Il mondo in tasca

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Il mondo in tasca
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Il mondo in tasca
Austria
I racconti del
Premio LiberEtà 2015
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nz
o
I racconti del Premio LiberEtà 2015
Tre narrazioni brevi, ma parimenti autentiche; eppure, gli scenari che ne
costituiscono lo sfondo non potrebbero essere più diversi e lontani, nel
tempo e nello spazio.
Quanto dista una capanna fra i boschi della Sila greca da una tenda nel
deserto del Saharawi? E cosa accomuna l’una e l’altra ai reticolati di una
trincea scavata un secolo fa per combattere una guerra feroce (l’“inutile
strage” la definì il Pontefice del tempo) nel cuore dell’Europa della Belle
Epoque? Difficile rispondere. Eppure, nessuna di queste situazioni ci è estranea. Forse questa pubblicazione collettiva riuscirà a spiegare che la memoria
è, per ciascuno di noi, non soltanto un viaggio a ritroso nelle proprie esperienze di vita, bensì gli occhi per guardare al mondo con la volontà di comprenderlo in tutte le sue contraddizioni, anche leggendo le tracce lasciate da
altri. Ciascuno ha una capanna in cui rifugiarsi con i propri affetti; nessuno
può illudersi di bastare a se stesso; tutti sanno cosa siano sofferenza e smarrimento. Entro questo spazio si svolge la vita; ogni vita.
Mar Tirreno
cosenza
catanzaro
Mar Ionio
Istria
fiume
Il mondo in tasca
I racconti del Premio LiberEtà 2015
Paola Maccioni
Eugenio Vittorio Donise
Barbara Ferraro
La melfa
Arrivo ad Algeri
La Casbah è un dedalo di viuzze strette e maleodoranti. Dalle piccole porte si affaccia qualcuno che mi guarda senza un sorriso. Mi piacerebbe non essere riconosciuta subito come straniera. Non fotografo,
ho paura, ma non perché mi senta in pericolo, è una paura indotta
dagli avvertimenti, dal nome magico di Casbah che porta alla mente
un mondo segreto e sconosciuto agli occidentali.
Arrivo al mercato, quanti odori, profumo di spezie conosciute e no,
colori di verdure e insalate, frutta; bancarelle e sacchi pieni di legumi
di ogni forma e dimensione; alcuni li chiamo genericamente fagioli o
lenticchie, non li conosco e assegno un nome per verosimiglianza. Altri
mi ricordano le zuppe di mia madre, e ortaggi che qui a Parma non
trovo più.
Mi sembra, in certi momenti, di essere alla Vucciria, a Palermo. Ricordo i banchetti del pesce e li ritrovo uguali qui, con il pesce azzurro e quello della piccola pesca. Che bello non vedere orate e spigole di dimensioni
standard, con gli occhietti lucidi dell’appena pescato in peschiera!
Le spezie arrivano dalla Turchia e dall’Egitto; il tè dalla Cina; i legumi, in gran parte dall’Argentina, o almeno così c’è scritto sui sacchi
che li contengono.
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IL MONDO IN TASCA
Mi fermo a parlare con un anziano signore. È un francese che ha
scelto di stare qui, perché ama questa vita che scorre in un tempo dilatato. È proprio vero: ciò che mi sembra frenetico è in realtà la vita
tranquilla del sud. Sono abituata a correre per lavorare, per studiare,
per andare al cinema, per divertirmi, qui si corre per vivere, ma si corre
al rallentatore e il metro di giudizio è diverso. Si ha il tempo di gustare
la vita e non la si vede semplicemente passare per poi chiedersi “ah, ma
non era ieri Natale?”.
Non so se riuscirei ad adattarmi a vivere come loro, prendo semplicemente atto che esiste un altro o altri stili di vita. Non è detto che
il mio sia peggiore o migliore, è solo diverso, e ciò che apprezzo è la
possibilità di fare dei confronti e d’importare il meglio nella mia vita.
Tutto intorno a me sporcizia, disordine, rumore. Questi sono i termini esatti del mio codice linguistico e sociale per descrivere ciò che c’è
per terra, sparso per la strada e nell’aria, un gran casino.
Il rumore è parte della loro vita. Che parole userebbero, loro, per
definire il cicaleccio continuo, la musica, i battiti delle mani, i canti che
s’intrecciano? Non lo so. Ma certo non rumore. E per definire gli scarti
di frutta e verdura che ricoprono l’asfalto come un tappeto multicolore, mischiati a carta, pezzi di tessuto e oggetti vari?
