Parte prima Capitolo ottavo Il bacio Colpo di scena
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Parte prima Capitolo ottavo Il bacio Colpo di scena
Parte prima Capitolo ottavo Il bacio Colpo di scena – Trionfo? – Capitolazione e gratitudine? – Solidarietà? – Consolazione? – Compassione? – Alleanza? – Prudenza politica? – Parole ultime e penultime – Congedo. 1 Colpo di scena Il racconto di Ivàn volge al termine e c’è uno stacco. Alëša, vincendo il sarcasmo col quale gli pareva che il fratello lo guardasse, lo riavvia. «E in che modo finisce, il tuo poema? – domandò a un tratto, con lo sguardo a terra. – O forse è già finito cosí?» No, non finisce cosí. «Quando l’Inquisitore ha terminato, rimane per un tratto di tempo in attesa che il Prigioniero gli risponda. Il silenzio di Lui gli riesce gravoso. Ha osservato come finora l’Incatenato sia restato in ascolto, col penetrante e pacato sguardo fisso negli occhi suoi, senza desiderare evidentemente di ribattergli nulla. Al vecchio piacerebbe che quello gli dicesse qualche cosa, foss’anche qualche cosa di amaro, di tremendo. Ma Egli, di colpo, in silenzio, si appressa al vecchio e lievemente lo bacia sulle esangui labbra di novantenne. Ecco tutta la risposta. Il vecchio sussulta. Un fremito contrae gli angoli delle sue labbra»1. Qual è la conclusione? Il dixi o il bacio? «Io volevo finire in questo modo», dice Ivàn. Ma, qual è «questo modo»? Non è affatto chiaro: potrebbe essere quello che precede, cioè la condanna al rogo, oppure quello che segue, cioè il gesto del Cristo. Una conclusione di morte, oppure di amore. E questo «volevo» sembra alludere a un’incertezza o, forse, addirittura, a un’impossibilità: «avrei voluto», ma qualcosa me l’ha impedito. Se cosí fosse, il dixi sarebbe la parola definitiva, e il bacio un’ipotesi poetica non realizzata. La Leggenda si chiude dunque con un grande punto interrogativo. La scena del bacio, pur raccontata, fa o non fa parte della Leggenda, cosí come Ivàn l’ha effettivamente concepita? Finale aperto, con due soluzioni: la prima congruente, la seconda incongruente all’intero discorso dell’Inquisitore. Nell’ipotesi del bacio, tuttavia, sta certamente l’apice della Leggenda, il suo segreto, sul quale converge l’attenzione. Non ci si sarebbe aspettato un finale cosí, sorprendente, disorientante. Qualche commentatore affrettato si ferma alla condanna. Il dixi pare, in effetti, l’ovvia e definitiva conclusione dell’atto d’accusa dell’Inquisitore. Altri, lettori non piú freschi di lettura, credono addirittura che il bacio sia dato all’inverso. Secondo consuetudine, è il Cristo (in croce) che si espone al bacio del suo popolo. L’Inquisitore è pur sempre parte del popolo di Dio, seppur ribelle, e, per il resto, ha piú volte riconosciuto la nobiltà della missione del Cristo e, insieme, non ha esitato a definire la propria missione come una dolorosa e indegna, anche se necessaria, menzogna. Il bacio dato dall’Inquisitore avrebbe significato lo svelamento di uno strato di verità piú profondo di quello su cui si era mossa l’accusa al Cristo. Avrebbe potuto essere l’ovvio, ma banale, omaggio della carne allo spirito; del «pane terreno» al «pane celeste». Oppure, avrebbe potuto essere, per un vecchio disilluso, il bacio di commiato dalle proprie illusioni giovanili. Non sarebbe certo mancato, infine, chi vi avrebbe visto il suggello della condanna, cioè il sigillo della decretata «morte di Dio», e avrebbe trovato in ciò un’anticipazione di sapore nietzschiano. Non sarebbe stata affatto una conclusione inspiegabile. Non è, invece, cosí: sorprendentemente e, certo, piú intrigantemente è il Cristo che, uscendo dall’oscurità e dall’apparente passività sulla scena del dialogo, compie un atto d’amore nei confronti del suo implacabile accusatore. Escludendo che il Cristo potesse uscire di scena senza un gesto o una parola che dessero alla sua presenza, al cospetto dell’Inquisitore, un significato diverso da quello d’un impietrito simulacro, non ci si sarebbe certo potuti aspettare da lui un discorso, un’autodifesa, un resoconto circa la natura della sua missione, per rintuzzare gli argomenti dell’Inquisitore. Sarebbe stato grottesco e, se non altro per ragioni artistiche, impensabile. Inoltre, il Cristo si sarebbe posto sullo stesso piano dell’Inquisitore, ciò che certamente avrebbe contraddetto l’intenzione dello scrittore. Avrebbe aperto un contenzioso tra la salvezza degli uomini, per la quale egli è venuto al mondo, e il governo degli uomini, al quale l’Inquisitore dedicava la sua opera: un contenzioso impossibile, che avrebbe annullato la differenza dei piani. C’era, allora, spazio soltanto per un gesto, un gesto che prendesse la scena. Poteva forse essere un gesto violento che annientasse chi, in nome suo, si era votato a «lui», al suo nemico mortale? Il vecchio – abbiamo visto – desiderava qualcosa di amaro, di tremendo. Ma, a ben pensarci, non avrebbe potuto essere cosí, senza contraddire la legge, non solo dell’amore ma soprattutto della libertà, la legge di cui il Cristo, dall’inizio alla fine, è rappresentato come il paladino. Con un atto d’ostile sovranità, il Cristo, in un colpo solo, avrebbe distrutto tutto se stesso. Restava spazio, allora, solo per un gesto d’amore. Questo gesto è un bacio. Tutto l’episodio del Grande Inquisitore ne viene colorato. Ma è una coloritura sommamente enigmatica. E l’enigma del bacio si estende sull’intera Leggenda, aprendola a molte possibili interpretazioni. Del resto, l’intero romanzo è cosparso di segni enigmatici, fin dall’inizio. Lo starec Zosima, l’uomo spirituale, si lascia cadere in ginocchio davanti a Ivàn, l’uomo materiale, intravedendo il nulla che l’attende2: un segno, anzi un simbolo, che Dostoevskij, con le parole di Fëdor Pavlovič Karamazov, di Alëša e di Rakitin, invita a interpretare3. Lo stesso vale per il bacio. 