I generali inglesi Caro Alex, il latore gode della nostra

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I generali inglesi Caro Alex, il latore gode della nostra
I generali inglesi
Caro Alex, il latore gode della nostra intera fiducia
Nei giorni immediatamente successivi l’annuncio dell’armistizio, dai campi e
dalle carceri dove erano detenuti, furono liberati i prigionieri di guerra, ormai
nostri alleati. Nessuno, come invece era stato espressamente previsto nelle
clausole di resa, firmate pochi giorni prima (il 3 settembre, a Cassibile), si era
preoccupato della loro incolumità e ora, senza capi, senza ordini, con l’esercito
in dissoluzione e i tedeschi praticamente padroni dei tre quarti della penisola,
era impensabile organizzare qualsiasi cosa in proposito. I comandanti dei campi
di prigionia si limitarono ad aprire loro le porte e fu solo grazie all’aiuto delle
organizzazioni antifasciste o di singoli cittadini, che molti ex prigionieri
riuscirono a salvarsi, superando la linea del fronte senza essere catturati dai
tedeschi. Fra i tanti che furono aiutati, sono di passaggio di passaggio nella
nostra città anche alcuni alti ufficiali dell’esercito inglese, liberati, dopo l’8
settembre, dal castello di Vincigliata, presso Firenze e che grazie all’aiuto dei
partigiani romagnoli, in collaborazione con agenti dell’OSS (Office of strategic
service. L’organizzazione americana che aveva il compito di facilitare la fuga
dei prigionieri alleati e che poi avrà quello di organizzare e coordinare la
resistenza dietro le linee tedesche), riuscirono, dopo un lungo periodo di
clandestinità, a passare la linea del fronte e a ricongiungersi ai propri reparti.
Inizialmente il gruppo comprendeva 11 ufficiali e quattordici soldati. Fra gli
ufficiali più alti in grado: il tenente generale Philip Neame comandante in capo e
governatore della Cirenaica, il tenente generale Richard (Dick) O’Connor, il
maresciallo dell’aria Ower Tudor Boyd, i generali di brigata J. Combe, D.A.
Stirling, E.W.D. Vaugham e E. Joseph Todhunter, il maggiore generale
Gambier Parry, il tenente Thomas Daniel Sixth, conte di Ranfurly, aiutante di
campo del generale O’Connor. Tutti catturati dai tedeschi in Africa del nord e
consegnati agli italiani; eccetto Boyd, costretto ad atterrare per un guasto del
suo aereo in Sicilia.
L’8 settembre 1943 il capitano responsabile del castello di Vinciliata mi annunciò che era stato
concordato un armistizio. Chiesi immediatamente di vedere il maggiore comandante del nostro
campo prigionieri. Venne la mattina dopo. Gli presentai domanda di restituzione immediata dei
nostri abiti, del denaro, della bussole prismatiche, dei gioielli e dei documenti. Mi rispose che nulla
poteva fare senza informarne il generale comandante di zona. Insistetti per la riconsegna immediata
dal momento che detti effetti erano conservati nel castello ma, per l’inettitudine del maggiore, né il
denaro né i gioielli né altro ci vennero mai restituiti. Alle 9 della mattina del 10 settembre un
colonnello italiano venne da me per informarmi che il comandante delle truppe italiane, il generale
Chiappe, voleva trasferire immediatamente a Firenze noi e le nostre cose, in modo da evitare che ci
catturassero i tedeschi in marcia da Bologna alla volta di Firenze. (…) Tutti noi undici ufficiali e
quattordici militari di grado diverso proseguimmo per Firenze. (Da: Autobiografia di un soldato :
pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 19431945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Il 10 settembre, i generali sono sono accompagnati da alcuni militari a Firenze
dove è loro intenzione salire sul primo treno diretto a Roma. Condotti al quatier
generale italiano, i generali sono informati dal gen. Chiappe che i tedeschi si
stanno avvicinando alla città, dove non ci sono forze sufficienti per fermarli e
che la strada per Roma è bloccata. Vengono quindi consigliati di dirigersi ad
Arezzo, non ancora occupata, che raggiungono in treno. Da lì, su consiglio dei
patrioti locali, proseguono verso l’Eremo di Camaldoli, trasportati su due
autobus, guidati da ufficiali della polizia, in borghese. Una volta a Camaldoli
sono avvisati che la loro presenza è stata segnalata ai tedeschi e quindi
indirizzati dal priore del monastero, don Pierdamiano Buffadini, alla Seghetina,
dove avrebbero potuto stare tranquillamente nascosti.
Dopo alcuni giorni il maresciallo (sergente maggiore) di polizia venne da Arezzo appositamente per
avvertire il priore generale [don Pierdamiano Buffadini] che un colonnello fascista italiano ci aveva
traditi ai tedeschi. (…) il priore generale disprezzava i fascisti e odiava i tedeschi. Ci disse che
sapeva chi ci aveva traditi e facendo un eloquente gesto come di chi minaccia di tagliare la gola,
disse che di quell’individuo si sarebbe occupato in un secondo tempo. O’Connor, Boyd e io
decidemmo subito che anche noi avremmo dovuto rifugiarci nei villaggi montani [dove gli altri sette
ufficiali e i quattordici soldati, erano già stati indirizzati nei giorni precedenti]. (Da: Autobiografia
di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali
inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Il gruppo partì appena in tempo. Qualche giorno dopo O’Connor e Boyd
ritornati all’Eremo per ascoltare Radio Londra, furono quasi catturati dai
tedeschi venuti per controllare il monastero.
