perche` il congo? - Informa Provincia
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PERCHE’ IL CONGO? Appunti a margine di un’esperienza africana “Vogliamo servire la Verità o vogliamo ricordarci la nostra formulazione della verità per superare le nostre insicurezze?” (Renato Kizito Sesana ) Premessa Conoscevo un proverbio africano che dice: “La mano che riceve l’aiuto è sempre al di sotto della mano che dà”, così come sapevo che in Congo noi bianchi siamo subito riconosciuti come “ msungu”, cioè un tutt’uno di ricchezza e potere. Avevo già visto in fotografia i volti ridenti dei bimbi neri cui arrivano i doni, il gesto tenero del palmo destro aperto a ricevere, mentre l’altra mano, come tradizionale segno di deferenza, si appoggia all’avambraccio. La mia breve e modesta esperienza nella regione congolese del Sud Kivu ha certo confermato questa visione di un rapporto umano non facile, spesso problematico, ma insieme mi ha fatto maturare altre considerazioni. Il grande fascino dell’Africa come “oggetto di pensiero” è che sfida ogni luogo comune, ogni certezza, costringe costantemente a rimettere in discussione noi stessi e i nostri preconcetti. Ci insegna la modestia delle non facili conclusioni, delle ancora più difficili soluzioni dei problemi. Penso che, per non cadere nei pregiudizi o in risposte semplicistiche, si possa solo raccontare ciò che si è visto (e persino questo può essere ingannevole e di ardua interpretazione…). Per me è importante la chiarezza e la sincerità: chi racconta non è uno di loro e, per dare la giusta dimensione a quello che dice, deve dichiarare la sua posizione. La mia è “indignazione”. Indignazione perché quello che ho visto e saputo (o ascoltando, o leggendo e cercando resoconti ) è tollerato e non sufficientemente portato a conoscenza. Dell’Africa si può parlare in cento modi, da studioso di varie discipline, da viaggiatore, da giornalista-reporter… Quello che non si può e non di deve è non parlarne. 1 --------------------------------------------------Secondo stime della Croce Rossa, dall’estate del 1998 a oggi, la guerra nella Repubblica Democratica del Congo ha causato oltre 3 milioni e 800.000 morti, tre quarti dei quali nella regione orientale. Il 12% dei bambini non raggiunge l’anno, 3 milioni non ricevono la minima istruzione, 400.000 sono scappati dalle loro case, decine di migliaia sono reclutati nelle forze armate.” I rapporti dell’organizzazione Médecins sans frontières, utilizzando cifre e racconti circostanziati, sottolineano la vastità del dramma umanitario: anche dove la violenza armata si è attenuata, in seguito ad accordi o tregue provvisorie, la vita della popolazione continua ad essere intrisa di morte: 2 milioni di persone sfollate, costrette a nascondersi nella foresta equatoriale o ad ammassarsi in periferie urbane del tutto inadeguate ( Bukavu ha triplicato la popolazione negli ultimi due anni, a fronte di un tessuto urbano ormai inesistente); 18,5 milioni di persone non hanno nessun accesso a cure mediche, nessun bambino è vaccinato e la mortalità materna è la più alta al mondo ( 3.000 madri su 10.000 muoiono di parto ). Focolai epidemici mietono vittime senza che i soccorsi possano raggiungere i luoghi di infezione. In assenza di condizioni minime di sicurezza la popolazione delle campagne, abbandonate le forme tradizionali di agricoltura, è tornata ad un’economia di raccolta, di pura sopravvivenza. In una situazione generalizzata d’illegalità e di arbitrio anche gli aiuti alimentari concorrono a creare un quadro paradossale: il PAM ( Programma Alimentare Mondiale) spende cifre enormi per acquistare e importare cibo (mais USA, riso dal Pakistan o dal Vietnam, solo per citare qualche esempio) nel Kivu, regione che sembra baciata dalla fecondità della natura e in compenso i risicultori della provincia confinante del Kasongo abbandonano la coltivazione perché, mangiata dalla foresta, non c’è più la strada per portare il prodotto fino a Bukavu; lo zuccherificio di Uvira ha chiuso i battenti per la guerra e non li riapre a causa della concorrenza… La RDC, così ricca, sembra destinata a rimanere la terra da cui si rapinano materie prime per smerciare prodotti altrui! Senza contare un disastro ecologico che non fa notizia ma che rappresenterà l’onda lunga di questa terribile guerra: il Kivu, che era considerato il granaio del paese, rifornendo di grano e verdura la capitale, con l’occupazione ribelle ha visto chiudere il canale commerciale e crollare le sue attività agricole e pastorali. Da