2 Trionfo? La prima e piú diffusa risposta all’enigma, la piú semplice e ovvia secondo la carità cristiana, può certamente trovarsi nell’imperativo evangelico di amare i propri nemici (Lc 6, 27) e nel ribaltamento dell’odio in amore («avete inteso… ma io vi dico…»: Mt 5, 43). L’Inquisitore ha scavato un fossato invalicabile tra sé e il Cristo, presentandosi come servo di lui, cioè come figura anticristica. Nemmeno una contrapposizione tale, che piú radicale non potrebbe essere, impedisce però al Cristo un atto d’amore illimitato. Se l’Inquisitore lo sfida sul piano del rancore, il Cristo non raccoglie questa sfida, anzi la rovescia. Col suo bacio, il Cristo avrebbe dato, in questo modo, prova della «intangibile celeste sovranità» del suo amore4, capace d’avvolgere anche la sua antitesi. Col bacio, il Cristo avrebbe suggellato la vittoria sul suo accusatore, schiacciando con la logica dell’amore divino che tutto perdona e si pone al di là d’ogni possibile risentimento umano. Il bacio equivarrebbe dunque a una confutazione attraverso la quale è ribadita la regalità del cielo sulla terra. Vittoria, ma non condanna, tuttavia. Se mai, si potrebbe aggiungere che in questo gesto di amorevole sovranità, nel quale è assente ogni costrizione, si scorge come un richiamo, un invito al risveglio, una chiamata alla vita. Che ci sia un parallelismo tra il talità kum pronunciato dal Cristo sulla bara della bambinetta, in apertura della Leggenda, e il bacio che la chiude? Che si tratti, in entrambi i casi, di un richiamo alla vita? 3 Capitolazione e gratitudine? Potrebbe però essere anche il contrario. Forse che Dostoevskij stesso, alla fine, sia rimasto irretito dalla forza dell’arringa ch’egli stesso ha messo sulla bocca del suo Inquisitore?5. Che sia il caso, per cosí dire, dell’apprendista stregone, cioè d’un personaggio che prende la mano al suo autore, anche oltre o contro le sue stesse intenzioni? Il Cristo è trascinato sul terreno dell’Inquisitore e, su questo terreno, capitola. Come è stato detto, egli riconosce «con un atto di suprema pietà» [e, si potrebbe aggiungere, di suprema umiltà] la forza terrena della requisitoria-giustificazione dell’Inquisitore6. L’Inquisitore avrebbe perfettamente ragione, in questo mondo; il Cristo, perfettamente torto. Questa è l’interpretazione di Carl Schmitt, secondo la testimonianza del biblista ebreo Jacob Taubes, al quale dobbiamo la seguente testimonianza: «Avevo pensato già molto presto che Carl Schmitt potesse essere un’incarnazione del Grande Inquisitore di Dostoevskij. Effettivamente nel corso di un’accesa conversazione … nel 1980, Carl Schmitt mi ha detto che chi non riconosce che il “Grande Inquisitore” ha semplicemente ragione contro i tratti esaltati di una religiosità come quella di Gesú, non ha capito né che cosa è la Chiesa, né cosa Dostoevskij, contro la sua personale inclinazione, abbia effettivamente trasmesso, costretto dalla violenza della problematica»7. Qui, si entrerebbe in un cammino che deve farsi largo tra idee ed esperienze politiche. La figura dell’Inquisitore, in effetti, può esercitare fascino da diversi punti di vista, sempre che si neghi agli esseri umani la propria sovrana soggettività alla quale sono chiamati dalla libertà cristiana. Se la si ritiene un non-senso, un’illusione pericolosa, si può approdare tanto allo Stato-forte conservatore dello status quo (come nel caso di Schmitt), quanto al partito rivoluzionario che mette fine alla disgregazione sociale della civiltà borghese (come nel caso di Lukács)8. Se cosí fosse, se cioè l’Inquisitore fosse da interpretare come il salvatore dell’umanità, il bacio sarebbe da interpretare come segno di dolorosa contrizione, di terribile fallimento e di sottomissione docile e riconoscente alle buone ragioni di chi l’ha sconfitto, cioè alle ragioni della terra opposte a quelle del cielo. Satana e il suo profeta avrebbero cosí sconfitto il Cristo, anche contro le intenzioni generali dello scrittore. Sappiamo però che, per Dostoevskij, non doveva, né poteva, essere cosí, la replica all’Inquisitore dovendosi ricercare scavando nelle successive parole del «monaco russo» in punto di morte9. Attraverso queste parole – scrisse Dostoevskij –, «se mi riuscirà, farò qualcosa di veramente buono: costringerò il lettore a riconoscere che un cristiano puro e ideale non è qualcosa di astratto, bensí qualcosa che si può rendere in un’immagine reale; qualcosa di possibile e presente, e che il cristianesimo è l’unico rifugio per la Terra Russa da tutti i suoi mali. Prego Iddio che il quadro mi riesca»10. Questo era il proposito: «che il quadro mi riesca»! E se, alla fine, Dostoevskij stesso avesse dovuto riconoscere che il quadro riuscito era quello opposto ai suoi intenti? Ma ciò, comunque, riguarda la posizione personale dell’autore, desunta aliunde, non il significato impersonale della Leggenda, presa come tale. Dostoevskij dice di «prenderla» in un