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BAIG IV, supplemento settembre 2011
LEGGERE COME EDITARE
Guido DAVICO BONINO, Torino
Grazie. Intanto ricambio le parole cordiali che Enrico De Angelis ha voluto
riservarmi e ricordo che sono quarant’anni che ci conosciamo; sembra
impossibile ma così è: fu nell’ambito del mio lavoro presso Einaudi che
ebbi il piacere di presentare ai colleghi, ovviamente con l’avallo di un
grande germanista come Cesare Cases, il primo libro suo, che
pubblicammo nel 1971, Arte e ideologia grande borghese. E ricordo anche
la nostra grande sorpresa nel ricevere un dattiloscritto che credevamo
impossibile che un germanista potesse aver scritto, dal momento che era
dedicato ad Alessandro Manzoni, e che tuttavia pubblicammo con grande
piacere nel 1975. E poi naturalmente mi piace citare i suoi lavori di
traduzione, che sono stati per noi molto preziosi, come la Teoria estetica di
Adorno, la Sociologia dell’arte di Hauser (mentre, da patito del teatro,
vorrei ricordare il Peter Handke di Esseri irragionevoli in via d’estinzione).
Confesso che ho provato un certo disagio, quando Enrico mi ha telefonato,
con enorme anticipo rispetto alla data di oggi, per chiedermi di parlare sul
«Leggere come editare». Io sono totalmente incapace di fare della teoresi –
forse per questo non riesco a leggere nessun libro di filosofia: so parlare
soltanto basandomi su dati empirici e trarre dai dati empirici qualche
considerazione. Gli feci osservare che parlare di «leggere come editare» per
me voleva dire parlare dell’esperienza eccezionale che ho avuto la fortuna
di vivere in Einaudi, e che provavo disagio perché inevitabilmente avrei
dovuto parlare di me, oltre alla emozione nell’evocare tante persone che
non ci sono più. (Ho citato Cases, ecco un caso di un grande studioso che ci
ha lasciati.) Mi riferisco a quella che viene chiamata ora tradizionalmente
dagli storici dell’editoria e della cultura italiana la «terza» Einaudi. È una
periodizzazione che ha lanciato una studiosa, Luisa Mangoni, che ha
dedicato un solido volume di analisi al lavoro editoriale dell’Einaudi. La
«prima» Einaudi è quella che va dalla fondazione agli anni Cinquanta,
l’Einaudi di Pavese e l’Einaudi di Leone Ginzburg, e che trova una cesura
brusca col suicidio di Pavese all’hotel Roma di Torino nell’agosto del 1950.
Poi c’è una «seconda» Einaudi – seguo sempre la periodizzazione della
Mangoni – che vede l’ingresso al fianco del fondatore di una serie di
compagni di scuola, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Franco Venturi e la
vedova di Ginzburg, Natalia Ginzburg, e vede alla guida della direzione
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letteraria della casa editrice un grande scrittore che non volle mai
ammettere di essere il direttore letterario della medesima, cioè Italo
Calvino. Io sono entrato nella «terza» Einaudi, quella che va – dicono
sempre gli storici dell’editoria – dal 1960 al 1980. Ed è su questa
esperienza che voglio in qualche modo impostare il mio discorso e trarre
qualche riflessione sul tema che mi è stato proposto. Per un colpo del tutto
immeritato di fortuna entrai nel 1961, a 23 anni, in quella prestigiosa casa
editrice, subentrando a Italo Calvino come capoufficio stampa, quando essa
stava ampliandosi enormemente, sia come numero di editors (come si usa
dire oggi), cioè di specialisti responsabili di un settore, sia come numero di
consulenti che vengono a gravitare intorno ad essa. Sono gli anni nei quali
Cases viene dalla casa editrice cooptato come germanista e lavora a Roma,
in una microredazione in via Veneto, insieme a due francesisti, Giancarlo
Roscioni, che poi ci darà un grande libro su Gadda pur essendo un
francesista, e Guido Neri, un francesista puntigliosissimo nel lavoro sia di
proposta sia di editing delle varie traduzioni. Vengono in quegli anni a
lavorare con noi Vittorio Strada come slavista, in particolare come
specialista di letteratura russa; viene assunto un grande storico che ha
studiato in Francia, Corrado Vivanti; viene avvicinato quello che si sta
delineando come il più lucido sociologo italiano, Luciano Gallino: la
cattura più inconsueta per le nostre abitudini è quella di un grande anglista
«eretico», Giorgio Manganelli. Poi, per una specie di fenomeno di osmosi,
che determina anche situazioni molto singolari, entrano altre figure di
grande livello: Carlo Carena, il nostro antichista e grandissimo traduttore, il
quale decide a 45 anni che non fa più l’insegnante dai Rosminiani di latino
e greco ma viene a lavorare in casa editrice – in genere si faceva
l’incontrario, si cominciava in casa editrice e poi si andava a insegnare,
perlopiù all’università, ma il richiamo dell’Einaudi «terza» era molto forte
– poi un filologo romanzo di formazione, che in realtà si rivelò un
attivissimo critico d’arte, Paolo Fossati, e poi via via vari altri colleghi.
Parlo di una generazione che è quasi tutta scomparsa, anche tra i più
giovani, come appunto Fossati, e nei mesi scorsi se n’è andato proprio
l’ultimo «poulain» che avevamo ingaggiato all’ufficio stampa, Nico
Orengo.
