perche` il congo? - Informa Provincia

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perche` il congo? - Informa Provincia
PERCHE’ IL CONGO?
Appunti a margine di un’esperienza africana
“Vogliamo servire la Verità o vogliamo
ricordarci la nostra formulazione della
verità per superare le nostre insicurezze?”
(Renato Kizito Sesana )
Premessa
Conoscevo un proverbio africano che dice: “La mano che riceve l’aiuto è sempre al di
sotto della mano che dà”, così come sapevo che in Congo noi bianchi siamo subito
riconosciuti come “ msungu”, cioè un tutt’uno di ricchezza e potere.
Avevo già visto in fotografia i volti ridenti dei bimbi neri cui arrivano i doni, il gesto
tenero del palmo destro aperto a ricevere, mentre l’altra mano, come tradizionale segno
di deferenza, si appoggia all’avambraccio.
La mia breve e modesta esperienza nella regione congolese del Sud Kivu ha certo
confermato questa visione di un rapporto umano non facile, spesso problematico, ma
insieme mi ha fatto maturare altre considerazioni.
Il grande fascino dell’Africa come “oggetto di pensiero” è che sfida ogni luogo comune,
ogni certezza, costringe costantemente a rimettere in discussione noi stessi e i nostri
preconcetti. Ci insegna la modestia delle non facili conclusioni, delle ancora più difficili
soluzioni dei problemi.
Penso che, per non cadere nei pregiudizi o in risposte semplicistiche, si possa solo
raccontare ciò che si è visto (e persino questo può essere ingannevole e di ardua
interpretazione…). Per me è importante la chiarezza e la sincerità: chi racconta non è
uno di loro e, per dare la giusta dimensione a quello che dice, deve dichiarare la sua
posizione. La mia è “indignazione”. Indignazione perché quello che ho visto e saputo (o
ascoltando, o leggendo e cercando resoconti ) è tollerato e non sufficientemente portato
a conoscenza.
Dell’Africa si può parlare in cento modi, da studioso di varie discipline, da viaggiatore,
da giornalista-reporter… Quello che non si può e non di deve è non parlarne.
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--------------------------------------------------Secondo stime della Croce Rossa, dall’estate del 1998 a oggi, la guerra nella Repubblica
Democratica del Congo ha causato oltre 3 milioni e 800.000 morti, tre quarti dei quali nella
regione orientale. Il 12% dei bambini non raggiunge l’anno, 3 milioni non ricevono la
minima istruzione, 400.000 sono scappati dalle loro case, decine di migliaia sono reclutati
nelle forze armate.”
I rapporti dell’organizzazione Médecins sans frontières, utilizzando cifre e racconti
circostanziati, sottolineano la vastità del dramma umanitario: anche dove la violenza
armata si è attenuata, in seguito ad accordi o tregue provvisorie, la vita della popolazione
continua ad essere intrisa di morte: 2 milioni di persone sfollate, costrette a nascondersi
nella foresta equatoriale o ad ammassarsi in periferie urbane del tutto inadeguate ( Bukavu
ha triplicato la popolazione negli ultimi due anni, a fronte di un tessuto urbano ormai
inesistente); 18,5 milioni di persone non hanno nessun accesso a cure mediche, nessun
bambino è vaccinato e la mortalità materna è la più alta al mondo ( 3.000 madri su 10.000
muoiono di parto ). Focolai epidemici mietono vittime senza che i soccorsi possano
raggiungere i luoghi di infezione. In assenza di condizioni minime di sicurezza la
popolazione delle campagne, abbandonate le forme tradizionali di agricoltura, è tornata ad
un’economia di raccolta, di pura sopravvivenza.