Mi stupisco solo perché penso per un attimo come una malgascia:
“Quanto ben di Dio!”. E poi ancora: “Ma cosa avranno da dire di così
importante che parlano a voce così alta?”.
Che contrasto con le silenziose strade di Ambositra, e che strano
vedere bottiglie di plastica o vasetti di vetro e scatole d’alluminio in
ogni angolo. Penso al mercato di laggiù: le bottiglie, bene prezioso, in
vendita, esposte su stuoie stese per terra; gli artigiani che riciclano la
latta in oggetti che diventeranno souvenir o giochi per i bambini, come
era da noi, una volta.
Mi rendo conto che non penso in termini d’igiene; mi rendo conto di
quanto sia importante conoscere altre realtà per riuscire a non giudicare.
E ancora le persone, quanta gente. La maggior parte sono uomini,
in giro e dietro i banchi di vendita. Poche donne, pochissimi bambini.
La gente, per la maggior parte, somiglia ai nostri meridionali.
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Paola Maccioni - ABITARE IL MONDO
Ho visto uomini molto belli, scuri di pelle e di capelli con gli occhi
azzurri o verdi.
Le donne non sono tanto alte, hanno dei visi molto disegnati. Gli
occhi scuri sono incorniciati dalle sopracciglia arcuate e dal kajal; la
pelle delle giovani donne sembra di porcellana e le più anziane o vecchie sono sempre molto femminili, chiuse nel loro velo con la mascherina ricamata che copre naso e bocca. Vestono tutte le lunghe tuniche
con un perfetto abbinamento di colori.
Algeri non è una città ricca, ma sicuramente neanche povera. Non
ho visto nessuno vestito elegantemente o con dei bei tessuti: tutto è
molto scadente, le stoffe made in China e le t-shirt con le targhette
contraffatte con il nome delle grandi marche fanno male…
Mi hanno colpito i loro abiti da cerimonia: estremamente ricamati
con passamanerie in oro e perline, di tutti i colori, dal bianco perla al
nero, al giallo, al bordeaux, al verde. Mille Cenerentole al ballo!
Dalle bettole esce l’odore di kebab e olio fritto e strafritto. Mi fa senso vedere le mosche sul pane e sui dolci, ma ho deciso che se migliaia
di persone li mangiano posso farlo anch’io. Mi compro un dolce non
meglio definito, sa di unto e di uova, forse della crema al forno, l’omino
che me l’ha venduto dice che è flan. Preferisco non indagare e mangio
tutto, suscitando l’ammirazione dei clienti: gli stranieri in genere non
mangiano niente per strada. Ma io quando una terra mi ospita non
sono più straniera. Ne divento parte, e non mi ammalo mai, sarà la mia
anima vagabonda a pregare che io passi indenne?!
È ora di rientrare all’albergo in stile moresco. Mi piace, mi affascina con
le sue mattonelle bianche e blu dai fiori stilizzati; con i suoi piccoli archi
ogivali, i tappeti e gli stucchi lavorati a foglie e fiori da mille e una notte.
Si va a mangiare in un locale non per stranieri, ma per tipica gente algerina! I proprietari ci guardano stupefatti, non hanno molto da offrire:
i soliti spiedini di interiora di montone, montone, pollo. Tutto tagliato
in piccolissimi pezzi per accelerare la cottura; patate ‘vere’, non surgelate, tagliate in modo disuguale, per cui oltre a essere imbevute d’olio un
po’ rancido, sono mezzo crude; il pane arabo è buono, cotto nel forno a
legna e la salsa piccantissima di peperoni verdi fa spalancare la bocca.
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IL MONDO IN TASCA
Ho il coraggio di mangiare l’insalata verde, non mi pongo il problema di come è lavata, mi viene da ridere pensandomi a casa mentre
metto nell’acqua l’amuchina o il bicarbonato, e mi ritrovo a giurare a
me stessa che non lo farò più! La frutta? Datteri. E per dolce una caramella offerta su un piattino da caffè con gli stuzzicadenti!
Bene. Posso dormire tranquilla, l’ultima cosa che sento è il canto del
muezzin. Perfetto, mi ricorda Mostar, mi sento a casa una volta di più.
Domani continuerò il mio viaggio verso il campo profughi saharawi.