Ci sono due grandi motori di questa «terza» casa editrice: sono due
normalisti pisani compagni proprio di classe, che poi si cooptano l’uno con
l’altro, e sono Giulio Bollati, allievo a mezza strada tra Luigi Russo e Delio
Cantimori, e Daniele Ponchiroli, che viene cooptato da Bollati stesso e che
è un italianista puro, allievo di Russo. Bollati sarà il direttore generale della
casa editrice fino all’acquisizione di un marchio che tutti conoscete, Bollati
Boringhieri, e Daniele Ponchiroli sarà l’infaticabile caporedattore. Bollati,
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che con Calvino è stata una delle due persone che mi ha formato a questo
lavoro, era una personalità d’eccezione, grazie alla presenza e al magistero
della quale alcuni di noi si sono molto arricchiti tra i primi anni Sessanta e
il maggio del 1996, in cui è purtroppo venuta a mancare. Era l’uomo che ha
spiegato in quegli anni a noi giovani come il principio cardine del lavoro
editoriale non fosse la singola scelta, ma il progetto d’insieme. Io confesso
che all’inizio trovai molta difficoltà a comprendere quest’idea perché
venivo dal chiuso dell’università e credevo che esistesse l’italianistica in
cui mi ero laureato, la germanistica che praticate voi, l’anglistica, la
francesistica, la filologia romanza e così via: insomma, pensavo che la
cultura dovesse essere limitata da barriere specialistiche molto rigide. Vi
leggo un mio appunto che si riferisce (spero, fedelmente) a quella che per
Bollati era l’idea di progetto: «Siamo in una fase di transizione, alla
vecchia guardia sta subentrando una nuova di cui anche voi più giovani fate
parte. Ora bisogna che guardiamo a un’Italia, a un’Europa, a un universo in
grande trasformazione, e la verità è che non sappiamo dove stiamo
andando.» Siamo nei primi anni Sessanta; questa è la sintesi di un colloquio
di lui con me: «Abbiamo le collane, che sono davvero il retaggio che i
grandi morti – chiamava così Leone Ginzburg e Cesare Pavese – ci hanno
lasciato, la Biblioteca di cultura storica, i Saggi Rossi, i Millenni, ma io non
mi sento più tanto tranquillo al riparo di queste solide architravi. Sono
ossature magnifiche, di grande robustezza, che danno alla nostra casa tutto
il respiro che merita, ma la mia paura è che ciascuna di loro diventi con gli
anni solo uno splendido contenitore. È vero, come dici tu quando mi riporti
i verbali delle riunioni del mercoledì, che i nostri consulenti fanno delle
bellissime scelte: ma sono correlate l’una all’altra, fanno insieme progetto?
Sull’esempio dell’Einaudi, come avrai visto, sono nate e ancora nasceranno
altre case editrici: molte lavorano bene, ci fanno già ora concorrenza. Ma
finché il loro catalogo sarà fatto di scelte singole non mi preoccupano:
quello che mi preoccuperebbe è che si mettessero seriamente a correlarle
secondo un progetto unitario. Noi dobbiamo saperlo fare prima di loro. X»
– naturalmente faceva il nome di uno di noi, ma è inutile che lo citi – «ha
suggerito un libro eccellente, ma noi dobbiamo sempre chiederci, come
Voltaire con un suo corrispondente troppo entusiasta, ‹À quoi bon?› Non è
una formula ovvia: Voltaire si chiedeva, ellitticamente: ‹A cosa mi serve
oggi il libro che tu mi proponi?›. In quel dativo, ‹mi›, e in quell’avverbio di
tempo, ‹oggi›, dovrebbero risiedere le ragioni di ogni nostra verifica. Io
credo che ogni proposta che accettiamo dovrebbe servirci per una più
approfondita rilettura critica del presente, sia che ci venga suggerita la
riproposta di un classico, sia che ci venga offerta un’opera contemporanea.
E ti dico di più: la domanda di Voltaire dovrebbe valere non solo per la
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saggistica, ma anche per la letteratura, la poesia, il tuo amato teatro.» E,
accalorato, aggiungeva: «Ma subito dopo aver sottoposto la proposta di X
alla celebre domanda voltairiana, dovremmo chiederci: ‹Ora che riteniamo
in piena coscienza di poterla accettare, con quale altra opera a cui pensiamo
da tempo o che abbiamo da tempo nel cassetto possiamo connetterla?› È
questo che io definisco il progetto dell’editore: ideare ogni volta una serie
di titoli che anche nella disparità di contenuti - che andrebbe anzi
caparbiamente ricercata - si rispondano l’uno all’altro per intime affinità
elettive, cioè, in ultima analisi, per la stessa attitudine a porsi dinanzi al
presente.» Nel corso del suo lavoro Bollati riuscì a mostrare con molta
autorevolezza come l’idea di progetto non fosse una utopia né un semplice
sfoggio verbale. Una mattina – godevo di una maggiore confidenza con lui
di altri – mi fece vedere su un foglio una raggiera; è impossibile che ve la
disegni, ma vi dico le discipline che lui vedeva correlate, o tra cui noi tutti
insieme avremmo dovuto trovare la correlazione: religione e filosofia fella
religione; mitologia antica, primitiva e orientale; antropologia ed etnologia;
epistemologia, filosofia ed etica della scienza; etologia, ecologia, scienze
sociali; psichiatria, psicanalisi, psicologia; filosofia della storia,
storiografia, metodologia della ricerca storica. E qui mi guardò e disse: «Ce
n’è anche per te: semiotica e semiologia, teoria della letteratura,
metodologia della critica letteraria.» Ho pensato più volte di riprodurre quel
suo «magico» disegno, ma ho capito che non ci sarei arrivato: mi sono
limitato, perciò, come avete sentito, alla trascrizione delle discipline che
dovevano disporsi a raggiera.
