A3 - Scordo_1 - Società Italiana di Studi Araldici

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A3 - Scordo_1 - Società Italiana di Studi Araldici
Angelo Scordo
Bandiere del Regno del sud
Anche nel corso delle celebrazioni dei 150 anni dalla Unità Nazionale non sono stati
in tanti a sapere o a ricordare che “… sulle fortezze borboniche di Gaeta, Messina e
Civitella del Tronto, che a lungo resistettero all’esercito italiano, sventolava lo stesso
tricolore, che era il vessillo dell’esercito piemontese “1. Significativo è l’esempio di
movimenti filoborbonici, che sul web hanno presentato servizi fotografici, nei quali vi
vede garrire al vento la bandiera bianco-gigliata, con testi inneggianti al suo ritorno
sugli spalti della piazzaforte di Gaeta dopo il 13 febbraio 1861 e, analogamente, su
quelli della Cittadella di Messina e della fortezza di Civitella del Tronto, dai quali
sarebbe stata ammainata, rispettivamente, il 13 marzo e il 20 marzo di quello stesso
anno, tre giorni dopo, quindi, la proclamazione del regno d’Italia.
Con l’Atto Sovrano, promulgato a Portici il 21 giugno 1860, Francesco II, quando
ancora non tutto era perduto, decise di seguire i consigli dei suoi ministri, per lo più
incapaci stolidi o, quel ch’è peggio, supinamente rassegnati alla fine del regno e della
dinastia. L’Atto, che taluni storici definiscono penoso, meriterebbe più, forse,
l’aggettivo pietoso, in quanto del tutto privo di senso di realtà, certo, ma improntato a
sconcertante candore e buona fede mal riposta nei confronti di uno stato ufficialmente
amico2, così recitava:
Desiderando di dare a' Nostri amatissimi sudditi un attestato della nostra Sovrana benevolenza,
Ci siamo determinati di concedere gli ordini costituzionali e rappresentativi nel Regno in
armonia co' principii italiani e nazionali in modo da garentire la sicurezza e prosperità in
avvenire e da stringere sempre più i legami che Ci uniscono a' popoli che la Provvidenza Ci ha
chiamati a governare. A quest'oggetto siamo venuti nelle seguenti determinazioni:
1 - Accordiamo una generale amnistia per tutti i reati politici fino a questo giorno;
2 - Abbiamo incaricato il commendatore D. Antonio Spinelli della formazione d'un nuovo
Ministero, il quale compilerà nel più breve termine possibile gli articoli dello Statuto sulla base
delle istituzioni rappresentative italiane e nazionali;
3 - Sarà stabilito con S. M. il Re di Sardegna un accordo per gl'interessi comuni delle due Corone
in Italia;
1
A. PERICOLI RIDOLFINI, Presentazione, in G. C. BASCAPE’ e M. DEL PIAZZO, con la
cooperazione di L. BORGIA, Insegne e simboli – Araldica pubblica e privata medievale e
moderna, Roma, 1987, p. XII.
2
Vale ricordare le documentate attestazioni in tal senso del governo Sardo, i vincoli di parentela
tra le due dinastie (Francesco II era figlio di Maria Cristina di Savoia, a sua volta figlia di Vittorio
Emanuele I) e il dato di fatto che mai intervenne una dichiarazione di guerra tra i due stati.
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4 - La nostra bandiera sarà d'ora innanzi fregiata de' colori nazionali italiani in tre fasce
verticali, conservando sempre nel mezzo le armi della nostra Dinastia;
5 - In quanto alla Sicilia, accorderemo analoghe istituzioni rappresentative che possano
soddisfare i bisogni dell'Isola; ed uno de' Principi della nostra Real Casa ne sarà il Nostro
Viceré.
Tre fasce verticali, verde, bianca e rossa, dunque, e, unica differenza tra questo
tricolore e quello del regno di Sardegna, poi italiano, era l’arma dinastica, caricante la
partizione bianca centrale: Borbone delle Due Sicilie, anziché Savoia.