modo, nelle intenzioni, ma ciò non esclude affatto che i lettori «la prendano» in altro modo. S’è detto, d’altronde, che, di fronte alla descrizione dell’umanità contenuta nell’opera dostoevskijana, tutti siamo lettori, l’autore compreso. In fondo, il quadro realistico dell’umanità fornito dall’Inquisitore può apparire una deminutio disumana, un abbassamento alla condizione animale, solo a chi lo confronti con il mondo sublime della disincarnata libertà cristiana. Ma, una volta liberatici da quella che nella Leggenda si dimostra essere pura illusione, allora tanto vale lasciare l’utopia ai suoi tormenti e abbandonarsi a ciò che di buono vi può essere nella felicità, tutta terrena, promessa dall’Inquisitore. In breve: l’Inquisitore promette i piaceri della vitalità, contro il Cristo che promette i dolori della mortificazione. Perché non lasciarsi andare, secondo Ivàn Karamazov, a un amore tutto pagano per ciò che la vita rende possibile, per i suoi istinti, per le sue soddisfazioni? L’ostacolo che questa interpretazione presenta sta nel carattere della figura del Grande Inquisitore, come tratteggiata nella Leggenda. Egli è, sí, un benefattore, ma un benefattore dai tratti repulsivi. Qui si mostra ancora una volta l’intreccio di bene e male, quella «impurità» che troviamo, come carattere dominante, in molte creazioni dostoevskijane. Ciò che qui è presentato come male dal punto di vista astratto (divino), contiene invece il bene dal punto di vista concreto (umano). Siamo posti di fronte a una scelta. D. H. Lawrence11 sostenne che senza alcun dubbio l’Inquisitore esprime l’opinione finale di Dostoevskij su Gesú: Gesú è «inadeguato» e gli uomini devono «correggerlo», essendo il cristianesimo non solo al di là, ma anche repressivo delle possibilità reali dell’uomo di vivere pienamente la propria vita. Con un rovesciamento di prospettiva, la libertà del Cristo risulta non solo impossibile, ma altresí contraria alla libertà dell’uomo. Essa sarebbe una gelida costrizione spirituale che esclude il calore dei corpi. Il bacio rappresenterebbe quindi il suggello posto sul riconoscimento della giustezza delle idee dell’Inquisitore e l’errore del messaggio cristiano. Addirittura, secondo l’invenzione romanzesca di Lawrence, non solo il Cristo aveva torto per Dostoevskij, ma avrebbe finito per avere torto per Cristo stesso il quale, prima della sua morte, sarebbe stato il profeta della rinuncia di sé e della vita di quaggiú ma, dopo la resurrezione, si sarebbe convertito all’etica edonistica dell’Inquisitore12. Posto che sia cosí, ciò non impedisce però a Dostoevskij di proclamare che «se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità [come l’Inquisitore avrebbe dimostrato, secondo la presente interpretazione] e se fosse effettivamente vero [come l’Inquisitore avrebbe provato] che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità»13. Il trasporto esistenziale verso il Cristo vale dunque di piú della convinzione razionale. «Ma è meglio smettere di parlare di questo», cosí commenta Dostoevskij il passo citato. Infatti, se «parlarne» significa mettere in campo argomenti razionali, allora vale ciò che sta scritto prima del passo citato: «io sono figlio del mio secolo, figlio della miscredenza e del dubbio, e non solo fino ad oggi, ma tale resterò (lo so con certezza) fino alla tomba. Quali terribili sofferenze mi è costata – e mi costa tuttora – questa sete di credere, che tanto piú fortemente si fa sentire nella mia anima quanto piú forti mi appaiono gli argomenti ad essa contrari!» Qui siamo a contatto con tortuosità e contraddizioni che si spiegano solo con la complessità, anzi la doppiezza dell’animo dell’autore: la ragione che spinge al dubbio e alla miscredenza, insieme alla passione che chiama all’amore del Cristo, anche senza logica, anzi contro tutte le possibili logiche. Il bacio non potrebbe allora forse rappresentare la contraddizione, questa volta nel Cristo stesso? Egli resta quello che è, quanto alla sua natura trascendente. Ma, sul piano dell’argomentazione razionale dell’Inquisitore, basata sull’esperienza, la vittoria tocca all’Inquisitore e il bacio che riceve dal Cristo ne è il suggello. Cosí, nella contraddizione che segna anche la figura del Cristo e nel cedere all’argomento razionale cui l’Inquisitore, per tutta la sua arringa, lo invita, paradossalmente si scioglie l’enigma. 4 Solidarietà? L’arringa dell’Inquisitore è stata travolgente. Il Cristo ha taciuto dall’inizio alla fine. C’è un evidente parallelo col suo silenzio tenuto di fronte ai maggiorenti del popolo e a Pilato (Mt 27, 1115): «Mentre lo accusavano i sommi sacerdoti e gli anziani, non rispondeva nulla. Allora Pilato gli disse: “Non senti quante cose attestano contro di te?” Ma Gesú non rispose neanche una parola, con grande meraviglia del governatore». Il Cristo è venuto non per giudicare o per essere giudicato, ma per salvare. Due mondi faccia a faccia che non si incontrano: il mondo dei fatti e il mondo della verità, la terra e il cielo, l’uomo e Dio14. Il silenzio nasce dall’incomunicabilità degli argomenti che sono e che sarebbero messi in campo. Del resto, non è forse vero che il Cristo non ha «il diritto d’aggiungere nulla a ciò che già a suo tempo fu detto … Tutto (come a dire) è stato trasmesso da Te al papa, e tutto quindi si trova ora nelle mani del papa». Cosí l’incalza l’Inquisitore15. In effetti, per