Sì, computer ma che triste!

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Sì, computer ma che triste!
Sì, computer ma che triste!
Domenico Parisi, [email protected]. Come il computer cambierà il modo di studiare dei nostri figli.
Mondadori, Milano, 2000, pp. 240, Lit. 32.000 (€ 16,53)
Francesco Antinucci La scuola si è rotta. Perché cambiano i modi di apprendere. Roma-Bari,
Laterza, 2001, pp. 109, Lit. 18.000 (€ 9,30)
Domenico Parisi e Francesco Antinucci, entrambi ricercatori presso l’Istituto di Psicologia del
C.N.R., provengono da ricerche comuni nel campo della semantica generativa e della
psicolinguistica e entrambi si sono in seguito orientati all’area dell’intelligenza artificiale (anche se
il termine - che forse evoca più insuccessi che successi - non compare in questi due libri). Entrambi
hanno una ricca esperienza di lavoro con la scuola, e non sorprende che intervengano a breve
distanza con due testi che propongono la stessa tesi: in breve, che il computer non è una delle
innovazioni con cui la scuola deve fare i conti, ma riassume la sostanza dei problemi della scuola,
nonché la loro unica possibile (anche se difficile) soluzione.
Alla base del ragionamento sta la distinzione tra due modi di apprendere: apprendere
dall’esperienza e apprendere attraverso il linguaggio (Parisi), o in modo «simbolico-ricostruttivo»,
cioè dai testi scritti (Antinucci). L’apprendimento dall’esperienza (spiega Antinucci) è più naturale
per la specie umana, e a lungo è stato quasi esclusivo, avendo il suo modello nella bottega artigiana.
È stato sostituito dall’apprendimento dai testi quando la tecnica della stampa ha reso possibile ed
economica in questo modo un’istruzione di massa, con un rapporto alto tra insegnanti e discenti che
la bottega non consente. Oggi il computer - in particolare attraverso la simulazione interattiva rende possibile un apprendimento generalizzato dall’esperienza, che è più efficace (dando luogo a
conoscenze interiorizzate e stabili), e inoltre più motivante e gratificante, del lento faticoso, poco
durevole, apprendimento dai testi. Gli studenti, cresciuti in seno alla nuova realtà del computer,
trovano incomprensibile l’istruzione proposta dalla scuola e non possono non rifiutarla
integralmente.
L’alternativa è radicale, senza possibili mediazioni: tutta la struttura della scuola (materie,
orari, verifiche) è coerentemente in funzione dell’apprendimento testuale, e il fatto che ogni
tentativo di inserire il computer come veicolo di istruzione (e non come semplice sussidio) sia
inesorabilmente marginalizzato e infine espunto non dipende da cattiva volontà o resistenze
conservatrici, ma da una sostanziale incompatibilità. Non a caso Parisi propone le mediateche
(«case dell’apprendimento flessibile») come luoghi dell’apprendimento, che si assumerebbero in
sostanza i compiti della scuola.
L’argomentazione è condotta con grande efficacia dai due autori (che hanno tra l’altro in
comune la virtù di una prosa limpida e piana), e con una ricchezza di articolazioni che non si può
qui riassumere, e che merita di per sé la lettura dei testi. Tuttavia qualcosa non convince.
Cominciando da Antinucci (la cui argomentazione è più rapida e serrata): in primo luogo l’autore
mostra di avere dell’apprendimento dai testi una concezione molto riduttiva: si tratterebbe di
apprendimento puramente sequenziale (costretto dalla linearità intrinseca ai testi), in sostanza
mnemonico. Eppure, anche dai lavori di Parisi, e in parte suoi, un tempo abbiamo appreso che la
linearità dei testi nasconde una struttura profonda non lineare, che richiede a chi vuole comprenderli
un intervento attivo, una manipolazione di idee (questo fra l’altro vuol dire «simbolicoricostruttivo»). Se spesso nella scuola l’apprendimento si riduce a una sciatta ripetizione, la colpa
non è dei testi scritti.