Sahara
Tindouf, ultima città algerina nel Sahara, a circa duemila chilometri
dalla capitale. Non uno dei miei sensi è preparato a quello che mi attende. La pista d’atterraggio si confonde con il resto del paesaggio, tutto
rosso, colorato dal sole che brilla in un cielo immensamente azzurro:
anche i colori hanno dimensioni spaziali, quaggiù. Gli aerei parcheggiati in pista sembrano giocattoli abbandonati nel deserto. Il rumore è
sommerso dal silenzio: nessun edificio, nessuna pianta, nessuna montagna per fermare e restituire il rombo dei motori. Un soldato armato
di mitra si avvicina e mi fa cenno di sbrigarmi. I miei compagni di viaggio si dirigono velocemente verso l’aerostazione; sono quasi tutti algerini o saharawi. Io sono diretta al campo profughi saharawi di Dajla.
L’Algeria ha ospitato, trent’anni fa, questo popolo in fuga dalla propria
patria: il Sahara Occidentale, colonia spagnola, i cui confini sono stati
sanciti dal trattato di Berlino del 1884. Nel 1973 viene fondato il Fronte
Polisario: Fronte di Liberazione di Saghuia el Hamra e Rio de Oro, il cui
manifesto è quello di combattere fino all’indipendenza del popolo saharawi e al riconoscimento della sua sovranità sulla propria terra.
Nel 1975 la Spagna si ritira dal Sahara Occidentale, cedendolo al
Marocco e alla Mauritania, che lo invadono. Una parte della popolazione civile, per sfuggire al genocidio, si rifugia nel deserto algerino.
Nello stesso anno, la commissione inviata dall’Onu riconosce il diritto
del popolo saharawi all’autodeterminazione, condannando l’invasione.
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Paola Maccioni - ABITARE IL MONDO
Nel 1976 viene proclamata la Repubblica Araba Saharawi Democratica, sul territorio dell’ex Sahara Occidentale.
Nel 1978 la Mauritania, a seguito di un golpe militare, rinuncia al
conflitto, e il Marocco invade anche la parte meridionale del Paese.
Oggi, circa cinquecentomila persone vivono nell’Hammada, Sahara
sud occidentale algerino. Buona parte del mondo ha dimenticato questo popolo che è aiutato dalle associazioni di volontariato internazionale. Faccio parte di una di queste e sono qui per lavorare alla scuola
speciale per i bambini disabili.
Le formalità burocratiche alla dogana sono lunghe e noiose, come
in ogni parte del mondo. Fuori dell’aeroporto mi attende la jeep che mi
condurrà a Rabouni, la capitale in esilio. Saluto Abdullah e Omar, che
saranno i miei accompagnatori. Caricato lo zaino sono pronta: andiamo verso l’orizzonte.
Rabouni non è una città: una serie di costruzioni bianche, basse,
senza stile architettonico definito, distanti l’una dall’altra. Su ogni edificio svetta la stessa bandiera: strisce orizzontali, una nera, una bianca
e una verde, un triangolo rosso e la mezzaluna con la stella rossa.
I ministeri, il Governo e il palazzo presidenziale sono tutti qui. Due
altissime torri: una è il serbatoio dell’acqua, l’altra un traliccio con le
antenne per le comunicazioni. Non ci sono strade: i segni degli pneumatici indicano il percorso migliore. Il traffico è inesistente. Le jeep
appartengono allo Stato, sono una ventina, guidate da uomini che conoscono il deserto come le loro tasche. Il rappresentante del Polisario
mi accoglie al Protocollo. Mi ringrazia per la presenza: gli aiuti sono
importanti. La presenza internazionale ancora di più.
Risalgo sulla jeep. Mi aspettano dalle quattro alle cinque ore di strada. Strada? Sono preoccupata. Come faremo a non perderci? Il paesaggio è tutto uguale. Cambiano solo i colori della sabbia. Dal bianco al
nero ci sono proprio tutti. Il blu scuro del miraggio sembra l’oceano; il
celeste perlato, un lago. Il verde mi fa pensare all’oasi e sospiro di sollievo: un punto di riferimento. Omar, l’autista, ride: laggiù non c’è nulla!
Guardo la sabbia, cerco un segnale: niente. I segni degli pneumatici che
speravo indicassero la direzione sono infiniti.
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IL MONDO IN TASCA
Basta. Decido di rilassarmi e di guardare le rocce che ogni tanto
vengono fuori dal nulla a formare un paesaggio lunare.