Giulio Einaudi – premetto che, come tutti sanno, la dialettica tra i due
Giulio era piuttosto complicata, tra l’amministratore delegato e il fondatore
della casa editrice e il suo direttore generale, che erano omonimi - Giulio
Einaudi amava un’altra parola, e lo ha ricordato in un articolo molto bello
all’indomani della morte Ernesto Ferrero nel supplemento della «Stampa»,
«Tuttolibri», dell’8 aprile del 1999: era la parola innesto. «Giulio Einaudi»
- cito Ferrero - «era maestro di innesti. Per capire le persone l’eredità
genetica è sempre un buon punto di partenza; la sapienza combinatoria e
classificatoria di Italo Calvino discende per li rami dalla mentalità
scientifica dei suoi genitori botanici. Einaudi è figlio della passione di suo
padre Luigi per l’agricoltura» (parla del presidente della Repubblica,
naturalmente) «una passione luterana, asciutta, avara di parole, tutta tesa
alla perfezione dei gesti che si affinano nella ripetizione di ogni giorno. La
casa di via Biancamano, la nosta casa, nasce sulle colline delle Langhe,
nasce dalle fatiche che il futuro presidente della Repubblica divise con i
suoi contadini. Il maestro di innesti, suo figlio Giulio, faceva lavorare
insieme liberali e marxisti, cattolici e azionisti, temeva orribilmente
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l’unanimità, cercava la creatività della dialettica vera, ibridava,
contaminava, sperimentava sempre.» Il progetto a raggiera di Bollati,
l’innesto di Einaudi, devo dire che in quegli anni magnifici per me, nella
mia «seconda» università, funzionarono. Vi dico delle collane che tutti
conoscete perché siete persone che lavorano coi libri: Nuovo Politecnico,
1965, ideata e diretta da Giulio Bollati, 169 titoli, fino al 1990 (premetto
che noi non firmavamo nessuna collana; per una regola interna alla casa
editrice il lavoro doveva essere collettivo e anonimo; ma quella collana la
dirigeva realmente lui); Nuova Biblioteca Scientifica, nata nel 1965 (avrete
un attimo di sorpresa nel sapere chi la ideò e chi la coordinava: Elio
Vittorini), 85 titoli, fino al 1991; Einaudi Letteratura, nata nel 1969 e ideata
da Paolo Fossati e, indegnamente, dal sottoscritto, 69 titoli, fino al 1984;
Einaudi Paperbacks, nata nel 1969, ideata e diretta da Giulio Bollati, 264
titoli, fino al 1997. Sono tutte collane che nascevano intorno all’idea della
interdisciplinarietà: si parlava addirittura di metadisciplinarietà perché
cercavamo di sottolineare dei legami che andavano sotto le singole aree di
ricerca.
Ma, come sapete tutti, per scegliere dei titoli e metterli in lavorazione, da
Aldo Manuzio alla Einaudi, bisogna leggere. Come leggevamo? Come
eravamo «adoperati» come lettori professionisti dal maestro di innesti e dal
progettualista? L’idea che ritornava spesso era quella della trasversalità di
letture in nome della metadisciplinarietà, in altri termini ci imponevamo
ognuno di leggere e riferire agli altri di discipline di cui non eravamo
specialisti. Vi voglio fare alcuni esempi. Corrado Vivanti, che arrivava
dall’École des Hautes Études di Parigi, dove era stato allievo di Fernand
Braudel, ci parla di uno storico polacco (noi non avevamo nessuno saggista
polacco in catalogo): questo storico si chiama Christov Pomian, era uno
studioso nato a Varsavia nel 1934 ed era all’epoca direttore di ricerca al
CRNS di Parigi. Pomian, come storico, lavora sul concetto di tempo e
distingue tra cronometria, o misurazione del tempo, cronografia o
descrizione dei mutamenti del tempo, cronologia, o disposizione dei fatti in
successione temporale, e cronosofia, o previsione del tempo futuro. Ma nei
suoi scritti, che Vivanti ci ha portato, Pomian osserva che c’è anche il
tempo interiore dell’individuo, della cui architettura, organizzazione e
funzionamento ognuno di noi è il solo, incontrollabile sovrano. Siamo noi,
insomma a farci il nostro personale calendario interiore. Einaudi non
capisce nulla di questo storico così sofisticato e dice: «C’è una sola
persona, dal momento che di Vivanti non mi fido...» – questa era una
battuta che ognuno di noi accettava: quando qualcuno faceva una proposta,
per l’editore il proponente non era mai degno di fiducia: era, il suo, un
atteggiamento metodologico – «sarà Italo Calvino che giudicherà se questi
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saggi possono entrare nel nostro catalogo.»
Abbiamo acquisito da un anno, siamo nel 1965, un grande libro di un
grandissimo storico dell’arte inglese. Questo libro si chiama Arte e
illusione e l’autore è Ernst H. Gombrich, un viennese che, come molti
grandi studiosi viennesi, è emigrato in Inghilterra, poi negli Stati Uniti, poi
è tornato a lavorare in Inghilterra. Facciamo a tempo a pubblicare Arte e
illusione, e ci arriva La storia dell’arte raccontata da Ernst Gombrich. Il
nostro specialista di storia dell’arte, Enrico Castelnuovo, la presenta;
Einaudi «non si fida» e dice: «Leggerà La storia dell’arte raccontata da
Ernst Gombrich Giorgio Manganelli», che detestava qualunque libro di
divulgazione, e peraltro era in condizione di leggere e apprezzare l’inglese
perfettamente. Einaudi dice: «Se La storia dell’arte raccontata da
Gombrich persuade Manganelli, la pubblichiamo.» Manganelli dice:
«L’idea di divulgazione mi fa sempre orrore, ma questa opera è scritta
talmente bene e ci sono delle idee talmente geniali che accetto che
l’Einaudi nei ‹Saggi› la pubblichi.»
