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Fahrenheit 451 inizia con Montag, un pompiere che non spegne il fuoco ma ricerca e brucia
libri. I libri rendono la gente infelice ed è compito dei pompieri rimuovere tutte le tensioni discordanti e di permettere alla tecnologia dell'intrattenimento onnipervasiva di dominare.
Montag, però, incontra Clarisse, una ragazza minuta la cui innocenza fanciullesca lo spinge
a riconsiderare la sua vocazione. Inizia a conservare illegalmente dei libri e a mettere in questione la sua non-relazione con la moglie Mildred che passa tutta la vita assorbita dalle pareti
televisive del salotto e dalle radioline miniaturizzate nelle orecchie. Montag è portato a investigare i propri pensieri soprattutto dopo aver bruciato una donna che rifiuta di lasciare la
propria casa di libri: vuole imparare a comprendere qual è il fascino esercitato dai libri.
I libri infatti sono un veicolo per il pensiero indipendente, cosa che non riescono ad essere gli
schermi, che anzi fanno sì che il mondo di Fahrenheit 451 sia un mondo di persuasione di
massa, di superficialità, di frivolezze e di rumore infinito. Si tratta di una tecnologia del divertimento che non permette il dibattito e il pensiero ragionato quietamente, nel modo in cui
invece lo permettono i libri. Montag dice a Faber:
"Mia moglie dice che i libri non sono 'reali'."
"E Dio sia lodato per questo. Li si può almeno chiudere, dire: 'Aspetta un momento'. Potete
farne ciò che volete. Ma chi mai è riuscito a strapparsi dall'artiglio che vi imprigiona quando
mettete piede nel salotto della TV? Vi foggia secondo l'aspetto che esso più desidera! L'ambiente in cui vi chiude è reale come il mondo. Diviene e pertanto è la verità. I libri possono
essere battuti con la ragione. Ma nonostante tutto quello che so e tutto il mio scetticismo,
non sono stato mai capace di discutere con un'orchestra sinfonica di cento elementi, a tutto
colore, tre dimensioni, parte integrale, costitutiva di questi incredibili salotti.”
Col passare del tempo, Montag si convince della necessità di sovvertire l'ordine repressivo
alimentato dai pompieri ma viene scoperto e costretto a bruciare la propria casa e la sua
piccola collezione di libri, prima di essere arrestato. Sfugge all'arresto e, anche con l'aiuto di
Faber, finirà per unirsi a un gruppo libero di ex-accademici in esilio che tentano di registrare
la conoscenza dei libri imparando a memoria un'opera ciascuno. La storia termina con la
distruzione per mezzo di armi atomiche della città, con Montag e gli accademici girovaghi
come gli unici guardiani della vecchia saggezza umana.
Se vuoi che la casa non si costruisca, fa' sparire chiodi e legname. Se non vuoi un uomo
infelice per motivi politici, non presentargli mai i due aspetti di un problema, o lo tormenterai;
dagliene uno solo; meglio ancora, non proporgliene nessuno. Fa’ che dimentichi che esiste
una cosa come la guerra. Se il governo è inefficiente, appesantito dalla burocrazia e in preda
a delirio fiscale, meglio tutto questo che non il fatto che il popolo abbia a lamentarsi. Pace,
Montag. Offri al popolo gare che si possono vincere ricordando le parole di canzoni molto
popolari, o il nome delle capitali dei vari Stati dell'Unione o la quantità di grano che lo Iowa
ha prodotto l'anno passato. Riempi loro i crani di dati non combustibili, imbottiscili di "fatti" al
punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d'essere "veramente bene
informati". Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono
Circolo di
Il libro (“Fahrenheit 451”)
lettura
E. Baldoni
9 marzo 2011
L’autore
Bradbury, che quest’anno compirà 91 anni, si chiama Raymond Douglas. Il secondo nome lo deve all’attore americano Douglas Fairbancks. Lui preferisce farsi chiamare Ray,
che vuol dire raggio. Di sole, di luna o cosmico. Ha avuto un’infanzia felice, da cui paradossalmente non si è mai ripreso.
È nato in campagna, a Waukegan, nell’Illinois, trentamila anime candide e timorate di
Dio. Il padre, di origine inglese, lavorava come elettricista. La madre, svedese, era famosa per le sue polpette. La famiglia Bradbury era severa, cresciuta secondo la religione
battista, e ha avuto la sua buona dose di lutti (degli altri tre figli, due sono morti in fasce),
e la terribile mancanza di contanti e lavoro, comune a tanti americani dopo la Depressione. Eppure, nei suoi racconti si respira l’aria buona della famiglia amica, rassicurante, del
nido del rifugio. E quando in Cronache marziane i locali vogliono fregare gli invasori terrestri gli appaiono come mamma, papà e fratello, debellando le difese psicologiche prima e
quelle immunitarie poi.
Il fatto è che Bradbury ha avuto la fortuna di crescere a latte e avventura. Sua madre dai
tre anni in poi lo portava al cinema e di sera per addormentarlo gli leggeva i racconti fantastici di Edgar Allan Poe alla luce della candela. Poi c’era la zia Neva, che aveva solo
undici anni più di lui, e che gli recitava le avventure del regno di Oz.