Francesco II, timido, buono e religiosissimo sovrano allora ventiquattrenne, fresco
sposo della fiera Maria Sofia di Wittelsbach (che di anni ne contava appena diciannove),
pur credendo fermamente che i re altro non fossero che strumenti divini, portatori più di
doveri, che di diritti, non poteva certo non associare alla costituzione liberale un certo
tanfo sulfureo, ma comprese la ragione politica della tardiva sua concessione, mentre
“… ha provato molto dolore per il cambiamento della bandiera e, mentre me ne
esponeva le cause, sembrava alla tortura. La sua impressione è che essa riuscirà
estremamente impopolare presso l’esercito. <<Poveri soldati>>, ha detto, <<sono
devoti e indignatissimi. Vorrebbero vendicare il loro onore! Oh, che vergogna quella
Palermo! Sì, vendicherò il mio onore di soldato napoletano…>>”, come riferisce
l’ambasciatore di Napoleone III presso la sua corte, il barone Anatole Brénier de
Renaudière3 . Ma la decisione fu dolorosamente assunta e il tricolore sostituì il bianco
drappo. Non si può non pensare a un altro Borbone, al conte di Chambord4, l’ultimo del
ramo primogenito di Francia e alla famosa question du drapeau. Non mantenne
Francesco II l’intransigenza del congiunto, che concluderà il proprio Manifeste del 5
luglio 1871 con un’espressione che fece epoca e che mai rinnegò (Français, Henri V ne
3
H. ACTON, Gli ultimi Borbone di Napoli (1825-1861), Milano, 1968, p. 516.
Al di là della comune discendenza da Luigi XIV, Chambord era nato, postumo, nel 1820, dal
duca di Berry, figlio ed erede di Carlo X, e da Maria Carolina, figlia del re Francesco I e, quindi,
prozia dell’ultimo sovrano delle Due Sicilie.
4
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peut abandoner le drapeau blanc d’Henri IV5), rinunciando probabilmente a una
restaurazione, pur osteggiata da più di una potenza estera e dal partito orleanista, ma ne
soffrì non poco. Le bandiere bianche finirono negli arsenali, mentre i tricolori borbonici,
si sa, sono assai rari. Da un lato, le bandiere di guerra vennero quasi tutte distrutte dagli
ufficiali, pur di non consegnarle ai vincitori6, i quali, forse, preferirono far dimenticare
che anche i vinti innalzavano un tricolore. E’ anche probabile che quanti di questi ultimi
mantennero fede ai Borbone preferissero a loro volta ricordare l’antico vessillo, che
venne fatto proprio dai briganti legittimisti, nel corso della lunga e sanguinosa guerra
civile, seguita al forzato esilio romano della famiglia reale. A dire il vero, anche un
giurista e storico contemporaneo di tutto rispetto cade nell’equivoco, quando definisce
bianca sia la bandiera innalzata sulla goletta francese che trasportò i reali e il loro
seguito a Terracina e a Civitavecchia, che quella abbassata tre volte, in segno di
omaggio, dalla batteria del porto di Gaeta, prima di essere definitivamente ammainata7.