febbraio a dicembre 2000 interi villaggi sono stati trasferiti nelle zone di giacimenti di coltan. I parchi nazionali, considerati sotto la protezione dell’Unesco, sono minacciati dalle 2 miniere a cielo aperto e da migliaia di persone che per sopravvivere uccidono gli animali ( nel 1996 erano censiti 3600 elefanti, oggi sono praticamente scomparsi; i gorilla del parco Kahuzi-Biega sono dimezzati…) Questi pochi dati per far luce su quella che viene ormai riconosciuta come la prima guerra mondiale africana. Infatti la terminologia classica di conflitto etnico, impiegata spesso per definire le guerre d’Africa, sembra inapplicabile al conflitto congolese che ha visto coinvolti, oltre ai numerosi movimenti di ribellione al potere centrale di Kinshasa, anche Stati confinanti, con le proprie ambizioni e strategie. Senza contare le alleanze internazionali che fanno della RD del Congo un punto focale di interessi geopolitici. La crisi che insanguina da tanti anni la Regione dei Grandi Laghi rientra nella tipologia di altre crisi mondiali ( Balcani, Caucaso…) Se parliamo di guerra etnica pensiamo ad un mondo di violenze ataviche, di odi congeniti, mentre le guerre d’Africa hanno purtroppo gli stessi ingredienti di tutte le guerre contemporanee: crisi dello stato centrale, esplosione dei quadri nazionali, insorgenza di gruppi armati, economia di guerra e selvaggio sfruttamento delle risorse. “ Dire guerra etnica significa mascherare la fitta rete di interessi geopolitici ed economici che determinano, alimentano e perpetuano conflitti multicausali” ( da Jean Léonard Touadi: “Congo” ed Riuniti, 2004) D’altronde risulta una comoda semplificazione chiamare guerra etnica un conflitto, che, per la prima volta dopo la caduta del muro di Berlino, ha visto contrapposti gli interessi geopolitici della Francia e degli USA. La comunità internazionale sembra occuparsi di queste emergenze umanitarie solo quando le cifre sono considerate sufficienti per parlare di catastrofe, o dopo anni, come è successo col genocidio del Ruanda e solo quando i giochi politici si sono modificati. Attualmente a livello formale la RDC sta attraversando un “periodo di transizione” per la realizzazione delle sue prime elezioni democratiche. Una nuova intesa franco-americana sembra volere un Congo stabilizzato e a questo fine ha elevato prima a 11.000 e di recente fino a 20.000 uomini il contingente della Monuc ( la missione di pace ONU in Congo ) che però nel giugno del 2004 ha perso ogni credibilità di fronte alla popolazione per non avere impedito la caduta di Bukavu e l’uccisione di civili da parte delle unità ribelli ruandesi. L’internazionalizzazione del conflitto ha portato ad una situazione intricata e confusa in cui la sovranità stessa dello Stato è messa in discussione e la popolazione civile vive sotto le 3 violenze e le angherie dei gruppi armati e/o affaristici che si contendono le ricchezze del suole e del sottosuolo. Si assiste ad una tragica rappresentazione di quella geopolitica del caos” di cui parlava Achille Mbembé sulla rivista Politique Africaine (1999): “…contesti dove il processo di privatizzazione della sovranità è legato alla guerra e poggia su di un intreccio inedito di interessi di cortigiani, faccendieri e negozianti internazionali che operano in complicità con i plutocrati locali”. La situazione è estremamente complessa e spesso risulta sfuggente per il solo fatto che è in continuo divenire. Andrebbe costantemente aggiornata e verificata alla luce delle ultime dinamiche in atto. Considero tuttavia che le testimonianze raccolte a Bukavu dalla viva voce dei protagonisti di queste vicende siano un punto di riferimento fondamentale, dalle più semplici alle più consapevoli e culturalmente rielaborate, come gli ancor vivi ricordi delle suore croate di Alphagiri (massiccio convento utilizzato dai Gesuiti come scuola ai tempi della colonizzazione belga), nascoste per giorni nelle cantine del convento che si venne a trovare proprio tra i fuochi delle opposte fazioni . Suor Miriam e le sue consorelle di pelle bianca o nera scrollano le spalle ricordando gli affronti subiti, i pericoli affrontati con disinvoltura, i feriti soccorsi, i tanti morti sulla loro strada. Rimboccandosi tutti i giorni le maniche continuano la loro missione o in ospedale o a scuola, ben consapevoli dei rischi, nutrendo fiducia solo nella loro carità. I racconti dei Padri Saveriani, presenti da decenni nella vita della città, sono stati una preziosa fonte di informazioni e di riflessioni. Dalla