Pronti per la 4ª rivoluzione industriale?

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Pronti per la 4ª rivoluzione industriale?
L’approfondimento
Il documento «Industry 4.0» dello studio di consulenza tedesco Roland Berger
L’evoluzione verso la digitalizzazione, l’automatizzazione
e l’interconnessione è solo questione di tempo.
Pronti
per la 4ª rivoluzione
industriale?
DEINDUSTRIALIZZAZIONE
Negli ultimi 20 anni il valore aggiunto industriale mondiale
è passato da
3.500 a 6.500 miliardi di euro.
All’inizio degli anni Novanta l’Europa occidentale,
il Giappone e gli Stati Uniti possedevano il
79%
dell’aggregato di ricchezza; in particolare la quota
del Vecchio Continente era del
36%
Oggi le stesse tre potenze non superano il
60%
La causa è la deindustrializzazione dell’ultimo decennio:
16%In controtendenza solo la Germania, dove il
contributo dell’industria sul Pil è salito dal 22% al 23%
NUOVI OBIETTIVI
20% sul Pil
l’Europa dovrebbe investire entro il 2030 circa 90 miliardi
all’anno, per un totale di 1.500 miliardi di euro,
che porterebbero alla creazione di 6 milioni di posti di lavoro
Per raggiungere l’obiettivo di un’industria al
nei segmenti high e medium tech: un’iniezione di capitali
che consentirebbe alla manifattura europea di sviluppare
un profitto netto superiore del
50 OUTLOOK - MAGGIO/GIUGNO 2015
70% rispetto a quello odierno
«Industrial Compact». Per portare a una rapida
reindustrializzazione dell’Europa, rafforzando le imprese
in tutti i settori chiave del futuro, soprattutto in quelli
ad alta intensità tecnologica e più innovativi
di Federica Vandini
L’«Internet delle cose» connette alla rete
CITTA’
- Gestione del traffico
- Parcheggi intelligenti
- Sicurezza urbana
dispositivi come gli oggetti di vita quotidiana
e le dotazioni industriali, consentendo la raccolta
di informazione e la gestione di questi stessi
dispositivi attraverso un software, per aumentare
l’efficienza, abilitare nuovi servizi, o ottenere
benefici nell’ambito della salute, della sicurezza
CASA
Controllo e gestione
a distanza
di ogni funzione
per il risparmio
energetico
e la sicurezza
e dell’ambiente
15% all’11%, in Italia dal 20%
al
Il Vecchio Continente ha bisogno di un vero e proprio
L
CHE COS’È L’«INTERNET
DELLE COSE»?
il contributo dell’industria sui Pil nazionali è sceso
in Francia dal
Il problema è non farsi trovare impreparati.
a rivoluzione industriale si è evoluta: dall’ondata dei maker, i
nuovi artigiani iper tecnologizzati partita nel 2013 dagli
Stati Uniti con droni e stampanti 3D, è nata una vera e propria frontiera, un nuovo movimento sfociato in un manifesto dell’industrialismo al tempo della produzione intelligente. È «Industry
4.0», termine coniato un anno fa da uno studio di consulenza non a
caso tedesco, Roland Berger, che ha osservato la moltiplicazione
esponenziale delle interconnessioni tra le filiere di tutto il mondo.
L’evoluzione verso la digitalizzazione e l’automatizzazione, dalla
materia prima al prodotto finito, è solo questione di tempo: qualche
Paese è più indietro, altri ne hanno appena colto l’importanza, altri
ancora l’hanno inclusa tra le priorità e inserita nelle linee guida
dello sviluppo dei prossimi anni.
Lo studio partiva da un presupposto macro: negli ultimi vent’anni il
valore aggiunto industriale mondiale è passato da 3.500 a 6.500
miliardi di euro. All’inizio degli anni Novanta l’Europa occidentale,
il Giappone e gli Stati Uniti avevano in mano il 79 per cento dell’ag-
INDUSTRIA
- Analisi in tempo
reale dei dati
- Automazione
industriale
- Gestione
a distanza
della filiera
AUTOMOBILE
- Mobilità sicura
- Diagnostica
a distanza
- Infotainment
- Fleet Management
PERSONE
Dispositivi
indossabili (occhiali,
orologi, telecamere)
costantemente
collegati
con il mondo
INTERCONNESSIONE
Il nuovo sviluppo
della rete
avrà ripercussioni
sulle vite private,
sulla produzione,
sulle città
L’approfondimento
tica industriale europea».