In una situazione generalizzata d’illegalità e di arbitrio anche gli aiuti alimentari
concorrono a creare un quadro paradossale: il PAM ( Programma Alimentare Mondiale)
spende cifre enormi per acquistare e importare cibo (mais USA, riso dal Pakistan o dal
Vietnam, solo per citare qualche esempio) nel Kivu, regione che sembra baciata dalla
fecondità della natura e in compenso i risicultori della provincia confinante del Kasongo
abbandonano la coltivazione perché, mangiata dalla foresta, non c’è più la strada per
portare il prodotto fino a Bukavu; lo zuccherificio di Uvira ha chiuso i battenti per la
guerra e non li riapre a causa della concorrenza…
La RDC, così ricca, sembra destinata a rimanere la terra da cui si rapinano materie
prime per smerciare prodotti altrui! Senza contare un disastro ecologico che non fa notizia
ma che rappresenterà l’onda lunga di questa terribile guerra: il Kivu, che era considerato il
granaio del paese, rifornendo di grano e verdura la capitale, con l’occupazione ribelle ha
visto chiudere il canale commerciale e crollare le sue attività agricole e pastorali. Da
febbraio a dicembre 2000 interi villaggi sono stati trasferiti nelle zone di giacimenti di
coltan. I parchi nazionali, considerati sotto la protezione dell’Unesco, sono minacciati dalle
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miniere a cielo aperto e da migliaia di persone che per sopravvivere uccidono gli animali (
nel 1996 erano censiti 3600 elefanti, oggi sono praticamente scomparsi; i gorilla del parco
Kahuzi-Biega sono dimezzati…)
Questi pochi dati per far luce su quella che viene ormai riconosciuta come la prima guerra
mondiale africana. Infatti la terminologia classica di conflitto etnico, impiegata spesso per
definire le guerre d’Africa, sembra inapplicabile al conflitto congolese che ha visto
coinvolti, oltre ai numerosi movimenti di ribellione al potere centrale di Kinshasa, anche
Stati confinanti, con le proprie ambizioni e strategie. Senza contare le alleanze
internazionali che fanno della RD del Congo un punto focale di interessi geopolitici. La
crisi che insanguina da tanti anni la Regione dei Grandi Laghi rientra nella tipologia di
altre crisi mondiali ( Balcani, Caucaso…)
Se parliamo di guerra etnica pensiamo ad un mondo di violenze ataviche, di odi congeniti,
mentre le guerre d’Africa hanno purtroppo gli stessi ingredienti di tutte le guerre
contemporanee: crisi dello stato centrale, esplosione dei quadri nazionali, insorgenza di
gruppi armati, economia di guerra e selvaggio sfruttamento delle risorse. “ Dire guerra
etnica significa mascherare la fitta rete di interessi geopolitici ed economici che
determinano, alimentano e perpetuano conflitti multicausali” ( da Jean Léonard Touadi:
“Congo” ed Riuniti, 2004)
D’altronde risulta una comoda semplificazione chiamare guerra etnica un conflitto, che, per
la prima volta dopo la caduta del muro di Berlino, ha visto contrapposti gli interessi
geopolitici della Francia e degli USA. La comunità internazionale sembra occuparsi di
queste emergenze umanitarie solo quando le cifre sono considerate sufficienti per parlare
di catastrofe, o dopo anni, come è successo col genocidio del Ruanda e solo quando i
giochi politici si sono modificati.
Attualmente a livello formale la RDC sta attraversando un “periodo di transizione” per la
realizzazione delle sue prime elezioni democratiche. Una nuova intesa franco-americana
sembra volere un Congo stabilizzato e a questo fine ha elevato prima a 11.000 e di recente
fino a 20.000 uomini il contingente della Monuc ( la missione di pace ONU in Congo ) che
però nel giugno del 2004 ha perso ogni credibilità di fronte alla popolazione per non avere
impedito la caduta di Bukavu e l’uccisione di civili da parte delle unità ribelli ruandesi.
L’internazionalizzazione del conflitto ha portato ad una situazione intricata e confusa in cui
la sovranità stessa dello Stato è messa in discussione e la popolazione civile vive sotto le
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violenze e le angherie dei gruppi armati e/o affaristici che si contendono le ricchezze del
suole e del sottosuolo.
Si assiste ad una tragica rappresentazione di quella geopolitica del caos” di cui parlava
Achille Mbembé sulla rivista Politique Africaine (1999): “…contesti dove il processo di
privatizzazione della sovranità è legato alla guerra e poggia su di un intreccio inedito di
interessi di cortigiani, faccendieri e negozianti internazionali che operano in complicità con
i plutocrati locali”.
La situazione è estremamente complessa e spesso risulta sfuggente per il solo fatto che è in
continuo divenire. Andrebbe costantemente aggiornata e verificata alla luce delle ultime
dinamiche in atto.
Considero tuttavia che le testimonianze raccolte a Bukavu dalla viva voce dei protagonisti
di queste vicende siano un punto di riferimento fondamentale, dalle più semplici alle più
consapevoli e culturalmente rielaborate, come gli ancor vivi ricordi delle suore croate di
Alphagiri (massiccio convento utilizzato dai Gesuiti come scuola ai tempi della
colonizzazione belga), nascoste per giorni nelle cantine del convento che si venne a trovare
proprio tra i fuochi delle opposte fazioni . Suor Miriam e le sue consorelle di pelle bianca
o nera scrollano le spalle ricordando gli affronti subiti, i pericoli affrontati con disinvoltura,
i feriti soccorsi, i tanti morti sulla loro strada. Rimboccandosi tutti i giorni le maniche
continuano la loro missione o in ospedale o a scuola, ben consapevoli dei rischi, nutrendo
fiducia solo nella loro carità.
