Un racconto minimalista di amore e viaggi

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Un racconto minimalista di amore e viaggi
Clara Bensen
Io viaggio leggera
Un racconto minimalista
di amore e viaggi
Traduzione di Manuela Francescon
Proprietà letteraria riservata
© 2016 by Clara Bensen
Published by Running Press
A Member of the Perseus Books Group
© 2016 Rizzoli Libri S.p.A. / Rizzoli
ISBN 978-88-17-08772-8
Titolo originale dell’opera
no baggage.
A Minimalist Tale of Love and Wandering
Prima edizione: giugno 2016
Realizzazione editoriale: NetPhilo, Milano
Io viaggio leggera
Un racconto minimalista di amore e viaggi
Al mio impareggiabile ragazzo.
Possa la meraviglia non finire mai.
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Senza peso
«Lo conosci davvero questo tizio con cui stai per partire?»
Jaime mi lanciò un’occhiata nello specchietto retrovisore.
Gli occhi erano nascosti dietro le lenti scure degli occhiali da
sole, ma capivo che stava scherzando. Il «tizio» con cui stavo
per partire era il suo compagno di stanza dei tempi del college, Jeff, accanto a lui sul sedile del passeggero della Volvo.
Stavamo attraversando il dedalo d’asfalto del traffico mattutino di Houston, diretti al George Bush Intercontinental Airport dove Jeff e io avevamo un volo prenotato.
«Basta, Jaime» lo ammonì Jeff. Lo disse con un mezzo
sorriso, come una madre che cerca di reprimere una risata
mentre rimprovera il figlio che ha commesso una marachella.
«Stavo soltanto dicendo» proseguì Jaime imperterrito «che
essendo uno dei pochi ad aver avuto il dubbio piacere di andare all’estero con te, ho il dovere d’informarla di ciò a cui
sta andando incontro.» Sorrise, poi allontanò una mano dal
volante e diede un leggero colpo di gomito a Jeff prima di
tornare a guardare il mio riflesso nello specchietto, in attesa
di una risposta. Lo conosci davvero questo tizio?
Non sapevo come rispondere a quella domanda, così la aggirai. «C’è qualcosa in particolare che dovrei sapere?»
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«Quante ore abbiamo a disposizione?» scherzò Jaime.
«Scommetto che ha dimenticato di raccontarti di quella volta che a Parigi si è strappato la flebo dal braccio ed è evaso
dall’ospedale. Era il giorno dopo l’anniversario della presa
della Bastiglia. Gesù, correva per il corridoio con addosso
una di quelle vestagliette di carta! Hai presente quelle che
ti lasciano il sedere scoperto? Non si è nemmeno disturbato
a vestirsi, si è fiondato fuori dalla porta ed è filato via dalla
Francia il più in fretta possibile.»
«Basta, Jaime!» intervenne Jeff, fingendosi piccato. «È successo vent’anni fa! Ci era appena cresciuta la barba!»
«Non lo so, amico mio» replicò Jaime scrollando le spalle.
«Diciamo solo che nelle prossime tre settimane il mio rosario
farà gli straordinari.»
Io ero seduta sul sedile posteriore. Mi rigiravo tra le dita
l’orlo ricamato del vestito. Appena sotto la linea dell’orizzonte, oltre i complessi residenziali costruiti a metà e i parcheggi
di cemento deserti, vedevo una fila di minuscoli aeroplani che
si alzavano in volo nella foschia del primo mattino. C’eravamo quasi. Entro poche ore il mio – il nostro – aereo avrebbe
preso a rullare sulla pista di decollo. E la domanda era una
domanda sensata: conoscevo davvero l’uomo che sarebbe stato seduto accanto a me nell’istante in cui le ruote del carrello
si sarebbero staccate dall’asfalto della pista?
Sì. E no.