E in questo scenario l’Italia potrebbe giocare un ruolo
non secondario, sia per il proprio trascorso industrialista, che ha comunque lasciato un’importante impronta
nella cultura e nella consapevolezza nazionale, sia
appunto per un risveglio delle coscienze che reclamano
un ritorno a quel 20 per cento di manifattura nel Pil.
Qui entrano in ballo i denari. Per raggiungere l’obiettivo del 20 per cento, l’Europa dovrebbe investire entro il
2030 circa 90 miliardi all’anno, per un totale di 1.500
miliardi di euro, che porterebbero alla creazione di sei
milioni di posti di lavoro nei segmenti high e medium
tech: un’iniezione di capitali che consentirebbe alla
manifattura europea di sviluppare una profittabilità
netta superiore del 70 per cento rispetto a quella odierna.
«In Italia», osserva Roberto Crapelli, amministratore
delegato di Roland Berger Italia, «occorrerebbe dirotta-
Protagonisti | I pionieri di «Industry 4.0»
e sulla carta sono termini letti ormai quotidianamente da quando ha preso piede il concetto di nuova rivoluzione industriale, in concreto
come si applicano la digitalizzazione, l’automatizzazione, l’interconnessione? Esistono, in Europa, fabbriche dove davvero si cresce grazie alla comunicazione tra macchine, alla logistica intelligente, ai big data, alle stampanti 3D? Roland Berger ha individuato quattro aziende
che ben incarnano ed esemplificano, nei rispettivi ambiti di attività, il concetto di Industry 4.0: sono state capaci di trasformare la produzione
in un sistema più smart, virtuale e decentralizzato.
S
TRUMPF
L’azienda tedesca produttrice di macchine utensili per l’ingegneria industriale, leader nel mercato dei sistemi laser,
ha messo al lavoro la prima «social machine»: ogni componente è intelligente, e sa già quale lavorazione è stata eseguita. I clienti ricevono in tempo reale immagini della macchina al lavoro, e possono così fornire feedback mentre il
processo produttivo è ancora in corso, aiutando la costruzione di macchine migliori.
SIEMENS
Il colosso tedesco sta implementando la soluzione di Industry 4.0 nell’ingegneria medicale: per anni ginocchia e
anche sono stati prodotti standardizzati, e gli ingegneri impiegavano parecchi giorni per adattarle e personalizzarle
alle esigenze dei singoli pazienti. Oggi, nuovi software consentono di produrli in tre-quattro ore.
ROLLS-ROYCE
Il produttore di motori aerei inglese si sta preparando a usare la tecnologia di stampa 3D per produrre componenti
per i motori dei jet. Alcune di queste parti richiedono tempi di lavorazione molto lunghi, e possono volerci fino a 18
mesi per evadere un ordine: la stampa tridimensionale accorcerebbe considerevolmente questo percorso, consentendo peraltro la creazione di parti più leggere.
DASSAULT SYSTÈMES
Il provider di software francese sta spingendo sull’integrazione tra le produzioni: l’iniziativa principale è una piattaforma 3D progettata come un ambiente di lavoro comune per l’azienda, dove designer e ingegneri possono, per esempio, simulare i nuovi prodotti insieme e in tempo reale. Un sistema che può essere usato anche via cloud.
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CHE COS’È IL FUTURO?
L’Internet delle cose sta emergendo come la terza ondata dello sviluppo della rete.
Cambieranno le vite private, la produttività sul posto di lavoro e i consumi.
Ci sarà un filone di nuovi business, da coloro che allargheranno le condutture del web
a coloro che analizzeranno le risme di dati, fino a quanti creeranno cose a cui
non abbiamo ancora pensato.
DISPOSITIVI CONNESSI A INTERNET
1996/2005
2006/2020
2011/2020
1 miliardo di connessioni fisse
6 miliardi di connessioni mobili
28 miliardi di “cose” connesse a Internet
FONTE: IDC
gregato di ricchezza: in particolare, al Vecchio
Continente era riferibile il 36 per cento. Oggi, la quota
riferibile alle stesse tre potenze è crollata di un quarto,
al 60 per cento. A portare a questo risultato è stato il
processo di deindustrializzazione dell’Europa in atto
nell’ultimo decennio: il contributo dell’industria pura
sui Pil nazionali è sceso in Francia dal 15 all’11 per cento
e in Italia dal 20 al 16 per cento. Non a caso
Confindustria da tempo reclama un ritorno alla quota
originaria. Unico Paese a essere più manifatturiero di
dieci anni fa è la Germania, dove il contributo dell’industria sul Prodotto interno lordo è salito dal 22 al 23 per
cento.