Su questi due episodi, un cronachista, che, pur rivestendo un ruolo ufficiale8, ci ha
fornito tante preziose notizie, non si sofferma, però, sulle bandiere, proprio perché, da
militare, quando scrive bandiera Napoletana e Napolitano vessillo, non può che riferirsi
che alle insegne legalmente allora in vigore, ai tricolori, senza indulgere a
sentimentalismi o, comunque, a particolari al riguardo. Dobbiamo invece a Charles
Garnier9, un giornalista belga bene introdotto presso la corte delle Due Sicilie, che seguì
a Gaeta, rimanendovi per tutta la durata dell’assedio, e che, a testimonianza della buona
considerazione di cui godeva, fu imbarcato sullo stesso avviso a vapore della marina
imperiale francese, la Mouette, a bordo del quale la famiglia reale, la corte, gli
ambasciatori accreditati presso la stessa e un gruppo di fedeli, raggiunsero le coste degli
stati pontifici. L’imbarco avvenne tra le 7 e le 8 antimeridiane. I reali e il loro seguito,
mentre la banda intonava le meste e solenni note della marcia reale di Paisiello,
attraversarono la non breve distanza che separava le casamatte della batteria
Ferdinando, dove avevano alloggiato, per raggiungere la porta di Mare, in mezzo a un
cordone di soldati che, piangendo e gridando “Viva il re!”, presentava le armi. Giunti a
bordo della nave francese, furono resi solenni onori ai reali. Ufficiali e marinai
vestivano l’alta uniforme, i gabbieri immobili, ritti sui pennoni, squillavano le trombe e
sibilavano i fischietti, mentre “…le pavillon royal flottait sur grand mât…”. Dunque, a
riva dell’albero di maestra sventolava lo ‘stendardo reale’ delle Due Sicilie, indicante la
presenza del sovrano a bordo, e non la bandiera di stato, che altro non avrebbe potuto
essere se non il tricolore con la grande arma di Borbone.
5
Manifeste de M. le Comte de Chambord – 5 juillet 1871, Montpellier, 1871, conclusione; La
question du drapeau – Appel au Bon Sens & à la Justice, seconde édition, Paris, 1876, mostra un
barlume di disponibilità di Chambord, poi venuta meno nei fatti.
6
P. G. JAEGER, Francesco II di Borbone – L’ultimo re di Napoli, Milano, 1988, p.287: “Nella
fortezza (la Cittadella di Messina) non si trovarono bandiere. Sembra che la guarnigione le
avesse fatte a pezzi, per non essere costretta a consegnarle al nemico …”.
7
JAEGER, op. cit., p. 278.
8
P. QUANDEL, maggiore di artiglieria addetto allo Stato Maggiore dell’Esercito Napoletano …
incaricato durante la difesa di compilarne il Giornale, Giornale della difesa di Gaeta da
Novembre 1860 a febbraio 1861, Roma, 1863, p. 3189
Ch. GARNIER, Journal du siège de Gaëte, Paris, 1861, pp. 186-187.
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Il bianco vessillo non era certo la bandiera ufficiale e, semmai, avrebbe potuto essere
alzato, in omaggio alla coppia regale, non da una nave militare dell’impero francese, ma
da un battello di legittimisti. Lo stendardo reale, da 1816 al 1860, era di porpora, con
l’arma Borbone. Quando le non brevi operazioni d’imbarco furono terminate, verso le
12, “… le pavillon royal fut amené, et le drapeau français couvrit seul de ses plis les
glorieux vaincus…” e allora la Mouette salpò le ancore e le ruote si misero in moto. In
quel momento stesso, la batteria Santa Maria del porto esplose la salva di saluto al re.
Mentre tuonavano i regolamentari ventuno colpi di cannone, sull’alta antenna della torre
d’Orlando, che oggi ancora domina la piazza, il grand drapeau (quello che sventolava
durante il lungo assedio, dunque il tricolore) s’innalzò e si abbassò tre volte con estrema
lentezza, mentre giungeva, ripetuto e forte, il grido di “Viva il re!”. Quando la Mouette,
uscita dal porto, sparì dalla vista delle batterie Guastaferri, questa bandiera venne
ammainata e sostituita da quella italiana. Non a caso Garnier si definiva ‘testimone non
insensibile’.
Dalla data di costituzione del regno delle Due Sicilie, il 22 dicembre 1816, l’antica
bandiera dei Borbone portava, al suo centro, la grande arma dinastica, non più
differenziata – di poco o di molto che fosse – in base alle scelte dei singoli monarchi, né
posta in cuore a un’aquila, come avveniva per quella del regno di Sicilia.