finestra del loro seminario di Vamaro assistettero impotenti, nell’ottobre 1996, all’assassinio del vescovo Christophe Munzihirwa, che aveva sfidato gli occupanti ruandesi, esortando la popolazione a non fuggire e i preti a dare l’esempio nelle parrocchie. Furono loro che, dopo lunghe ore, ottennero almeno di poter recuperare il corpo abbandonato nella piazza deserta. Padre Pio e Padre Gabriele, insegnanti di teologia e filosofia di un impegnato gruppo di seminaristi ( quanta serietà e determinazione nella giornata di questi giovani, scandita con serena metodicità tra lavoro, studio, canti religiosi!), mettevano a fuoco le problematiche più scottanti: la corruzione ed eclissi dello Stato il cui Ministero dell’Istruzione ha fatto sparire 2 milioni di dollari (nel gennaio 2005 gli insegnanti, il cui stipendio, se percepito, ammonta a 5 dollari mensili, si sono dichiarati in sciopero, promuovendo una protesta civile che per qualche tempo ha contagiato anche i medici statali ); i taglieggiamenti subiti 4 dalla gente comune, che paga per tutti e a tutti, compresi i soldati ( se Bukavu non è stata saccheggiata come le altre città è perché la popolazione ha pagato di tasca propria quei soldati che dovrebbero difenderla )… Frate Gustave, invece, che alla mattina si inerpica verso la scuola periferica di Nyantende, con la tonaca francescana scura come la sua pelle e i suoi occhi, racconta, con quella tipica parlata fatta di esclamativi, gesticolando e quasi recitando come un antico cantastorie, episodi incredibili di violenze nel convento, in cui lui stesso si stupisce di essere sopravvissuto. Ma poi con la stessa vivacità e rinnovato entusiasmo mi mostra l’elaborato di un suo allievo adolescente su un pensiero di Sartre riguardo la libertà: il ragazzino, che si esprime in modo semplice e succinto, ha capito l’insegnamento fondamentale del suo maestro, il rispetto delle idee altrui, in una parola, la tolleranza. E ne va giustamente fiero il piccolo frate, che crede nell’azione pacifica della parola, nella resistenza delle coscienze, nella formazione delle nuove generazioni. Ecco quello che stupisce e conquista: l’indomita forza di continuare a credere, espressa con naturalezza, senza ombra di dubbi, di cedimenti. C’è, in questa società che al primo impatto faremmo fatica a definire “civile”, una corrente non appariscente, che non fa notizia, ma lavora silenziosa e tenace per rifondare una cultura di pace e di democrazia. Sono gruppi di resistenza, religiosa e laica, alle logiche di guerra e alle violazioni dei diritti umani. Nascono spontaneamente, sull’onda dell’emergenza, fungono da sostegno e mirano a sensibilizzare la popolazione a una maggior consapevolezza dei loro diritti, alla partecipazione e al controllo del potere politico. Questi gruppi possono diventare massa, come in occasione di quelle pacifiche manifestazioni silenziose che si sono ripetute con grande affluenza di folla e vengono qui chiamate “ ville morte”. Sono spesso studenti che reclamano un cambiamento radicale o che si espongono in prima persona a rischio della vita. Non posso dimenticare come una notte, a Bukavu, fui svegliata da un clamore: si stava consumando uno di questi drammatici ed eroici slanci di ribellione. Uno studente, intervenuto in difesa di una vedova da tempo taglieggiata da un soldato ( regolarmente sottraeva gli aiuti che un’associazione forniva alla povera donna ), era stato ucciso a sangue freddo. Molto spesso sono le donne che, usando mezzi pacifici, lottano prendendo una posizione forte nella comunità, nei quartieri, nelle associazioni spontanee. Hanno manifestato a Bunia e Butembo con i seni nudi per evocare il lutto (mostrare i seni nudi vuol dire 5 ricordare la maternità ), ripetendo che portano “ il peso della vita, una gran parte del peso della costruzione della città, il lavoro dei campi, dei figli e poi vediamo tutto sfumare. Nessuna di noi ha mai deciso una guerra. Abbiamo generato dei figli che voi uccidete”. In un’ intervista, Mathilde Muhindo Mwamini, membro della “sottocommissione per i diritti dell’uomo”, ha dichiarato che la storia del paese non ha aiutato la donna ad emanciparsi ( durante la dittatura di Mobutu gli uomini non erano pagati, il peso della famiglia ha sovraccaricato la donna ); “ la donna continua ad essere vittima della guerra. Conosce ogni sorte di violenza, fisica, morale e psicologica, ma ora ha l’occasione di diventare protagonista, di diventare parte attiva nel processo di pace e dare il suo contributo alla ricostruzione