In otto ufficiali vivevamo a Segeteina [Seghetina], un villaggio a tremila piedi di altezza composti
di quattro o cinque casolari e casette coloniche; altri tre dei nostri, invece, vivevano a Straubatenza
[Strabatenza], dieci chilometri più in là. I trenta e più soldati erano sparsi qua e là nei dintorni in
casette di contadini. (…) Aiutavano i contadini nei lavori: zappavamo, andavamo a prendere l’acqua
e spannocchiavano il granturco. Una volta o due la settimana O’Connor ed io andavamo a trovare i
nostri uomini nei loro alloggiamenti. (…) Per prevenire gli improvvisi rastrellamenti tedeschi nel
villaggio, facemmo costruire nella foresta, a un miglio di distanza, due capannucce di legno in cui
tutti andavamo a dormire a turno (…) Spesso venivano segnalate spie tedesche o fasciste e si
mormorava di imminenti rastrellamenti. (…) Di una cosa eravamo assolutamente certi: che nessun
contadino italiano di queste colline ci avrebbe mai traditi, per denaro o per minacce. Erano tutti
antifascisti e filo inglesi e se qualcuno si fosse dimostrato un giuda, i suoi compagni gli avrebbero
tagliato la gola. I pochi fascisti erano a tutti noti ed erano tenuti ben lontani da loro. (…) E’
straordinario come la notizia della nostra presenza arrivasse dappertutto, ma mai alle orecchie
pericolose. Alcuni ufficiali britannici vennero a trovarmi da Stia, a venti chilometri di distanza. (Da:
Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e
i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Verso la fine di settembre a Seghetina si presentò Bruno Vailati, chiedendo di
parlare con l’ufficiale più anziano. Vailati, ufficiale dell’esercito italiano, fuggito
da Roma dopo l’8 settembre, si era trasferito in Romagna, a Santa Sofia, a casa
dell’amico di studi Torquato Nanni (il 18 settembre). Qui, data la sua
conoscenza dell’inglese, fu pregato dal padre dell’amico, Torquato Nanni
(omonimo del figlio), noto socialista, di avvicinare i generali per chiedere loro se
fossero interessati a mettersi in contatto con gli antifascisti locali, prospettando
loro la possibilità di poter passare le linee.
Quando poi accadde l’8 di settembre, io fui immediatamente coinvolto qui a Roma in operazioni
antitedesche. Presi l’iniziativa di distribuire armi alla popolazione (…) Io feci quello che potevo
come ufficiale dell’esercito. Feci due o tre azioni contro i tedeschi i quali stavano cercando di
prendere possesso della città. In particolare condussi un’operazione alla centrale telefonica
amplificatrice di via Genova, che io tolsi di mano ai tedeschi. Arrestai una compagnia di tedeschi
con un ufficiale e poi accompagnatili al ministero della Guerra, in via XX settembre, mi sentii
rimproverare dai pochi ufficiali superstiti (poiché lo Stato maggiore era scomparso) e lo stesso
ufficiale tedesco, che era un capitano, mi strinse la mano e mi disse ”Lei è un bravo soldato, però sta
sbagliando tutte le scelte poiché non si è reso conto di quanto sta accadendo. Non faccia sciocchezze
perché di questo passo, lei andrà veramente nei guai!”. Fatto questo io naturalmente mi resi conto
che non si poteva far niente a Roma e andai verso la Romagna, immaginando che laggiù qualcosa
avrei potuto fare (…) Arrivato in Romagna (…) credo (…) il 9 o il 10 di settembre, presi contatto
coi Nanni che erano i miei conoscenti più prossimi e venni a sapere dal padre Torquato Nanni della
questione dei generali (…) Siccome io parlo molto bene l’inglese, essendo nato in Egitto, Nanni mi
chiese se volevo prendere contatto con questi generali e compiere un’azione duplice: cioè da un lato
cercare di aiutarne l’evasione per creare un credito alla resistenza italiana che in quel momento era
ancora da venire e a cui gli alleati non davano assolutamente nessun credito e poi, per compiere
un’azione giusta cercando di rimettere in libertà gente che era rimasta prigioniera per aver cercato di
combattere il fascismo in Italia. Io quindi accettai l’incarico, andai alla Seghetina, presi contatto con
questi generali (…) Saranno stati una dozzina, io penso. (Dall’intervista di Roberto Maltoni a Bruno
Vailati. Roma, 1976 - ISRFC 3/14 1539)
Secondo le istruzioni ricevute dal Nanni, mi misi alla ricerca del gruppo. Pochi giorni dopo, il 21
settembre, (…) scorsi sull’aia di una casa colonica due strani contadini, uno con grossi baffi biondi,
l’altro con gli occhiali, entrambi in calzoni corti. Rivolta loro la parola in inglese, cercai di
guadagnare la loro fiducia e, superata una certa diffidenza iniziale, venni invitato in casa, dove altri
quattro o cinque inglesi stavano attorno al fuoco. (…) davanti a me, grigio, quadrato e gioviale,
vestito da sciatore, era il maresciallo dell’aria Boyd, che atterrò forzatamente in Sicilia nel 1940. Al
suo fianco, candido di baffi e capelli ma con viso roseo da bambino, era il tenente generale
O’Connor, comandante supremo in Egitto nel 1940. Più vicino al fuoco, il maggiore generale
Gambier Parry (…). Semicoricati su due panche, il generale di brigata Sterling (…) che soffriva
continuamente per un’ulcera gastrica, e il pari grado Vaugham, rimasto zoppo durante l’altra guerra.