la dottrina cattolica è cosí da sempre e per sempre, una dottrina continuamente riproposta per difendersi dal sorgere imprevisto di nuovi profeti16. La sovranità della parola di Dio si è cosí trasferita integralmente alla gerarchia infallibile della Chiesa, titolare – direbbero i giuristi – del potere esclusivo di «interpretazione autentica». Chi potrebbe contraddirla, se non il Cristo stesso? Ma il Cristo non può piú parlare. L’Inquisitore lo dice: noi parleremo «in nome tuo»; diremo che quel che facciamo e diciamo lo diciamo al posto tuo. Il Cristo ha patito sulla croce, per la libertà dei suoi figli; gli Inquisitori, per salvezza del popolo, a loro volta, sono perciò liberi di «emendare» la sua parola sopportando il peso della menzogna e del tradimento: il peso che piú gravoso non potrebbe essere, trattandosi di spacciare lui per Lui. Ma la menzogna sta pienamente nella libertà che il Cristo ha portato nel mondo. Gli Inquisitori sono i sommi infelici e accettano d’essere tali affinché il popolo possa essere felice. Portano la croce per sollevarci dalla nostra. Non meritano forse un gesto di solidarietà? Come a dire: consolazione a chi sconta una pena e non per una sua colpa ma per la debolezza degli altri. Non l’ha forse detto l’Inquisitore stesso: se fosse per me starei nella schiera dei tuoi eletti? La necessità esige la presenza degli inquisitori. Di piú: questa necessità viene da Dio che ha avventatamente, anzi colpevolmente, creato i suoi figli deboli e incapaci di libertà. Il conforto nasce dall’accettazione della necessità, da entrambe le parti che apparentemente si sono scontrate fino all’atto finale. Non può che essere cosí. Tu non porti alcuna colpa tua, ma porti un peso terribile, a favore della vita altrui. Ti si può negare un gesto di conforto che anch’io, sul Golgota, ho ricevuto (Mt 27, 34; Mc 15, 23)? Tu porti il peso e per questo ti sono vicino nella soggezione al dolore di cui, entrambi, siamo figli. Nel bacio di conforto c’è anche una misura di rimorso o di disagio, come se ci fosse il riconoscimento d’una responsabilità in colui che bacia, nei confronti di colui che è baciato o, almeno, la partecipazione a un sentimento d’ingiustizia: tu sei infelice e lo sei, se non a causa mia, certo a causa d’un sistema di rapporti e di forze nel quale siamo compresi entrambi, ma di cui io fui un tempo vittima e di cui ora tu sei vittima. C’è il male e c’è la sofferenza, al mondo; ma questa, senza colpa tua, al presente, riguarda te, non me. Provo pietà, come accade a chi assiste la vittima d’una grave ingiustizia, il sofferente per una grave infermità, il condannato ingiustamente, e per causa mia, a una pena gravosa. Non meritano costoro un gesto di conforto e solidarietà da parte mia? 5 Consolazione? E se fosse invece una consolazione a chi, in buona fede, vive nell’errore che lo distruggerà? Il Cristo vede piú chiaro e piú lontano dell’Inquisitore. Egli sa che gli sforzi per domare l’umanità sono inutili e che, alla fine, quella che, dal suo punto di vista, è la libertà e, quello che, dal punto di vista del suo accusatore, è il caos, prevarranno. Gli inquisitori di tutto il mondo, allora, conosceranno la sconfitta. Il Cristo non dismette la sua figura di principe della ribellione agli inquisitori, ma è un principe pietoso che non nega il lenimento d’un bacio a chi sa in anticipo di essere condannato alla morte: i destinati alla pena capitale non meritano forse la consolazione d’un delegato della Compagnia della buona morte? 6 Compassione? Se il bacio esprime pietà e poiché la pietà implica un dislivello tra chi dà e chi riceve, il Silente di fronte all’Inquisitore non dismette la sua natura di Cristo, l’inviato da Dio agli uomini. Se, invece, l’interpretiamo come segno di compassione, il Cristo depone la sua aura sovrannaturale e ci appare come l’uomo Gesú, il Nazareno restituito al mondo degli uomini. Chi prova pietà si colloca su un piedistallo e dal piedistallo guarda in giú, verso i derelitti. La pietà è gerarchica. Non lo è, invece, la compassione. Chi ha svolto e approfondito il confronto tra pietà e compassione, come rapporto tra virtú e bontà – la prima «politica», la seconda «impolitica» –, è Hannah Arendt, in un capitolo del suo classico studio «sulla rivoluzione»17 dedicato al rapporto tra politica e felicità-infelicità, dove l’episodio del Grande Inquisitore è trattato insieme – sia pure al prezzo d’una qualche forzatura – al racconto Billy Bud di Herman Melville18. Non c’è compassione senza che si sia colpiti concretamente dalle sofferenze altrui come se fossero contagiose; la pietà, invece, nasce dall’esser dispiaciuto idealmente, senza esser ferito nella propria carne. Non sono la stessa cosa19. Non si tratta di una sfumatura, ma di una differenza sostanziale. Nel testo dostoevskijano, la prima volta – quando si dice del Cristo che è desideroso di discendere dai cieli ai supplicanti, considerati come numero astratto – si usa la parola sostrada’nie: pietà, per l’appunto; la seconda volta – quando si dice che il Cristo passa in mezzo «ancora una volta fra gli uomini in quella stessa forma umana, in cui si era aggirato fra loro per trentatre anni» – si usa la parola miloserdie: carità, misericordia, compassione. Calda è la compassione; fredda la pietà. La compassione appartiene alla sfera delle emozioni; la pietà, delle ragioni. La compassione è una forma di dolore