I racconti dei Padri Saveriani, presenti da decenni nella vita della città, sono stati una
preziosa fonte di informazioni e di riflessioni. Dalla finestra del loro seminario di Vamaro
assistettero impotenti, nell’ottobre 1996, all’assassinio del vescovo Christophe
Munzihirwa, che aveva sfidato gli occupanti ruandesi, esortando la popolazione a non
fuggire e i preti a dare l’esempio nelle parrocchie. Furono loro che, dopo lunghe ore,
ottennero almeno di poter recuperare il corpo abbandonato nella piazza deserta.
Padre Pio e Padre Gabriele, insegnanti di teologia e filosofia di un impegnato gruppo di
seminaristi ( quanta serietà e determinazione nella giornata di questi giovani, scandita con
serena metodicità tra lavoro, studio, canti religiosi!), mettevano a fuoco le problematiche
più scottanti: la corruzione ed eclissi dello Stato il cui Ministero dell’Istruzione ha fatto
sparire 2 milioni di dollari (nel gennaio 2005 gli insegnanti, il cui stipendio, se percepito,
ammonta a 5 dollari mensili, si sono dichiarati in sciopero, promuovendo una protesta
civile che per qualche tempo ha contagiato anche i medici statali ); i taglieggiamenti subiti
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dalla gente comune, che paga per tutti e a tutti, compresi i soldati ( se Bukavu non è stata
saccheggiata come le altre città è perché la popolazione ha pagato di tasca propria quei
soldati che dovrebbero difenderla )…
Frate Gustave, invece, che alla mattina si inerpica verso la scuola periferica di Nyantende,
con la tonaca francescana scura come la sua pelle e i suoi occhi, racconta, con quella tipica
parlata fatta di esclamativi, gesticolando e quasi recitando come un antico cantastorie,
episodi incredibili di violenze nel convento, in cui lui stesso si stupisce di essere
sopravvissuto. Ma poi con la stessa vivacità e rinnovato entusiasmo mi mostra l’elaborato
di un suo allievo adolescente su un pensiero di Sartre riguardo la libertà: il ragazzino, che
si esprime in modo semplice e succinto, ha capito l’insegnamento fondamentale del suo
maestro, il rispetto delle idee altrui, in una parola, la tolleranza. E ne va giustamente fiero il
piccolo frate, che crede nell’azione pacifica della parola, nella resistenza delle coscienze,
nella formazione delle nuove generazioni.
Ecco quello che stupisce e conquista: l’indomita forza di continuare a credere, espressa con
naturalezza, senza ombra di dubbi, di cedimenti. C’è, in questa società che al primo
impatto faremmo fatica a definire “civile”, una corrente non appariscente, che non fa
notizia, ma lavora silenziosa e tenace per rifondare una cultura di pace e di democrazia.
Sono gruppi di resistenza, religiosa e laica, alle logiche di guerra e alle violazioni dei
diritti umani. Nascono spontaneamente, sull’onda dell’emergenza, fungono da sostegno e
mirano a sensibilizzare la popolazione a una maggior consapevolezza dei loro diritti, alla
partecipazione e al controllo del potere politico. Questi gruppi possono diventare massa,
come in occasione di quelle pacifiche manifestazioni silenziose che si sono ripetute con
grande affluenza di folla e vengono qui chiamate “ ville morte”.
Sono spesso studenti che reclamano un cambiamento radicale o che si espongono in prima
persona a rischio della vita.
Non posso dimenticare come una notte, a Bukavu, fui svegliata da un clamore: si stava
consumando uno di questi drammatici ed eroici slanci di ribellione. Uno studente,
intervenuto in difesa di una vedova da tempo taglieggiata da un soldato ( regolarmente
sottraeva gli aiuti che un’associazione forniva alla povera donna ), era stato ucciso a
sangue freddo.
Molto spesso sono le donne che, usando mezzi pacifici, lottano prendendo una posizione
forte nella comunità, nei quartieri, nelle associazioni spontanee. Hanno manifestato a
Bunia e Butembo con i seni nudi per evocare il lutto (mostrare i seni nudi vuol dire
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ricordare la maternità ), ripetendo che portano “ il peso della vita, una gran parte del peso
della costruzione della città, il lavoro dei campi, dei figli e poi vediamo tutto sfumare.
Nessuna di noi ha mai deciso una guerra. Abbiamo generato dei figli che voi uccidete”.
In un’ intervista, Mathilde Muhindo Mwamini, membro della “sottocommissione per i
diritti dell’uomo”, ha dichiarato che
la storia del paese non ha aiutato la donna ad
emanciparsi ( durante la dittatura di Mobutu gli uomini non erano pagati, il peso della
famiglia ha sovraccaricato la donna ); “ la donna continua ad essere vittima della guerra.