I due incontrati sull’aia, poco prima, erano i generali di brigata Hunter, che parlava correntemente
l’italiano (…) e Combe (…) In un angolo, alto due metri e timidissimo, il conte Ranfurly, campione
internazionale di tennis, aiutante di campo di O’Connor e uno dei più bei nomi dell’aristocrazia
britannica. (…) Poco dopo rientrò quello che tutti mostravano di riconoscere per un comandante il
tenente generale Neame, più anziano di O’Connor e perciò il più autorevole. (Da: La fuga dei
generali raccontata da Bruno Vailati. In: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. –
Verucchio : Pazzini, 1990)
A questo punto gli chiesi [a Vailati] se ci fosse la possibilità di raggiungere la costa, a ovest verso
Livorno o ad est verso Ancona e quindi di imbarcarci su un peschereccio. Sfortunatamente ne
sapeva poco e mi disse che sarebbe stato troppo difficile e pericoloso. Alla luce dei fatti successivi è
certo che a quell’epoca avremmo potuto riuscire facilmente nell’impresa: tre mesi dopo tre dei
nostri riuscirono a scappare in questo modo e in circostanze molto più difficili. (…) Alcuni giorni
dopo, da Santa Sofia (…) vennero a trovarmi il signor Nanni (…) e suo figlio. (…) Ci accordammo
per mandare Bruno Vailati al Sud, attraverso le linee tedesche, per portare un mio messaggio al
generale Alexander [Harold George] o al generale Montgomery [Bernard Law]. (Da: Autobiografia
di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali
inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Egli [Neame] approvò il mio progetto di attraversare il fronte, accreditato da un suo messaggio, allo
scopo di ottenere dagli alleati aiuti per l’organizzazione partigiana, e concordare al tempo stesso un
piano di salvataggio del gruppo. (…) Tornai alla Seghettina varie volte, successivamente, con muli
carichi di rifornimenti vari. (…) Mi recai col maresciallo Boyd sulla vetta di San Paolo in Alpe (…)
per esaminare la possibilità di farvi atterrare un aereo di soccorso. La cosa risultò inattuabile. (…)
Qualche giorno dopo presi gli accordi finali, mi fu rilasciato un messaggio così concepito:
Caro Alex, il latore gode della nostra intera fiducia. E’ un ufficiale italiano, alto, bruno, coi
capelli ondulati, con una piccola cicatrice sotto l’occhio destro e una cicatrice rotonda da
bruciatura sull’interno dell’articolazione del braccio sinistro. Le sue proposte si considerino fatte
da noi. Cordialmente, Lt generale Philip Neame. Caro Monthy, il tuo genero è passato ieri di qua.
Dick e Boydo, e altri ancora sono con me. Spero vederti presto. P.N. Caro Alex, sono con noi anche
Pip, Jhon, e Todd, cordialmente Dick. Stiamo tutti benone, saluti cordiali Boydo. (Da: La fuga dei
generali raccontata da Bruno Vailati. In: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. –
Verucchio : Pazzini, 1990)
Lì incominciò tutta l’operazione di salvataggio di questi generali che durò abbastanza a lungo e che
fu molto complessa. (…) Io il quindici di ottobre (…) o forse il cinque di ottobre, incomincia un
viaggio per attraversare il fronte portando un messaggio di questi ufficiali (…) per il generale
Alexander (…) attraversai il Paese (…) coi mezzi più vari: arrivai a Roma, da Roma andai ancora
verso sud, verso Frosinone e Cassino (…) E’ facile immaginare tutto quello che poteva accadere ad
un uomo che da solo si proponeva un compito di questo genere, in mezzo a una tale confusione
dove in cui nessuno sapeva mai chi fosse amico o nemico e arrivai (…) nei pressi di Cassino. (…)
verso Piedimone d’Alife, nella Campania, traversai le linee, fui accompagnato a un reparto di
intelligenza militare che si chiamava “A” Force, il cui compito era quello di aiutare la liberazione
dei prigionieri di guerra che fossero evasi (…) Lì mi fu affidato un piano di salvataggio in due
versioni (…) che doveva sostanziarsi nell’imbarco di questi generali al largo di Cervia, alla foce del
fiume Savio. C’erano due appuntamenti previsti: uno per il 24 di novembre e uno per il 28 di
novembre se il 24 non fossero venuti i sommergibili o le imbarcazioni rapide con cui gli alleati si
proponevano di recuperare questi generali. (Dall’intervista di Roberto Maltoni a Bruno Vailati.
Roma, 1976 – ISRFC 3/14 1539)
In attesa del ritorno di Bruno Vailati, Torquato Nanni si recò più volte alla
Seghetina per far conoscere ai generali alcuni esponenti dell’ULI. Un giorno
presentò loro anche Leandro Arpinati, suo amico personale. Arpinati era stato a
capo dello squadrismo dell’Emilia-Romagna, quindi vicepresidente nazionale
del partito fascista e sottosegretario degli interni ma, caduto in disgrazia, nel ‘33
era stato estromesso dal partito e da allora, non aveva, praticamente, più avuto
rapporti con il fascismo, se non pochi giorni prima, il 7 ottobre, quando
Mussolini lo aveva invitato alla Rocca delle Caminate per offrirgli di
partecipare al governo della nuova repubblica e lui aveva rifiutato.
In diverse occasioni il sig. Nanni portò da me dei leaders politici dell’Unione laborista italiana
[Unione dei Lavoratori Italiani]. Tutti si dimostrarono degli ottimi amici. Fra loro c’era Spazzoli
[Antonio], uno dei legionari di D’Annunzio (…) c’era Spada [Pietro (Rino)] (…) capo politico e
fanatico antifascista; e c’era il maggiore Tilloy [Giusto Tolloy], ufficiale dello stato maggiore
italiano ed ex aristocratico, che per il bene dell’Italia si era legato al partito socialista. (…) Spada
aveva una personalità travolgente ed alti ideali politici. Secondo me era il capo dell’Uli in questa
provincia e (…) era pronto a sacrificare la propria vita. Fra tutti gli italiani che ho incontrato,
considero Spada fra i migliori per quanto riguarda personalità, capacità, integrità di carattere e
ideali. (…) L’Uli diede a noi e a molti altri prigionieri di guerra britannici e americani un aiuto
enorme in denaro, vestiario, scarpe e cibo, cose queste impossibili da ottenere con i normali mezzi.