Calvino si mette a riflettere sul fatto che non abbiamo nel nostro catalogo
un grande scrittore americano che ormai si può considerare un classico del
Novecento, cioè Henry Miller. Quest’assenza è guardata con estrema
diffidenza da Giulio Einaudi, perché quando un altro editore arriva prima di
lui su un autore, quell’autore non è più degno della minima attenzione. Ora,
essendo arrivato Feltrinelli prima di noi su Tropico del cancro e Tropico del
capricorno, Einaudi dice: «Questo scrittore non ci interessa per nulla.»
Aggiungo anche che in casa editrice – parlo collettivamente, non faccio
casi personali – la vita era piuttosto lasciva, e quindi la pagina doveva
essere casta. Questo era uno dei segreti presupposti di Giulio Einaudi, che
tacitamente praticava appunto questo metodo. Calvino non si rassegna,
dice: «Ci sono dei libri bellissimi di Miller che non c’entrano
assolutamente niente con Tropico del cancro e Tropico del capricorno e io
vorrei annetterli al catalogo.» Si riferisce a Paradiso perduto, Incubo ad
aria condizionata, Ricordati di ricordare, I libri della mia vita, libri che
sono oggi tutti inclusi nel catalogo in questione. Einaudi replica a muso
duro: «Deciderà su questo rompiscatole di Henry Miller il nostro
Manganelli, ancora una volta.» Manganelli odia tutto ciò che sa di
contenutismo. Ogni riferimento troppo esplicito all’esperienza
autobiografica lo trova terribilmente volgare: non a caso ha pubblicato da
Feltrinelli un prezioso libro che si chiama La letteratura come menzogna,
in cui dice che la letteratura è una macchina fittizia e l’autobiografismo non
ha niente a che fare con la letteratura. Calvino incomincia con una serie di
«lettere aperte, (le mandava a Manganelli, ma le distribuiva ad alcuni di noi
in copia riservata, talmente riservata che tutti le leggevano) in cui dice: «Ci
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sono dei grandi scrittori che fanno della propria vita una totale proiezione
nella letteratura e che non per questo devono essere considerati indegni di
essere da noi pubblicati.» Dopo una battaglia di tre o quattro mesi
Manganelli è costretto ad ammettere che anche La cognizione del dolore di
Gadda è a un certo livello «autobiografico» e Miller è nostro autore.
Nella sua proverbiale cattiveria, e però, devo dirlo onestamente, sempre in
omaggio all’idea di trasversalità della lettura, Einaudi era capace durante le
riunioni del mercoledì di architettare i trucchi più impensati. Noi più
giovani, con la complicità di Guido Neri, che era un appassionato
francesista, eravamo riusciti a pubblicare i Manifesti del Dadaismo e i
Manifesti del Futurismo. Angelo Maria Ripellino, il nostro slavista
«esterno» – avevamo addirittura due slavisti, Vittorio Strada in casa e
Angelo Maria Ripellino a Roma; i due non si prediligevano ma erano
cordiali l’uno con l’altro – ci propone un avvincente libro di Markov, un
russo emigrato in America, Storia del futurismo russo, sostenendo che è ora
di dedicare anche ai futuristi russi una grande rassegna critica, e spende
lettere su lettere per far passare questa proposta. Si dà il caso che venga,
nella riunione in cui qualcuno legge le motivazioni di Ripellino, Carlo
Dionisotti, uno dei massimi storici della letteratura italiana. Dionisotti –
come succedette e succede a tanto nostri genii – era «emigrato» a Londra,
dove insegnò per decenni. Non era nostro consulente, ma, quando passava
per Torino, dove aveva i parenti, Einaudi lo invitava alla riunione del
mercoledì. Arrivo subito al futurismo. Quella volta Einaudi a bella posta gli
chiese: «Dionisotti, cosa pensi dei futuristi?». Dionisotti si contraeva tutto
perché pensava a Marinetti e al fascismo, a un certo Dino Segre, in arte
Pitigrilli, un ebreo spia dell’Ovra che aveva mandato in prigione metà della
casa editrice. Poi disse: «Certo, preferirei non parlarne; ma visto che questi
sono russi, fateli, fateli, fateli», e così riuscimmo a pubblicare Markov.
Si discusse a un certo punto se dedicare una collana alle opere complete di
Gianfranco Contini. Einaudi capisce che c’è un po’ di resistenza da parte di
alcuni di noi, che pure siamo laureati in letteratura italiana e siamo
consapevoli della grandezza di questo straordinario studioso, e chiede allo
storico Vivanti: «Quanti sono i tuoi redattori?» e Vivanti risponde: «Sono
quattro» (uno di questi è l’attuale editore Carmine Donzelli). Einaudi dice:
«Daremo in lettura a ciascuno dei tuoi quattro redattori un’opera a scelta di
Contini; se reagiscono positivamente, faremo le sue Opere Complete ad
ogni costo!» Alcuni di noi erano felici, dicevamo: «Questa volta lo
bocciano, cosa vuoi che gli storici capiscano di Contini?». Invece i ragazzi
vengono chiamati eccezionalmente alla riunione del mercoledì e dicono:
«Ah però, affascinante; non diciamo che si capisca tutto, però quel bello
stile così alto, così prezioso...» Ed Einaudi: «A verbale, si pubblicano le
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Opere complete di Contini.»
Elsa Morante ci consegna il romanzo La storia, che conoscete tutti, sono
635 pagine. Noi siamo tutti dei grandi ammiratori di Elsa Morante, che fra
l’altro è entrata in catalogo nel remoto 1942 con un bellissimo romanzo per
bambini, Le avventure di Caterina: poi ha scritto un capolavoro, Menzogna
e sortilegio, poi L’isola di Arturo, altro mirabile romanzo, e poi La storia.
Einaudi si mette in testa che lo si pubblicherà direttamente nei Tascabili. Ci
si chiede: «Un romanzo di seicento pagine in prima battuta nei Tascabili?»