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Su questa grande arma (arme, a rigore) sono stati sparsi mari d’inchiostro da una
lunga serie di autori, cui rimandiamo di buon grado il lettore, che ami rinfrescare la
propria memoria all’aulico suono delle tante blasonature. Alla economia di questa
comunicazione basta ricordare che non era soltanto dinastica, ma di dominio, di
pretenzione e di successione. Lo scudo ovale, timbrato di corona reale, conteneva un
partito di tre. Nel primo grande partito, un partito di due e troncato di uno, con al I e al
VI, di FARNESE (per Parma e Piacenza); nel II e III, di AUSTRIA; nel III e IV, di
BORGOGNA antica; sul tutto, di PORTOGALLO; nel secondo grande partito, troncato
di due: nel I, inquartato di CASTIGLIA e di LEÓN, innestato in punta del regno di
GRANADA; nel II, ancora di AUSTRIA; nel III, troncato: nel I, tagliato centrato di
BORGOGNA antica, di nuovo, e di FIANDRA; nel II, di ANGIO’ antico; nel terzo
grande partito, troncato di due: nel I, partito di ARAGONA e di ARAGONA-SICILIA;
nel II, di BORGOGNA moderna; nel III, troncato centrato di BRABANTE e del
TIROLO; nel IV, di GERUSALEMME; nel quarto grande partito, di MEDICI (per il
granducato ereditario di Toscana); sul tutto, di BORBONE-ANGIÓ moderno. Lo scudo
accollato ai collari degli Ordini di San Gennaro, di San Ferdinando, Costantiniano di
San Giorgio, del Toson d’Oro, della Concezione e dello Spirito Santo. Non sfuggirebbe
neppure al più sprovveduto degli osservatori che i Borbone Due Sicilie tenevano non
poco a ricordare la loro duplice qualità originaria di Infanti di Spagna e, prima ancora,
di Figli di Francia.
E’ opportuno precisare che queste pagine si propongono di trattare delle bandiere di
stato, tralasciando sostanzialmente (almeno, quando possibile) le bandiere dei corpi
militari e della marina, tanto da guerra, che mercantile. A proposito delle bandiere
borboniche di guerra, deve dirsi soltanto che erano omologhe a quelle di stato, tranne
che per la presenza, ai quattro angoli, di altrettanti aurei gigli, nel tempo semicircondati
da serti di alloro.
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Dall’avvento al trono di Carlo VII (ma più noto nel nostro paese con il nome di Carlo
III, seguendo la numerazione conferitagli all’atto della sua successione al trono di
Spagna), nel 1734, sino al ‘crollo’ delle Due Sicilie del 1861, al vessillo borbonico si
affiancarono, sostituendolo parzialmente per periodi non sempre brevissimi, altre
bandiere.
Primo in ordine di tempo, il tricolore giacobino della repubblica Napoletana (meglio
conosciuta come “Partenopea”, grazie al successo dell’aggettivo classicheggiante,
inventato da un giornalista tedesco di allora), adottato dal ‘governo provvisorio’ il 3
febbario del 1799, a qualche giorno dall’ingresso nella capitale delle truppe francesi del
generale Championnet, che risultava: azzurro, giallo e rosso.
Il primo stava a ricordare la repubblica-madre, la Francia, mentre i colori giallo-rosso
erano i tradizionali di Napoli, derivati da quelli Aragonesi con ogni probabilità. Si sa
bene che bandiera e repubblica durarono poco: il 13 giugno l’armata della Santa Fede
entrò in Napoli e la capitolazione della fortezza di Sant’Elmo avvenne il successivo 8
luglio.
I vessilli delle ‘masse’ sanfediste erano di varia foggia e di diverso soggetto, dando
comunque largo spazio ai gigli regi, e, ancor più, alle immagini religiose.
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Simili a queste erano le bandiere, in uso presso le formazioni ‘legittimiste’ (è
innegabile, accanto a esse, la presenza di autentici gruppi di briganti), che operarono in
tutto il Mezzogiorno sino al 1866.