Qualsiasi cosa io dica non è mai sufficiente per elogiare la sua generosità, la sua efficienza e il suo
coraggio. (…) Nanni portò da noi anche il signor Arpenati [Leandro Arpinati], ex ministro degli
affari interni del governo Mussolini. (…) Mi diede informazioni dettagliate sul recente colloquio fra
Mussolini e Hitler e su una lite fra Rommel e Kesselring nella quale Rommel aveva avuto la peggio;
nello stesso tempo fornì informazioni sulle idee di Hitler e dei Generali tedeschi sulla futura
campagna d’Italia. Aveva avuto queste informazioni direttamente da Mussolini solo tre giorni
prima, quando quest’ultimo cercò di persuaderlo a tornare al governo “neo fascista”. Venne diritto a
riferire il tutto ai “generali britannici” con l’intenzione, credo, di tenere un piede in due scarpe. (Da:
Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e
i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
I tre arrancavano sul tratturo di Ridracoli, preceduti dalle cavalcature, che avanzavano a testa bassa
(…) Le conduceva un anziano montanaro taciturno (…) Era stato lui, con brevi parole, a suggerire
ai tre uomini di fare a piedi il tratturo fino al Mulino della Teresona “per risparmiare gli animali”,
aveva detto. (…) “Appena due ore di cammino”, aveva aggiunto. (…) Il tratturo era largo tanto da
consentire il transito dei rustici carri a slitta dei montanari, i tre potevano procedere affiancati:
Tarchi [Giusto Tolloy] in mezzo, dominante col suo metro e novanta d’altezza, il pizzetto nero e gli
occhi tondi dietro gli occhiali spessi da miope (…) Alla sua destra Ceschi [Antonio Spazzoli], più
del solito ingobbito e quasi intirizzito dall’aria frizzante del mattino (…) A sinistra Sala [Pietro
(Rino) Spada], che in parte ascoltava e in parte si guardava attorno. (…) Il Mulino della Teresona
non era più da tempo un mulino, ma una rustica trattoria, e i tre entrarono. Vanni [Torquato Nanni]
ancora non c’era. (…) mentre mangiavano, Sala si rivolse a Ceschi e gli chiese: “Si può sapere cosa
c’entriamo con questi generali?” L’altro rispose pacato: “Non è che c’entriamo. Lo sai che lassù ci
sono ebrei, qualche perseguitato politico, diversi disertori: tutta gente che in mano ai tedeschi
finirebbe al muro, e che noi aiutiamo con viveri e nascondigli. Quando con l’armistizio, si sono
riversati sui monti i prigionieri di guerra alleati, essi pure braccati dai tedeschi, potevamo dire: “Agli
altri sì, a voi no?” E così è stato per i generali inglesi, ai quali abbiamo procurato un rifugio alla
Segatina [Seghetina] e inviato come agli altri farina di granturco e coperte. (…) Vanni, per suo
conto, deve avere pasticciato mica male… tant’è vero che ha portato fin lassù il suo amico Arpinati,
senza neppure avvertirci. Ma Vanni, purtroppo, non è dei nostri: per noi è solo un intermediario. Per
il resto è libero di fare ciò che vuole.”(…) Vanni entrò, con l’aria di uno che entra in casa sua. (…)
Non ci furono presentazioni: si conoscevano lui e Ceschi, e tanto bastava. (…) Ora cavalcavano in
fila indiana, lungo la stretta mulattiera che si addentrava come una trincea nella montagna. (…) Così
cavalcando passarono le ore. (…) Era quasi mezzogiorno, quando da un cespuglio sopra la
mulattiera qualcuno vide sporgere la canna di un mitra. “Alt!” gridò Vanni. (…) Da dietro un
cespuglio uscì e si calò dal costone un ometto sui cinquant’anni, piccolo, dagli occhi chiari, i capelli
biondi pettinati con la riga (…) Vanni lo presentò ai giovani con un gesto e un inchino: “Generale
O’Connor, comandante dell’armata del deserto.” I tre chinarono il capo in segno di saluto e l’uomo
fece altrettanto con un sorriso mite; poi col mitra fece cenno di seguirlo. (Sempre preceduti dal
generale O’Connor, entrarono in uno stanzone con un enorme camino acceso, intorno al quale sette
otto uomini, tutti vestiti miseramente, ma tutti rasati con cura, al loro ingresso si allinearono, quasi
sull’attenti. Proseguirono fino a una porticina, alla quale O’Connor bussò. Rispose da dentro un
breve comando, ed egli spinse la porta di una stanzetta nuda, con alcune seggiole annerite e una
cassa d’imballaggio. Davanti alla cassa, curvo sopra una carta geografica, stava un uomo poco più
alto di O’Connor, anch’egli biondo e pettinato con la riga (…) e coi baffetti tagliati con cura. Al
loro ingesso si fece incontro al gruppo con un sorriso, mentre O’Connor diceva (…) “Sir Philip
Neame, comandante di ottava armata.” (…) Egli parlava un buon francese, che pronunciava
lentamente (…) il generale spiega che per lui è assolutamente necessario (…) comunicare al più
presto col comando supremo alleato (…) egli è in possesso di informazioni segrete tanto importanti,
che in nessun caso potrebbero essere affidate ad altri. (…) E a questo punto, quasi incidentalmente,
chiede notizia di Villani [Bruno Vailati], che Sala sente nominare per la prima volta. Egli apprende
così che un ufficiale italiano (…) è partito per il sud con una lettera autografa di Sir Philip Neame
per Montgomery (…) Ceschi spiega che quella di Villani è stata un’iniziativa di Vanni e dei generali
(…) Comunque di Villani non si è saputo più nulla, e il generale è deciso a rompere gli indugi: egli
partirà per il sud con O’Connor, e conta sul loro aiuto. Gli occorrono documenti falsi, denaro, guide,