esistenziale. La pietà una forma di piacere razionale. La prima è nascosta; la seconda, esibita. Si può com-patire, come con-gioire, solo insieme a colui o coloro con i quali esiste un rapporto concreto, di con-divisione di vita. Non si possono compatire le pene d’una intera classe sociale, d’una nazione o dell’umanità tutta intera. Compatire è difficile, perché richiede «immedesimazione», cioè soppressione della distanza. Piú facile, provare pietà. Costa assai di meno, sul piano personale. Lo sapeva perfettamente Ivàn Karamazov, dicendo: «Io non ho mai potuto capire come sia possibile amare il prossimo. Appunto il prossimo, a parer mio, è impossibile amarlo, a differenza forse di chi sta lontano … Perché l’uomo si faccia amare, bisogna che rimanga nascosto: non appena ti mostra il viso, l’amore è bell’e finito»20. L’amore compassionevole genera rapporti concreti che si esprimono piú in gesti che in parole, e anche le parole, quando ci sono (come quelle che Billy Bud indirizza al capitano Vere che l’ha condannato a morte), sono piú gesti che parole: gesti che possono scaldare e salvare vite, ma che si compiono in un momento e non si consolidano né in discorsi, proclami, programmi, e neppure in «istituzioni durature». Possono anzi contraddirle, rompere le loro regole fredde, essere sovversivi. Al contrario, l’amore pietoso alimenta ideologie, programmi umanitari, partiti politici e s’incarna in «istituzioni durature» e in norme generali e astratte. I grandi capi politici che vogliono togliere l’infelicità dal mondo sono mossi da pietà, non da compassione. Anzi, in nome dell’amore pietoso per l’umanità, sono disposti alla spietatezza nei confronti degli uomini. La loro «virtú» può alimentare il «terrore», come Saint-Just e Robespierre hanno per primi, nell’età moderna, testimoniato. «Par pitié, par amour pour l’humanité, soyez inhumains!»: parole di una petizione della Comune di Parigi alla Convenzione21. Ecco, allora, un’interpretazione del silenzio del Cristo, a fronte della loquacità dell’Inquisitore: il primo è compassione e la croce è il suo simbolo spoglio; il secondo è pietà, ridondante di parole e simboli di potere: pietà nei confronti dell’umanità che esige inumanità nei confronti di chi prova compassione. Nel bacio del Cristo si condensa la partecipazione al dolore dell’Inquisitore, il quale deve essere inumano, cioè politico. Possiamo, allora, andare oltre alla vicinanza amorevole e pietosa che si ha nel conforto e vedervi la compartecipazione a un’esperienza duale: due in uno. In che modo? 7 Alleanza? L’aveva detto già il Grande Inquisitore, parlando del «mistero»: l’uomo non vive se non sa vedere un «senso» della vita. L’Inquisitore, si può dire, è la vita; il Cristo, il senso della vita. Ci può, anzi: ci deve essere alleanza. La vita non è possibile senza il senso della vita. Ma, anche il senso della vita non è possibile senza la vita. Ciò che può essere detto fin da principio, nella prospettiva della dualità, è che la presenza dell’illibertà, rappresentata dagli inquisitori, è propriamente ciò che consente alla libertà dostoevskijana, nel senso che si è detto, di esistere. L’Inquisitore è il lato negativo di questa libertà, negativo ma necessario. Senza l’Inquisitore, nemmeno il Cristo avrebbe ragione d’esserci. Siamo di fronte, di nuovo, alla dialettica senza sbocco di male e bene, dove l’uno esiste in ragione dell’altro. In fondo, il bacio può essere interpretato come un gesto di con-vivenza necessaria, pur se non di connivenza: il segno della propria – di ciascuno – speculare necessità. Mentre la condanna al rogo pronunciata dall’Inquisitore dimostra ch’egli ritiene di poter esistere senza il Cristo – di piú: ch’egli può esistere solo a condizione di sopprimere il Cristo –, non vale anche l’inverso. Il Cristo ha bisogno degli inquisitori. Il giorno del trionfo del Cristo, il Cristo stesso, come tutti i messia, tutti i liberatori, cesserebbe d’esistere per esaurimento della sua missione. Il bacio, se prescindiamo dal suo aspetto legato alla sessualità, soprattutto nella tradizione russa è una forma stabilita di accoglienza e di commiato, cioè di legame, tra amici, tra phíloi oetaíroi. Il Cristo che va a svegliare il suo amico Lazzaro, lo chiama phílos (Gv 11, 11); quando riceve il bacio del «tradimento» da Giuda, lo chiama etaíros (Mt 26, 49-50). Sfumature? Forse. Ma, il bacio dato dal Cristo al Grande Inquisitore, che cosa è? Probabilmente, piú il bacio dell’etaíros che quello del phílos. Etaireía è società, comunanza d’intenti22. Se Gesú poteva essere legato a Lazzaro da affetto, e dunque essergli amico nel primo senso, certo il Cristo non può considerarsi amico dell’Inquisitore nel medesimo senso. Vale dunque il secondo significato: amico come compagno, socio in un’avventura, confratello, compartecipe a un medesimo disegno. Una cosa, però, è certa: il bacio non è segno di riprovazione, ma di approvazione. Se cosí interpretiamo il bacio tra coloro che l’Inquisitore, lungo il suo discorso, ha presentato come opposti inconciliabili, nemici mortali, immediatamente siamo indotti a pensare l’idea, tipicamente pascaliana ma anche profondamente dostoevskijana, dell’intrinseca convivenza, nella realtà umana, di grandezza e miseria, di nobiltà e abiezione, spiritualità e materialità. Si tratta di una coincidentia oppositorum di cui Dostoevskij tratta, per esempio, in Vlas23: una coincidenza