Merita la pittoresca descrizione di una di esse, presa a una banda, a Scurgola, il 19
gennaio 1862: “… Era un vecchio crocifisso di legno, al quale avean legato con dello
spago un pezzo di stoffa rossa, strappata da qualche parato di chiesa: l’asta era un
bastone di tenda tolto ai soldati Piemontesi a Tagliacozzo. Ma questo cencio, già forato
nobilmente come una bandiera, non era l’orifiamma; essa non veniva esposta alle palle
e non era uscita da Tagliacozzo. <<Era una magnifico quadrato di seta bianca>>,
scrive un testimone che l’ha veduta <<adattissimo per una processione. Da un lato vi si
scorgeva Maria Cristina (madre di Francesco II e principessa di Carignano (sic))in
ginocchio davanti a una Madonna nell’atto di calpestare la croce di Savoia. Dall’altro
era una Immacolata Concezione. Quello stendardo era stato benedetto dal Papa e se ne
attendevano miracoli>>…”10
Nella ben più ampia parentesi napoleonica, che durò dal 1806 al 1815, con i regni di
Giuseppe Bonaparte prima e, passato il fratello di Napoleone sul trono di Spagna il 2
luglio 1808, del cognato Gioacchino Murat, s’incontrano tanti segni vessillari, con
delimitazione tutt’altro che netta tra le loro funzioni.
Sembra che la prima bandiera di stato di re Giuseppe sia stata troncata di rosso e di
nero, seguita e sostituita, a breve distanza temporale, da una interzata in fascia di
bianco, di rosso e di nero, segnante, quindi, un ritorno al tricolore, sia pure orizzontale.
10
M. MONNIER, Notizie storiche documentarie sul brigantaggio nelle provincie Napoletane …,
Firenze, 1862, p. 33.
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Nell’ultimo periodo del suo regno assunse una bandiera inquartata di rosso e di nero,
alla losanga bianca, attraversante sul tutto, carica di un scudo, timbrato da corona
reale: troncato semi-partito: nel 1°, d’azzurro, all’aquila col volo abbassato, rivolta,
afferrante con gli artigli un fascio di fulmini, posto in fascia, il tutto d’oro
(BONAPARTE, moderna); nel 2°, d’oro, al cavallo inalberato, rivolto, di nero
(NAPOLI); nel 3°, d’oro, alla Triquetra, al naturale (SICILIA).
Si fece anche uso di un’altra ‘grande arma’, decisamente più complessa, un grembiato
di sedici pezzi, composto dagli stemmi delle dodici antiche Provincie del regno
(TERRA DI LAVORO, PRINCIPATO CITRA, PRINCIPATO ULTRA,
BASILICATA, CALABRIA CITRA, CALABRIA ULTRA, TERRA DI OTRANTO,
TERRA DI BARI, ABRUZZO CITRA, ABRUZZO ULTRA, MOLISE,
CAPITANATA), cui si aggiungevano quello di un nuovo ripartimento territoriale, oltre
il regno di GERUSALEMME e i succitati NAPOLI e SICILIA.
Per quanto riguarda la Sicilia, è vero che i Napoleonidi del sud s’intitolavano re di
Napoli e della stessa, ma è ben noto che questa seconda corona era di mera pretenzione,
giacché, malgrado formali preparativi di sbarco, l’isola rimase per tutto il periodo in
mano ai Borbone, ovviamente continuando a usare il vessillo bianco con la grande
arma.
In quello di Giuseppe troviamo padiglione, corone, collare della Legion d’Onore e,
per tenenti, due delle mitiche sirene del golfo napoletano, Partenope e una delle sue due
sorelle, Leucosia o Ligea, questa volta, però, prive degli specchi, simboli di lubrica
vanità, e impugnanti, invece, utili attrezzi da lavoro rurale. Bandiere e stemmi
incontrarono tanto gradimento presso Gioacchino ‘Napoleone’, da far sì che li adottasse
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subito, per non più separarsene. Affiancò una seconda bandiera di stato, che aveva
evidenti richiami militari, già accennati nel padiglione della grande arma del cognato.