punti di appoggio. (…) Sala afferma deciso che in quella faccenda non si deve rischiare un sol
uomo: quindi niente guide, né punti d’appoggio. Si può vedere per i soldi e i documenti, ma anche
per questi ci vuole tempo. (…) tutto ciò viene esposto al generale (…) “Capisco. Ma io ho il dovere
di informarvi che dalla vostra decisione può dipendere la sorte di milioni di italiani.” (…) Sala dice
che non si può giocare a moscacieca con la vita dei compagni. Se ci sono segreti così importanti, il
generale li tiri fuori, poi si deciderà. (…) “Lo prevedevo”, dice “ per questo ho deciso di informarvi
(…) [Mussolini] ha chiacchierato parecchio. Tra l’altro ha detto che Hitler, se non riesce a fermare
il nemico sulla linea gotica, farà saltare gli argini del Po e allagare l’intera valle padana. (…) come
vedete, è molto importante per voi italiani.” I tre si guardano sbalorditi, poi Tarchi scuote il capo
incredulo, mentre Ceschi mormora: “Il Po per dieci mesi all’anno è in magra, e quando è in piena
gli argini li rompe da sé.” (…) “Io gli dico che, se i tedeschi hanno deciso di far saltare gli argini del
Po, non si vede come il comando alleato, anche se informato, possa impedirlo. Perciò, se non c’è
altro, la nostra linea di condotta resta immutata.” Gli altri due sono d’accordo, e il discorso viene
ripetuto al generale, che resta impassibile. Se è deluso non lo dimostra. (…) Il commiato è semplice,
ma con una punta d’amarezza. Ognuno avrebbe voluto fare di più, dare di più, dire di più. Ed è con
un senso inespresso di malinconia che i tre giovani riprendono la via del ritorno. (Da: 1943-45 :
storie ai margini della storia / Anonimo Romagnolo [Pietro (Rino) Spada]. – Milano, 1984)
Le visite di Nanni alla Seghetina non passarono inosservate. Un ex maggiore
fascista di Santa Sofia, che si recava al villaggio per affari, lo incontrò mentre
era insieme ad alcuni generali e lo denunciò ai tedeschi. Il villaggio, pochi giorni
dopo è circondato. Fortunatamente, gli abitanti, messi in allarme dall’insolito
movimento di automezzi lungo le strade, avvisarono in tempo gli ex prigionieri
che riuscirono tutti a mettersi in salvo.
I generali inglesi fuggiti dal castello di Vincigliata a Camaldoli opera di frate Leone [Checcacci], la
soffiata e la fuga da Seghettino, dati in consegna a Beoni Francesco classe 1927 giovane scaltro e
guida eccezionale fra i suo[i] monti nessuno lo batteva, fuga dalla segettina per un soffio, via in
mezzo alla foresta nessuno voleva i generali perche con loro arrivavano anche i nazzisti sulle loro
tracce ed erano guai seri (…) i tre rimasero nascosti nella foresta di Campigna in una capanna di
legno (…) la casa [della famiglia Beoni] fu circondata le spie erano arrivate anche a ridracoli,
Francesco [Beoni] si getto nella scarpata ruzzolando la mitragliatrice lo feri ad un braccio e una
gamba, riusci a salvarsi grazie al aiuto di una pattuglia del 8’ brigata Garibaldi (…9 la casa
incendiata e distrutta, Beoni aveva fatto da guida ai generali portandoli sui monti a fano, 3 giorni e
due notti di cammino fra pericoli ed insidie a non finire (Vittorio (Quarto) Fusconi – manoscritto
2004)
Nello stesso tempo, la notizia della presenza dei generali in Romagna era giunta,
attraverso un camaldolese di passaggio, sino ai monaci di Fonte Avellana e da
questi era stata riferita all’ingegner Ruggero Cagnazzo, di Pesaro, noto per
avere già aiutato altri ex prigionieri britannici. Cagnazzo, accompagnando
alcuni ufficiali inglesi ed un gruppo di ebrei, di cui aveva organizzato la
partenza su di un motopeschereccio, raggiunse Termoli e quindi Bari, dove si
mise in contatto con la centrale di controspionaggio, la stessa che sarà
contattata da Bruno Vailati, qualche giorno dopo. Trasmessa la notizia della
presenza dei generali alla Seghetina, Cagnazzo concordò un piano di salvataggio
e al suo ritorno fu accompagnato da due ufficiali inglesi James Tuill Ferguson e
Spooner, che parlavano italiano e che avrebbero dovuto collaborare con lui.
Passate di nuovo le linee Cagnazzo si recò a Camaldoli.
Io, O’Connor, Combe e Ranfurly ci apprestammo ad intraprendere una marcia di cinque ore
attraverso i monti di Strabautenza [Strabatenza]. Il 31 ottobre ci sistemammo in una fattoria (…) e
un’ora dopo il nostro arrivo ricevetti una stupefacente lettera del priore generale del monastero
dell’Eremo. Proprio quando sembrava che le nostre fortune volgessero al peggio, ci si apriva uno
spiraglio di speranza. (…) la mattina dopo, prima dell’alba, riprendemmo la marcia per trenta miglia
fra le montagne alla volta del Monastero di La Verna. Dopo sette ore di marcia, sotto la guida di
Maurizio [Milanesi], il mugnaio di Straubatenza [Strabatenza] arrivammo al monastero. A La Verna
ci concedemmo un ben meritato pasto e subito dopo arrivò il signor Cagnazzo, con una macchina
piena di biciclette. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip
Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi.
– Milano : Angeli, c1992)
I generali si divisero in due gruppi, i tre superiori di grado seguirono Cagnazzo,
gli altri restarono nella zona della Seghettina, dove poi verranno in contatto con
le prime formazioni partigiane del nostro appennino.