È l’inizio di una lunghissima discussione. Einaudi dice: «Prima di parlare,
leggetelo.» Tutti noi facciamo pile di fotocopie di queste seicento pagine, le
leggiamo, e a maggioranza diciamo: «No, no, non si può, il tascabile è un
rischio troppo grosso; facciamolo nei normali Supercoralli rilegati, poi
dopo tre-quattro edizioni lo passiamo nei Tascabili.» Einaudi dice:
«Leggerà questo libro e deciderà – tutti noi lo guardiamo – Paolo Spriano»,
il quale stava scrivendo per noi a Roma la Storia del partito comunista
italiano ed era dunque un nostro autore e consulente, ma, per l’appunto,
uno storico puro, con scarse competenze letterarie. Spriano se la sorbisce
tutta (devo dire che era una persona molto corretta), e sentenzia: «Secondo
me può uscire tranquillamente nei Tascabili.» Tutti noi italianisti, che ci
sentivamo in grado di giudicare, rimaniamo completamente scornati.
Non nego che in questa dialettica – queste cose le preciso perché non se ne
parla mai troppo e vanno dette chiare e tonde – di letture trasversali ci
furono dei confronti anche molto aspri – i giovani laureandi che leggono
l’archivio Einaudi che è stato regalato all’Archivio di Stato di Torino
stanno scrivendo tesi rivelatrici in proposito – , non nego che il credo
politico avesse un grosso peso: c’era una «destra» e una «sinistra»
comunista nella casa editrice, se per «destra» si intende una certa
intolleranza, e per «sinistra» all’opposto una certa tolleranza. Scelgo un
caso canonico: quando un gruppo di noi propose Céline in casa editrice,
dovemmo fare un’alleanza segreta con un gruppo di francesisti bolognesi –
Giuseppe Guglielmi, Gianni Celati, eccetera – per dimostrare (non so se poi
la tesi era persuasiva, ma era l’unica a cui potevamo aggrapparci) che
Céline, a parte quell’orribile incidente di Bagatelle per un massacro (libro
antisemita, questo non si può negare), era soprattutto un grandissimo
scrittore anarchico, che la sua opera era un grande manifesto di ribellismo
contro il conformismo, l’oppressione del potere. Solo così riuscimmo a
farlo «passare»: oggi è nel catalogo Einaudi con ben cinque romanzi.
Ma a volte questi scontri attraversavano anche dialettiche molto curiose:
Paolo Fossati, storico dell’arte, però lettore onnivoro, detestava Brecht e
diceva di lui delle cose terrificanti (con una piccola parte di verità), si
appigliava a tutti i pretesti per parlarne male, ad esempio il fatto che c’era
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sempre una donna a fianco che scriveva un dramma, e diceva: «Ma che
strano, tutte queste donne, un giorno forse lo capiremo!». Cases si infuriava
a questi attacchi, allora Fossati diceva: «Benissimo, se tu fai Brecht,
quell’odioso, intollerabile scrittore di teatro ideologico di Brecht, noi
facciamo Ionesco.» Allora Cases diceva: «Ma Ionesco è quasi fascista!» «È
per questo che lo facciamo!». E nello scontro Brecht-Ionesco ebbe poi
buon gioco, con l’aiuto esterno di Fruttero e Lucentini, un altro gruppetto,
di cui io facevo indegnamente parte, che voleva pubblicare integralmente il
Beckett teatrale e narrativo. Nel tackle Brecht-Ionesco andò in rete un tutto
Beckett, di cui erano stati tradotti da Fruttero i due primi capolavori,
Aspettando Godot e Finale di partita: passò, come si dice nel calcio, come
una palla sgusciata.
Però la tattica dell’innesto che Einaudi propugnava produsse anche cose
bellissime. Noi avevamo in catalogo dagli anni Quaranta un grandissimo
studioso russo di folklore, Vladimir Propp, l’autore del magnifico libro Le
radici storiche dei racconti di fate, e poi, ancora anziano, negli anni
Sessanta, Morfologia della fiaba. Einaudi, di questo gli va dato pienamente
atto, disse: «Perché non sentiamo cosa ne pensa Lévi-Strauss?» Noi non
avevamo neanche un titolo di Lévi-Strauss e addirittura fummo stupiti che
Einaudi facesse questa battuta, perché essendo Lévi-Strauss entrato nel
catalogo de Il Saggiatore, non ne aveva mai voluto sapere. Però l’idea era
geniale. Fui spedito io da Lévi-Strauss, grandissimo gentiluomo allora
settantacinquenne, il quale con nostra grande sorpresa disse: «Scrivo
volentieri un saggio in postfazione a Morfologia della fiaba a condizione
che il collega Propp risponda, perché non ho mai accettato un meccanismo
che non sia quello del colloquio a distanza.» Io ebbi un colpo di genio (ne
ho avuti due o tre nella vita). Mi ero procurato attraverso un amico parigino
la fotocopia della tesi di laurea di Lévi-Strauss, che era stata pubblicata in
una collezione completamente scomparsa, se non dalle biblioteche
dell’Unesco, La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara, 250
indios del Brasile che erano destinati alla sparizione (e purtroppo
sparirono), con cui Lévi-Strauss visse per un anno intero e li fotografò
addirittura. Dissi a Lévi-Strauss: «Ma non sarebbe possibile pubblicare in
italiano La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara?» LéviStrauss fece un salto sulla sedia e disse: «Je n’ai jamais voulu voir traduit
ça». Io tornai a più riprese alla carica e dopo un’ora lui disse: «Va bene», e
io fui così spudorato che gli chiesi: «Potrebbe firmare questo pezzo di
carta?», perché avevo il terrore che, uscito di lì, lui cambiasse idea. A