da intendersi non come indifferenza e confusione, ma come compresenza conflittuale nella duplicità della natura umana. Il Cristo e la sua difficile e dolorosa libertà non avrebbero ragione d’esistere se non ci fossero l’Inquisitore e la schiavitú, facile e piacevole, ch’egli vuole dispensare. In fondo, la posizione dell’Inquisitore è inaccettabile – si potrebbe concludere – perché è esclusiva e unilaterale. La posizione del Cristo è accettabile, invece, perché, e solo perché, col suo bacio legittima quella dell’Inquisitore e, al tempo stesso, in certo senso si pone in relazione con questa. Nella Leggenda, la separazione, anzi il conflitto tra le due parti è manifestato nel modo piú eloquente in ogni parola dell’uno e nel totale silenzio dell’altro. Ma, alla fine, nel bacio la radicalità del conflitto è come messa in dubbio a opera del Cristo stesso. Dostoevskij sembra voler condurre a insospettirci circa l’attendibilità della narrazione dell’Inquisitore, della sua rappresentazione algida del Cristo e del suo metafisico messaggio: rappresentazione sulla base della quale l’Inquisitore ha costruito il suo atto d’accusa. 8 Prudenza politica? In un passo dei Quaderni dal carcere, Antonio Gramsci svolge una riflessione sulla fede degli intellettuali e quella dei «semplici»24. Il rapporto tra filosofia «superiore» e senso comune – dice – è assicurato dalla «politica», cosí come è assicurato dalla politica il rapporto tra la religione degli spiriti illuminati e la religione legata a credenze e superstizioni popolari. La preoccupazione della Chiesa è sempre stata di evitare la rottura della comunità dei fedeli, rottura che non può essere evitata o sanata innalzando i «semplici» al livello degli intellettuali. Ostano difficoltà d’ogni genere. Occorre allora la «disciplina di ferro» che la Chiesa impone agli intellettuali affinché non oltrepassino certi limiti nella loro separazione rispetto alla fede dei semplici, per evitare che la distanza diventi catastrofica e irreparabile. Le organizzazioni di massa promosse o approvate dalla gerarchia (i domenicani, i francescani, ecc.) sarebbero, per Gramsci, il collante dei semplici rispetto agli eletti. A sua volta, il gesuitismo sarebbe il tentativo di penetrare nelle classi colte per mantenere il loro rapporto con l’organizzazione ecclesiastica e, tramite questa, con il vasto mondo dei fedeli comuni. Se trasferiamo questa prospettiva al rapporto tra il Cristo e l’Inquisitore, possiamo riscontrare un’analoga divisione, rappresentata dal Cristo, come portavoce degli eletti, e dall’Inquisitore, come portavoce delle ansie e dei bisogni dei semplici. Il bacio dato dal Cristo e ricevuto dall’Inquisitore, dunque, potrebbe essere visto come un atto «politico», rivolto a salvaguardare l’unità tra due lati dell’esperienza umana e religiosa che, lasciati a se stessi, avrebbero effetti distruttivi. Non un’alleanza, nemmeno un compromesso, ma la ricerca d’una misura d’intesa valida nelle condizioni date, quando né il Cristo né l’Inquisitore hanno realizzato interamente il loro progetto. In attesa che i tempi sciolgano la contrapposizione, se mai sarà possibile, elevando i semplici al livello degli eletti o abbassando gli eletti al livello dei semplici. 9 Parole ultime e penultime Il bacio rappresenta evidentemente il punto culminante, la sintesi di senso che l’autore attribuisce all’intero racconto. Il bacio, da qualunque parte lo si voglia guardare, è comunque segno di un contatto: nella specie, tra i due universi, rappresentati dall’Inquisitore, che lo riceve sussultando, e dal muto suo interlocutore, che lievemente glielo depone sulle labbra. L’intera narrazione dicotomica è come scossa dalle fondamenta, nelle ultime due righe. Da qui si può forse procedere per un’interpretazione conclusiva, che ha natura teologico-politica (sulla quale si ritornerà nelle riflessioni finali). Se noi concepiamo il mondo del Cristo come quello dell’ideale e il mondo dell’Inquisitore come quello del reale, questi due mondi possono essere messi in tensione, senza esiti distruttivi, senza cioè che l’ideale distrugga il reale (secondo l’accusa dell’Inquisitore al Cristo) o il reale neghi l’ideale (secondo il progetto anticristico dell’Inquisitore). Il bacio e le labbra del vecchio che fremono possono essere assunti come espressione di questa tensione che tiene insieme la bassura della condizione umana, impersonata dall’Inquisitore, e l’altura della vocazione cristiana, impersonata dal Cristo. Il finale, repentino mutamento d’intenzione dell’Inquisitore, che rinuncia a bruciare il Cristo sul rogo, non rappresenta l’ultima parola, ma una conclusione aperta che chiaramente contraddice il dixi! definitivo che, subito prima, aveva suggellato la requisitoria contro di lui. Un’eccellente raffigurazione teologica di questa tensione è data da Dietrich Bonhoeffer nel capitolo della sua Etica dal titolo Le cose ultime e penultime25: raffigurazione teologica nella quale, però, può riconoscersi chiunque, anche fuori d’ogni fede in una qualche verità procedente da Dio, non rinunci a concepire dualisticamente la propria vita: materia e spirito, realtà e idealità, essere e dover essere, terra e cielo, o com’altrimenti si voglia dire. Dice Bonhoeffer che la parola santificante di Dio è la «cosa ultima», un traguardo mai raggiunto e mai raggiungibile, mai pienamente afferrabile in modo da poter dire che