stato…
… in carcere…
È qua la chiave, lui capisce che quel carico di
droga era gestito da me attraverso Fioravanti
Palestini. Falcone mi dice che la nave era stata
sequestrata, e io gli dico: «A me che mi interessa?
Io non sono l’armatore». Conoscevo questo lato
buono del giudice Falcone. Quindi quando io lo
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vado… lui mi viene a trovare e siamo al 15 dicembre del 1991 che già ci sono i mafiosi in subbuglio
perché, diciamo, grazie alla notizia che il maxiprocesso non sarà “aggiustato” perché il giudice
Carnevale era stato tolto, perché i figli del generale Dalla Chiesa con Falcone si erano impuntati e
avevano fatto un macello a Roma.
Io mi vedo con Gambino Giacomo Giuseppe
che era il capo mandamento nella zona di San
Lorenzo Colli e mi dice: «L’ultimo tentativo noi
l’abbiamo fatto», riferendosi all’uccisione del
giudice Scopelliti che era stato nominato per presiedere il primo maxiprocesso. Quindi decido di
parlare con il giudice Giovanni Falcone. Ho pensato che avevo quattro figli, una moglie, avevo
una posizione economica, cioè io a Palermo
avevo delle società che lavoravano bene, però è
vero che ormai la storia dei mafiosi era quella o
di finire in galera oppure di finire ammazzato
senza sapere il perché. Perché ormai c’era, diciamo, questa presa di posizione di Salvatore Riina
con i suoi compagni di distruggere tutto. Quindi
a un certo punto io ci vado e la prima cosa che gli
dico è: «Guardi, io voglio parlare perché la
voglio fare finita con i mafiosi, però non voglio
andare in America, io voglio rimanere, non dico
in Sicilia, ma in Italia». E lui con molta franchezza mi dice: «Guardi, io sono venuto però non
sono più un giudice, faccio un altro lavoro». In
quel momento mi sono visto crollare il mondo
addosso perché non mi fidavo di nessuno, soltanto di Giovanni Falcone.
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In quel momento il giudice Falcone era al Ministero
di Grazia e giustizia e non era più un pubblico ministero e quindi non poteva interrogarlo.
Però lui, per come dopo si è scoperto, cioè
aveva scritto nel suo computer che mi riteneva
una persona importante e quindi si era disturbato per sentire… infatti anche se lui mi dice
che non poteva fare niente gli dico che nel suo
ufficio c’erano personaggi, diciamo, magistrati
come Domenico Signorino e qualche altro che
erano in contatto con i mafiosi, c’erano personaggi…
Quindi già in quel momento, al primo incontro con
Falcone gli comunica che dentro al palazzo di
Giustizia c’erano dei magistrati che erano in contatto
con la mafia e fa il nome del giudice Domenico
Signorino…
… e del dottor Contrada…
… e di Bruno Contrada che allora era il numero
uno del Sisde a Palermo.
… era la persona più importante che… ma
questo non è che lo dico io che dopo rintracciano
queste cose nel computer del giudice Falcone,
nelle cose che lui scriveva per non… non lo so
come… so che queste cose…
Quindi accade questo: gli comunica, gli fa questo
accenno a questo connubio tra mafia, servizi e magi104
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strati collusi e il giudice Falcone che fa? Interrompe la
conversazione…
… interrompe no, lui fa opera di persuasione,
mi dice: «Gaspare, guarda che abbiamo un ministro, finalmente ho un ministro, Martelli, che si
sta adoperando molto, che è molto sensibile a
questa lotta alla mafia, che sta facendo tanto. Lo
Stato magari fa dieci leggi contro alla mafia,
dopo ne fa una a favore dei mafiosi che quindi
non è…»
… non succede niente.
Invece lui era convinto che…
… Martelli…
… il ministro Martelli era una persona, e l’ha
detto senza, dice… guarda, dice… cioè, dice…
«Aspettiamo, anche perché abbiamo avuto delle
difficoltà con i collaboratori, questo ministro sta
facendo in modo che i collaboratori» dice, «siano
più cautelati, più protetti, più…» Perché io non è
che voglio andare in America. Io in America non
ci vado, comunque siamo rimasti che avrei parlato con il giudice Paolo Borsellino. Succede però
la “disgrazia” (la strage di Capaci, nda) al giudice Falcone…
… sei mesi dopo, a maggio del 1992.
Io mi ricordo che mi venne a trovare al carcere
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di Pisa il dottor Gianni De Gennaro e mi dice: «Se
vuoi continuare», cioè…
… a collaborare…
… «A collaborare, se non hai ancora cambiato
idea». No, io gli ho detto che quando prendo una
decisione non è che cambio idea, però devo
vedere con chi devo parlare. E credo che gli faccio il primo accenno che volevo il giudice
Borsellino…
Quindi lei parla con De Gennaro e in quell’occasione gli dice: «Vorrei parlare col giudice Paolo
Borsellino».
Sì, anche perché il giudice Borsellino l’avevo
avuto in diversi processi, contro, e lo ritenevo
anche a lui una persona corretta che aveva mandato al confino molti mafiosi, soprattutto quelli
che avevano ucciso il capitano dei carabinieri
Emanuele Basile intorno all’81-’82, e in carcere
con i Madonia, Bagarella, Bonanno, che erano
tutti mafiosi, si parlava di Borsellino e già c’era il
fruscio che anche il giudice Borsellino era uno…
… che dava fastidio…
Esatto, che dava fastidio, no no, ma addirittura che…
… doveva essere eliminato…
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… Se non cambiava doveva essere eliminato.
Quindi, a questo punto, la mia attenzione corre
su Borsellino. Mi ricordo che con una scusa, poi
ci fu un processo che io ho avuto a Livorno, mi
viene a trovare di nuovo De Gennaro, con Franco
Gratteri (attuale capo della polizia per la sezione
criminalità organizzata, nda) e mi dicono di
nuovo: «Sei sempre disposto…», «Sì io sono
sempre disposto, però dobbiamo vedere, però
ovviamente», io ovviamente non è che posso
andare cioè…
… in mano a…
… in mano a chiunque.
Lei vuole parlare con il giudice Paolo Borsellino
subito dopo la morte di Giovanni Falcone.
Sì e infatti il primo luglio, se non sbaglio, mi
viene a interrogare.
Il primo luglio del ’92, quindi diciotto giorni prima
di essere ammazzato nella strage di via D’Amelio.
Sì, perché noi abbiamo avuto tre colloqui, l’ultimo il 17, due giorni prima…
Il 17 luglio del 1992…
… e il 19 luglio succede la disgrazia. Quindi
ricordo che stavamo parlando perché per me la
cosa più importante qual era? Intanto eliminare,
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arrestare in qualche modo il gruppo di fuoco
perché se noi guardiamo nel ’91 quasi tutti i
mafiosi sono fuori.
Torniamo a Borsellino, lei dice che viene per la
prima volta?
Per la prima volta viene, credo, credo che
viene il primo luglio del 1992. Parliamo, io gli
spiego che a me non è tanto che interessavano i
processi in corso, il problema era che c’era fuori
il gruppo di fuoco che faceva quello che faceva…
Avevano commesso omicidi, avevano compiuto la
strage di Falcone…
Sì, e le dico pure sicuramente, sicuramente
cioè se non si prendono questi, sicuramente
faranno altre stragi.
Altre stragi…
Faranno delle stragi pure perché ricordo, nel
1973 già si era parlato, per fare attirare l’attenzione dello Stato su altri personaggi – per esempio
che allora c’erano i terroristi – i mafiosi si stavano organizzando per mettere delle bombe nelle
banche…
… fuori della Sicilia.
… fuori della Sicilia.
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Quindi veniva meno l’attenzione dello Stato sulla
mafia in Sicilia, la mafia aveva deciso di fare degli
attentati fuori della Sicilia…
Sì, fuori della Sicilia.
… quindi in Centro Italia e Nord Italia, per distrarre l’attenzione delle forze di polizia…
Sì, però noi teniamo sempre presente, diciamo,
i mafiosi hanno questi contatti con i personaggi
della P2, i politici, quindi nei posti dei tribunali
c’è qualche cosa che si sta muovendo e quindi…
Quel giorno già avverte il giudice Paolo Borsellino.
Sì, sì ci sono dei verbali scritti e la prima volta
che incontro il giudice Paolo Borsellino, io gli
dico: «Guardi lei vuole combattere la mafia, ma
stia attento perché ci sono poliziotti, magistrati,
politici sono tutti collusi con la mafia, personaggi di altissimo livello, industriali». Cioè c’è l’economia, cioè la mafia non è soltanto un discorso
di criminalità. È anche un fattore politico.
Quindi lei già allora dice questo, e Borsellino che
faccia ha fatto?
E Borsellino ascoltava, rimaneva addirittura
meravigliato. E poi mentre parlavamo è successa
una cosa incredibile. Il giudice Paolo Borsellino
riceve una telefonata dal ministro degli Interni
(all’epoca dei fatti il ministro degli Interni era
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Nicola Mancino, nda) e mi dice: «Gaspare debbo
interrompere perché mi ha chiamato il ministro e
debbo andare…»
… quale ministro?
Eh, non lo so.
È il ministro Mancino.
Allora c’era Mancino. Allora, che succede?