Conosce ogni sorte di violenza, fisica, morale e psicologica, ma ora ha l’occasione di
diventare protagonista, di diventare
parte attiva nel processo di pace e dare il suo
contributo alla ricostruzione del paese”
La Mwamini si è recentemente ritirata dalla sua
carica di deputato per protestare contro la mancanza di difesa delle donne preferendo
tornare in mezzo a loro a sostenerle nei loro gruppi spontanei.
Molte donne, in modo composto e dignitoso si stanno mobilitando. Cito a questo
proposito la significativa testimonianza di una donna di Bukavu speditami nel mese di
marzo 2006:
“Pendant comme après les guerres dites de libérations qui se sont succédées au Sud-Kivu
en particulier et RD Congo en général, la femme de Bukavu et de ses environs est victime
des atroces violations des droits humains.
Elle subit donc des agissements lui infligé par différentes fractions armées. Nous pouvons
signaler les groupes armés etaient et sont encore en activités:
l'armé patriotique rwandaise, l'armé ougandaise, les interahamwe rwandais, les FDLR, les
FNL buroundais, les maimai, les forces gouvernementale, et d'autres groupes dicident de
différentes fractions.
Les tueries, les viols et leurs conséqences: les IST/SIDA, les traumatismes psychiques, les
déportations entrainat de dislocations familliales, les grossesses non desirées, et la gestion
de enfants issus des viols, les déplacement des villageois containt à abondonner leurs
champs pour trouver refuge en ville sont autant des prommes que connait les femme de
Bukavu et ses environs.
Face à ce défi; les femmes de Bukavu conscientes de la problematique essaient de trouver
une solution. Le villageoises s'associent en groupes des femmes transporteuses a fin de leur
subsistances en milieux urbain. D'autres associations des femmes pour les femmes tentent
avec des petits moyens obtenu de femmmes et ou des hommes de bonne volonté et
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apprennent ainsi un metier quelconque. D'autes sont réunies pous la lutte contre le
VIH/SIDA. Notons cependant que toutes rencontre des difficulté par manque de partenariat.
Un autre groupe celui dite des AMIES vient de voir le jour,c'est celui qui ecrit ce mot.
Ce groupe se propose de rassembler le plus de femmes possible pour faire connaitre au
niveau international les souffrances et les besoins de la femme du SUD-KIVU et de la RD
congo en général. Elles veulent mobiliser donc les plus des femmes possibles de BUKAVU
afin de revendiquer la dignité de la femme de Bukavu et de la RD Congo.
Promouvoir la femme par des appuis des femmes et des hommes du Congo, d'Afrique, et
des autres continents qui auront compris les souffrances de la femme en ce moment
difficile. Ce groupe desir egalement à motiver l'intégration sociale de la femme du sud Kivu
jusqu'au fin fond des villages et favriser l'intégration politique de la femme pour sa
participation à la vie politique nationale.”
Donne che manifestano, donne che subiscono, donne che si impegnano nello scenario
politico e sociale: la realtà è variegata, dinamica, sfugge ad ogni classificazione.
Le donne si dimostrano nel piccolo commercio attente, puntuali, produttive, capaci persino
di riscattare dalla miseria le loro famiglie.
Su questa capacità fa leva l’iniziativa del micro-credito, piccolo, silenzioso intervento
economico che si sta diffondendo con risultati incoraggianti. Le referenti sono proprio le
donne, perché più attive e più affidabili ( la restituzione del piccolo prestito raggiunge
mediamente il 90% ) L’abbiamo visto praticare nelle parrocchie dei villaggi: ad esempio
suor Immacolata ha iniziato col mettere una somma a fondo perso, spronando le donne a
tassarsi con pochi franchi congolesi: ogni mese tre donne ricevono 10 dollari per iniziare
un commercio o una piccola attività, impegnandosi a restituirli alla fine del mese, perché
siano messi a disposizione di altre per iniziare un loro lavoro, e così via. Sono interventi
modesti, ma che presentano anche il vantaggio di favorire la solidarietà, e di creare nelle
donne una mentalità più aperta e fiduciosa nelle proprie risorse. Almeno quattro
Associazioni di donne di Bukavu hanno inserito nei loro statuti iniziative di microcredito a
testimonianza di quanto sia genuinamente spontanea questa propensione alla mutualità e
non necessariamente importata dal Nord del mondo . Non mancano purtroppo anche
penosi episodi: ad esempio a Bukavu il termine “ tontine” ( che in queste zone francofone
indica un’aggregazione, una cerchia solidale) ormai
sta a significare fallimento e
ladrocinio, perché sotto questo nome un gruppo di disonesti e approfittatori ha estorto
denaro a più di mille persone.