Ma, come si apprende dalla letteratura e dalla cinematografia recente, nessuno si salva da solo: «Ogni singolo
Paese, compresa la Germania», si legge nello studio,
«non potrà realizzare appieno la trasformazione del proprio sistema industriale se mancherà un’agenda di poli-
re la finanza di debito e la nuova finanza, dall’equity
alla finanza ibrida, in investimenti non di salvataggio e
di ristrutturazione delle attività industriali attuali ma
in progetti imprenditoriali nuovi, mirati a inserire e a
trasformare il sistema industriale italiano nella rivoluzione in corso su scala globale».
Seguendo l’ambizioso programma di Industry 4.0, investimenti per 15 miliardi l’anno creerebbero, da qui al
2020, non meno di 900.000 nuovi posti di lavoro nel
nostro Paese. Ma, come in ogni rivoluzione, occorre
prima cambiare mentalità: la politica industriale non si
fa a colpi di tavoli di crisi, ammortizzatori sociali, accanimenti terapeutici su realtà ferme a scenari pre-crisi
ormai inesistenti. «I modelli industriali», prosegue
Crapelli, «vanno trasformati completamente, con un
salto di paradigma paragonabile a quello avvenuto
all’inizio degli anni Ottanta, con l’introduzione della
robotica e dell’automazione nelle fabbriche italiane».
Solo liberandosi da questi dogmi e da questi riti si potrà
arrivare a fabbriche in rete, organizzate intorno alle tecnologie e in cui i tessuti connettivi fra le imprese portano alla vera innovazione di prodotto e a una manifattura ultraterziarizzata.
Non tutto, insomma, è ancora perduto: «L’industria italiana ha dimostrato in questi anni di dura crisi la sua
grande tenuta competitiva sui mercati internazionali e
ha dato un contributo decisivo alle sorti macroeconomiche del Paese grazie all’apporto delle esportazioni», scrive Crapelli sul «Sole 24 Ore» nel tirare le somme industriali del 2014. «L’Italia rimane il secondo Paese manifatturiero d’Europa e fra i primi al mondo. In particola-
«Nessuno
si salva da solo.
Ogni singolo
Paese,
compresa
la Germania,
non potrà
realizzare a pieno
la trasformazione
del proprio
sistema
industriale
se mancherà
un’agenda
di politica
industriale
europea»,
osserva
Roberto Crapelli,
amministratore
delegato
di Roland Berger
Italia, la società
che ha elaborato
il documento
«Industry 4.0»
Sopra,
Roberto Crapelli.
A sinistra, dall’alto:
un sistema laser
realizzato
da Trumpf;
un motore aereo
prodotto
da Rolls-Royce
MAGGIO/GIUGNO 2015 - OUTLOOK 53
L’approfondimento
re spicca la capacità di mantenere una posizione di leadership in moltissimi segmenti
di mercato o filiere di medio-alto contenuto
tecnologico e rimaniamo uno dei soli cinque
Paesi al mondo con una surplus commerciale positivo superiore ai 100 miliardi di dollari, dietro solo a Cina, Germania, Giappone e
Corea del Sud». Ma nulla è scontato, e
soprattutto è già ora di guardare ai prossimi
decenni e alle sfide che attendono anche chi
è già industrialmente pronto: «Da un lato la
competizione con i “poli geopolitici” americano e asiatico e dall’altro la capacità di
essere fra i protagonisti della quarta rivoluzione industriale».
L’Europa, ricorda Crapelli, è ancora l’area
economica più rilevante al mondo, ma ha il
grande limite di non riuscire a sviluppare
politiche comuni che riescano a difendere e
a rafforzare la competitività e la capacità di
investimento. «Questo deficit pesa in particolare sul comparto manifatturiero, su cui
tutte le aree geopolitiche mondiali stanno
puntando viste le grandi ricadute in termini
di aumento della produttività e della capacità di creare posti di lavoro che ad esso si
legano». Il Vecchio Continente avrebbe dunque bisogno di un vero e proprio «Industrial
Compact» che aiuti una rapida ed efficiente
reindustrializzazione dell’Europa, e di rafforzare le imprese europee di taglia globale
in tutti i settori chiave del futuro, soprattutto in quelli ad alta intensità tecnologica e
più innovativi. «Il rischio», ammonisce l’ad
della divisione italiana, «è di perdere la leadership nei settori più tradizionali ancora
presidiati, e di veder relegata l’Europa a un
ruolo secondario nello scacchiere mondiale,
più concentrata com’è a discutere dei diversi interessi nazionali piuttosto che focalizzata a far fronte alla competizione globale e
a ridurre il ritardo nello sviluppo di nuove
imprese globali nell’high tech».