è diventata parola nostra. Prima delle cose ultime, stanno le penultime, quelle del mondo, cioè dell’humana condicio che in mille modi ci afferra e che non è necessariamente composta di materiale ignobile: la solidarietà tra esseri accomunati dal medesimo destino mortale, per esempio. Di questa realtà è giusto tenere conto non perché abbia un valore in sé, o perché possa imporre legittimamente compromessi con «l’ultimo», ma perché con l’ultimo è in relazione necessaria. Per amore dell’ultimo occorre, con tutta la fatica e la responsabilità necessarie, tenere conto del penultimo, perché l’essere umano vive e può vivere nel penultimo; perché solo a partire dal penultimo può, giorno per giorno, alzare lo sguardo per cercare di scorgere l’ultimo. Per questo, non è una colpa prendere sul serio la terra, e curarsi della società umana e delle condizioni che le consentono di esistere, anche se queste, dal punto di vista della parola ultima, possono apparire miserabili, disgustose al fine palato che conosce solo le nobili cose del puro spirito. Fa torto alla giustizia cristiana odiare o, anche solo, trascurare il lato mondano dell’esistenza, il penultimo. Non sbaglia, dunque, totalmente l’Inquisitore nell’occuparsi del gregge, e il bacio di gratificazione datogli dal Cristo sembra essere un riconoscimento. Sbaglia, invece, quando il gregge diventa la sua integrale preoccupazione: cosí integrale da spingerlo a negare che possa esserci una qualche misura di riscatto e liberazione dalla sua stessa soggezione e a giustificare e, di conseguenza, a perfezionare gli artifici che gli permettono di tenerlo rassegnato e soggiogato. Il prezzo che l’Inquisitore deve pagare alla missione cui si è votato è la corruzione politica del messaggio escatologico cristiano, ridotto ad arte di governo o economia cristiana (non fa differenza, da questo punto di vista, se si tratta di politica radicale che vuole portare la rivoluzione nel mondo, oppure di una politica compromissoria che mira all’ottundimento nella tranquillità sociale). In ogni caso, l’orientamento mondano del messaggio cristiano comporta odio verso il Cristo stesso, l’odio che traspare da ogni parola che l’Inquisitore ha pronunciato fino a quel momento. Naturalmente, quest’interpretazione presuppone che si rigetti la raffigurazione della libertà del Cristo che ne dà l’Inquisitore, come qualcosa di totalmente altro dalla realtà della vita, come radicale contemptus mundi, cioè come cosa impossibile per l’essere umano comune non chiamato alla santità da un atto di grazia, cioè come cosa sovrumana o, forse, disumana: una raffigurazione che è sempre l’autogiustificazione della Chiesa quando si mescola, si confonde col mondo, per diventarne una delle tante sue potenze. In realtà, nella Leggenda, la teorizzazione della fede in Cristo a partire dalla libertà come rifiuto del mondo e fuga dal mondo non è fatta dal Cristo, ma gli è attribuita dall’Inquisitore. Nulla ci autorizza a pensare che Dostoevskij, al termine della lunga polemica contro la Chiesa cattolica che si snoda nei suoi romanzi, nel suo Diario, nelle sue Lettere, si riconoscesse infine nelle parole dell’Inquisitore, che danno al silenzio del Cristo il significato del rifiuto del mondo, prossimo alla gnosi. Proprio il bacio può significare il contrario: che il mondo delle cose ultime ha bisogno delle cose penultime, non per confondervisi o per stabilire un compromesso, ma per poter partire da lí in un’ascesi oltre il mondo. Starci dentro, senza odiarlo, amandolo perfino, ma senza appartenervi, come è scritto nella Lettera di Diogneto: i cristiani sono nel mondo, senza essere del mondo. Del resto, riflettiamo sulla conclusione dell’incontro tra i due, di cui diremo poco oltre. Il Cristo, lasciato libero con l’invito a «non tornare mai piú», non ascende al cielo donde era disceso, ma scivola nei vicoli tenebrosi della città, mescolandosi cosí proprio in quella realtà umana degradata che sta tuttavia insieme, senza crollare, per opera proprio degli inquisitori. Come dire: le opere dei due sono diverse, ma quelle del Cristo prendono materia, dunque sostanza, da quelle degli Inquisitori. Questa è un’interpretazione teologica cristiana. Ma ci si può trovare linfa vitale indipendentemente dall’adesione a visioni di fede religiosa. Si può concordare con Bonhoeffer a tre condizioni che escludono, la prima, gli opportunisti, la seconda, gli utopisti radicali e, la terza, i velleitari: che si abbiano a cuore cose ultime, verità, principî, valori che non siamo disposti a barattare, compromettere e commerciare; che si abbia l’umiltà di riconoscere che le nostre cose ultime saranno sempre e solo ideali da perseguire e mai realtà pienamente possedute o da possedere; che, infine, si riconosca il vincolo che nasce dal dovere di agire nel mondo. Ci voleva tanto ad arrivare a questa semplice conclusione? Forse no. Ma per giungervi, non occorreva solo respingere la visione dell’uomo data dall’Inquisitore: cosa facile, perché repellente. Occorreva respingere anche quella ch’egli dà della libertà cristiana. Questo era piú difficile, perché essa è sublime e tentatrice: quasi come un’altra tentazione dello spirito, da aggiungere a quelle del deserto, ma di segno opposto, la tentazione non della pura materia, ma del puro spirito, la tentazione manichea. 