Sul campo celeste, lo stemma reale già noto11 (Troncato semi-partito: nel 1°, d’azzurro,
all’aquila col volo abbassato, rivolta, afferrante con gli artigli un fascio di fulmini,
posto in fascia, il tutto d’oro; nel 2°, d’oro, al cavallo inalberato, rivolto, di nero; nel
3°, d’oro, alla Triquetra, al naturale), in posizione addestrata, accompagnato in orlo da
una bordura scaccata di rosso (talora anche di nero) e di bianco, di due file.
Lo stesso scudo caricherà il bianco centrale di un tricolore, derivato – come tutti – da
quello della repubblica Cispadana, il 19 marzo 1815, quando Gioacchino venne
acclamato (tra quanti allora lo esaltarono fu il Foscolo) re d’Italia. Il 30 marzo
diffondeva il proclama di Rimini, il 20 aprile conquistava Milano, ma il 2 maggio
veniva sconfitto a Tolentino e pochi giorni dopo il trattato di Casalanza lo dichiarava
decaduto dal trono, che veniva recuperato dai Borbone. Concludeva da irresponsabile
prode la sua avventurosa esistenza il 13 ottobre di quello stesso anno, a Pizzo, davanti al
plotone d’esecuzione.
Dopo il vessillo di questo effimero regno, va ricordato un altro tricolore a fasce
orizzontali questa volta la bandiera carbonara, che i sottotenenti Morelli e Silvati della
guarnigione di Nola posero accanto a quella reggimentale, nel moto scoppiato il 2 luglio
1820, volto a ottenere la costituzione di modello spagnolo. Tale insegna, un fasciato di
celeste, nero e rosso – non a caso i colori murattiani – sventolò negli stati pontifici
11
E’ sostanzialmente quello in uso ancor oggi dai suoi discendenti, che, per decreto di Napoleone
III del 1853, hanno titolo francese di ‘principe’, con trattamento di ‘Altezza’.
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durante i moti del 1830-31 e fece anche qualche riapparizione, un po’ dappertutto, nel
1848.
Quell’anno, il 29 gennaio, Ferdinando II delle Due Sicilie fu il primo tra i sovrani
d’Italia a concedere una costituzione e il seguente 3 aprile venne pubblicato un
Programma, che al suo articolo 8 enunciava: “Le bandiere Reali verranno circondate
dai colori italiani, sì che formino un sol corpo di bandiera”. Il risultato fu il
tradizionale drappo bianco, carico della grande arma di Borbone, con la bordura doppia
di verde e di rosso.
Il susseguirsi di gravi sommosse e, in particolare, della secessione siciliana, indussero
il re non a revocare la costituzione, ma, stranamente, a sospenderla, mentre, con ordine
ministeriale del 19 maggio 1849, si disponeva che, secondando il pubblico voto, tanto le
istituzioni civili, che i corpi militari,”…i legni della Real Marina, i forti, le piazze di
guerra riprendessero la bandiera bianca con le Armi del Re, vale a dire che si tolgano
da esse le bande dei colori verde e rosso, i quali per altro non essendo nazionali, si
erano adottati in forza dell’art. 8 del Programma del 3 aprile 1848…”12.
12
Devo notizie, loro interpretazione e riferimenti legislativi a L. RANGONI MACHIAVELLI, Le
bandiere tricolori del 1848 del Regno delle Due Sicilie, in Bollettino Ufficiale della Consulta
Araldica, Volume VIII, N. 40 – febbraio 1929 – anno VII, Roma, 1929, pp. 101-105 e tavv, 3 col.
f.t.. Nell’articolo, il compianto grande araldista pone anche in luce numerosi equivoci di storici,
che hanno confuso le bandiere con i colori ‘a palo’ del 1860, con quelle, dai colori bordati, del
1848.
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Il 28-29 marzo 1848 le Camere dei comuni e dei pari di Sicilia approvavano l’adozione
di un decreto, registrato il successivo 25 aprile, il quale stabiliva che il segno della
Trinacria fosse lo stemma da apporsi su la Bandiera nazionale. Quest’ultima era il
tricolore cispadano, recante sul bianco la Triquetra.
Sventolò sino a quando il contingente al comando di Filangieri di Satriano non fece il
suo ingresso in Palermo il 15 maggio 1849.