del paese” La Mwamini si è recentemente ritirata dalla sua carica di deputato per protestare contro la mancanza di difesa delle donne preferendo tornare in mezzo a loro a sostenerle nei loro gruppi spontanei. Molte donne, in modo composto e dignitoso si stanno mobilitando. Cito a questo proposito la significativa testimonianza di una donna di Bukavu speditami nel mese di marzo 2006: “Pendant comme après les guerres dites de libérations qui se sont succédées au Sud-Kivu en particulier et RD Congo en général, la femme de Bukavu et de ses environs est victime des atroces violations des droits humains. Elle subit donc des agissements lui infligé par différentes fractions armées. Nous pouvons signaler les groupes armés etaient et sont encore en activités: l'armé patriotique rwandaise, l'armé ougandaise, les interahamwe rwandais, les FDLR, les FNL buroundais, les maimai, les forces gouvernementale, et d'autres groupes dicident de différentes fractions. Les tueries, les viols et leurs conséqences: les IST/SIDA, les traumatismes psychiques, les déportations entrainat de dislocations familliales, les grossesses non desirées, et la gestion de enfants issus des viols, les déplacement des villageois containt à abondonner leurs champs pour trouver refuge en ville sont autant des prommes que connait les femme de Bukavu et ses environs. Face à ce défi; les femmes de Bukavu conscientes de la problematique essaient de trouver une solution. Le villageoises s'associent en groupes des femmes transporteuses a fin de leur subsistances en milieux urbain. D'autres associations des femmes pour les femmes tentent avec des petits moyens obtenu de femmmes et ou des hommes de bonne volonté et 6 apprennent ainsi un metier quelconque. D'autes sont réunies pous la lutte contre le VIH/SIDA. Notons cependant que toutes rencontre des difficulté par manque de partenariat. Un autre groupe celui dite des AMIES vient de voir le jour,c'est celui qui ecrit ce mot. Ce groupe se propose de rassembler le plus de femmes possible pour faire connaitre au niveau international les souffrances et les besoins de la femme du SUD-KIVU et de la RD congo en général. Elles veulent mobiliser donc les plus des femmes possibles de BUKAVU afin de revendiquer la dignité de la femme de Bukavu et de la RD Congo. Promouvoir la femme par des appuis des femmes et des hommes du Congo, d'Afrique, et des autres continents qui auront compris les souffrances de la femme en ce moment difficile. Ce groupe desir egalement à motiver l'intégration sociale de la femme du sud Kivu jusqu'au fin fond des villages et favriser l'intégration politique de la femme pour sa participation à la vie politique nationale.” Donne che manifestano, donne che subiscono, donne che si impegnano nello scenario politico e sociale: la realtà è variegata, dinamica, sfugge ad ogni classificazione. Le donne si dimostrano nel piccolo commercio attente, puntuali, produttive, capaci persino di riscattare dalla miseria le loro famiglie. Su questa capacità fa leva l’iniziativa del micro-credito, piccolo, silenzioso intervento economico che si sta diffondendo con risultati incoraggianti. Le referenti sono proprio le donne, perché più attive e più affidabili ( la restituzione del piccolo prestito raggiunge mediamente il 90% ) L’abbiamo visto praticare nelle parrocchie dei villaggi: ad esempio suor Immacolata ha iniziato col mettere una somma a fondo perso, spronando le donne a tassarsi con pochi franchi congolesi: ogni mese tre donne ricevono 10 dollari per iniziare un commercio o una piccola attività, impegnandosi a restituirli alla fine del mese, perché siano messi a disposizione di altre per iniziare un loro lavoro, e così via. Sono interventi modesti, ma che presentano anche il vantaggio di favorire la solidarietà, e di creare nelle donne una mentalità più aperta e fiduciosa nelle proprie risorse. Almeno quattro Associazioni di donne di Bukavu hanno inserito nei loro statuti iniziative di microcredito a testimonianza di quanto sia genuinamente spontanea questa propensione alla mutualità e non necessariamente importata dal Nord del mondo . Non mancano purtroppo anche penosi episodi: ad esempio a Bukavu il termine “ tontine” ( che in queste zone francofone indica un’aggregazione, una cerchia solidale) ormai sta a significare fallimento e ladrocinio, perché sotto questo nome un gruppo di disonesti e approfittatori ha estorto denaro a più di mille persone. 