Sull’imbrunire decisi di rientrare nell’ampia cucina della casa che doveva ospitarmi. Accanto al
focolare, su cui ardevano alcuni grossi ceppi, vidi seduti due partigiani ed accanto in piedi, con la
destra appoggiata alla mensola del camino e nella sinistra la pipa, un signore alto e distinto. Mi
avvicinai per riscaldarmi e conversare. Dopo la semplice buona sera, primo a rompere il silenzio fu
il signore distinto. Tra le varie cose mi chiese qual era il mio grado di ufficiale, ed udito che ero
sottotenente, aggiunse di essere lui tenente. Da alcuni mesi si trovava su quei monti in attesa di
allacciare contatti con il Comando inglese e di cogliere il momento opportuno per partire. Ed era
giunto appunto il tempo della sua partenza. Sarebbe partito quella stessa sera. I due partigiani
dovevano fargli da guide nel lungo cammino seguendo il crinale dell’Appennino fino a Pescara,
dove sarebbe stato prelevato da una imbarcazione. In seguito venni a sapere che faceva parte di un
gruppo di ufficiali fatti prigionieri ed internati nel castello di Vincigliata, presso Firenze, da dove
erano fuggiti dopo l’armistizio e rifugiatisi su quei monti. Il tenente inglese era un conte: conte
Ranfurly. (Ricordi / di Salvatore Resi - dattiloscritto - San Piero in Bagno 1998)
… da lì sono passati dei generali, c’era un ammiraglio… sono stati un po’ di giorni con noi in
montagna e poi sono stati accompagnati nelle Marche, dove si sono imbarcati. Il primo lancio [di
armi e materiali] lo abbiamo avuto tramite loro, poi doveva esserci anche il secondo... (Armando
Gardini – dattiloscritto 1983)
Il gruppo guidato da Cagnazzo, il 2 novembre, raggiunse Cattolica, dove trovò
rifugio nella casa di campagna del maggiore Giusto Tolloy, che conosceva
Cagnazzo per aver già collaborato con lui nella fuga del gruppo precedente.
L’appuntamento con la barca che avrebbe dovuto portarli al sud era previsto
per quella notte stessa ma non si presentò nessuno.
Sala [Pietro (Rino) Spada) arrivò nella villetta di Tarchi [Giusto Tolloy] a Cattolica (…) “Immagina
chi è venuto stamattina: l’ingegner Gavazzo [Ruggero Cagnazzo].” “Gavazzo? Ma non è al sud?”
“E’ tornato. Ha attraversato le linee con un certo capitano Fergusson, esperto di segnalazioni.
Devono portare al sud dei personaggi, che stanotte un sottomarino verrà ad imbarcare qui.”
“All’anima dei personaggi: un sottomarino apposta! E non ti ha detto chi sono?” “Lui non me lo ha
detto e io non glie l’ho chiesto? (…) Aveva un’aria da congiurato…” (…) Tarchi (…) entrò scuro in
volto. “Gavazzo bisognerebbe fucilarlo!” esplose appena chiusa la porta. (…) “hanno un
appuntamento stanotte all’una, un paio di miglia al largo di Gabicce (…) Hanno pensato a tutto:
perfino alle segnalazioni in mare per il sottomarino… e non hanno la barca! (…) Per Gavazzo era
tutto facile: Andiamo in spiaggia, prendiamo la prima barca… E’ stato vent’anni sulla costa e non
sa che chi lascia la barca in spiaggia, per prima cosa porta via i remi. Quando gli ho chiesto come fa
senza remi, mi ha guardato smarrito…” (…) Non è che ci sia molto da scegliere. O li lasciamo a
sbrigarsela da soli, e allora di qui bisogna sgomberare subito, perché se stanotte li pigliano i
tedeschi, questa casa prima di domattina è rasa al suolo. Oppure ce ne occupiamo noi: ma in questo
caso dobbiamo essere preparati a tenerceli sul gobbo, chissà fino a quando, perché se il sottomarino
non viene…” (…) “D’accordo” disse. Poi rivolto a Sala aggiunse: “A patto però che tu resti con
noi.” “Va bene”, rispose Sala. “Ma solo per stanotte.” Gli dispiaceva, ma sapeva che non avrebbe
potuto abbandonarli in quella assurda situazione. (…) “Cercherò di fargli trovare per stanotte una
barca in spiaggia, possibilmente sotto Gabicce. ”Mentre si avviava, Alda gli gridò dietro: “Mi
raccomando i remi!” Era di nuovo serena, e sala la lasciò per salire disopra. Lo stupore dei generali
quando comparve fu quasi comico. (Da: 1943-45 : storie ai margini della storia / Anonimo
Romagnolo [Pietro (Rino) Spada]. – Milano, 1984)
C’erano barche a remi ma niente scalmi: erano stati rimossi tutti. Ero piuttosto contrariato per il
fatto che questi dettagli erano stati trascurati. Fabbricammo provvisoriamente degli scalmi con
corda e bastoni e andammo sulla spiaggia alle 10 di sera, evitando le pattuglie dei carabinieri.
Spingemmo le barche in acqua e remammo fino al largo del porto di Cattolica (…) era in quel punto
che doveva arrivare da Sud un peschereccio italiano. (…) Restammo in mare per ore, ma non
riuscimmo a vedere un solo cenno. (…) tornammo alla spiaggia lottando coi remi contro il vento e
contro la corrente. Non riuscimmo a riportare la barca al posto giusto ed eravamo molto preoccupati
per quello che sarebbe accaduto la mattina, quando si sarebbero accorti della sua mancanza.