Quando a otto anni Ray mise le mai su uno dei primissimi numeri della rivista “Amazing
Stories”, la sua fantasia era già stata arata a dovere, e
scoprì la fantascienza prima che questa fosse ufficialmente battezzata tale (si chiamava allora “scientifiction”, e
solo nel 1930 sarebbe diventata science fiction).
Poi il diluvio: segue la cotta per i fumetti di Buck Rogers
e per i serial di Edgar Rice Burroughs. Gli anni della Depressione, con il girovagare comune a tante famiglie americane in cerca di pane e lavoro, ne accrebbe il gusto per
l’esotico. Non aveva ancora le idee chiare sul suo futuro:
prima voleva fare il mago, poi l’attore. A un certo punto optò per lo scrittore, anche se a
scuola, dove gli pubblicavano editoriali e poesie su un giornaletto interno, lo bocciarono
proprio in inglese.
Storiografo del minimo, Bradbury ha annotato ogni suo rito di iniziazione: a dieci anni,
tutti i lunedì sera passati nella biblioteca locale; a undici, le prime storie di magia influenzato da illusionisti e ciarlatani che passavano nei dintorni… Tutte storie che sono finite,
per contrasto o similitudine, nei suoi racconti, anche quelli fantascientifici.
A dodici anni gli regalano la prima macchina per scrivere giocattolo, e la usa per inventare possibili sceneggiature di Buck Rogers. Contemporaneamente lo assume una stazione radiofonica per recitare il sabato pomeriggio a voce alta le pagine dei fumetti.
A 16 anni pubblica la sua prima poesia; a 17 si compra la prima vera macchiando scrive-
re (costo: dieci dollari, ottenuti risparmiando per un annoi soldi della merenda scolastica);
nel 1941 scrive 52 racconti, uno a settimana, ma gliene pubblicano solo tre; fa festa
quando il primo (“Pendulum”) viene pagato 27,50 dollari (di cui in tasca la metà: l’ha
scritto infatti con un altro); nel 1943 butta giù un’idea sul suo quaderno di appunti: “storia
di persone che vanno su Marte”; nel 1946 conosce Marguerite, che fa la commessa in
una libreria e la domenica gli legge poesie a voce alta. La sua dichiarazione è: “Andrò
sulla Luna, andrò su Marte. Vuoi venire con me?” e la risposta è: “Sì”. Nel 1947 si sposa,
nel 1948 si considera uno scrittore professionista: guadagna 250 dollari al mese. Nel
1950pubblica su diverse riviste.
A questo punto ha trent’anni, e non ha più limiti. Lavora per la Tv, per il cinema, come
designer di interni, collabora con la Disney.
E nel 1968 ha finalmente il suo battesimo dell’aria, su un dirigibile promozionale della
Goodyear. Il grande futurologo, il cantore dei pionieri dello spazio, il primo colonizzatore
di Marte, non si era mai staccato dal suolo fino a 38 anni. Paura. E, se per questo, a
tutt’oggi, Bradbury non ha la patente e non ha mai guidato una macchina. Sulle sue passeggiate notturne ricalcò “Il pedone”, tragicomico apologo sulle avventure di un sovversivo continuamente perseguitato dalla polizia perché fa qualcosa di estremamente illegale:
usare i piedi, cioè camminare.
Da questa sfilza di flash autobiografici, si comprende come Bradbury abbia qualcosa di
formidabile (bella scrittura a parte): la memoria. Giura di ricordare una nevicata del 1921,
e aveva un anno. E di non aver mai dimenticato il suo primo film, “Il gobbo di Nôtre Dame”, e ne aveva tre. Spiega di essere nato in ritardo, a dieci mesi, e di esser arrivato
quindi più sviluppato, a cominciare dagli occhi aperti. Naturalmente ha ficcato questo
concetto in un racconto, “Il piccolo assassino”, un neonato che sa giù tutto, perfino come
uccidere i suoi genitori.
Come scrittore, anche da principiante, ha usato sempre la stessa ricetta: mille parole al
giorno. Sempre e comunque.
“E cosa ci insegna, mi chiederete voi, il fatto di scrivere?
Prima di tutto, ci ricorda che siamo vivi, e questo è un dono e un privilegio, e non un diritto. Dobbiamo guadagnarci la vita, una volta che ci è stata concessa. La vita chiede in
cambio delle ricompense per averci concesso l’animazione. Quindi, mentre la nostra arte
non può, come vorremmo potesse, liberarci dalle guerre, dalle privazioni, dall’invidia,
dall’avidità, dalla vecchiaia o dalla morte, ci può rivitalizzare nel mezzo di tutto questo.
Secondariamente, vivere è sopravvivere.
Ogni arte, ogni buon lavoro, naturalmente, lo è.
Non scrivere, per molti di noi, equivale a morire. […]
Dovete essere ubriachi di scrittura, in modo che la realtà non possa distruggervi. […]
Ogni mattina io salto giù dal letto e mi metto a camminare su un campo minato. Il campo
minato sono io.
Dopo l’esplosione, passo il resto della giornata a rimettere insieme i pezzi.
È il tuo turno adesso. Salta!”
(R.Bradbury, Lo zen nell’arte della scrittura, DeriveApprodi, p.30-31)