7 Certo l’impatto con la stragrande maggioranza delle donne è a dir poco sconvolgente.L’immagine delle strade di Bukavu che mi è rimasta negli occhi è di una fiumana di vite, assiepate, sospinte, affaticate dietro la ricerca di una sopravvivenza quotidiana. E sono le donne che richiamano di più l’attenzione, per la colorata vivacità del loro abbigliamento, per il passo deciso sotto carichi indescrivibili, determinate a trascinarsi bambini, fascine, mercanzie di ogni tipo, come colonne di piccole, indomite formiche. Ci si chiede quali labirintici percorsi segua la loro indefessa giornata, a cosa porti, nel buio che già incombe… Hanno fatto chilometri per scendere in città, ne rifanno altri, sotto l’immancabile pioggia pomeridiana che impasta la rossa terra delle strade, rendendole pericolosamente scivolose: “ c’est la boue!” dicono ridendo di questa pasta collosa, ineluttabile, che si incolla sotto i piedi, formando una spessa suola anche a chi, come la maggior parte, non ha le scarpe. Ritornano quando ormai è già buio, dopo avere forse trovato un po’ di cibo in cambio di una fascina di legna, a qualche baracca di tavole e lamiera che sotto la pioggia torrenziale spesso scivola giù col suo pavimento di terra fangosa … Ci stupiamo, per la nostra rigida difficoltà a capire ciò che è diverso e per noi incongruo, vedendo affondare, in quella mota, persino un paio di scarpette bianche, scollate e col tacco… Sono la passione delle poche donne che se le possono concedere, così come le unghie laccate e, massima civetteria, le parrucche di capelli finti, lisci e fiammanti. Per chi come noi viene da un mondo in cui tutto è regolato ed è, o pretendiamo che sia, “ sotto controllo”, qui nulla è prevedibile. Il grande “ cuore nero” dell’Africa sfida ogni luogo comune, ogni certezza: la vita sembra sfuggire alle gabbie del pensiero, è più forte, istintiva, travolge ogni razionalità come un fiume in piena che ignora gli argini… Per questo, nonostante il tentativo di offrire un resoconto il più possibile coerente e motivato, sento che alla fine quello che conta è l’immagine che mi sono portata dentro, l’impatto di certi incontri, di certi brevi squarci di vita. Gli ospedali, ad esempio: un’area chiusa che comprende vari padiglioni ad un solo piano, col tetto in lamiera, un fossato intorno per il displuvio e delle zone libere destinate ai parenti dei malati. Qui infatti il personale medico e paramedico può solo garantire gli interventi e le cure, mentre l’assistenza ai degenti è affidata a qualche parente: ecco allora che l’intero ospedale diventa un piccolo paese animatissimo ( e nei momenti di pericolo vi 8 sono affluite centinaia di persone in cerca di rifugio; la storia di eccidi è recentissima e lo stesso ospedale di Nyantende confina con la fossa comune delle 600 vittime di un massacro…) Una torma di donne affluisce ogni mattina ( se non hanno dormito qui sotto un padiglione improvvisato ): lavano i panni, cucinano, formano una piccola comunità paziente, operosa, senza fretta né richieste: il loro tempo è qui dentro, non altrove, è lo stesso dei malati, lento, spesso serenamente rassegnato. Mentre assistevo ad un cesareo, al di là dei vetri della sala operatoria si svolgeva un usuale ed allegro rito collettivo: decine di donne, zappe e pale alla mano, piantavano patate dolci per avere un raccolto veloce e comodo, nelle immediate vicinanze dei loro malati. La mia piccola manovra di avvicinamento, per riprendere questa scena antica, fu subito accolta come allegro pretesto per interrompere il lavoro ed esplodere in grandi risate nel vedere la propria immagine sul monitor… La fatica, il lavoro non sono certo una fonte di preoccupazione o di scontento! L’identità di queste donne sembra incrinarsi solo in assenza di ripetute maternità Confluivano a decine, anche dai paesi vicini, per consultare il “medico bianco”: il loro aspetto ed abbigliamento denunciava livelli sociali diversi, diverse anche le fisionomie per la molteplicità di gruppi etnici che caratterizza questo paese. Eppure sui loro volti un’identica espressione: l’ansia di non poter essere madre o non poterlo essere più dopo sette, otto o più gravidanze persino superati i 40/45 anni ( ricordiamo però che mediamente perdono una metà dei nati, immediatamente o dopo la nascita ), Quell’ansia che rende accorato il dolcissimo sguardo di una giovane sposa, già preoccupata di essere sterile dopo pochi mesi di matrimonio, che fa balbettare per l’imbarazzo donnone prosperose dai ruvidi gesti da contadine, o che incrina la voce della moglie di un funzionario, entrata tutta sussiegosa, con la capigliatura