Di Jeff sapevo che era un professore di scienze, texano da
sei generazioni, con un guizzo ribelle nello sguardo. Sapevo di
aver pensato, quando lo avevo visto per la prima volta: «Oh,
ancora tu» come se mi fossi appena imbattuta in una vecchia
conoscenza. Sapevo anche che la nostra relazione era decol10
lata come una giostra folle, improvvisa dopo un unico giro di
tequila. Sapevo che gli piaceva il cioccolato coi grani di sale
marino. E sapevo che era stato sposato per sei anni, che era
divorziato da due e che aveva una figlia di cinque anni con
lucenti occhi castani. Sapevo che inseguiva l’idea di una vita
fuori dagli schemi, come un uccello migratore che in inverno
vola verso nord anziché verso sud. Sapevo, infine, che era un
provocatore dall’estro spumeggiante, e che però si commuoveva quando ascoltava Dear Mama di Tupac e che certe volte
era sceso dalla macchina per spostare pietosamente dalla strada il cadavere di un gatto investito. Un eccentrico dal cuore
tenero, insomma, ammesso che esista qualcosa del genere.
Ma potevo dire di conoscerlo davvero? Non ne avevo la
minima idea. Fino a che punto si può dire di conoscere qualcuno che si è appena incontrato su Internet?
Forse il tempo e le circostanze non hanno avuto poi tanta
importanza in questa storia. Nelle poche settimane seguite
ai nostri primi irriverenti incontri via e-mail – un botta e risposta in stile ping-pong − Jeff era riuscito a penetrare la mia
formidabile riservatezza. Un’impresa non da poco. Dopo una
settimana ho accettato di vederlo, e il nostro incontro ha avuto più il sapore di un’uscita con un vecchio amico che di un
primo appuntamento.
Per essere due persone così diverse, è sorprendente il
legame che siamo riusciti a instaurare. Io ho passato i primi tredici anni della mia vita sotto la pioggia di Portland,
Oregon. In casa eravamo in sette: i miei genitori, le mie tre
sorelle, mio fratello e io. Abitavamo in una villetta stile vittoriano vecchia di cent’anni, con un solo bagno, in Tillamock
Street, una strada che prende il nome da una tribù indigena
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del Pacifico nordoccidentale. I miei scelsero di educarci in
casa, un po’ perché ci tenevano alla qualità della nostra istruzione, un po’ per via della loro profonda religiosità (all’epoca
ero sinceramente convinta che la scuola media locale fosse un
covo di malfattori disseminato di siringhe e preservativi usati). Mia madre era molto devota, tuttavia si assicurò sempre
che tutti e cinque i suoi figli avessero una buona formazione
e buone competenze sociali. Niente a che vedere con i tipici
bambini cristiani educati in casa, con le loro gonne lunghe, le
tute di denim e il divieto di uscire con gli amici o di andare
a ballare. L’estate in cui furono abbattute le Torri Gemelle ci
trasferimmo a Fort Worth, Texas. È a Cowtown che ho compiuto sedici anni, una cittadina dove un temporale può far
diventare il cielo verde pisello e l’erba pullula di serpenti. La
gente da quelle parti ama il football (quasi) quanto ama Gesù.
Jeff, al contrario, era sempre stato il classico ragazzo texano. Lui e le sue sorelle erano cresciuti a quattro ore di distanza verso sud, a Houston e San Antonio. Passava le estati
a pescare e a cercare punte di frecce Apache nella fattoria
dell’Hill Country, dove i suoi trisavoli avevano costruito una
casa di tronchi d’albero. Negli anni del college, nel suo periodo ultraconservatore alla Texas A&M University, era stato
un giovane repubblicano con tanto di tessera del partito, tabacco da masticare e voglia di scatenarsi nelle piste da ballo
di campagna.
La sua personalità somigliava al Texas. Vasta, immensa,
ingombrante. Da ragazzino aveva confidato al medico che
la sua paura più grande non erano le tarantole o i rapitori,
ma l’autocombustione (era successo al batterista degli Spinal
Tap, morto in una nuvola di fumo dopo un memorabile assolo di batteria). Era un concentrato vivente di energia, capace
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