Omar decide di fare una sosta. Nel deserto il tempo non è scandito
dall’orologio, ma da luoghi ben precisi. Scendiamo dalla jeep. Abdullah
smuove la sabbia. Appaiono delle pietre nere: è carbone. Mi spiega che
ogni viaggiatore si ferma lì a preparare il tè, e utilizza quel carbone;
prima di ripartire ricopre accuratamente i tizzoni che un altro troverà:
non c’è legna nel deserto. Seduta per terra a gambe incrociate guardo
i movimenti di Omar. Il tè è un rito senza tempo: il bricco blu sulla
brace, i sei bicchierini di vetro disposti in semicerchio davanti a lui.
Con movimenti rapidi e sicuri riempie il primo bicchiere e travasa il
contenuto da uno all’altro; dall’alto verso il basso, senza rovesciarne
una goccia.
Omar racconta di sé e m’ipnotizza con la voce e con i gesti. Il primo
tè è amaro come la vita. Passa da un bicchierino all’altro ancora dieci,
venti volte, finché non torna dentro il bricco.
La schiuma bianca sale in superficie mentre Abdullah serve il liquido verdastro.
Beviamo a turno. È davvero amaro. I bicchieri tornano sulla sabbia
mentre Omar mette un po’ di zucchero nel bricco. Ricomincia la danza
del tè. La schiuma bianca è più densa e i racconti continuano. Il tempo
passa portando con sé immagini di vita impossibile.
Il secondo tè è dolce come l’amore. I bicchieri passano di mano in
mano. Non commento mentre appoggio il mio, davanti ad Abdullah.
- Se non lo senti dolce significa che non sei innamorata – mi dice
sottovoce, mentre l’amico aggiunge dell’altro zucchero nel bricco.
Omar parla e racconta del suo amore morto sotto i bombardamenti
del 1975. Non una goccia è versata fuori dai bicchieri. Guardo le sue
mani scure e gli occhi lucenti. Il tè ha il rumore di una cascatella argentina mentre passa da un bicchiere all’altro. La schiuma ora mi ricorda
quella bianca e densa, fatta di bollicine compatte, che si forma ai bordi
delle saline. Il terzo tè è soave come la morte.
Bevo in silenzio. I tizzoni sono ricoperti accuratamente di sabbia, i
bicchieri e il bricco riposti nella sacca. Il viaggio prosegue.
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Arriviamo alle porte di Dajla: due colonne di pietre color deserto si
stagliano nel cielo.
Dietro, ancora il nulla; tutto intorno sabbia, roccia e azzurro. Finalmente, dopo qualche minuto, l’orizzonte è meno piatto: le tende del
campo. Non ho voglia di pensare.
Una donna avvolta nella melfa che lascia intravedere solo gli occhi
mi viene incontro. Mi saluta mettendomi la mano destra sulla spalla e
poi portandosela al cuore. La imito sorridendo e ci abbracciamo. I nostri saluti s’incrociano in aria. Il mio ciao e il suo salam alaykum. Spero
che parli francese o inglese. Io capisco ma non parlo spagnolo e tremo
al pensiero dell’arabo!
La seguo nella tenda trascinandomi lo zaino. Imito i suoi gesti. Mi
tolgo le scarpe prima di entrare e saluto con un timido “salam alaykum” la famiglia riunita.
Quella mano, che ognuno si porta sul cuore prima di abbracciarmi,
mi fa sentire benvenuta più di tante formule di saluto che conosco.
Dice più di tante parole. Le donne sono avvolte nelle melfe colorate.
Vedo solo gli occhi incorniciati dal kajal e le mani disegnate con mille
arabeschi d’henné o henna, come lo chiamano qui.
Mi siedo accanto a loro e subito mi danno una coperta. Fa freddo,
la sera, nel deserto. Gli uomini vanno via e le donne si scoprono il viso
sorridente. Ora distinguo madri e figlie, giovani e anziane. Sopracciglia
arcuate perfettamente disegnate, volti incorniciati da una banda di lisci
capelli neri.
Neanche davanti a me tolgono il velo che copre la testa. Maima è la
padrona di casa. È lei il capo di questo gineceo che mi guarda stupito
per la magrezza e i capelli corti: “Ma che donna sarà mai?”. Non ho
voglia di cenare, sono troppo stanca. Accetto alcuni datteri e un pezzo
di pane. Mi distendo distrutta sul tappeto, domani comincio il mio
lavoro alla scuola e voglio riposare. Maima e le altre vanno via.
- Leila saida.
È la loro buonanotte.
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