accuratamente avvolta in un’elegante kitambala multicolore… Probabilmente è in gioco la loro considerazione sociale, la solidità del matrimonio (qui è normale che un uomo abbia figli anche con altre donne e che, nonostante la formale ubbidienza alle leggi familiari portate dalla cristianizzazione, finisca con l’abbandonare la moglie legittima se non gli dà eredi ) e anche il bisogno di proiettare su un figlio il loro futuro, la loro sicurezza. Tuttavia non mancano i segni di un cambiamento di mentalità ( che si accompagna all’istruzione o ai contradditori messaggi dell’urbanizzazione), che potrebbe velocemente 9 scardinare l’assetto tradizionale della società: Noela e Amani, studentesse di scuola superiore, che si dimostrano desiderose di chiacchierare con me e di mostrarmi la loro scuola, dichiarano animatamente di voler proseguire i loro studi ( sono interessate ai problemi di agronomia ) e non sposarsi per finire “come le loro madri, schiave della casa e del lavoro dei campi…” Mentre osservo la costruzione incompiuta che è la loro scuola ( non ci sono né infissi, né banchi, solo qualche panca e un’unica lavagna su cui, in mancanza di libri, si deve svolgere ogni funzione didattica, dalle lezioni, alle interrogazioni, agli esami…), leggo negli sguardi delle due adolescenti come è importante per loro il nostro modello occidentale, come cercano l’approvazione, il consiglio, non solo l’aiuto materiale. E una volta di più sento la responsabilità che ci portiamo addosso. Diversa situazione ho trovato in una donna adulta, ma un identico bisogno di trovare comprensione e appoggio in una fase difficile perché di trapasso: Furaha è una donna sulla trentina, magra, longilinea, non priva di un certo garbo nonostante si mantenga, insieme alla figlia dodicenne, facendo la cuoca. Si rivolge a me perché l’imbarazzo le impedisce di parlare direttamente al “medico bianco” e, attraverso molte perifrasi e allusioni, arrivo a capire che ( cosa inaudita finora!) vuole fare della contraccezione: il marito è scomparso negli scontri armati del ‘98 e ora lei non potrebbe certo affrontare la vergogna di rimanere incinta! Le donne spesso arrivano alla maternità con la schiena già deformata e quindi un assetto del bacino che rende più difficoltoso l’espletamento del parto. Fin da bambine sono loro a portare i pesi, dalle taniche d’acqua alle fascine di legna e quando diventano madri l’ultimo nato viene issato, con un’abile e veloce manovra, sopra al resto del carico, avvolto in una “pagne”, per l’occasione diventata marsupio. Ho visto donne, giovani e vecchie, inerpicarsi per un pendio scosceso, dopo aver fatto un carico impressionante di mattoni: erano laterizi abbandonati allo scalo delle barche di Monvu, preziosissimo materiale per le loro povere case: una cinghia, fatta girare intorno alla fronte, serve per tenere fermo il carico disumano sulla schiena. Questo lavoro massacrante delle donne è tanto radicato nella loro cultura che è inutile chiedere spiegazioni o avanzare critiche: non ti capiscono, ridono divertiti e ti chiedono se da noi le donne non portano nulla… Gravidanza e parto richiedono alle donne un tributo altissimo. Difficile sapere in cifre la situazione di tutto un territorio dove la maggioranza delle donne partorisce nelle capanne dei villaggi. Quelle che affluiscono agli ospedali sono già delle privilegiate (in assenza di un’assistenza medica gratuita oggi si sta facendo qualche faticoso tentativo di introdurre il 10 concetto di mutualità volontaria, ma, sia per la mentalità, sia per l’impegno economico, il processo è molto lento ). Poiché vengono spesso da lontano e soprattutto per l’assenza di strade facilmente percorribili e di mezzi di trasporto, nell’approssimarsi del parto le donne gravide vengono a trascorrere le ultime settimane insieme, in una struttura ( può essere la classica capanna circolare con il focolare in mezzo! ) vicino all’ospedale, chiamata “ bignola”. Il travaglio è seguito da infermiere con nozioni di ostetricia e puericultura ( qui vengono chiamate accoucheuses ) che dispongono di un partogramma, distribuito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che però non viene applicato; i medici sono chiamati ad intervenire solo se la situazione precipita e si richiede un parto chirurgico e spesso, notiamo, assai tardivamente. Ho ancora negli occhi l’immagine di Maombi, minuta come molte donne di qui, tanto da sembrare una bambina: su uno dei letti del reparto maternità, tanto pigiati da rendere difficile il passaggio, si tiene