Merita memoria, per la sua singolarità, il tricolore, portato da Carlo Pisacane e preso
dai borbonici dopo il massacro di Sanza del 2 luglio 1857. Infatti, il bianco è carico di
una livella, simbolo tipicamente massonico e poi in uso anche nelle ‘vendite’ carbonare,
ma di ignota adozione da parte della Giovane Italia e dell’organizzazione facente capo a
Mazzini, in generale.
A titolo di annotazione didascalica si ricorda che una recente opera di carattere
prevalentemente araldico riporta una bandiera, usata dal 1735 al 1799 dal regno di
Napoli. Sul drappo bianco si nota un drago di colore oscuro. In effetti, una simile
insegna, sotto la quale spicca la dicitura Pavillon de Naples, si trova in una opera sulle
bandiere delle marinerie, dagli splendidi rami incisi, pubblicata nel 1737 in Olanda13. In
realtà, si tratta della bandiera di Rostock14 e le cause della svista di Aubin sono
13
Anonimo (ma in realtà opera di Nicolas AUBIN), La connaissance des pavillons ou bannières
que la plûpart des Nations arborent sur mer, La Haye, planche 73.
14
A. FIGSBEE, The maritime flags and stendards of all Natuions, New York, s.d. (ma 1856), ad
vocem (pagine non numerate).
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ammantate di un mistero, meno fitto, però, del perché, in tempi a noi vicini, altro autore
abbia attribuito al vessillo navale del drago un uso quale bandiera di stato dall’ascesa al
trono di Carlo III alla Repubblica Partenopea.
La nostra rassegna delle bandiere del regno meridionale dall’avvento dei Borbone nel
1734 all’Unità d’Italia, potrebbe dirsi conclusa, se non fosse che un’asserzione, ripetuta
a distanza di mezzo secolo da due ‘addetti ai lavori’, m’induce a rendere partecipe dei
miei dubbi chi legga.
La Treccani riporta: “…Il regno di Napoli non ebbe una bandiera propria prima del
regno dei Borboni …” e “… Il regno di Sicilia ebbe anch’esso una bandiera propria
soltanto dal 1735, data dell’incoronazione di Carlo Borbone …”. La voce BANDIERA
si deve a Roberto Cessi, al tempo titolare della cattedra di storia dell’Italia medievale
nell’Università di Cagliari15.
Una delle massima autorità italiana in campo vessillologico, Aldo Zigiotto, nella sua
Appendice: Le bandiere degli stati italiani preunitari al noto lavoro di Bascapé e Del
Piazzo, pubblicato nel 198716, scrive: “… Il Regno di Napoli (poi delle Due Sicilie) non
ebbe bandiera propria fino al 1735, quando divenne del tutto indipendente…”.
Dunque, tra i due studiosi identità di pensiero e, elemento singolare, coincidenza
pressoché letterale della forma. Zigiotto sembrerebbe, in verità, assumere una posizione
diversa da quella del Cessi, grazie a quella piccola coda: “…quando divenne del tutto
indipendente…”. Sarebbe stato preferibile, però, scrivere “… quando ritornò a essere
del tutto indipendente ..”, in quanto, in tal modo, avrebbe evitato l’errore storico, tanto
grossolano da risultare incredibile, di negare che le due corone fossero state del tutto
indipendenti per secoli, sino alla deposizione del re Federico, ultimo degli Aragonesi di
Napoli, a opera dei Re Cattolici, il 2 agosto 1501.
Peraltro, è proprio vero che, durante il lungo periodo del Viceregno, le due corone
non avessero avuto proprie bandiere?
Per dare o, quanto meno, tentare di offrire una risposta, è quanto mai opportuno
prendere in esame il mondo composito delle bandiere del sud, partendo dalle origini,
15
ENCICLOPEDIA ITALIANA DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI, Istituto Giovanni
TRECCANI, vol. VI, Roma, 1930-VIII, p. 76.
16
Op. cit., p. 475.
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