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Certo
l’impatto
con
la
stragrande maggioranza delle donne è a dir poco
sconvolgente.L’immagine delle strade di Bukavu che mi è rimasta negli occhi è di una
fiumana di vite, assiepate, sospinte, affaticate dietro la ricerca di una sopravvivenza
quotidiana.
E sono le donne che richiamano di più l’attenzione, per la colorata vivacità del loro
abbigliamento, per il passo deciso sotto carichi indescrivibili, determinate a trascinarsi
bambini, fascine, mercanzie di ogni tipo, come colonne di piccole, indomite formiche. Ci si
chiede quali labirintici percorsi segua la loro indefessa giornata, a cosa porti, nel buio che
già incombe… Hanno fatto chilometri per scendere in città, ne rifanno altri, sotto
l’immancabile pioggia pomeridiana che impasta la rossa terra delle strade, rendendole
pericolosamente scivolose: “ c’est la boue!”
dicono ridendo di questa pasta collosa,
ineluttabile, che si incolla sotto i piedi, formando una spessa suola anche a chi, come la
maggior parte, non ha le scarpe. Ritornano quando ormai è già buio, dopo avere forse
trovato un po’ di cibo in cambio di una fascina di legna, a qualche baracca di tavole e
lamiera che sotto la pioggia torrenziale spesso scivola giù col suo pavimento di terra
fangosa …
Ci stupiamo, per la nostra rigida difficoltà a capire ciò che è diverso e per noi incongruo,
vedendo affondare, in quella mota, persino un paio di scarpette bianche, scollate e col
tacco… Sono la passione delle poche donne che se le possono concedere, così come le
unghie laccate e, massima civetteria, le parrucche di capelli finti, lisci e fiammanti.
Per chi come noi viene da un mondo in cui tutto è regolato ed è, o pretendiamo che sia, “
sotto controllo”, qui nulla è prevedibile. Il grande “ cuore nero” dell’Africa sfida ogni
luogo comune, ogni certezza: la vita sembra sfuggire alle gabbie del pensiero, è più forte,
istintiva, travolge ogni razionalità come un fiume in piena che ignora gli argini…
Per questo, nonostante il tentativo di offrire un resoconto il più possibile coerente e
motivato, sento che alla fine quello che conta è l’immagine che mi sono portata dentro,
l’impatto di certi incontri, di certi brevi squarci di vita.
Gli ospedali, ad esempio: un’area chiusa che comprende vari padiglioni ad un solo piano,
col tetto in lamiera, un fossato intorno per il displuvio e delle zone libere destinate ai
parenti dei malati. Qui infatti il personale medico e paramedico può solo garantire gli
interventi e le cure, mentre l’assistenza ai degenti è affidata a qualche parente: ecco allora
che l’intero ospedale diventa un piccolo paese animatissimo ( e nei momenti di pericolo vi
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sono affluite centinaia di persone in cerca di rifugio; la storia di eccidi è recentissima e lo
stesso ospedale di Nyantende confina con la fossa comune delle 600 vittime di un
massacro…)
Una torma di donne affluisce ogni mattina ( se non hanno dormito qui sotto un padiglione
improvvisato ): lavano i panni, cucinano, formano una piccola comunità paziente, operosa,
senza fretta né richieste: il loro tempo è qui dentro, non altrove, è lo stesso dei malati,
lento, spesso serenamente rassegnato.
Mentre assistevo ad un cesareo, al di là dei vetri della sala operatoria si svolgeva un usuale ed
allegro rito collettivo: decine di donne, zappe e pale alla mano, piantavano patate dolci per
avere un raccolto veloce e comodo, nelle immediate vicinanze dei loro malati. La mia piccola
manovra di avvicinamento, per riprendere questa scena antica, fu subito accolta come allegro
pretesto per interrompere il lavoro ed esplodere in grandi risate nel vedere la propria
immagine sul monitor… La fatica, il lavoro non sono certo una fonte di preoccupazione o di
scontento!
L’identità di queste donne sembra incrinarsi solo in assenza di ripetute maternità Confluivano
a decine, anche dai paesi vicini, per consultare il “medico bianco”: il loro aspetto ed
abbigliamento denunciava livelli sociali diversi, diverse anche le fisionomie per la
molteplicità di gruppi etnici che caratterizza questo paese. Eppure sui loro volti un’identica
espressione: l’ansia di non poter essere madre o non poterlo essere più dopo sette, otto o più
gravidanze persino superati i 40/45 anni ( ricordiamo però che mediamente perdono una metà
dei nati, immediatamente o dopo la nascita ),
Quell’ansia che rende accorato il dolcissimo sguardo di una giovane sposa, già preoccupata
di essere sterile dopo pochi mesi di matrimonio, che fa balbettare per l’imbarazzo donnone
prosperose dai ruvidi gesti da contadine, o che incrina la voce della moglie di un funzionario,
entrata tutta sussiegosa, con la capigliatura accuratamente avvolta in un’elegante kitambala
multicolore… Probabilmente è in gioco la loro considerazione sociale, la solidità del
matrimonio (qui è normale che un uomo abbia figli anche con altre donne e che, nonostante
la formale ubbidienza alle leggi familiari portate dalla cristianizzazione, finisca con
l’abbandonare la moglie legittima se non gli dà eredi ) e anche il bisogno di proiettare su un
figlio il loro futuro, la loro sicurezza.