stretto il suo fagottino. Ha l’aria esausta ma sembra mettere tutte le sue poche forze nel sorriso che mi rivolge, mite, senza domande; è reduce da un parto cesareo avvenuto nella notte in condizioni a dir poco estreme: niente corrente elettrica a quell’ora , il “ medico bianco” ha dovuto farsi luce con una lampada frontale e far portare il letto operatorio nella sala dove si trovano le batterie solari, per usufruire della flebile illuminazione di un’unica lampadina! Ma nonostante tante difficoltà è stata fortunata: lei e il bambino sono in condizioni soddisfacenti. Il piccolo di Mana invece è quasi inerte, ma la madre continua ad accudirlo: è per un tenace istinto animalesco o è inconsapevole della domanda che noi ci poniamo: quanto potrà vivere quel cosino, frutto di tanta sofferenza fetale? E’ solo uno dei frequenti casi in cui la differenza di tradizione e di mentalità suscita stridenti problematiche. Perché attendere tanto tempo prima di ricorrere al cesareo? Mana ha iniziato il travaglio durante la notte e, nonostante abbia alle spalle già altri tre parti cesarei, è stata lasciata a se stessa per ore e ore. Quando finalmente in tarda mattinata i medici la fanno portare in sala operatoria, si trova già a dilatazione completa e il cesareo tardivo evidenzia un’ampia rottura d’utero, da cui fuoriesce parzialmente la placenta. Certo i medici dell’ospedale sono pochi, devono far fronte a tutto, dai ricoveri d’urgenza alla routine amministrativa, ed è anche vero che il parto cesareo richiede dei costi aggiuntivi… Ma forse, al di là dei problemi contingenti c’è un fatto culturale: il parto appartiene alla sfera della naturalità, una naturalità che qui spesso significa sofferenza, in una visione in cui vita e morte 11 convivono strettamente, senza causare stridori o proteste. Non è forse con estrema naturalezza ( non indifferenza! ) che abbiamo visto staccare il “ concentratore d’ossigeno” ad un bimbo di nove mesi? Prima affidato alle cure dello stregone del villaggio e infine, ma troppo tardi, portato in ospedale, era morto tutto solo, dopo poche ore di insufficienti e ormai inutili cure. La sua piccola vita non ce l’aveva fatta: tutto qui… Anche il racconto di vissuti drammatici, per noi impensabili, rientra nella “naturalezza”. Odette, moglie di un medico che oggi lavora nell’ospedale di Panzi, dovette fuggire per giorni nei boschi, col marito e tre figli piccoli ( ricordiamo che, al di là dei pretesi conflitti etnici, la violenza ha colpito soprattutto gli “ intellettuali” come medici, insegnanti, religiosi, allo scopo di privare il popolo dei punti di riferimento e di appoggio ) : era al termine di gravidanza, partorì lungo il percorso e gli altri del gruppo in fuga, per il terrore di essere raggiunti, non le diedero neppure il tempo di espellere la placenta! Lo stato endemico di insicurezza, la presenza di gruppi armati contrapposti, le incursioni della guerriglia, continuano ad infierire sulla vita delle donne nel segno della violenza e del sopruso. Anche ultimamente, che il clima politico sembra volersi tingere di contorni più rassicuranti, le violenze sulle donne sono quotidiane, vengono sequestrate in gruppo, dai villaggi, dalle strade: tenute prigioniere, violentate, usate per taglieggiare i parenti, per aggiungere estorsione a estorsione… In occasione della giornata internazionale delle donne, Idesbald Byabuze Katabaruka, Chef des travaux nella Facoltà di diritto dell’Università di Bukavu, ha indirizzato un’accorata lettera alle sue compatriote, intitolata “ Confession et hommages”: “…nella speranza di lottare insieme fino alla conquista della nostra dignità e della nostra vera liberazione, degnatevi di accettare, care figlie del nostro popolo, a nome degli uomini e a nostro nome personale, questo atto di contrizione e insieme di omaggio…” Parole più che giuste, anche se suonano tardive e purtroppo non hanno impedito il ripetersi degli orrori. Il vice segretario dell’ONU con delega agli Affari Umanitari, Jan Egeland, ha definito un “ cancro della società congolese il fenomeno degli abusi sessuali ai danni delle donne, compiuti nella maggioranza dei casi dai militari o comunque da coloro che dovrebbero garantire la sicurezza della popolazione. Nel solo ospedale di Panzi della città di Bukavu dall’inizio del 2006 sono state ricoverate oltre 1000 donne per le conseguenze delle violenze subite.” 