Ritorna e ritorna dopo qualche ora, un’ora e
mezza, ma ritorna tutto sconvolto, addirittura, io
noto – dopo l’ho dovuto mettere anche a verbale
– e lui era talmente arrabbiato, agitato, disgustato che aveva due sigarette, una in mano e una in
bocca… E lui un po’ stupito, un po’ addolorato,
molto addolorato mi disse: «Io non capisco come
mai» dice, «queste persone sanno che io ero qua
a interrogare a lei. Ho incontrato con il ministro
anche il dottor Contrada che mi ha detto: “Lei
dica a Mutolo se gli occorre qualche cosa io sono
a disposizione”».
Cioè, l’incontro tra lei e Borsellino era assolutamente segretissimo, supersegreto. Borsellino riceve
una telefonata dal Ministero. Va al Ministero…
… e c’era Contrada, c’era il capo della polizia
allora che non vedevo da mesi…
… Parisi.
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… Il dottor Parisi.
Le dice anche di avere incontrato Mancino?
Eh sì, lui quando andò via ha detto: «Debbo
andare al Ministero a parlare col ministro». Io
non mi ricordo se ha detto Mancino o qualche
altro. Mi disse esplicitamente che Contrada era lì
e gli disse che… «se a Mutolo occorre qualche
cosa, io sono a disposizione». Quindi lui mi
dichiarava come mai, insomma, che si vedeva
che era stupito, stizzito perché logicamente il
nostro contatto era blindato, ma già Contrada
sapeva che avevo fatto il suo nome …
Quando Paolo Borsellino interrompe l’interrogatorio
con lei perché viene chiamato dal Ministero, e va al
Ministero degli Interni e rientra e le racconta appunto
di aver incontrato Contrada e di essere molto arrabbiato… ecco perché era arrabbiato? Quindi quando lei ha
fatto i nomi di Andreotti e di Contrada… lui ha preso
gli appunti e li ha messi lì?
Esatto, qualche cosa, le cose più importanti lui
le scriveva in quell’agenda… Sì, ma io, per esempio, stavamo otto ore assieme, nove ore assieme,
un’ora si verbalizzava, sette ore noi parlavamo.
Ma ce lo dicevo io che a me non interessava tanto,
diciamo, verbalizzare, perché c’era tempo per verbalizzare, va bene? Ma a me mi interessava, diciamo, prendere quelle precauzioni che io ritenevo in
quel momento molto importanti, molto delicate
per come è successo, perché insomma…
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Questa Agenda Rossa quindi lei l’ha vista?
Sì, ma io… era di dominio pubblico… Tutte le
persone che conoscevano la buonanima del giudice Borsellino, insomma…
Torniamo ai rapporti tra Contrada e il suo capo,
Rosario Riccobono… Lei ha fatto un’accusa a
Contrada, per le sue dichiarazioni Contrada è stato
condannato anche in secondo grado, anche in
Cassazione per mafia. Lei lo ha conosciuto personalmente?
Guardi, io l’ho conosciuto, ma da tantissimo
tempo, anche perché tra l’altro lui mi aveva notificato dei mandati di cattura, quindi lo conoscevo abbastanza bene. Però c’è questo che, quando
io esco dal carcere nel 1981, diciamo trovo una
situazione un pochettino anomala, perché le cose
dentro gli investigatori e la polizia stavano cambiando in peggio per noi. E Cosa Nostra aveva
preso delle decisioni di uccidere alcune persone,
anche dei poliziotti. E mi ricordo che in quel
periodo avevo pedinato sia il dottor Contrada sia
il dottor De Luca, che il commissario Boris
Giuliano.
… Boris Giuliano?
Quel poliziotto era una bravissima persona,
l’ho conosciuto anche personalmente. Ripeto,
quando io dopo riesco dal carcere nel 1981 e mi
trovo a parlare con Riccobono, trovo una cosa un
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pochettino anomala, cioè nel senso che il dottor
Giuliano era stato ucciso, il dottor De Luca, non
so i motivi quali siano stati, se ne era andato
dalla Sicilia, altrimenti avrebbe fatto una fine
anche più brutta, invece il dottor Contrada era
bello tranquillo a Palermo, tanto che mi ricordo
che un giorno il Riccobono mi dice: «Gaspare, se
per caso ti dovessero fermare tu devi chiedere
subito del dottor Contrada» e quindi, stupito da
questo fatto, chiesi: «Scusi ma come mai?» E lui
mi racconta che erano in buoni rapporti. Il dottor
Contrada mi dice che addirittura ci portava delle
battute (informazioni, nda) facendo sapere a
Riccobono che lo stavano per arrestare. E
Riccobono voleva sapere da Contrada chi lo
voleva arrestare ma lui non glielo disse: «Non te
lo dico – avrebbe detto Contrada a Riccobono –
perché se te lo dico è come se ti dicessi: “Vallo ad
ammazzare”».
Ripeta, perché non ho capito bene. Cioè, qualcuno
aveva detto…
Allora, cioè, siccome più di una volta Riccobono
l’avevano avvisato tramite il dottor Contrada, non
so qual era la frase, di andarsene…
… perché c’era una retata…
Sì, perché c’erano delle retate oppure che
dovevano andare completamente a prendere a
lui, a un certo punto lui chiama al dottor
Contrada e ci dice esplicitamente: «Mi deve dire
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chi è che mi vuole fare arrestare», perché lui
aveva il sospetto che una persona, che a me l’ha
detto però, siccome non ci sono prove, io non
l’ho detto mai…
E va be’, una persona che voleva arrestarlo, quindi
lo può fare il nome.
Guardi, lui pensava che era un certo, quello
che ha fatto uccidere alla figlia…
Ah, il mafioso!
Sì, era un mafioso della famiglia, della (…).
Sì sì, ho capito chi è…
Non mi ricordo in questo momento, Lo
Piccolo…
No, non era Lo Piccolo…
Comunque, e però Contrada c’ha detto: «No,
non te lo dico, perché se te lo dico…» Però, sapevo già che lui era in buoni rapporti non soltanto
con il Riccobono, ma anche con altre persone.
Cioè con chi?
Ma guardi, lui dopo s’è sentito dire che era
anche in buoni rapporti con Salvatore Riina, con
Filippo Marchese, e con altre persone che, insomma, son cose vecchie. Onestamente, io non ho
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niente contro il dottor Contrada. Io come ho
detto non ho parlato soltanto del dottor
Contrada, ho parlato del giudice Signorino, del
senatore Andreotti e di qualche politico. E sono
sempre convinto che fin quando la mafia ha questi rapporti con questi personaggi importanti,
diciamo, sempre a Palermo ci sarà qualche cosa
che li legherà e io sono convinto che ancora oggi
qualcuno è in contatto con i mafiosi, altrimenti…
Qualcuno della politica?
Della politica, delle istituzioni… Io penso di sì,
forse non si rendono conto, che non è che debbono, capiscono che quello è mafioso. Cioè, penso,
io, che mi ricordo, per esempio quando si doveva andare a parlare con il presidente Aiello, non
è che si andava a parlare con il presidente Aiello,
si andava a parlare con Antonio Mineo, con altre
persone che erano amici del giudice. Sì, è logico.
Quelli magari ci parlavano, poi (…) che la polizia
si era comportata in una maniera errata. Cioè
non è che il mafioso affronta i poliziotti…
… direttamente.
No, è difficile. Cioè, io non ho detto mai che un
giudice era corrotto perché veniva pagato. Cioè,
un giudice favoriva la mafia perché la mafia ha i
tentacoli lunghi che aveva (…). Soltanto il giudice Signorino, e mi dispiace perché se io avessi
saputo che avrebbe fatto quella fine, nemmeno
l’avrei nominato perché non c’era bisogno. Avrei
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preferito che si comporterebbero come Mannino,
come altri politici siciliani importanti che dicono:
«Non è vero». Dopo dieci anni la Cassazione li
butta storti e a me fa piacere perché sono magari
persone che non si rendono conto del male che
fanno, e quindi il discorso è questo.
E Andreotti, invece?
Ma guardi, Andreotti, c’erano personaggi
completamente… io ora, sono queste persone
quasi tutte morte, che mi dispiace parlarne.
Andreotti era l’uomo importante che noi politicamente abbiamo incontrato. Era uno dei capifila
della Dc, in cui c’era l’onorevole Lima che era…
cioè il suo delfino. C’erano i cugini Salvo che
erano i personaggi più importanti. E io, mi ricordo, in un’occasione che ci vediamo con Ignazio
Salvo al villino del Riccobono, in cui c’è un processo in Cassazione dell’agente Cappiello, questo Ignazio Salvo c’ha detto: «State tranquilli che
tutto andrà bene. Io in questi giorni mi debbo
vedere a Roma con l’onorevole Andreotti» e
quindi è di quello che parlavano. Io non è che
posso mettere la mano sul fuoco a dire… Dice
che la persona che era in contatto col giudice
Carnevale era, insomma, l’onorevole Andreotti.
Che tramite questi politici importanti cercavano
di favorire a questi personaggi…
… di aggiustare i processi.
Ma ovvio, perché è tutto là, insomma.