Tuttavia non mancano i segni di un cambiamento di mentalità ( che si accompagna
all’istruzione o ai contradditori messaggi dell’urbanizzazione), che potrebbe velocemente
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scardinare l’assetto tradizionale della società: Noela e Amani, studentesse di scuola superiore,
che si dimostrano desiderose di chiacchierare con me e di mostrarmi la loro scuola, dichiarano
animatamente di voler proseguire i loro studi ( sono interessate ai problemi di agronomia ) e
non sposarsi per finire “come le loro madri, schiave della casa e del lavoro dei campi…”
Mentre osservo la costruzione incompiuta che è la loro scuola ( non ci sono né infissi, né
banchi, solo qualche panca e un’unica lavagna su cui, in mancanza di libri, si deve svolgere
ogni funzione didattica, dalle lezioni, alle interrogazioni, agli esami…), leggo negli sguardi
delle due adolescenti come è importante per loro il nostro modello occidentale, come cercano
l’approvazione, il consiglio, non solo l’aiuto materiale. E una volta di più sento la
responsabilità che ci portiamo addosso.
Diversa situazione ho trovato in una donna adulta, ma un identico bisogno di trovare
comprensione e appoggio in una fase difficile perché di trapasso: Furaha è una donna sulla
trentina, magra, longilinea, non priva di un certo garbo nonostante si mantenga, insieme alla
figlia dodicenne, facendo la cuoca. Si rivolge a me perché l’imbarazzo le impedisce di parlare
direttamente al “medico bianco” e, attraverso molte perifrasi e allusioni, arrivo a capire che (
cosa inaudita finora!) vuole fare della contraccezione: il marito è scomparso negli scontri
armati del ‘98 e ora lei non potrebbe certo affrontare la vergogna di rimanere incinta!
Le donne spesso arrivano alla maternità con la schiena già deformata e quindi un assetto del
bacino che rende più difficoltoso l’espletamento del parto. Fin da bambine sono loro a portare i
pesi, dalle taniche d’acqua alle fascine di legna e quando diventano madri l’ultimo nato viene
issato, con un’abile e veloce manovra, sopra al resto del carico, avvolto in una “pagne”, per
l’occasione diventata marsupio.
Ho visto donne, giovani e vecchie, inerpicarsi per un pendio scosceso, dopo aver fatto un
carico impressionante di mattoni: erano laterizi abbandonati allo scalo delle barche di Monvu,
preziosissimo materiale per le loro povere case: una cinghia, fatta girare intorno alla fronte,
serve per tenere fermo il carico disumano sulla schiena.
Questo lavoro massacrante delle donne è tanto radicato nella loro cultura che è inutile
chiedere spiegazioni o avanzare critiche: non ti capiscono, ridono divertiti e ti chiedono se da
noi le donne non portano nulla…
Gravidanza e parto richiedono alle donne un tributo altissimo. Difficile sapere in cifre la
situazione di tutto un territorio dove la maggioranza delle donne partorisce nelle capanne dei
villaggi. Quelle che affluiscono agli ospedali sono già delle privilegiate (in assenza di
un’assistenza medica gratuita oggi si sta facendo qualche faticoso tentativo di introdurre il
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concetto di mutualità volontaria, ma, sia per la mentalità, sia per l’impegno economico, il
processo è molto lento ).
Poiché vengono spesso da lontano e soprattutto per l’assenza di strade facilmente percorribili e
di mezzi di trasporto, nell’approssimarsi del parto le donne gravide vengono a trascorrere le
ultime settimane insieme, in una struttura ( può essere la classica capanna circolare con il
focolare in mezzo! ) vicino all’ospedale, chiamata “ bignola”.
Il travaglio è seguito da infermiere con nozioni di ostetricia e puericultura ( qui vengono
chiamate accoucheuses ) che dispongono di un partogramma, distribuito dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità, che però non viene applicato; i medici sono chiamati ad intervenire
solo se la situazione precipita e si richiede un parto chirurgico e spesso, notiamo, assai
tardivamente.