12 Un centro di accoglienza che svolge un importantissimo lavoro di recupero è il Foyer Ek’Abana, fondato da Natalina, una psicologa italiana, per raccogliere le cosiddette “ bambine di strada”. Di età compresa tra i quattro e i quattordici anni circa ( ma chi sa veramente la loro età?), bambinette vivaci e adolescenti schive, hanno alle loro spalle storie inimmaginabili, ma qui sembrano aver trovato una serenità: fanno i loro compiti, si spintonano e ridono come tutti i bambini del mondo quando sono in imbarazzo, ci cantano una canzoncina stonata… Eppure in queste stanzette semplici e ordinate si scaricano drammi antichi e tensioni moderne. E’ infatti un dato “culturale” che bambine accusate di stregoneria siano messe per strada, allontanate e rifiutate dalle famiglie, esposte quindi ad altre violenze e soprusi. In realtà spesso sono solo bocche in più da sfamare, o caratteri difficili e ribelli, o semplicemente infanzie abbandonate da famiglie distrutte o assenti. L’ultimo nucleo sano della società africana, la famiglia, finisce infatti con l’esplodere e disintegrarsi nel gorgo delle guerre, delle ruberie, delle vendette. Come analizza Mme M. Thérèse Mulanga, presidente dell’associazione nazionale degli educatori sociali, “Il fenomeno stregoneria dei bambini è un fenomeno paragonabile all’autodifesa della società. Quale legame con le credenze ancestrali? Le persone rifiutano di ragionare, c’è uno sbarramento che serve a difendere la propria posizione. Ho diretto per oltre vent’anni delle istituzioni in cui si educavano dei bambini in difficoltà, tra cui anche quelli accusati di stregoneria. Quando diventavano grandi, capaci di lavorare, si formavano una bella famiglia, allora i genitori dimenticavano completamente le accuse di un tempo e reintegravano i figli…” Ritorno all’intervista del 22 marzo 2005 a Mathilde Muhindo, impegnata sul fronte sociale, che crede nell’importanza dell’educazione e della formazione, soprattutto femminile: “Le donne sono coscienti che la povertà, l’analfabetismo, le violenze, sono cose che succedono alle donne in primo luogo e sono decise ad avanzare, ben sapendo che tutto ciò sarà per il futuro, ma tutto ciò che si può guadagnare ora si deve combattere per averlo. Nelle province le donne sensibilizzano le altre donne a livello di base: sulle elezioni, i diritti civici, i partiti politici… La donna che va ad occupare dei posti di responsabilità deve convincere per la sua serietà e le sue competenze… Nella costituzione si prevede una rappresentanza significativa delle donne a tutti i livelli decisionali, ma alla fine per il momento il loro ruolo è solo consultivo. Comunque è già un primo passo e pensiamo che siano donne capaci di giocare il proprio ruolo” 13 “ Madri, mogli, figlie, sorelle che hanno visto portare via dall’odio e dalla violenza i propri mariti, i figli, i fratelli, i padri, violate spesso nel corpo e nella dignità di persone, rivendicano con forza un’alternativa agli orrori e partecipano attivamente alle campagne di educazione al voto nelle città e nei villaggi” (Paola Luzzi su Solidarietà Internazionale ) Purtroppo il coinvolgimento degli stati confinanti nel traffico d’armi, le responsabilità dei “signori della guerra” più interessati al mantenimento dello status quo che al processo di democratizzazione e la corruzione delle clientele locali, trascinano questo periodo di transizione, in cui la popolazione è costretta a convivere con la paura, la fame, le malattie. All’inizio di maggio un funzionario ONU diceva: “La comunità internazionale sta prendendo sottogamba il peggior disastro umanitario del mondo nella RDC dove 10 milioni di persone hanno bisogno di assistenza per sopravvivere” Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2006 l’anno della RDC per riconoscere le migliori prospettive di pace e di ripresa e hanno lanciato un appello per 682 milioni di dollari per fornire acqua, cibo, assistenza medica, rifugi e protezione per chi si trova in situazione di rischio ( cifra che equivale a 0,18 dollari al giorno per persona ). Finora gli Stati donatori hanno fornito solo il 13% di quella cifra. Secondo un’indagine svolta dall’International Rescue Committe, ogni mese nella RDC muoiono 31.000 persone. Richard Brennan, uno degli autori del rapporto dichiara: “ In questi sei anni ( dall’inizio delle lotte per il controllo delle regioni orientali da parte di milizie irregolari e movimenti ribelli, alcuni dei quali foraggiati da paesi vicini ) il mondo ha perso l’equivalente dell’intera popolazione dell’Eire o della città di Los Angeles. Quanti congolesi innocenti dovranno ancora morire prima che il mondo cominci ad interessarsene?” 14