guidarci, insomma, era l’idea del vuoto da colmare, era l’idea che
dovevamo esplorare discipline che non avevamo mai praticato. Giulio
Bollati in questo fu straordinario, perché, come ho detto, italianista della
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Normale di Pisa, era entrato all’Einaudi come redattore delle discipline
scientifiche (cosa non si faceva allora per guadagnarsi lo stipendio!) e
aveva al suo fianco un coetaneo ed amico strettissimo, che si chiamava
Paolo Boringhieri. Nel 1951 la casa editrice aveva proposto Inibizione,
sintomo, angoscia di Freud tradotto da Emilio Servadio, e nel 1952, pochi
se lo ricordano, Casi clinici tradotto dal fratello di Franco Lucentini, Mauro
Lucentini, con prefazione di Cesare Musatti. Boringhieri se n’era andato,
aveva fondato una sua casa editrice, forte del suo privilegio economico (i
suoi erano dei ricchissimi industriali della birra) e aveva comprato i diritti
di tutto Freud. Da quel momento era nato in Einaudi un disprezzo assurdo
per Freud («Quel cretino lì che conta un sacco di palle... sogniamo tutti,
cosa vuoi che conti...»). Non c’era verso di smuoverlo, peraltro non
potevamo far nulla, perché fino all’anno scorso, data in cui è uscito dai
diritti a settant’anni dalla morte, era, giustamente, patrimonio esclusivo di
Boringhieri. Forse per questo Bollati si legò a Franco Basaglia – cioè al
propugnatore di quella teoria e pratica che era in realtà, oggi possiamo
dirlo, molto più civile che terapeutica, molto più politica che medica, anche
se Basaglia era uno psichiatra scientificamente con le carte in regola, come
dimostrarono poi ben tre volumi di scritti completi – e incominciò a
stimolarlo a scrivere un libro-manifesto del 1968, L’istituzione negata, di
cui il vero editor fu un geniale psicanalista che è mancato l’anno scorso,
Giovanni Jervis. Poi spinse Basaglia e la moglie, Franca Ongaro Basaglia
(sono ambedue scomparsi) a scrivere altri libri; poi cominciò ad impostare
una possibile raggiera e riuscì a farci entrare uno psicanalista canadese,
Erwin Goffmann, con due libri meravigliosi, Asylums e Le istituzioni totali,
e Michel Foucault (altro oggetto di odio di Einaudi perché ce l’aveva
«sottratto» Rizzoli), di cui riscoprì Nascita della clinica, il suo primo libro
sulla nascita degli ospedali mentali; poi andò a cercare altri due magnifici
psichiatri inglesi, Ronald Laing e Aaron Esterson, e nacque un gruppo di
libri intorno a L’Io diviso. Ecco un caso di raggiera propugnata e realizzata
in toto da Giulio Bollati.
Sono stati anche un po’ privilegiati i mitici mercoledì; erano discussioni di
ore, molto brillanti, ma soprattutto lavoravamo con le lettere, questo
strumento cartaceo che io sono forse l’ultimo ad adoperare, visto che non
so cosa sia un computer e vorrei morire senza («Ma lei ce l’ha un e-mail?»
«Ma no, non mi faccia di queste brutte domande, io sono una persona
perbene»). Le lettere che ci scambiavamo, fittissime, lunghissime, con le
segretarie che protestavano perché dovevano batterle a macchina. In questi
fittissimi scambi epistolari si svolgeva veramente il grande dibattito, la
grande lettura trasversale.
Resterebbe da dire se si legge ancora oggi nelle case editrici. Io continuo a
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sperare che la lettura come pratica quotidiana sia un passaggio ancor oggi
ineliminabile, quasi fisiologico, in qualunque casa editrice. Mi sembrerebbe
un gesto di audacia che sconfina nell’insensatezza l’idea di pubblicare
senza avere minimamente letto, anche quando si è alle prese con un autore
che già si conosce, anche quando si sa che questo autore è di garantito
prestigio. Ho semmai l’impressione che non si legga più incrociando i
pareri, giustapponendo i giudizi. Ho ormai una frequentazione molto
ridotta, anche per motivi di età, dell’editoria, ma credo di poter dire che
l’impianto gerarchico delle grandi firms, come si dicono oggi, tenda
completamente a escludere la metodologia del confronto. L’amministratore,
il direttore generale, il direttore editoriale, gli editor, i junior editors, i
redattori: questa è, se entrate in qualunque casa editrice, la piramide attuale,
che si assesta in maniera verticale su un solo perno che ruota su se stesso. Il
redattore non ha alcuna facoltà di lettura, quindi non può fare proposte; può
cominciare a farle, con tutte le esitazioni del caso che sono ben
comprensibili, visto che si tratta perlopiù di esordienti, lo junior editor, cioè
l’editore in seconda, che ne riferisce all’editor, che riporta il timido parere
al direttore editoriale. È questo l’autarca dell’editoria d’oggi: potremmo
addirittura parlare di lui come di una specie di despota, una specie di
tiranno, se non ci fosse per lui uno spettro che non potete facilmente
immaginare: il direttore commerciale. Gli uomini del marketing sono
davvero l’Amleto senior nei confronti di Amleto, sono veramente le
witches del Macbeth nei confronti di Glamis e Cawdor. I primi, il tipo
Amleto padre, sono anche capaci di commettere un omicidio nei confronti
di un autore stimatissimo ma poco vendibile, fuor di metafora di eliminarlo
dal catalogo; e le streghe, le witches del Macbeth profetizzano di continuo
la caduta del direttore editoriale se pubblicherà un libro che non vende più
di 10.000 copie.