Tornammo a casa di Tilloy [Tolloy] e restammo nascosti. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine
dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a
cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
... nel buio si allinearono, un’ora prima del coprifuoco: Tarchi in testa con Gavazzo e Fergusson,
che dovevano fissarsi in mente i punti di riferimento per il ritorno; seguivano, a una ventina di passi,
il vice-maresciallo Boyd con aria disinvolta e la pipa in bocca, accanto al frate bianco, chino a
parlottare con O’Connor, chiudevano la marcia a distanza Sala e il generale Neame (…) Tarchi
condusse Gavazzo e Fergusson fino alla barca (…) si fermarono un attimo a guardare il mare (…) e
Tarchi disse: “Non potreste avere un mare migliore.” (…) “Vedrai che partono”, disse Tarchi. “Le
condizioni sono ideali.” (…) Fui svegliato di soprassalto dal suono insistente del campanello e da
furiosi colpi alla porta (…) erano le tre (…) chi poteva essere se non i tedeschi? Per i fuggiaschi
c’era la porta socchiusa didietro. (…) [Sala] balzò dal letto e come un automa, così mezzo nudo
com’era, andò ad aprire. Fu risospinto nel corridoio e quasi travolto dal gruppo dei fuggiaschi, che
s’introdusse d’impeto, con Gavazzo che strepitava: “perché avete chiuso la porta didietro?!” Sala li
guardava incredulo, stordito (…) Si era precipitato ad aprire (…) con la certezza di trovare davanti
all’uscio i mitra dei tedeschi (…) E ora invece avvertiva come in sogno il gelo bagnato di quegli
uomini inzuppati (…) Fu solo quando li vide denudarsi in cucina tremanti di freddo, ognuno chiuso
in un amaro silenzio, che si riscosse e li raggiunse. (…) il racconto corrucciato di Gavazzo gli
giungeva solo a tratti (…) l’interminabile attesa al largo… i segnali luminosi… il vento
improvviso… il mare che comincia a ingrossare… infine la barca capovolta alla deriva, con loro
aggrappati intorno… (…) adesso è mezzogiorno. I fuggiaschi sono nascosti nello studio, dove poco
prima l’Alda ha portato una terrina colma di maccheroni. Tarchi e la moglie, con Sala e i bambini,
sono a tavola in cucina. I tre seduti pensano in silenzio alle stesse cose: al mistero della porta chiusa,
alle chiacchiere in paese per la barca capovolta alla deriva di cui i tedeschi ancora non sanno, ma
presto sapranno, a quei sei di sopra, che stanotte dovranno ripetere l’appuntamento. (…) il
maschietto, dall’alto dei suoi sei anni, parla con aria d’importanza: “La mamma è scema (…)
Stanotte sono sceso a bere, c’era la porta senza catenaccio! Solo una scema, con tutti quei ladri che
ci sono in giro…” I tre si scambiano un’occhiata di sollievo. (Da: 1943-45 : storie ai margini della
storia / Anonimo Romagnolo [Pietro (Rino) Spada]. – Milano, 1984)
Lo stesso accadde la notte successiva.
Il tentativo con la barca essendo chiaramente irripetibile nessuno parlò più di tornare in mare. Dopo
pranzo Tarchi andò con Fergusson sotto Gabicce e scoprirono un anfratto sul promontorio, da dove i
segnali sarebbero stati visibili solo dal largo (…) il sottomarino non arrivò mai, ed essi rimasero
nella villetta di Tarchi. (Da: 1943-45 : storie ai margini della storia / Anonimo Romagnolo [Pietro
(Rino) Spada]. – Milano, 1984)
… quella notte tornammo alla spiaggia e stemmo lì seduti sotto la pioggia gelata tutta la notte, nella
speranza che questa volta la motonave sarebbe arrivata come d’accordo. Per un breve periodo,
prima delle 11 di sera, udimmo al largo il battere del motore; solo io pensai che dovesse essere la
nostra nave che arrivava. Non ci fu nessun segnale (…) Ferguson e Cagnazzo andarono fino al
limite esterno del porto e di lì fecero una serie di segnali ai quali non fu data risposta dal mare. (…)
tornanmmo a casa di Tilloy [Tolloy] (…) adesso dovevamo preoccuparci di trovare un nascondiglio
(Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La
Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano :
Angeli, c1992)
Il 6 novembre, Vailati, di ritorno dal sud, raggiunse i generali a Cattolica ed
espose loro il nuovo piano concordato con la “A” Force, che prevedeva
l’imbarco su di una nave di fronte alla foce del Savio. Le date previste erano il
24 e il 28 novembre. Quindi Vailati si recò a Cervia per i preparativi, mentre i
generali, al seguito di Spada, si rifugiarono in campagna, nella cappella del
conte Spina.
Questa la situazione che io incontrai al mio rientro in Romagna, il 6 novembre 1943. Il generale
Neame, il maresciallo Boyd e il generale O’Connor mi accolsero con calorosa cordialità (…)
Illustrato loro il piano del quale ero latore, partii quasi subito alla volta di Cervia, poiché avevo a
disposizione poco più di due settimane per i preparativi. Appoggiatomi ad elementi della resistenza
locale, mi resi subito conto delle grandi difficoltà (…) L’intera foce del Savio era stata attrezzata per
la difesa antisbarco, e la pena di morte era comminata per chiunque si avvicinasse senza
autorizzazione. (Bruno Vailati in: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. –
Verrucchio : Pazzini, 1990)
Subito dopo ce ne andammo da Cattolica col signor Spada (…) per rifugiarci in una cappella
annessa a una fattoria, in campagna. (…) Spada aveva preso accordi col parroco locale per farci
stare qualche giorno. Passammo vicino ad una stazione di carabinieri lungo il cammino: Spada
scambiò con loro battute di spirito mentre noi passavamo indisturbati. (Da: Autobiografia di un
soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi :
1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Mentre i generali sono al sicuro nella cappella del conte Spina, Spada e Tolloy, a
Cattolica, cercano di affittare una barca. I due, prima di passare
definitivamente la mano a Vailati e all’OSS, vogliono provare ad organizzare un
tentativo per conto proprio. Se fosse riuscito, il merito sarebbe poi stato tutto
dell’ULI. Ma a trovare un’imbarcazione adatta ci volle tempo e una volta
perfezionato l’accordo con il proprietario, scoppiò una tempesta che rese
impossibile la partenza e all’ultimo momento, sembra, anche il capitano che era
stato contattato, ci ripensò e si tirò indietro. Nel frattempo i tedeschi avevano
chiuso il porto di Cattolica e la fuga, da quel momento, divenne impossibile. La
presenza dei tre fuggiaschi intanto fu notata e il conte, proprietario della
cappella, li fece avvertire di andarsene al più presto e forse, fu proprio lui
stesso, per non correre ulteriori rischi, a segnalarli ai tedeschi. Partirono in
bicicletta la mattina del 16 novembre, diretti a Cesena, dove vennero rifocillati a
casa di Otello Magnani e passarono la notte nella casa dell’avvocato Alberto
Comandini. Comandini, esperto fotografo, quella notte fece anche le fotografie
che poi serviranno a fabbricare loro dei documenti falsi. Il giorno dopo il
gruppo ripartì, sempre in bicicletta, per Forlì, guidato da Werther Ferrini.