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Soltanto, vede, quando c’è stato l’omicidio del
capitano Basile, per esempio – riporto un paragone – noi eravamo sicuri che qualche giudice
veniva ucciso, perché, diciamo, avevano arrestato a tre delfini, che uno era il compare di
Salvatore Riina, Nino Madonia, l’altro era Puccio
e l’altro era Armando Bonanno. Noi commentavamo: «Questa è una patata bollente, vediamo
chi la deve sbucciare». Infatti i giudici, diciamo
quelli un pochettino paurosi, hanno cercato sempre i cavilli o buttando a sorte o con il chiedere
perizie. Diciamo il giudice che ha avuto quel
coraggio, va bene, che non aveva paura della
mafia e che ha condannato a queste persone,
guardi hanno ucciso sia a lui che al figlio, insomma. Se non sbaglio era il giudice Saetta. Quindi
questo rapporto, io mi ricordo che, per esempio,
una volta ci mettevamo a ridere che c’era un
certo Mario Martello. Viene preso in una cabina
telefonica mentre sta telefonando a uno di
Monreale a cui avevano sequestrato il nipote,
non mi ricordo in questo momento…
… Quartuccio.
No Quartuccio, un altro.
Madonia, allora si chiamava Madonia pure questo.
Credo che fosse il Madonia, però lo zio era un
(…), un personaggio importante. Cioè, i carabinieri arrivano mentre questo sta telefonando,
però arrivano i militari e lui prende il numero di
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telefono che aveva scritto sui fiammiferi, sulla…
e lo butta a terra.
Esatto.
Lo prendono completamente con la cornetta in
mano, perché c’era stata la collaborazione di
questa persona, che dopo ai parenti di questi
l’ammazzano a Bologna, che avevano un’azienda agricola, insomma…
Quindi i carabinieri fermano questa persona e non
fanno niente?
Esatto. Questo se è andato assolto, perché questo era competente, un personaggio della famiglia di San Giuseppe anche se apparteneva,
diciamo, come rione, a un’altra borgata, Mario
Matteo era della famiglia di San Giuseppe.
Signor Mutolo, proprio nei giorni scorsi la commissione che giudica, che concede o non concede, il programma di protezione ha rifiutato la protezione a
Spatuzza, a Gaspare Spatuzza. Che ne pensa lei di
questa decisione, chiamiamola “politica”?
Ma guardi, io penso questo. Io non è che mi
posso intromettere su quello che fa la commissione, io posso dare un parere, diciamo, di quello
che penso io, di quello che ho vissuto io.
Le posso chiedere un giudizio?
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Un giudizio, sì. Almeno di quello che ho letto
io sui giornali, che tre Procure, Firenze,
Caltanissetta e Palermo, è una cosa che sicuramente i giudici della commissione sicuramente
cercheranno di rivedere, perché si vede che c’è
una legge in cui si dice che i collaboratori debbono parlare entro centottanta giorni, ma si sa,
insomma, il collaboratore, diciamo, non viene
molestato, non viene minacciato, non viene
impaurito quando non tocca politici. Al momento che tocca politici, il discorso… Io delle volte
quando, per esempio, ho parlato, io che mi ricordo è che nel mese di agosto – siamo quindi dopo
pochissimi mesi – la commissione ha dato il mio
programma di protezione. Insomma, io credo il
26, il 27 agosto del 1992 io avevo già il programma di protezione. Quindi il programma di protezione qual è? È l’incoraggiamento, diciamo, la
persona effettivamente vede che lo Stato, diciamo, si affida, perché noi almeno… io ora leggendo qualche giornale, e leggo che ci sono persone
che a Palermo, diciamo, senza avere commesso
reati sono andate dalla polizia e stanno collaborando, diciamo questa è una cosa che fa sperare
che Palermo, la Sicilia, veramente bisogna essere
incoraggiati, cioè, perché è il primo, noi è il
secondo, perché mi ricordo che il primo è stato
un certo Ferro…
Sì, di Alcamo.
Un certo Ferro di Alcamo, quando ha sentito
che Milazzo era stato strangolato con la fidanza119
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ta incinta di quattro mesi, c’è venuta la pelle
d’oca – era un medico, andò dai carabinieri e
disse: «Io mi schifo d’essere mafioso». Io conoscevo al padre, Beppe Ferro, che era un’abilissima persona, un mafioso però uno bravissimo.
Questo ha dovuto seguire le orme del figlio, perché (…). Quindi ma già son passati quindici
anni, questo incoraggiamento che c’è stato ora
con questo Giordano, lo so, può darsi che qualche persona dica: «Ma lo Stato non ci vuole più
aiutare» perché effettivamente chi collabora,
anche se lo Stato ci aiuta, però abbiamo tanti
punti in cui ci rimane una ferita sempre sanguinante, insomma che non possiamo andare in
Sicilia, abbiamo tanti parenti che non vediamo
più, ci dimentichiamo degli amici, dell’infanzia,
di tutti i ricordi. Quindi, lo Stato sì… ci potrebbero essere altre cose per far capire, che magari…
non lo so, ma se un collaboratore parla e sa una
cosa, perché io ho letto delle dichiarazioni che ha
fatto anche Ciancimino… cioè, io sono sicuro che
al novantanove per cento quello che dice
Ciancimino è vero, ma Spatuzza quale motivo
avrebbe di dire una cosa che non è vera? Io credo
che anche Spatuzza… anzi si può dimenticare
qualche cosa perché un collaboratore… Per
esempio io che è vent’anni che collaboro, quasi
vent’anni, mi posso dimenticare qualche cosa, è
logico. Ma io direi è umano, cioè non è che io
posso aver in mente tutto quello che ho fatto,
perché se uno fa un reato, dice vabbè uno fa un
reato, porta i particolari… ma un uomo che è un
mafioso e vive in quel contesto, dicevo, ha da
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raccontare un sacco di cose. Quindi io non voglio
dare un giudizio, anche perché a me la commissione, lo Stato, i carabinieri, la polizia, i giudici,
mi hanno tutti aiutato a inserirmi in questa
nuova realtà, però debbo dire questo, che per
quanto riguarda Spatuzza io non lo so, la cosa è
un pochettino preoccupante. Sono sicuro che
però con il tempo si aggiusterà.
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E SPUNTA LA TALPA:
«C’ERA UN CERTO TERESI…»
Tornando a Contrada e al suo incontro con
Borsellino, per sapere degli spostamenti del giudice
sicuramente dev’esserci stata una talpa…
Qualcuno ci faceva sapere queste cose.
Ma lei in quel momento lì, lei aveva già fatto il
nome di Contrada a Borsellino?
Sì, addirittura io già c’avevo fatto il nome di
Contrada, ma altrimenti non c’era motivo di
arrabbiarsi, insomma, c’avevo detto del discorso
dei giudici della Cassazione, c’avevo detto dei
politici che erano in contatto con i mafiosi, cioè
c’avevo parlato, ma a me interessava di più fermare il gruppo di fuoco: «Dovete fare arrestare il
gruppo di fuoco, perché hanno un gruppo di
fuoco agguerrito in grado di farsi l’arsenale che
hanno sequestrato in Sicilia, una volta ho letto su
una rivista che erano, per esempio, tutti i fucili,
le bombe che avevano, i missili potevano respingere un’invasione militare per un giorno, pote-
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vano fare fuoco con chiunque, insomma hanno
trovato tante di quelle armi… E quindi io in
quell’occasione racconto – non mi ricordo se ce
l’ho detto dopo ai vecchi giudici ma sicuramente
lo hanno a verbale – che nel 1984 era già pronto
un primo attacco della mafia al giudice Giovanni
Falcone, lo volevano eliminare a Mondello (località balneare di Palermo, nda) proprio dove c’era
il locale La Sirenetta, e quello che portava le battute (che spiava i movimenti di Falcone, nda) era
un certo Teresi, che aveva una pizzeria là vicino.
Segnalava gli spostamenti.
Ma addirittura già i palermitani si erano procurati un lanciamissili chiamato Katiuscia, che ci
aveva regalato Santapaola e questo serviva per…
fare questo attentato.
… uccidere Falcone.
Avevano scelto prima il parco della Favorita,
perché la Favorita è lunga sette chilometri e volevano fare l’attacco là. Però dopo hanno pensato
che siccome la polizia con l’elicottero poteva circondare, per non creare dispersione di uomini
aspettavano, ma già…
… già era stato programmato.
Era già programmato, che io l’ho detto insomma… nei verbali.
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In quanto all’ultimo incontro avuto con Borsellino,
lei nella sostanza gli ha detto che anche lui era nel
mirino, anche lui poteva essere ammazzato.
Lui non è che aveva bisogno di ciò che gli dicevo io, lui se lo sentiva, perché io vedevo quando
mi ascoltava, quando mi ascoltava con interesse,
non è che aveva premura, mentre dopo gli altri
giudici, quando è morto, dopo di lui volevano
mettere a verbale. Però ho cambiato strategia
perché avevo sentito delle intercettazioni, quindi
erano più preoccupati di quello che io stavo
dicendo. La mia strategia era quella di fare collaborare tutti gli altri personaggi, quindi lui,
Borsellino, non è che aveva premura di scrivere,
no no, io però quando sapevo che veniva lui già
ci andavo con delle cartine scritte, con dei promemoria e gli dicevo: «Questo giudice, questo
giudice, questo in Cassazione ci sono così, i poliziotti collusi» insomma, e lui ascoltava meravigliato. Mi ricordo che, una volta mentre stavamo
parlando, ci fu la sentenza con la quale era stato
assolto Benedetto Santapaola e Mariano Agate e
a Giovanni Leone per l’omicidio del sindaco di
Castelvetrano Vito Lipari.