Io ho fatto una personale esperienza, ve ne riferisco e concludo. Nel 1972
ho pubblicato una piccola monografia di 150 pagine da Einaudi su Gramsci
e il teatro. Era il risultato del mio primo seminario universitario che tenevo
come cultore della materia (perché allora non avevo nessun titolo
universitario) presso la cattedra di Storia del teatro di un grande studioso,
allora insegnante alla torinese facoltà di Magistero, poi all’università di
Firenze, purtroppo prematuramente scomparso, Ludovico Zorzi. Il libro
venne stampato da Einaudi, ristampato tre volte e poi, come succede a tutti
i libri, finì esaurito. Vari miei colleghi (a quel tempo ero diventato
professore di ruolo di storia del teatro) avrebbero voluto tenere un corso su
Gramsci e il teatro del primo Novecento italiano, ma gli scritti teatrali di
Gramsci non erano disponibili. Dal momento che era inutile proporlo alla
Einaudi di oggi, chiesi agli amici di «Tuttolibri», il supplemento letterario
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della «Stampa», di poter pubblicare un appello, e mi risposero: «Molto
volentieri.» Scrissi, in parole molto povere: «C’è un editore disposto a
pubblicare gli scritti teatrali di Gramsci?» All’indomani mi telefonò il
consulente per la saggistica di un editore serio, di media grandezza, del
Nord Italia, che gode anche giustamente di un’ottima diffusione nel
mercato librario, e in maniera molto fervida mi disse: «Pubblichiamo noi
gli scritti teatrali di Gramsci.» Mi chiese anzi se volevo un contratto; io
replicai: «Tra persone civili la parola basta: il contratto me lo farai arrivare
quando riterrai opportuno.» Dopo due mesi di totale silenzio il consulente
mi telefonò con un’aria angosciata e mi disse: «Ti devo dire che non
pubblichiamo più quel libro, perché» – cito testualmente – «i commerciali
non sono d’accordo.»
Grazie.
De Angelis:
Io non faccio commenti: mi ha commosso sentire Davico ricordare persone
con le quali anche io ho avuto a che fare, più brevemente, certo, di lui.
Davico Bonino ha parlato in luogo di Settis, perché Settis non è potuto
venire per motivi di salute; ho detto che portiamo jella. Non verrà neanche
Soffritti al workshop di linguistica per analoghi motivi. Oggi ricorre
l’anniversario della morte di Luciano Zagari. Dette queste cose allegre, hai
citato Fruttero e Lucentini. Perché non ci ricordi un po’ quella stupenda
presa in giro della seconda Einaudi nel libro A che punto è la notte? Tu non
ci sei, quindi è la seconda Einaudi, non sei ricordato; c’è una parodia
stupenda del carteggio Turati-Kuliscioff, che nel romanzo diventa il
carteggio Crispi-nonricordopiùchi.
Davico Bonino:
Stai parlando di quale romanzo?
De Angelis:
Di A che punto è la notte?. È un romanzo contro le tendenze strutturaliste
che stavano prendendo piede in quel momento nella casa editrice e che l’ha
portata a quella singolare avventura che era l’Enciclopedia Einaudi e poi
prendeva in giro i singoli personaggi. Ora alcuni io li ho riconosciuti:
Bollati si riconosce facilmente, Ponchiroli si riconosce facilmente, tu non ci
sei – almeno io non ti ho riconosciuto – quindi deve trattarsi del periodo
precedente.
Davico Bonino:
L’ho letto, non ricordo bene tutti questi passaggi, né ho fatto indagini
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accurate. Carlo e Franco erano due persone molto intelligenti (Lucentini di
una cultura straordinaria, conosceva sei lingue, delle vive soltanto), però di
un cinismo completo. Mi ricordo l’ira terribile di Calvino (non l’ho mai
visto così adirato) quando i due annunciarono che andavano a dirigere
«Urania» perché guadagnavano tre volte lo stipendio che guadagnavano da
Einaudi; ma noi guadagnavamo tutti un terzo dello stipendio degli altri
redattori ed editors nelle altre case editrici, e così è stato sempre. Sapevamo
che lavoravamo in una casa editrice con grossi debiti, sapevamo che c’era il
rischio del fallimento (poi purtroppo è successo, la casa è entrata in
amministrazione controllata). Io ero già uscito, ma semplicemente perché
avevo deciso di fare il professore universitario. Fruttero e Lucentini
ostentavano questo cinismo che io trovavo insopportabile. Perché Cases
(scusate se faccio un accostamento brusco), l’ho scritto in un piccolo libro
collettivo cui Anna Chiarloni e Luigi Forte hanno avuto la cortesia di
cooptarmi, era quello che io definisco l’opposto del cinismo (non so se vi
ricordate quel verso di Cardarelli: «Io sono un cinico che ha fede in quel
che fa»). Cioè Cases aveva la civiltà di distaccarsi da una prospettiva di
metodo o anche da un’ideologia in nome di un valore culturale, che magari
non condivideva ma che accettava perché valore culturale. Quando io ho
ideato una collana, il pendant di quella in cui è uscito Enrico De Angelis
(quella era «La ricerca critica», la mia si chiamava «La ricerca letteraria»),
il più grande aiuto per includervi Arno Schmidt m’è venuto da Cesare
Cases. Ora Cesare Cases sapevamo tutti che non aveva un trasporto
straordinario per l’avanguardia e lo sperimentalismo, però lui sapeva che
Arno Schmidt era un vero scrittore, anche se non condivideva quel tipo di
letteratura, e mi diede un appoggio decisivo, tanto più che io, purtroppo,
nella mia ignoranza vergognosa, non leggo una parola di tedesco (lo lessi in
una traduzione francese, peraltro eccellente, in una collana diretta dall’oggi
centenario Maurice Nadeau). Senza l’avallo di Cases non avrei potuto
farlo, perché ovviamente Einaudi aveva buon gioco a dire: «Ma cosa dice il
nostro eccelso germanista di questo strano scrittore?» Il cinismo di Fruttero
e Lucentini invece è cinismo e basta – ma soprattutto di Fruttero, perché
Franco era un po’ diverso - questo non mi va giù, non lo riesco a tollerare.