Ho ancora negli occhi l’immagine di Maombi, minuta come molte donne di qui, tanto da
sembrare una bambina: su uno dei letti del reparto maternità, tanto pigiati da rendere difficile
il passaggio, si tiene stretto il suo fagottino. Ha l’aria esausta ma sembra mettere tutte le sue
poche forze nel sorriso che mi rivolge, mite, senza domande; è reduce da un parto cesareo
avvenuto nella notte in condizioni a dir poco estreme: niente corrente elettrica a quell’ora , il “
medico bianco” ha dovuto farsi luce con una lampada frontale e far portare il letto operatorio
nella sala dove si trovano le batterie solari, per usufruire della flebile illuminazione di
un’unica lampadina! Ma nonostante tante difficoltà è stata fortunata: lei e il bambino sono in
condizioni soddisfacenti.
Il piccolo di Mana invece è quasi inerte, ma la madre continua ad accudirlo: è per un tenace
istinto animalesco o è inconsapevole della domanda che noi ci poniamo: quanto potrà vivere
quel cosino, frutto di tanta sofferenza fetale? E’ solo uno dei frequenti casi in cui la differenza
di tradizione e di mentalità suscita stridenti problematiche. Perché attendere tanto tempo
prima di ricorrere al cesareo? Mana ha iniziato il travaglio durante la notte e, nonostante abbia
alle spalle già altri tre parti cesarei, è stata lasciata a se stessa per ore e ore. Quando
finalmente in tarda mattinata i medici la fanno portare in sala operatoria, si trova già a
dilatazione completa e il cesareo tardivo evidenzia un’ampia rottura d’utero, da cui fuoriesce
parzialmente la placenta.
Certo i medici dell’ospedale sono pochi, devono far fronte a tutto, dai ricoveri d’urgenza alla
routine amministrativa, ed è anche vero che il parto cesareo richiede dei costi aggiuntivi… Ma
forse, al di là dei problemi contingenti c’è un fatto culturale: il parto appartiene alla sfera della
naturalità, una naturalità che qui spesso significa sofferenza, in una visione in cui vita e morte
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convivono strettamente, senza causare stridori o proteste. Non è forse con estrema naturalezza
( non indifferenza! ) che abbiamo visto staccare il “ concentratore d’ossigeno” ad un bimbo di
nove mesi? Prima affidato alle cure dello stregone del villaggio e infine, ma troppo tardi,
portato in ospedale, era morto tutto solo, dopo poche ore di insufficienti e ormai inutili cure.
La sua piccola vita non ce l’aveva fatta: tutto qui…
Anche il racconto di vissuti drammatici, per noi impensabili, rientra nella “naturalezza”.
Odette, moglie di un medico che oggi lavora nell’ospedale di Panzi, dovette fuggire per
giorni nei boschi, col marito e tre figli piccoli ( ricordiamo che, al di là dei pretesi conflitti
etnici, la violenza ha colpito soprattutto gli “ intellettuali” come medici, insegnanti,
religiosi, allo scopo di privare il popolo dei punti di riferimento e di appoggio ) : era al
termine di gravidanza, partorì lungo il percorso e gli altri del gruppo in fuga, per il terrore
di essere raggiunti, non le diedero neppure il tempo di espellere la placenta!
Lo stato endemico di insicurezza, la presenza di gruppi armati contrapposti, le incursioni
della guerriglia, continuano ad infierire sulla vita delle donne nel segno della violenza e del
sopruso. Anche ultimamente, che il clima politico sembra volersi tingere di contorni più
rassicuranti, le violenze sulle donne sono quotidiane, vengono sequestrate in gruppo, dai
villaggi, dalle strade: tenute prigioniere, violentate, usate per taglieggiare i parenti, per
aggiungere estorsione a estorsione…
In occasione della giornata internazionale delle donne, Idesbald Byabuze Katabaruka, Chef
des travaux nella Facoltà di diritto dell’Università di Bukavu, ha indirizzato un’accorata
lettera alle sue compatriote, intitolata “ Confession et hommages”:
“…nella speranza di lottare insieme fino alla conquista della nostra dignità e della nostra
vera liberazione, degnatevi di accettare, care figlie del nostro popolo, a nome degli uomini
e a nostro nome personale, questo atto di contrizione e insieme di omaggio…”
Parole più che giuste, anche se suonano tardive e purtroppo non hanno impedito il ripetersi
degli orrori.
Il vice segretario dell’ONU con delega agli Affari Umanitari, Jan Egeland, ha definito un “
cancro della società congolese il fenomeno degli abusi sessuali ai danni delle donne,
compiuti nella maggioranza dei casi dai militari o comunque da coloro che dovrebbero
garantire la sicurezza della popolazione. Nel solo ospedale di Panzi della città di Bukavu
dall’inizio del 2006 sono state ricoverate oltre 1000 donne per le conseguenze delle
violenze subite.”