10 Congedo Col suo bacio, il Cristo mostra di non essere annichilito dalla requisitoria del suo antagonista. Almeno questo possiamo dire con certezza, essendo capace d’un gesto che butta all’aria l’intera costruzione di quest’ultimo. L’Inquisitore si aspetta, anzi desidera, una risposta, una confutazione, un’autodifesa da parte del condannato, pronto anche a sentirsi gettare in faccia qualcosa di orribile. Anche un atto di clemenza del Cristo che avesse trionfato su di lui, avrebbe potuto accettare. Sarebbe comunque stata la conferma che il terreno sul quale egli si poneva era quello giusto, su cui si poteva disputare e sul quale si sarebbe deciso il vincitore. «Condannami, se puoi!», aveva esclamato in precedenza. Succede, invece, qualcosa d’imprevisto che gli toglie, per cosí dire, il terreno sotto i piedi: un gesto d’amore o d’amicizia unilaterale. Poiché, però, questo gesto non è richiesto ma imposto, in esso si nasconde, in realtà, una sottile «violenza paralizzante, che lascia attonito e interdetto chi lo riceve»26. Amore o amicizia violenti: la violenza sta qui, nel rovesciamento di scenario. L’Inquisitore resta nel vecchio scenario e, nel nuovo che gli viene imposto, non ha piú nulla da dire. Ammutolisce perché totalmente spaesato, estraneo. Il bacio è un atto unilaterale. Le labbra del vecchio si contraggono, ma la contrazione è solo una reazione: il bacio è dato (dal Cristo) ed è ricevuto (dall’Inquisitore), ma non è ricambiato. Si tratta dell’applicazione di un tópos dostoevskijano. Per esempio, all’inizio de I fratelli Karamazov, a proposito della «riunione sbagliata» nella cella conventuale dello starec, si racconta della sgangherata e provocatoria chiacchiera del padre Karamazov, Fëdor Pavlovič. Alle provocazioni contro «i padri santi», Zosima risponde con una «riverenza fino alla cintola»27, qualcosa di equivalente al bacio spiazzante, come suggerisce Dostoevskij stesso con parole che attribuisce a I masnadieri di Schiller: «Il bacio sulle labbra e il pugnale in cuore». E lo stesso starec, nella medesima «riunione sbagliata», s’era lasciato cadere in ginocchio, prostrandosi davanti a Mitja, che n’era rimasto folgorato, riuscendo solo a mormorare «Oh, mio Dio»28. L’Inquisitore resta senza parole: «Il vecchio sussulta. Un fremito contrae gli angoli delle sue labbra … Quel bacio gli brucia in cuore»29. Gli brucia in cuore, ma resta senza risposta: «il vecchio rimane fisso nell’idea di prima»30, ma compie un gesto che, a sua volta, distrugge la scena dello scontro: un gesto che, sul terreno che l’Inquisitore stesso aveva preparato, appare di «irragionevole clemenza»31. Apre la porta dicendogli: «Va’ e non venire piú … non venire piú a nessun costo … mai, mai piú!», come se volesse annullare, cancellare, obliare per l’eternità ciò che era appena avvenuto in quella cella sotterranea della cattedrale di Siviglia. Che non avesse mai piú a ripetersi! L’espulsione del Cristo dal mondo sembra definitiva. Sembra vietare anche l’ultimo ritorno, quello in cui si manifesterà la pienezza della sua regalità: la piú anticristica delle pretese, che si collega all’altrettanto anticristico progetto degli inquisitori di un «mondo che non avrà mai fine». Cosí, l’Inquisitore. E il Cristo? Il Cristo va via, ma non per ritornare in cielo, donde era venuto a visitare il suo popolo, ma per dileguare scivolando, col consenso dell’Inquisitore, verso «gli oscuri meandri della città»32: citazione, messa tra virgolette, forse dai Carmina Burana, da cui l’intera Leggenda sembra aver tratto lo spunto. Sotto il titolo Initium sancti evangelii secundum marcas argenti, vediamo il papa che pronuncia le stesse frasi dell’Inquisitore: «In illo tempore dixit Papa Romanis: “Cum venerit filius hominis ad sedem maiestatis nostre, primum dicite: ‘Amice, ad quid venisti?’ At ille si perseverarit pulsans, nil dans vobis, eicite in tenebras exteriores [gli oscuri meandri]”»33. O, forse, l’allusione è alla parabola degli invitati che dicono di no. Le parole tra virgolette in Dostoevskij esprimono l’intento di richiamare il contesto e il significato di passi biblici e, attraverso questi, gettare luce sulle sue stesse parole34, come è già nell’epigrafe posta in testa a I fratelli Karamazov che è il versetto 12, 24 del Vangelo di Giovanni: il granello di frumento che, per portar frutto, deve morire. Dice il padrone al servo: «esci subito per le piazze e per le vie35 della città, e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi … Esci per le strade e lungo le siepi36, spingili a entrare, perché la mia casa si empia … Perché vi dico: Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati assaggerà la mia cena» (Lc 14, 21 e 23). Se questo fosse il riferimento, il Cristo riprende la sua strada, la strada che da un millennio e mezzo ha percorso insieme ai reietti dall’umanità, occupandosi di loro e lasciando stare gli eletti, i dodicimila per ogni generazione, gli inquisitori. L’Inquisitore non fa nulla per riacciuffarlo. Accetta il fatto compiuto. Ammette la sua impotenza. Nulla di fatto, allora: né vincitori, né vinti. Un lungo sogno che svanisce nella dissolvenza, cosí come era iniziato in sordina, con l’apparizione discreta sulla piazza della cattedrale di Siviglia. In ogni caso, una metafora piena di incubi lasciati a noi da decifrare, che non si prestano a essere fissati una volta per tutte in proposizioni finite, oggettive, contenenti concetti conclusi37. Ancora una volta: finale che non chiude.