Sì, a Mazara del Vallo. Nonostante fossero stati fermati con le armi in pugno.
Sì, e io c’ho detto: «Guardi, io sentendo questa
sentenza mi alzerei e me ne andrei. Cioè non è
possibile». E lui mi ha detto: «Gaspare, dieci anni
fa c’erano altre mentalità. Bisogna avere pazien125
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za e fiducia. Con la speranza che di qua a dieci
anni le cose cambino ancora meglio…» la collusione che c’era pure di un colonnello dei carabinieri che aveva detto che erano stati a caccia e
quindi il guanto di paraffina era positivo per
questo.
Poi quel giorno ci lasciammo perché mi disse
che doveva andare a prendere una sua figlia che
era andata in vacanza. Disse: «Ci vediamo domani o dopodomani». Dopo è successo, diciamo,
quello che è successo e…
Quindi dopo quell’ultimo appuntamento voi vi eravate detti che vi sareste rivisti.
No, dopo qualche giorno…
Dopo qualche giorno lui invece è saltato in aria…
Lei che ha pensato quando hanno ammazzato il giudice Borsellino?
Guardi, io ho pensato quello che era giusto pensare, che se lo Stato, se i servizi segreti, se gli apparati dello Stato avevano interesse a non farci succedere niente a Borsellino, certamente non lasciavano una strada che potevano mettere un’automobile imbottita di esplosivo. Se noi abbiamo…
se noi abbiamo delle strade in cui chiudono due o
tre posti, che riservano il parcheggio agli invalidi,
persone tranquille non prendono precauzioni per
un magistrato che lottava le cosche mafiose?
E non si prende nessuna protezione…
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Ma gli si leggeva in viso che lui era molto preoccupato, cioè più mi ascoltava…
Cioè era un morto che camminava…
… più sentiva le cose che io ci raccontavo e più
rimaneva allibito, perché lui aveva fiducia nei
suoi compagni, nel suo lavoro…
Lei stava dicendo che quando dice a Borsellino: «Se
lei vuole sconfiggere la mafia, bisogna eliminare tutte
le collusioni, gli intrighi politici, degli imprenditori,
degli industriali». E quando lei lo vede l’ultima volta,
stava dicendo che lo vede preoccupato.
Ma, lo vedo preoccupato. Guardi, lui era preoccupato perché, diciamo, tutti questi intrighi,
quando io gli (…) del conte Cassina per esempio
– e le dico: un personaggio come il conte Cassina,
ha come persona di sua fiducia il sottocapo della
“famiglia” di Santa Maria di Gesù, di Stefano
Bontate. Quando gli dico: dell’imprenditore
Vassallo che gestiva anche la società per la raccolta dell’immondizia a Palermo e che tutti i
“capi zona” (sorveglianti dei netturbini, nda)
erano tutti mafiosi.
Cioè tutti i controllori degli operatori ecologici…
Sì, ma quando gli dico della famiglia Costanzo
Di Catania che io ero amico di un certo
Condorelli…
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Di Catania.
E l’hanno ucciso perché non mi ha voluto tradire questo, va bene, e gli dico che il Condorelli
era una delle persone di fiducia del Cavaliere
Costanzo, una delle quattro, delle cinque persone più potenti della Sicilia, cioè lui capiva che
c’era qualche cosa che non va, quindi era preoccupato. Secondo me, lui, il dottor Borsellino,
capiva che doveva morire, era come un morto
che camminava però non ha saputo… Lui pensava che con le parole poteva smuovere gli animi e
i cuori delle persone, però lui secondo me doveva reagire diversamente, doveva essere cattivo,
siccome lui era un uomo buono, e che è assurdo
che nella strada della mamma che faceva ogni
quindici giorni, ogni settimana, e vabbè ci fanno
fare quella fine che deve fare. Assurdo che…
Quindi lei diceva che era un morto che camminava
perché capiva che doveva morire?
Capiva, lui lo sentiva, lui se lo sentiva che c’era
qualche cosa che ci sfuggiva dalle mani, secondo
me, perché io che ci parlavo – e ci parlavo sempre di questi personaggi importanti collusi con la
mafia…
Per esempio? Faccia qualche altro nome oltre a
Vassallo, oltre Cassina.
Ci parlò dei cugini di Salemi.
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Dei cugini Ignazio e Nino Salvo?
Altri personaggi di cui qualcuno è morto, dei
Semilia costruttori. C’erano quasi tutti i Semilia
che pagavano.
Semilia?
E uno per esempio importante, Ottavio, credo,
non ha voluto pagare e l’hanno ucciso. Quindi
c’era ormai questo groviglio che effettivamente
lo Stato era impotente, ma era impotente secondo me perché non voleva cioè… là per esempio
c’era l’onorevole Lima che era amico di
Andreotti, Andreotti che era amico dei giudici
Carnevale, che a me fa piacere che il giudice
Carnevale dopo dieci anni sono stati assolti e se
è andata per come l’onorevole Mannino, come…
ma io avrei pregato che anche il giudice
Domenico Signorino venisse assolto perché poteva dire: «Mutolo è falso, Mutolo non sta dicendo
niente» va bene? E non si suicidava, invece quello era secondo me un uomo sensibile, un uomo
onesto, per non avere la sfacciataggine di dire
«non è vero, è tutto falso» ha fatto quel gesto, che
per me è stato un gesto bruttissimo, che è l’unica
colpa che mi porto dietro… è questa.
È il suicidio del magistrato.
È il suicidio del magistrato. Perché ho detto:
perché? Cioè io non è che ho fatto solo il nome di
Signorino, io ho fatto i nomi anche di un’altra
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decina di magistrati collusi con la mafia.
Ho fatto anche i nomi dei giudici che si occuparono del processo per l’uccisione del capitano
Basile, un processo infinito fatto tante volte perché nessuno voleva decidere, emettere la sentenza perché avevano paura dei Madonia.
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IN CELLA CON
RIINA
Tornando a Riina, lei che rapporti ha avuto con lui?
Io a Totò Riina l’ho conosciuto nel lontano
1964-’65, in galera, e siamo entrati subito in simpatia, a me mi affascinava questo personaggio
giovane. C’erano tutti quelli, diciamo, più anziani di lui, e facevano a gara per salutarlo, per consigliarlo, ma era il periodo in cui io ero là e conoscevo tanti mafiosi. Con lui ho avuto la fortuna
di essere in cella, il brigadiere mi ha messo in
cella con lui.
Fortuna come mafioso.
Eeh, fortuna come mafioso perché onestamente che debbo dire? In un certo senso la sua conoscenza mi ha agevolato perché c’è stato un periodo in cui io avevo fatto delle, diciamo, “marachelle”… diciamo che sono entrato un pochino
in contrasto con Riccobono, e io gli detto:
«Guarda che io ti debbo portare i saluti di
Salvatore Riina, che siamo stati...» Ma Totò Riina
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fu quello che portò alla distruzione di Cosa
nostra.
Quindi Totò Riina è la persona che distrugge la
Cosa nostra…
Nooo, Totò Riina è la persona che dopo
l’omicidio di Michele Cavataio si vuole imporre con forza a Palermo, e s’impone perché
diciamo lui ha un debito con il cognato Leoluca
Bagarella perché quando uccidono Cavataio
muore un fratello di Bagarella. E quindi lui con
forza entra a Palermo. Anche se in quel periodo
comandavano tre persone, il famoso triumvirato: Bontate, Liggio e Badalamenti. Ma lo scopo
dei corleonesi e in particolare quello di Totò
Riina era quello di diventare il dittatore di
Cosa nostra… Già in quel periodo lui era predestinato, aveva un percorso da fare: quindi
voleva eliminare i palermitani che erano stati
amici di Cavataio, e Gaetano Badalamenti e
Stefano Bontate.
Lei chi ha ucciso per conto di Totò Riina?
Ma guardi, io per conto di Totò Riina ho ucciso uno che lavorava in via Libertà, che praticamente in quel periodo non è morto. C’ero andato io Riccobono, Gambino Giacomo Giuseppe e
Carmelo Pedone. Questo fortunatamente è rimasto vivo, anche con la corda al collo. Questo era
uno che… riuscì a vivere perché sopra c’era una
finestra di quelle delle guardie notturne che ha
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sentito dei lamenti, forse l’hanno visto a terra e
l’hanno subito… e si liberò…
L’hanno subito salvato.
E poi altre persone. Diciamo con Riccobono,
per esempio, abbiamo ucciso Joe Imperiale un
mafioso importantissimo.
Sì, l’americano.
Insomma altre persone, ora i nominativi non
me li ricordo bene.
Io pensavo… ma lei dorme la notte pensando a questi omicidi?
Guardi io dormo perché c’è una giustificazione, non è che c’era, almeno per quanto concerneva me, non c’era un interesse personale, io…
Lei faceva il soldato…
Io per interesse personale ho salvato delle persone, mai mi sono approfittato di quell’autorità
che avevo. Non è vero quel che dicono le altre
persone che uno che uccide una persona viene
ricompensato con dei soldi, ma non è vero niente. Uno fa una cosa, commette un omicidio, uno
rischia la galera, rischia la vita perché a volte si
rischia anche la vita, questa era una ricompensa
a quel pretesto di autorità che il mafioso pretendeva. Perché diceva: «Se io rischio, per uccidere
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un uomo, di andare in galera e tu stai qui,
comando io quindi chi ha l’esercizio deve pagare, chi fa una cosa me lo deve dire». Però c’era
sempre un limite.