Le osservazioni recenti, però, dicono che
siamo in ritardo: questo salto tarda ad arrivare, e l’inerzia rischia di presentare un
conto salato. «Non solo perché le maggiori
candidate a creare nuovi posti di lavoro nei
prossimi anni sono le imprese altamente
innovative e a più elevato contenuto di conoscenza», osserva Crapelli dalle colonne del
L’Italia rimane il secondo Paese manifatturiero d’Europa e fra i primi
al mondo. Mantiene ancora una posizione di leadership in moltissimi
segmenti di mercato o filiere di medio-alto contenuto tecnologico
ed è uno dei cinque Paesi al mondo con un surplus
commerciale positivo superiore ai 100 miliardi di dollari,
dietro solo a Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud
Modello di stampante 3D
quotidiano finanziario. «Ma soprattutto perché tutte le
grandi aree geopolitiche mondiali, Stati Uniti e Cina in
testa, stanno investendo massicciamente per supportare l’innovazione e la crescita delle proprie industrie, e i
piani di ciascun Paese europeo singolarmente non
potranno mai competere con le misure e le risorse che
stanno mettendo i campi le grandi aree economiche del
mondo».
Ancora, nessuno si salva da solo, e a un anno dal manifesto di Industry 4.0 si sta rispondendo in ordine sparso
e con troppa disomogeneità: «In un anno, l’adozione di
Industry 4.0 è accelerata in maniera violenta in
Germania e parzialmente in Francia, in modi diversi»,
riassume Crapelli oggi, «mentre in Italia si stanno ancora seguendo perlopiù i modelli precedenti. Nel nostro
Paese fa eccezione l’uso del cloud, che però non si può
definire ancora un trend». In Germania, per esempio,
uno studio della Bdi (la Confindustria tedesca) ha indagato se e quali differenze ci sono tra le diverse filiere
della manifattura nell’adozione delle nuove tecnologie,
mettendo a confronto settori centrali per la locomotiva
d’Europa, come la chimica e l’elettromeccanica.
In Francia, l’azione è spostata più sulle istituzioni, che
hanno lanciato un programma di sostegno e promozione per la nascita di nuove realtà in grado di fornire ritorni tecnologici e digitali alle aziende industriali. «Ma a
parte questi esempi virtuosi, rimane il fatto che
l’Europa nel suo insieme non è pronta ad avere grandi
campioni globali che intercetteranno la domanda di tecnologia digitale per connetterla alle filiere», osserva la
ricerca di Roland Berger Italia. «Non basta essere una
software house evoluta per pensare di poter competere
in questo settore».
L’unica nota di consolazione arriva per quelle aree tecnologizzate per propria vocazione, e quindi anche e
soprattutto per le isole industrialmente felici rappresentate dai distretti. «La digitalizzazione che interconnette le aziende trova un naturale campo di applicazione nei distretti, perché già sono organizzati in modo che
le aziende all’interno di essi siano interdipendenti l’una
dall’altra», spiega Crapelli.
In particolare, nel modello emiliano si intravedono due
percorsi che sembrano timidamente imboccare la strada della quarta rivoluzione industriale: «Tipicamente,
la prima opportunità riguarda l’utilizzo delle tecnologie
che usano “big data”, cioè le masse di dati che arrivano
dai clienti come singoli individui e che poi vengono trasferiti nelle catene produttive manifatturiere». L’altro
grande campo di applicazione, in cui il territorio modenese fornisce un esempio, è il comparto biomedicale: in
particolare, riguarda tutta la parte di test e l’interazione con il mondo clinico, che a sua volta deve essere
attrezzato opportunamente per cogliere questi input. Il
settore è già molto tecnologizzato, ma laddove servano
adeguamenti sono già previsti investimenti. Un vantaggio competitivo importante per i cluster, conclude
poi lo studio di consulenza, viene dalla messa in linea
con il fornitore del materiale di base lavorato nel
distretto: si tratta di terzisti esterni, ma fortemente
interconnessi per fare sì che gli assortimenti più variegati di prodotti arrivino con frequenza. «Insomma», conclude Crapelli, «sicuramente può arrivare una marcia
in più per i distretti con l’adozione di questo piano».
«L’Europa»,
ricorda Roberto
Crapelli,
«è ancora l’area
economica
più rilevante
al mondo
ma non riesce
a sviluppare
politiche comuni
per difendere
e rafforzare
la competitività
e la capacità
di investimento.
Il rischio
è di vedere
il Vecchio
Continente
relegato
a un ruolo
secondario
perché troppo
concentrato
a discutere
dei diversi
interessi
nazionali
piuttosto
che far fronte
alla competizione
globale»
•
MAGGIO/GIUGNO 2015 - OUTLOOK 55