In secondo luogo, l’apprendimento a cui mira la scuola dovrebbe essere consapevole,
organizzato e riorganizzabile, confutabile, e per questo traducibile in testi; invece l’apprendimento
dall’esperienza è «percettivo-motorio», e «in larga misura inconscio» (più avanti si parla di
«affioramenti spontanei di consapevolezza», ma il punto non è sviluppato). Certo è così che
impariamo ad andare in bicicletta, e quel che facciamo è quasi impossibile da verbalizzare: ma si
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può generalizzare questa modalità a tutta la trasmissione di un’eredità culturale? Qui affiora un
rischio grosso insito nella cultura del computer. Polemizzando con vigore con le posizioni
conservatrici di Lucio Russo (lo storico della scienza autore di Segmenti e bastoncini, vedi L’indice,
1998, n.6), il quale sostiene che certi incidenti ferroviari accadono perché non si insegnerebbero più
le condizioni di equilibrio di un corpo soggetto alla forza centrifuga, Antinucci afferma che questo
«si riferisce al ristretto numero di coloro che hanno il compito di progettare linee ferroviarie,
locomotive e carrozze», mentre non riguarda i macchinisti. Vuol dire che l’apprendimento tramite
l’esperienza (simulata al computer) è destinato alla massa, mentre a una ristretta élite sarebbe
riservato l’apprendimento esplicito e teorico? solo alcuni dovrebbero capire il perché di ciò che
fanno? non è una prospettiva allettante, né democratica.
In terzo luogo, un limite serio della nostra istruzione scolastica è che trascura gravemente (e
sempre più) l’educazione del corpo, il contatto con le cose, il fare con le mani. Può tutto questo
ridursi al maneggiare un topo (mouse, per chi non ama gli adattamenti linguistici)? Nell’ultima parte
del suo scritto Antinucci abbozza (sia pure sotto il titolo «Utopia») un’idea di un ciclo di base di
scuola al computer: l’apprendimento impegnerebbe cinque-sei ore al giorno per sette-otto anni, e
sarebbe dedicato alle «competenze interiorizzate»: lingua e lingua straniera, matematica, musica,
arti pittoriche e plastiche (beninteso, non si modellerebbe creta o plastilina, ma un’immagine
tridimensionale interattiva). L’educazione corporea non rientra nello schema, perché (grazie al
cielo) non servirebbe simularla al computer. Sarò conservatore, ma per me l’immagine dei ragazzini
impegnati davanti a uno schermo per metà della loro vita ha qualcosa di malinconico.
Il libro di Parisi è più articolato: contiene tra l’altro un’analisi della «diminuita
comprensibilità della realtà» che è tutta da meditare. Una discussione rapida non è possibile, ma
vorrei soffermarmi su almeno un punto. L’autore pone fra i temi che la scuola non si mostra capace
di affrontare quello della complessità, su cui torna più volte: «i sistemi complessi tendono a essere
imprevedibili, a cambiare nel tempo e a reagire agli stimoli esterni imprevedibilmente... e a essere
unici e irripetibili». Tutto questo deve entrare nel curricolo scolastico, e niente come il computer
può mostrare in atto il comportamento dei sistemi complessi. Mi domando però quanto l’autore
tenga presenti questi temi quando esemplifica la sua proposta educativa sul terreno della storia, alla
quale sono dedicati due corposi capitoli. La storia dovrebbe essere non tanto memoria, quanto
«comprensione scientifica del passato» (vista in chiave essenzialmente antropologica, sui tempi
lunghi e lunghissimi, mentre la questione della storia recente diventa irrilevante). Il suo oggetto è
«l’identificazione dei meccanismi e dei processi fondamentali che spiegano perché la storia degli
esseri umani sulla Terra è andata in certi modi invece che in certi altri». Affiora qui
un’impostazione che già abbiamo conosciuto nel Parisi linguista: il compito della scienza è scoprire
i princìpi (il più possibile pochi, coerenti e semplici) che stanno sotto la complessità dei fenomeni.
Un’impostazione riduzionista, che altrove è esplicita: «la scienza fa passi avanti fondamentali
quando riesce ad analizzare e a spiegare un certo tipo di fenomeni in termini di fenomeni di tipo
diverso, ad esempio fenomeni biologici in termini di fenomeni chimici». È certo così, ma se
l’ipotesi di lavoro diventa assioma non contraddice l’assunto della complessità? siamo sicuri di
poter “spiegare” (oltre che descrivere) le tappe fondamentali della civiltà umana? e la simulazione
dei processi al computer (di cui Parisi descrive nei dettagli un esempio che sarebbe tutto da
discutere) non può indurre un’affrettata certezza di possedere le “leggi” di tale evoluzione? La
complessità, ci ha detto Morin, è anche la consapevolezza di un alone di non spiegato e non
spiegabile che circonda ogni spiegazione.
Lo spazio di una recensione non consente di proporre più che pochi e sparsi spunti di
discussione. Ma il suo compito, e scopo, è di sollecitare una discussione più ampia e approfondita,
che questi due libri sicuramente meritano.
L’indice, n. 12, p. 44
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