Lei perché, a un certo punto, decide di abbandonare
Cosa nostra e di pentirsi?
Decido di abbandonare Cosa nostra, e fortemente ora ne sono più convinto, fortemente ora
a distanza di venti anni sono convintissimo che
lo dovrebbero fare tante persone per liberare
Palermo da Cosa nostra. Primo, io non vedevo
più un avvenire per i miei figli. Io avevo quattro
figli che stavano crescendo e mi chiedevo: “Che
fine faranno? Verranno uccisi o andranno in
galera?” per come io avevo passato gli anni più
belli, in galera pensavo questo. E poi vedevo che,
a parte i giovani che venivano uccisi così, senza
motivo, da Cosa nostra, ma quando si sentiva
che veniva ucciso un bambino o una donna era
una cosa che ci ripugnava. Il fatto stesso che uccidano tre donne perché il fratello, il figlio, il nipote stava collaborando…
Parliamo dei parenti di Francesco Marino
Mannoia?
Sì. Ma non si usava che si faceva un agguato a
tre donne inermi che stanno andando a fare la
spesa, o stanno andando a dormire, arriva uno e
ci scarica dieci fucilate. Quando, io che mi ricordo – e l’ho detto diverse volte e continuerò a
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dirlo diverse volte – che quando è stata sequestrata Graziella Mandalà a Monreale e l’hanno
liberata a Partanna Mondello, la persona che la
sorvegliava era una donna, come regola questa
donna bisognava ucciderla subito. Graziella
Mandalà è stata liberata, se ne andò a casa sua e
poverino il marito dopo è stato arrestato –
Giuseppe Quartuccio, che gli contavano sei-sette
omicidi – la donna che era moglie di un certo
Vittorio Manno che vendeva copertoni, cerchioni… l’hanno fatta andare a casa. Gaetano
Badalamenti ha detto: «C’è la regola che chi fa un
sequestro deve essere ucciso, però questa è
donna. Se c’è qualcuno che si sente di ucciderla,
lo può fare». Questa donna non è stata toccata.
Quando si è sentito dire che quel ragazzino, a
San Lorenzo, è stato sparato, Domino mi pare…
Claudio Domino.
È una cosa che faceva male. Cioè non si poteva
pensare che come dopo hanno detto, che le indagini, dicevano che…
Ma lì Cosa nostra, in quell’occasione, prese posizione proprio nell’aula bunker dove era in corso il maxiprocesso: il fratello di Bontate, Giovanni Bontate, si
alzò e prese le distanze da questo omicidio.
Prese le distanze perché capiva che da subito le
indagini portavano verso noi mafiosi. Perché io
sono là, perché il padre di questo ragazzo aveva
un’agenzia, un’impresa di pulizia all’aula bun135
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ker che non so che cosa ci hanno detto. Prima la
mafia chiedeva e bisognava obbedire, non è che
uno diceva: «Non lo posso fare perché se no
vado in galera». Non lo fai? Ti ammazzo. Perché
ancora c’era quella sensibilità, che magari potevano cadere tutti i mafiosi, potevano rimanere
male. Ma se noi guardiamo le date, e siamo dopo
il 1986-’87 ci sono tanti omicidi di bambini che
sono in braccio al padre, in braccio alla madre,
nella macchina, uccidono padre madre, figlio…
E lei non si riconosce più in queste cose?
No.
Parlando del sequestro di Graziella Mandalà, ma lei
ha partecipato anche a un progetto di sequestro?
Io ho fatto due sequestri, a Milano. E quelli che
leggeranno questa mia intervista si ricorderanno
di me perché quando li custodivo e li guardavo
mi dicevano: «Lei è il buono». Io non so perché
mi dicessero così, però io mi ci sedevo accanto, li
rassicuravo, li tranquillizzavo. L’unico problema
era che gli dicevo di non farmi fare qualche fesseria, cioè «non cercate di scappare, non gridate…»
Chi erano questi due?
Uno era un industriale di Lodi, e l’altro un
concessionario della Mercedes di Milano. Dopo
dovevamo effettuare un terzo sequestro di per136
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sona, quello che aveva costruito Milano 2, che
stava costruendo Milano 2… che dopo capisco
che era il nostro attuale presidente, Silvio
Berlusconi: eravamo là tutti pronti per sequestrare questa persona ma dopo, inaspettatamente,
c’è stato l’ordine di ritirarci, di ritornare a
Palermo.
Voi eravate tutti lì, già a Milano.
Noi eravamo tutti là, avevamo gli appartamenti pronti. Eravamo pronti a prenderlo. Poi
arriva l’ordine e siamo scesi giù a Palermo e non
se ne parlò più. Poi negli anni a venire avevamo
capito che dopo Vittorio Mangano che era della
famiglia di Pippo Calò, fu assunto da Berlusconi
come guardiano…
Lo stalliere.
Ma tornando a quei tempi a Totò Riina penso
che il signor Riina Salvatore ha fatto morire in
carcere il suo capo, Luciano Liggio, perché non si
era dimenticato che nel 1974 Liggio aveva detto
di non dire più niente a Riina di rivolgersi a
Provenzano. Questo Riina non gliel’ha mai perdonato.
Io, quando ho fatto la mia scelta, non mi è interessato niente. Ho detto tutto quello che sapevo
e la mia strategia era quella non di stare fuori, di
uscire, ma di convincerli e capire. Noi mafiosi,
purtroppo, siamo tutti “buoni”, perché siamo
delle persone umane, ma siamo tutti degli assas137
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sini che abbiamo fatto del male, ed è giusto che si
debba pagare per liberare questa terra da questo
male, per amare le mogli, i figli, la mamma, la
sorella non c’è bisogno di essere mafiosi. Ci sono
altri valori che ho scoperto grazie allo Stato, con
la mia collaborazione. E sono sicuro che, con
l’andare del tempo, le mogli, le donne, le
mamme di questi mafiosi che ancora ci sono, le
scelte sono due: o muoiono, o vanno in galera.
Quindi se vogliono vivere questa vita, che ne
abbiamo solo una, non due-tre, dobbiamo comportarci come è giusto comportarsi, come dice lo
Stato. Se lo Stato vuole sconfiggere la mafia, non
c’è bisogno che gareggi contro. Chi collabora con
la mafia deve seguire le stesse rotte del mafioso.
Quindi il politico, se ci sono delle prove che è
colluso col mafioso, deve subire la stessa sorte
del mafioso. Gli devono sequestrare i beni, lo
devono togliere da dove comanda. Quando ero
mafioso mi arrestavano per un omicidio sapevo
che dopo diciotto mesi ero fuori. Seguivo il processo, mi prendevo un avvocato, il miglior avvocato. Quindi se rimane questa mentalità che dici:
“Vabbè, io sono mafioso anche se mi arrestano…” ma ora le leggi sono cambiate. Ora un
mafioso non prende più diciotto mesi… lo Stato
ora ha i mezzi per combatterli. Quindi io rinnovo questa preghiera ai palermitani e agli altri che
sono sempre in tempo per potersi godere le proprie famiglie.
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«BRONZINI E I QUADRI DI LIGGIO FATTI DA NOI»
Lei in carcere ha avuto anche un cambiamento, al di
là del fatto che lei aveva deciso di collaborare, però
prima di collaborare, diciamo, una “collaborazione
con la vita” lei la ha avuta con la pittura. Lei in carcere ha imparato a dipingere, era insieme a un altro
killer che si chiama Alessandro Bronzini, che dipingeva anche lui. Tutti e due siete stati in cella insieme a
Luciano Liggio. Si dice che Luciano Liggio avesse
fatto dei quadri. Lei invece sostiene il contrario. Qual
è la verità?
Allora, io di questo Bronzini Alessandro c’ho
dei quadri, ma perché io lo conoscevo non dalla
galera, di fuori, e lo conoscevo, dicevo, come un
pittore e come, diciamo, un giovane – sa, ci sono
quei giovani innamorati dei mafiosi; lui, basta
perché è morto (…) soltanto lui non è mafioso,
perché il padre era un poliziotto, non so… (…)
un maresciallo. Altrimenti lui sarebbe stato,
diciamo, un mafioso al livello di Scarpuzzedda,
perché anche Scarpuzzedda – che è morto – era
un killer spietato, ma era un mafioso di quelli…
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cioè ci sono persone che nascono con quella
malattia, per come l’avevo io, e dopo io mi sono
curato. Quindi il Bronzini era uno innamorato di
Cosa nostra. Dopo, quando c’è stato il maxiprocesso, che hanno riunito diversi processi, io (…)
che lui era imputato pure con un certo Zanga,
perché ci imputavano degli omicidi, insomma, a
Milano… e quindi subito l’ho riconosciuto, perché ero là e abbiamo parlato di… che addirittura
è nato il progetto, che io ci dico al nipote di
Luciano Liggio: «Ma perché lui non impara a
dipingere…» e così noi organizziamo una stanza
sociale per dipingere. E dipingevamo io, il
Bronzini e Liggio sulla carta. Però Liggio mai
aveva comprato un pennello, mai un colore, mai
una tela. C’era questo progetto che anche al
direttore Varano c’è piaciuto, quindi abbiamo
fatto, diciamo, quest’istanza, il Ministero ce lo
consente. Però dopo succede che l’avvocato di
Luciano Liggio…
L’avvocato Traina?