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Un centro di accoglienza che svolge un importantissimo lavoro di recupero è il Foyer
Ek’Abana, fondato da Natalina, una psicologa italiana, per raccogliere le cosiddette “
bambine di strada”. Di età compresa tra i quattro e i quattordici anni circa ( ma chi sa
veramente la loro età?), bambinette vivaci e adolescenti schive, hanno alle loro spalle
storie inimmaginabili, ma qui sembrano aver trovato una serenità: fanno i loro compiti, si
spintonano e ridono come tutti i bambini del mondo quando sono in imbarazzo, ci cantano
una canzoncina stonata… Eppure in queste stanzette semplici e ordinate si scaricano
drammi antichi e tensioni moderne.
E’ infatti un dato “culturale” che bambine accusate di stregoneria siano messe per strada,
allontanate e rifiutate dalle famiglie, esposte quindi ad altre violenze e soprusi. In realtà
spesso sono solo bocche in più da sfamare, o caratteri difficili e ribelli, o semplicemente
infanzie abbandonate da famiglie distrutte o assenti. L’ultimo nucleo sano della società
africana, la famiglia, finisce infatti con l’esplodere e disintegrarsi nel gorgo delle guerre,
delle ruberie, delle vendette.
Come analizza Mme M. Thérèse Mulanga, presidente dell’associazione nazionale degli
educatori sociali, “Il fenomeno stregoneria dei bambini è un fenomeno paragonabile
all’autodifesa della società. Quale legame con le credenze ancestrali? Le persone rifiutano
di ragionare, c’è uno sbarramento che serve a difendere la propria posizione. Ho diretto per
oltre vent’anni delle istituzioni in cui si educavano dei bambini in difficoltà, tra cui anche
quelli accusati di stregoneria. Quando diventavano grandi, capaci di lavorare, si formavano
una bella famiglia, allora i genitori dimenticavano completamente le accuse di un tempo e
reintegravano i figli…”
Ritorno all’intervista del 22 marzo 2005 a Mathilde Muhindo, impegnata sul fronte sociale,
che crede nell’importanza dell’educazione e della formazione, soprattutto femminile:
“Le donne sono coscienti che la povertà, l’analfabetismo, le violenze, sono cose che
succedono alle donne in primo luogo e sono decise ad avanzare, ben sapendo che tutto ciò
sarà per il futuro, ma tutto ciò che si può guadagnare ora si deve combattere per averlo.
Nelle province le donne sensibilizzano le altre donne a livello di base: sulle elezioni, i
diritti civici, i partiti politici… La donna che va ad occupare dei posti di responsabilità
deve convincere per la sua serietà e le sue competenze… Nella costituzione si prevede una
rappresentanza significativa delle donne a tutti i livelli decisionali, ma alla fine per il
momento il loro ruolo è solo consultivo. Comunque è già un primo passo e pensiamo che
siano donne capaci di giocare il proprio ruolo”
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“ Madri, mogli, figlie, sorelle che hanno visto portare via dall’odio e dalla violenza i
propri mariti, i figli, i fratelli, i padri, violate spesso nel corpo e nella dignità di persone,
rivendicano con forza un’alternativa agli orrori e partecipano attivamente alle campagne di
educazione al voto nelle città e nei villaggi” (Paola Luzzi su Solidarietà Internazionale )
Purtroppo il coinvolgimento degli stati confinanti nel traffico d’armi, le responsabilità dei
“signori della guerra” più interessati al mantenimento dello status quo che al processo di
democratizzazione e la corruzione delle clientele locali, trascinano questo periodo di
transizione, in cui la popolazione è costretta a convivere con la paura, la fame, le malattie.
All’inizio di maggio un funzionario ONU diceva: “La comunità internazionale sta
prendendo sottogamba il peggior disastro umanitario del mondo nella RDC dove 10
milioni di persone hanno bisogno di assistenza per sopravvivere”
Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2006 l’anno della RDC per riconoscere le migliori
prospettive di pace e di ripresa e hanno lanciato un appello per 682 milioni di dollari per
fornire acqua, cibo, assistenza medica, rifugi e protezione per chi si trova in situazione di
rischio ( cifra che equivale a 0,18 dollari al giorno per persona ). Finora gli Stati donatori
hanno fornito solo il 13% di quella cifra.
Secondo un’indagine svolta dall’International Rescue Committe, ogni mese nella RDC
muoiono 31.000 persone. Richard Brennan, uno degli autori del rapporto dichiara:
“ In questi sei anni ( dall’inizio delle lotte per il controllo delle regioni orientali da parte di
milizie irregolari e movimenti ribelli, alcuni dei quali foraggiati da paesi vicini ) il mondo
ha perso l’equivalente dell’intera popolazione dell’Eire o della città di Los Angeles. Quanti
congolesi innocenti dovranno ancora morire prima che il mondo cominci ad
interessarsene?”
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