Se avessi creduto a questo avrei fatto il dirigente Fiat. Mia madre pianse
tutte le lacrime quando le dissi che mi iscrivevo a Lettere e Filosofia:
«Pensare che avresti fatto il dirigente Fiat così bene...»
De Angelis:
Ci sono interventi?
Davico Bonino:
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No, hanno voglia di andare a mangiare, altro che interventi.
De Angelis:
Sicuro? Davvero?
Davico Bonino:
No, no, andiamo a pranzo.
De Angelis:
Su, coraggio, anche perché poi dobbiamo costringerlo a parlare
dell’Enciclopedia Einaudi, lui non vuole toccare l’argomento
bollente...Vieni, Mugnolo.
Domenico Mugnolo:
Questa conversazione è stata importante perché citando fatti, non opinioni,
è stata distrutta un po’ la caricatura di quella che era l’idea di verità. Io
potrei chiedere in questo momento perché non si è fatto Nietzsche, che è la
domanda che si fa sempre; però sono state fatte tante altre cose e credo
anche che ricordare quello che è stato fatto negli anni intorno al 1967,
1968, 1969 con proposte di certi autori, di certi testi, aiuti a decostruire un
po’ la caricatura della formazione di quelli che in questi anni leggevano...
poi sono stati anche imbecilli, quelli che non hanno letto queste cose e che
passano per rappresentanti di quella generazione, però mi pare che il succo
fosse tutt’altro in quegli anni, e dico che per questo sono rimasto molto
impressionato, commosso, e quindi ringrazio tantissimo per questa
conversazione.
Davico Bonino:
Il suo intervento merita un piccolo chiarimento. Il nostro cuore non pulsava
per Nietzsche, sicuramente a torto perché eravamo ancora i figli di una
generazione che lo leggeva in modo restrittivo e sbagliato: ma c’è anche un
dato di fatto, che non si poté rivelare in quel momento e non so neanche se
è mai stato rivelato. Luciano Foa, che era il mio predecessore – io entrai
come capufficio stampa e dopo quattro anni fui nominato, anche lì senza
meriti, segretario generale – voleva andarsene perché aveva in mente di
fondare una casa editrice e la fondò – Adelphi –; pose come condizione
delle trattative – Foa si era intelligentemente legato alla casa editrice con
un contratto molto particolare – di poter portare con sé le opere di
Nietzsche nell’edizione Montinari-Colli. Poi va detto onestamente che non
eravamo molto nietzscheani, non voglio in questo coinvolgere Cases, ma
ho l’impressione che non facesse fuoco e fiamme perché noi tenessimo
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questo grande scrittore, questo è almeno quello che ricordo.
De Angelis:
E, per quello che io so, neanche Cantimori, mi pare che il siluro partì da
lui...via, diciamo le cose fino in fondo, a poco a poco le verità vengono
fuori.
Davico Bonino:
Cantimori aveva qualche piccola colpa da farsi perdonare, su cui noi
tacevamo.
De Angelis:
La questione di Foa, Adelphi, eccetera, è raccontata in quel romanzo di
Fruttero e Lucentini A che punto è la notte?, che ho ricordato.
Davico Bonino:
Sì, questi due intellettuali, per altro privatamente colti fino alla civetteria,
odiavano il fatto che noi fossimo molto «culturali», questo è il punto. Loro
dicevano: «Ah, che culturame, questi ragazzi» – noi eravamo più giovani
rispetto a loro – «ma perché non vanno a fare i professorini di università?»,
che era per loro il massimo del dispregio. Devo dire che quando sono
entrato, un certo disagio che ho provato, anche da parte di Calvino, persona
molto equilibrata, era che io in qualche modo – notate che non ero andato,
all’epoca, al di là dell’assistente volontario, senza guadagnare una lira, era
ovvio, e questo può dire molto – provenissi dall’università. C’era un grande
fastidio per la saggistica universitaria in senso stretto, perché anche molti
degli anziani si erano laureati con insegnanti mediocri. Italo Calvino aveva
pubblicato una bellissima tesi su Conrad (che ho avuto il privilegio di
leggere e che non ha mai voluto pubblicare) con un anglista che era di una
scempiaggine mostruosa, un certo Olivero, che poi dette tutta la sua
biblioteca ai salesiani (un tipo che andava a messa tutti i giorni) e Calvino
sapeva perfettamente che si era laureato con questo fesso, quindi pensava
che non tutti, ma molti docenti fossero degli Olivero. Certo, c’era tra gli
autori Contini, c’era Dionisotti, delle isole galleggianti in quel mare di
mediocri: da una parte i professori universitari da concorso e dall’altra
parte alcuni iperprofessori, che addirittura si rifiutavano di diventare nostri
autori. Io ho patito dei rifiuti terribili di grandi personaggi, a cui m’ero
azzardato sfacciatamente a fare proposte editoriali. Una volta ho avuto la
spudoratezza di scrivere a Giuseppe Billanovich, di cui leggevo ammirato
dei saggi strepitosi, e lui mi scrisse: «Io non intendo pubblicare i miei saggi
né da Einaudi né da nessun altro editore» e continuava a pubblicare sulle
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riviste i suoi poderosi studi, uno più affascinante dell’altro. Un’altra volta
Augusto Campana – non a caso erano tutti studiosi dell’Umanesimo – mi
disse: «Mah, l’Einaudi, non mi sembra proprio una richiesta pertinente...».
Lo disse con buona educazione, ma anche con una certa durezza.
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