L’avvocato Traina – che lo conosco benissimo,
per come lui conosce me – appena ha sentito che
ci poteva essere odore dei soldi, ci prende una
scusa e ci dice: «No, non la facete la mostra assieme». Ma il discorso qual era? Che già appena
Liggio faceva finta di dipingere qualche cosa, che
Liggio insomma aveva un’età e non aveva toccato mai un pennello, soltanto si è fatto quello per
fare la mostra, per guadagnare un po’ di soldi, e
Liggio per avere qualche beneficio. Però all’ulti140
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mo momento c’erano già alcuni mafiosi come
Mariano Agate, per esempio, che ci dice: «(…)
voglio un quadro». E lui a noi dice: «Guarda che
i miei quadri minimo costeranno dieci milioni
l’uno». E lui: «E a me che m’interessa?» Quindi
erano tutte persone che i soldi ce li avevano.
Quindi così, all’ultimo momento, a malincuore
Liggio ci ha detto: «Guardate ragazzi, non la possiamo fare, perché (…)».
Non la potete fare assieme, la fa soltanto lui.
La fa soltanto lui. Quindi noi allora ci mettiamo d’accordo, io e Bronzini: «Non facciamoci più
quadri». Siccome Luciano Liggio era una persona molto (…), questo lo capì e quando ha fatto la
mostra e ha venduto i quadri, li ha venduti con
una carta scritta che, quando lui doveva fare
qualche mostra, poteva richiedere i quadri, perché ha fatto come procuratore, diciamo, a questo
avvocato con l’obbligo, se lei si comprava un
quadro, e lui tra un anno doveva farne una
mostra, le diceva: «Dammi il quadro», perché lui
non era in grado di insomma… ma logicamente
abbiamo fatto i quadri io e Bronzini.
Quindi Luciano Liggio non ha mai fatto un quadro.
I quadri di Liggio erano i vostri.
Erano sia miei che di Bronzini. Ma Alessandro
Bronzini, ripeto, allora lui era il vero maestro.
Anche se erano tanti anni che dipingevo e in
galera io ho venduto tantissimi quadri. Insomma
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io vendevo, perché c’erano altri mafiosi che mi
davano trecentomila, quattrocentomila… allora
insomma ogni quadro era… ma Luciano Liggio
non è che aveva questa possibilità. O Bronzini se
faceva un quadro, o lo usciva, perché lui faceva le
mostre che era un pittore buono. Quindi però
non è che mi potessi paragonare a Bronzini, perché Bronzini… onestamente io quando non sapevo cos’erano i colori o i pennelli, lui già era un
pittore. Insomma, io attualmente ho qualche
quadro di Bronzini ancora in cui ci sono, insomma, delle nature morte, persone con delle spade,
insomma… ce ne ho due-tre insomma…
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LA TESTIMONIANZA DEL GIUDICE TESCAROLI
«ERA GIÀ TUTTO SCRITTO»
Era già «tutto scritto». Lo sa bene Luca
Tescaroli, oggi sostituto procuratore a Roma,
che andò via dalla Procura di Caltanissetta
nove anni fa sentendosi delegittimato e amareggiato dalle indiscrezioni venute fuori dal
suo ufficio. Indiscrezioni che avevano rivelato
il suo rifiuto a firmare la richiesta di archiviazione per Berlusconi e Dell’Utri nell’indagine
sui mandanti esterni delle stragi. E oggi, ascoltando illustri colleghi, da Piero Grasso a
Pierluigi Vigna, affermare che non fu solo Cosa
nostra a gestire la campagna stragista del ’92’93, Tescaroli dice:
È da lì che bisogna ripartire, da quella richiesta di
archiviazione, punto di arrivo dei processi sugli
esecutori materiali e punto di partenza per nuove
indagini. Voglio precisarlo oggi: anch’io redassi
una richiesta d’archiviazione che non fu condivisa
dai vertici dell’ufficio, che al gip ne presentarono
un’altra ben diversa che mi rifiutai di firmare. A
me dissero che non bisognava lasciare un marchio
infamante sul nome degli indagati che furono poi
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avvertiti della richiesta d’archiviazione ancor
prima del suo deposito.
Che la finalità della stagione delle bombe fosse
«un progetto di aggressione allo Stato per incidere sugli assetti di potere e creare le premesse per
l’affermazione di una nuova aggregazione politica» stava scritto in quegli atti firmati da Luca
Tescaroli già nel 2001. Dice il magistrato:
Ma allora fui lasciato solo e sovraesposto, oggi c’è
un positivo ritorno di attenzione che dà voce a una
sete di giustizia e una seria determinazione negli
uffici giudiziari a dare un nome e un volto a quegli
uomini deviati delle istituzioni grazie anche alle
indicazioni che arrivano da nuovi collaboratori e
testimoni. Il collasso investigativo degli ultimi anni
è dovuto anche al fatto che non ci sono state più
collaborazioni di alto livello, probabilmente anche
a causa della nuova legge sui pentiti che ha di fatto
rallentato le collaborazioni.
La chiave di lettura per riprendere il filo interrotto allora, secondo Tescaroli, è una sola: una lettura unitaria di una stagione cominciata con l’attentato all’Addaura e finita con quello allo stadio
Olimpico mai messo in atto. «A due domande
bisogna rispondere su tutte: perché l’accelerazione della strage di via D’Amelio? E poi, c’è una
relazione tra la cessazione improvvisa dello stragismo e l’entrata in campo della nuova formazione politica?»
Domande da riproporre a Luca Tescaroli in
una nuova luce dopo che le recentissime dichia144
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razioni del pentito Gaspare Spatuzza e i primi
riscontri ordinati dall’autorità giudiziaria sembrano accreditare l’ipotesi del depistaggio di
Stato.
FRANCESCO VIVIANO: Lei ha condotto le indagini
sulle stragi, su Falcone, sull’Addaura, su via
D’Amelio. Che idea si è fatto a distanza di tanto
tempo, alla luce di quello che sta venendo fuori adesso?
LUCA TESCAROLI: Be’, posso dire questo innanzitutto: che l’atteggiamento di Riina non è in linea
con il comportamento dell’“uomo d’onore” che
riveste un ruolo in seno all’organizzazione Cosa
nostra. Riina decide di parlare e di prendere le
distanze, in modo assolutamente non credibile
rispetto alle sue responsabilità, però parlando lancia dei messaggi e fa chiaramente riferimento a un
coinvolgimento di altre persone nell’organizzazione delle stragi commesse nel biennio ’92-’93. E
richiama indicazioni che sono già emerse nel processo e che hanno indotto a ipotizzare, a intravedere che, unitamente alla partecipazione di Cosa
nostra a queste stragi, ci sia stata una convergenza d’interessi da parte di altre persone, appartenenti ad ambiti diversi da quelli di Cosa nostra.
Possiamo definirle organizzazioni istituzionali o
paraistituzionali…
Istituzionali o paraistituzionali o soggetti
appartenenti al mondo politico, imprenditoriale
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e finanziario. Nel corso dei processi sono emerse
le indicazioni citate da Riina, così in particolare
le indicazioni di uno, due, collaboratori di giustizia. Il primo Francesco Di Carlo, il quale ha riferito che nel corso del 1990, quindi dopo il fallito
attentato dell’Addaura ma prima della strage di
Capaci, ha avuto un colloquio nel carcere dove
era detenuto con un tale Mizar, personaggio ritenuto in contatto con i servizi segreti siriani, che
avrebbero partecipato anche a un attentato terrorista. Un soggetto che insieme ad altri esponenti
dei servizi segreti gli avrebbe chiesto un aiuto
per eseguire un attentato ai danni di Giovanni
Falcone. E, racconta Di Carlo, davanti a questa
sollecitazione, nutrendo lui dei rancori verso
Falcone, indicò la persona di Antonino Gioè. Che
poi effettivamente risultò aver cooperato per
l’esecuzione della strage di Capaci, e che morì
suicida il 29 luglio del 1993 nel carcere di
Rebibbia a Roma, in circostanze non del tutto
chiare, lasciando peraltro una lettera-testamento
nella quale faceva dei riferimenti ai servizi segreti. Altro collaboratore di giustizia è Gaspare
Mutolo, che manifestò il proposito di collaborare
con Giovanni Falcone, quando Giovanni Falcone
aveva lasciato il bunker di Palermo dove aveva
lavorato per il suo processo. Proposito che
Giovanni Falcone veicola poi al suo amico, Paolo
Borsellino, che interrogò Mutolo fino a due giorni prima di morire. Queste sono delle circostanze, sono indizi, elementi che inducono a pensare
che anche in ambienti diversi da Cosa nostra ci
fossero interessi per portare avanti la campagna
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stragista. Aggiungo anche un altro elemento di
carattere obiettivo: nel corso del sopralluogo
effettuato subito dopo la strage di Capaci, venne
trovato un bigliettino, nell’area prossima al cratere, con su riportato un nome di una società
riconducibile al Sisde e un numero di telefono in
uso a un funzionario del Sisde. Dato che in qualche modo si ricollega all’attentato di via Fauro
nel maggio del ’93. Anche questo induce a riflettere e consente di ipotizzare che ci siano state
partecipazioni esterne a Cosa nostra in questa
stagione stragista. Ed è un’ipotesi di lavoro che è
stata percorsa durante le investigazioni e che
avrebbe dovuto essere approfondita. Era un settore sul quale stavo lavorando: se fossi rimasto a
Caltanissetta quella è certamente una delle piste
che avrei approfondito.
E perché non è stato fatto?
Io devo fare una riflessione, questa. Sono stati
ottenuti risultati straordinari in riferimento alle
stragi commesse nel ’92-’93, un impegno significativo che si è registrato in maniera coesa subito
dopo gli attentati e che ha consentito di individuare i responsabili appartenenti agli organi di
comando di Cosa nostra, commissione regionale e
commissione provinciale di Cosa nostra, sia per la
strage di Capaci che per quella di via D’Amelio. E
sono stati raggiunti risultati analoghi anche per
altre stragi. È un traguardo molto importante,
soprattutto se si pensa che, nel nostro Paese, le
stragi e i delitti eccellenti rimangono avvolti dal
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mistero e non si scoprono i responsabili, non
hanno un volto. E per poter consolidare i risultati
si è dovuto attendere a lungo. Faccio un riferimento alla strage di Capaci, sono stati condannati trentasette appartenenti a Cosa nostra e il consolidamento di questi risultati, vale a dire la sentenza definitiva della Corte di Cassazione, è arrivata
solo il 18 novembre 2008. Sono stati necessari
sedici anni per arrivare a una sentenza definitiva
per la strage di Capaci. Per l’attentato all’Addaura
sono stati necessari diciotto anni perché per la
sentenza che ha consolidato le ultime due pronunce di condanna sono sette i soggetti responsabili, sei per la strage e uno per aver fornito l’esplosivo. Si è dovuti arrivare al 2007. Superando, con
riferimento all’Addaura, problemi di non poco
conto, perché non era riconosciuto neanche che
fosse un attentato, si riteneva che si fosse trattato
di una minaccia, sebbene la cosa appaia assurda,
minacciare Falcone quando già da tantissimi anni
aveva ricevuto minacce, non aveva senso. Però
c’era ancora chi lo credeva. In dibattimento ho
ascoltato uomini, autorevoli esponenti delle istituzioni che hanno manifestato questa convinzione.
E perché alcuni membri delle istituzioni, al processo, interrogati, sostenevano che si trattava di una
semplice minaccia e non di un vero attentato? Lei ha
fatto sorgere dei dubbi e soprattutto adesso, con tutto
quello che sta emergendo sul coinvolgimento di personaggi, chiamiamoli “strani”, appartenenti ai cosiddetti servizi privati. Tutto ciò non può avere un collegamento?
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Ma questo atteggiamento inevitabilmente alimenta il sospetto che non fosse casuale questa
tesi ma che fosse invece funzionale ad allontanare i sospetti su determinati ambienti: però da
magistrato ho l’obbligo di precisare che per affermare con certezza una responsabilità, una tesi, ci
vogliono prove inconfutabili. È ovvio che come
cittadino questi dati non possono non sorprendere e non fare riflettere. Il punto è sempre questo: perché determinati atteggiamenti sono stati
mantenuti? E poi perché, addirittura, in quel
periodo del tutto particolare e unico, credo, nella
storia del contrasto a Cosa nostra, sono state
divulgate lettere anonime infamanti che accusavano Falcone e altri appartenenti alle istituzioni,
quelli che erano più impegnati sul fronte antimafia? Venivano accusati di utilizzare i collaboratori di giustizia e il pentito Totuccio Contorno in
particolare per scopi non istituzionali, per dare la
caccia ai Corleonesi, per individuarli. Perché
Falcone è stato accusato di essersi organizzato da
solo, addirittura, l’attentato all’Addaura? Sono
singolari queste vicende, e devono far riflettere.
Certamente la provenienza di quelle lettere è istituzionale, i contenuti di quegli anonimi devono
essere oggetto di riflessione. Erano dodici pagine, fitte fitte che contenevano indicazioni e previsioni di quello che sarebbe accaduto…
Quello fu solo l’assaggio di ciò che sarebbe accaduto in seguito?
Non solo, ma anche in epoca precedente alla
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strage di Capaci venne diffuso un anonimo che
conteneva delle previsioni che in larga misura si
sarebbero poi avverate. E quel che è certo che
accadde nel biennio ’92-’93 è un qualcosa che nel
passato Cosa nostra non aveva mai posto in essere, aveva sempre compiuto delle attività selettive
nei confronti di obiettivi mirati. Invece negli anni
Novanta c’è stato un attacco frontale nei confronti dello Stato. Un attacco frontale al quale non
potevano non ricollegarsi delle conseguenze gravissime. I vertici di Cosa nostra uccidono
Falcone con una strage eclatante, con un’azione
che non ha avuto precedenti. Un fatto di questo
tipo, e dopo poco più di cinquanta giorni e nella
stessa città, una strage dello stesso tipo, non era
mai accaduto! E quindi, i vertici di Cosa nostra,
non potevano non mettere in conto che ci sarebbero state delle conseguenze, come ci furono.
Ricordiamo infatti che il giorno stesso in cui
avviene la strage di Capaci, trecento boss vengono mandati nelle carceri dell’Asinara e di
Pianosa, viene varato il 41 bis, quindi conseguenze pesanti per Cosa nostra. Ma, evidentemente,
avevano ricevuto delle assicurazioni. Nel senso
che quelle conseguenze che dovevano essere
ampiamente previste potevano in qualche misura essere neutralizzate. Poi, ancora, quella strategia che venne concepita fu una strategia terroristico-eversiva elaborata sul finire del ’91.
Cosa accadde in quel preciso momento storico?
Sul finire del ’91 viene pianificato un progetto
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criminale terroristico-eversivo che trae spunto
dalla televisione. Il maxiprocesso aveva avuto un
esito infausto per Cosa nostra e quindi decidono,
i vertici dell’organizzazione, di eliminare gli
acerrimi nemici e gli amici che avevano tradito e
che avevano dimostrato di non riuscire a far
fronte alle aspettative che Cosa nostra nutriva
dai tradizionali referenti. Per questo vengono
uccisi Falcone e Borsellino acerrimi nemici, e
vengono assassinati Ignazio Salvo e Salvatore
Lima. Si progetta di eliminare anche Claudio
Martelli, si progetta di uccidere l’onorevole
Calogero Mannino, vengono colpiti, sempre nel
’92, alcuni obiettivi simbolo, rappresentanti della
democrazia locale in Sicilia.
Che erano, fino a quel momento, i tradizionali referenti di Cosa nostra?
Esatto, la decisione presa dopo il maxiprocesso
era quella di recidere i rapporti con i tradizionali referenti. Questa strategia viene attuata con la
prospettiva di creare le premesse per consentire
che nuove forze politiche possano subentrare ai
tradizionali referenti. Contemporaneamente a
queste attività stragiste vengono avviate delle
trattative con esponenti delle istituzioni. Perché
è stato accertato che mentre lo Stato era impegnato a contrastare Cosa nostra, altri esponenti
dello stesso Stato avevano iniziato a trattare con
la mafia. Dando vita a una situazione apparentemente contraddittoria. Da qui la prosecuzione
del progetto criminale che si estende fino a colpi151
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re degli obiettivi inusuali per Cosa nostra, e mi
riferisco al patrimonio storico-artistico e monumentale della nazione, un progetto che affiora fin
dal 1992, e che viene partorito proprio dalla
mente di due mafiosi del calibro di Antonino
Gioè e Giovanni Brusca. Ma è un altro personaggio, Paolo Bellini, che dice: «Pensate che succederebbe se il giorno dopo il Paese si svegliasse e la
torre di Pisa crollasse».
Bisogna dire però chi era questo Bellini.
Bellini è un personaggio un po’ particolare che
asserisce di essere venuto in Sicilia con lo scopo
di riscuotere dei crediti per conto di una società.
In realtà è un uomo dei servizi. A cavallo fra criminalità e servizi segreti.
… che porta avanti un’attività finalizzata a
recuperare delle opere d’arte trafugate. Bellini
intavola una trattativa con Cosa nostra e i vertici
dell’organizzazione per far fronte a quest’aspettativa di recuperare delle opere provenienti dai
furti e in cambio chiede dei benefici carcerari per
i boss. Alcuni si trovavano in carcere, e chiede
per loro o gli arresti domiciliari o quelli ospedalieri. Questa trattativa viene portata avanti e
l’idea che nasce di colpire il patrimonio artistico,
a quanto ci dicono i collaboratori di giustizia, è
stata elaborata in questo momento storico. Ma
partoriscono anche altre strategie senza precedenti per Cosa nostra: pensano di disseminare
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alcune spiagge molto frequentate con siringhe
infette, pensano di avvelenare delle merendine
vendute nei supermercati… ma il primo atto
concreto risale all’autunno del 1992, quando
viene collocata una bomba nel giardino Pitti a
Firenze. In quell’occasione ci fu anche una rivendicazione da parte di un esponente dell’organizzazione. L’idea di colpire il patrimonio storico
della nazione si concretizza, si perfeziona, l’anno
seguente, dopo una riunione tecnico-operativa
nell’aprile del 1993. In quel momento si decide di
passare all’azione vera e propria. Dopo aver tentato di colpire Maurizio Costanzo, il 27 maggio
’93 si assiste alla strage di via dei Georgofili, a
Firenze, e la notte tra il 27 e il 28 luglio del ’93
vengono compiuti due attentati ai danni di due
chiese simbolo della cristianità a Roma e viene
colpito il Padiglione di arte contemporanea a
Milano. Viene colpito un qualcosa che non ha
nulla a che fare, almeno apparentemente, con
Cosa nostra. Allora per quale motivo si colpiscono quegli obiettivi? Ci sono molte domande che
attendono ancora risposte.
Ma proprio in quel momento in cui Cosa nostra
cambia strategia e fa attacchi diretti ed eclatanti allo
Stato, distruggendo monumenti, beni artistici, chiese,
mietendo vittime innocenti in tutto il Paese, contemporaneamente ci sarebbe stata un’altra, ulteriore trattativa alla ricerca di nuovi referenti politici, che avrebbero avuto un qualche ruolo come mandanti esterni
delle stragi. Fu proprio lei, quando lavorava a
Caltanissetta, a indagare “Alfa” e “Beta”. Che altri
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non erano se non Silvio Berlusconi e Marcello
Dell’Utri. Poi scagionati e archiviati, in maniera un
po’ polemica…
Per il magistrato rimane comunque l’obbligo
del segreto ma di quello che è emerso dai processi si può e si deve parlare perché rappresenta un
punto di arrivo per l’accertamento della verità
ma anche un momento di partenza per ulteriori
verifiche. Ci fu un’ulteriore trattativa che inizia
in un momento molto particolare della stagione
stragista: tra la strage di Capaci e quella di via
D’Amelio. Questo è molto significativo e deve
far riflettere per varie ragioni. Proprio in quel
periodo i vertici dell’organizzazione decidono di
accantonare i progetti d’omicidio già deliberati,
ad esempio quello dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino, un progetto a cui avevano
già cominciato a lavorare. E viene invece accelerata l’esecuzione di una strage già decisa volta a
colpire Borsellino. Allora il punto è: perché ci fu
questa accelerazione? Come mai si decide di
accantonare il progetto di colpire Mannino? E c’è
un legame tra la nascita di questa trattativa, l’uccisione di Borsellino e in particolare questa accelerazione?
Qualche indicazione nel tempo è stata data.
Giovanni Brusca ha detto che l’uccisione di Borsellino
fu accelerata proprio perché lui aveva saputo della
trattativa, e si sarebbe opposto. E nei mesi scorsi, la
vedova, la signora Agnese, ha dichiarato ai pm di
Caltanissetta che il marito, alcuni giorni prima di
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essere ammazzato, aveva incontrato un ufficiale dei
carabinieri, un generale e le avrebbe detto: «Ho visto
la mafia in faccia».
È un punto che resta ancora oscuro, sono indizi che devono porre degli interrogativi.
Certamente, se Paolo Borsellino fosse venuto a
conoscenza dell’esistenza della trattativa, con la
quale i vertici dell’organizzazione miravano a
ottenere, in cambio della cessazione delle stragi,
una politica legislativa favorevole, certamente se
Borsellino fosse venuto a conoscenza di un’iniziativa di questo tipo, anche solo di una sorta di
avvio di un rapporto con i mafiosi, ovviamente si
sarebbe opposto a questa attività e la sua eliminazione avrebbe potuto rispondere all’esigenza
di togliere un ostacolo a questa trattativa. Però è
solo un’ipotesi. Ma c’è anche un altro dato
importante che suscita altri interrogativi. La trattativa, sulla base di quanto è emerso dai processi, comunque viene portata avanti nel 1993, dopo
che c’è stato l’arresto di Salvatore Riina con tutte
le anomalie che lo hanno caratterizzato, e mi riferisco alla mancata perquisizione della casa dove
abitava con la famiglia. Dopo questo passaggio
accade che viene pianificato, secondo più voci
provenienti dall’interno di Cosa nostra, l’attentato che avrebbe dovuto essere il più devastante di
quella stagione stragista, cioè l’attentato allo
Stadio Olimpico di Roma, con l’obiettivo di colpire più persone possibili. Quell’attentato non
riuscì, fortunatamente, perché il telecomando
non funzionò. Ma quello che è anomalo e che
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deve far riflettere è questo: per quale motivo
quell’attentato che poteva essere replicato non
venne più eseguito? Certamente non perché
Cosa nostra non avesse le risorse, aveva certamente la capacità di compiere un delitto di quel
tipo. Ma improvvisamente c’è una cessazione
della campagna stragista, e avviene proprio
quando muta lo scenario politico e istituzionale
che è stato colpito da una duplice azione: da un
lato da Cosa nostra con le stragi, e dall’altro dalle
indagini di Tangentopoli. Quindi una classe politica viene azzerata e quando viene generato un
nuovo assetto di potere, nuove forze subentrano,
le stragi cessano. Questo è un dato oggettivo.
Quindi bisognerebbe capire se e quale rapporto
sia sussistito tra la trattativa, il nuovo assetto di
potere e lo stop della campagna stragista. Si tratta di quesiti irrisolti ma importanti per conoscere la storia della nostra democrazia, in un passaggio estremamente complicato. Per tornare al
tema originario dell’esistenza di depistaggi, e di
molte anomalie nella campagna stragista, questi
sono momenti importanti che richiederebbero,
oltre all’impegno dei magistrati e degli investigatori, che stanno lavorando su tutto, anche una
rinnovata sensibilità da parte della società civile,
che ha il diritto di conoscere cos’è avvenuto e le
responsabilità che hanno ruotato attorno a questo disegno criminale che ha caratterizzato il
nostro Paese.
Torniamo a Totò Riina: il boss manda sicuramente
dei messaggi, non nega spudoratamente di aver parte156
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cipato alle stragi, ma nega le sue responsabilità per gli
attentati del ’93 e chiama in causa i politici, i servizi,
Ciancimino e recentemente ha detto: «Cercate a casa
vostra» cioè all’interno dello Stato per poi concludere:
«Io sono una vittima della trattativa».
Sono delle dichiarazioni che vanno lette e
interpretate con attenzione. Certamente Riina è
stata una vittima della trattativa perché lui è
stato catturato proprio durante la trattativa stessa. Quindi ha ragione quando dice questo.
Probabilmente si duole del fatto che altri abbiano
ottenuto dei benefici. E in questa prospettiva
possono essere lette le sue esternazioni, che sembrano contenere delle minacce comprensibili
chiaramente ai destinatari. È un modo di porsi in
linea con la società siciliana, con la filosofia corleonese…
Poi c’è un’altra vicenda che sta emergendo, appunto, quella dei depistaggi, già in parte accertati nelle
indagini sulla strage di via D’Amelio con il pentito
Enzo Scarantino che depista, che manda in carcere
delle persone, alcune delle quali a questo punto forse
innocenti. Rivela, ritratta, poi spunta un altro pentito, Gaspare Spatuzza e questo processo sembra certamente destinato ad andare verso la revisione. Ma
secondo lei, Scarantino era manovrato? E da chi?
La vicenda di Scarantino è piuttosto particolare.
E se vi sarà una revisione, dovrà certo valutare le
nuove risultanze che sono state acquisite. Certo
che ci muoviamo su un terreno difficile, un
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campo minato, perché per un verso abbiamo
delle dichiarazioni di Scarantino la cui credibilità, già nei processi celebrati per la strage di via
D’Amelio, è stata compromessa. La credibilità è
parziale per Scarantino. Le sue dichiarazioni si
rivolgono principalmente a quattro imputati. Se
dovesse essere dichiarato inattendibile questo
riguarderebbe la posizione di quattro imputati.
Un altro aspetto su cui riflettere è come mai
Spatuzza, dopo un lungo periodo di detenzione,
decide di collaborare. Probabilmente sono stati
commessi degli errori, bisogna andare a rileggere e interpretare ciò che è accaduto sin dall’inizio
della gestione del pentito o forse c’è stato qualcosa di più e di diverso. Ma questo sarà stabilito
dalle indagini svolte dai colleghi di Caltanissetta
che, seriamente, stanno lavorando per cercare di
capire quello che è accaduto.
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Ringraziamenti
I nostri più sentiti ringraziamenti a Gaspare
Mutolo, al dottor Luca Tescaroli, Miriam,
Francesco, Edo e Alba.
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Indice
9 Introduzione
Le troppe verità ignorate
17 Le rivelazioni di Riina:
«Borsellino? L’ammazzarono loro…»
25 La sentenza di morte contro Falcone
37 Antonino Caponnetto,
il “padre spirituale” di Falcone
55 Il testamento di Ciancimino junior
65 Il caso Scarantino
87 Gaspare Mutolo
«Borsellino? Io l’avevo avvisato
123 E spunta la talpa:
«C’era un certo Teresi…»
131 In cella con Riina
139 «Bronzini e i quadri di Liggio fatti da noi»
143 La testimonianza del giudice Tescaroli
«Era già tutto scritto»
159 Ringraziamenti
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Questa parte di albero
è diventata libro
sotto i moderni torchi
di Grafica Veneta, Trebaseleghe (PD)
nel mese di luglio 2010.
Possa un giorno
dopo aver compiuto il suo ciclo
presso gli uomini desiderosi di conoscenza
ritornare alla terra
e diventare nuovo albero.
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