… c’era Comandini Alberto (...) che prese in casa i generali inglesi. (Ferruccio (Rino) Biguzzi 1999)
I tre generali… l’episodio è subito... è fatto, io me lo son letto e ci sono rimasto male. Spada mi dice
con me “Werther ci sono tre generali che noi dobbiamo… in un certo qual modo… noi dobbiamo…
per avere un po’ la possibilità di non avere bombardamenti a Cesena (…) noi dobbiamo portarli in
salvo questi generali e abbiamo bisogno un po’ della collaborazione di tutti. Siccome a Forlì c’è una
zona bene organizzata ti sentiresti tu di portarli questi tre generali?”. Avevano imparato sì e no…,
Andavano sì e no in bicicletta… si figuri lei, parlavano una parola in italiano, un po’ di francese,
che io capivo e non capivo. Un po’ andavamo... un po’ a tasti ecco, un po’... E appunto partii da
Cesena che non era buio... non posso neanche dire la data, la data precisa, però era d’estate [no, è il
17 novembre 1943] e le dirò di più che alora a quei tempi lì (...) posso dire con certezza che c’era
un po’ di sbandamento tra i tedeschi. C’erano i tedeschi e i fascisti naturalmente, ma però non erano
proprio organizzati come sarebbe stato dopo nel ’44. (...) Non mi fu neanche pericoloso, diciamo
così, ad accompagnare... Sì, certamente con tre generali inglesi in bicicletta (...) c’era un po’... però,
io, siccome in bicicletta andavo molto forte, io se mi fossi trovato in difficoltà... Sapevo che i
generali non avrebbero fatto... ma è andata bene ecco. (...) Io sono partito da Cesena con tre
generali, senza staffette né davanti né didietro e naturalmente andavo ad un passo abbastanza
[sostenuto]. Sì, io ero davanti e loro erano di dietro e ogni tanto voltavo l’occhio per vedere se loro
mi stavano dietro, perché dovevo cercare di ritornare anche a casa [prima del coprifuoco] e quindi
[loro] dovevano andare. Quando fui in prossimità di Forlimpopoli vedo questa massa di gente... ma
io non sapevo di che cosa si trattasse all’inizio. Allora i tre generali (…) se ne accorsero di tutta
questa gente. Un po’ [erano] anche impauriti, perché dicevano “Cosa sarà successo? C’è un posto di
blocco?”. Feci cenno a questi generali di fermarsi. Come si fermarono io me ne accorsi che c’era
stato un incidente casuale. C’era un biroccino… C’era questa gente… C’erano qualche tedesco.
Allora (…) dissi (...) qui mi voglio far passare per un congiunto di loro… Allora inventai questa
cosa. Feci cenno ai generali che venissero avanti e allora quando vidi che i generali venivano avanti
io feci un gesto disperato per far capire... lasciai, buttai per terra, la bicicletta ... e... e... e guardai il
carrello… il carrettino lì, da contadino (…) feci alzare la coperta e vidi la faccia di uno sconosciuto.
(...) Io sapevo che non era. Però, passati i generali io continuai... Allora uno di loro, non so chi
fosse, mi batterono le spalle per farmi capire… Vedi che non è il tuo [parente] (…) Ma io feci una
parte proprio da commediante cosi... (...) intanto, erano a piedi non erano in bicicletta, questi
generali, montarono su in bicicletta molto, molto più avanti nella svolta di Forlimpopoli. Allora loro
[i generali] non avevano capito [cosa era successo] (...) e io spiegai a [Antonio] Spazzoli (…) come
era avvenuto. [Il] perché. Loro [a] ridere, ridere, questi generali (...) [Io li portai a Forlì] In casa di
[Guido] Gardini (...) e in casa di Gardini c’erano sette o otto (…) c’era [Antonio] Spazzoli (...) era
proprio in casa di Gardini che io ho portato questi generali, come li ho lasciati lì (...) io li ho salutati,
ho augurato a Spazzoli un buon lavoro “Tanti auguri!”, ci siamo stretti la mano, i generali mi hanno
abbracciato, mi hanno stretto la mano (...) poi sono partito in bicicletta. (Werther Ferrini - 1983)
Andava dunque Werther in bicicletta, facendo da guida per l’ultimo tragitto ai tre generali. (…)
mentre marciava in testa, vide la strada bloccata dai tedeschi. Con una mano fece cenno ai
fuggiaschi di fermarsi, mentre lui avanzava con l’aria di chi va a curiosare. Steso in mezzo alla
strada c’era un morto. Chiese in dialetto ai presenti, e seppe che si trattava di uno sconosciuto
travolto da una macchina, in attesa del giudice italiano, i soldati tedeschi controllavano il traffico,
chiedendo i documenti a chi transitava sulla strada. Sempre fingendo di curiosare, Werther tornò dai
generali e avvertì O’Connor di tenersi pronti a passare, non appena avessero visto la strada libera.
Dopo di che si lanciò in bicicletta come un matto, facendosi largo tra la folla urlando, finché fu
vicino al morto e vide che era persona anziana. Allora si precipitò sul cadavere singhiozzando: “E
mi ba!… E mi ba!…” (…) La folla si accalcò, ci furono esclamazioni e grida, i tedeschi accorsero…
e i generali passarono indisturbati. (Da: 1943-45 : storie ai margini della storia / Anonimo
Romagnolo [Pietro (Rino) Spada]. – Milano, 1984)
A Forlì andammo a casa del signor Gardini ma dovemmo andarcene subito dopo cena, perché
all’improvviso venimmo a sapere che stava per essere ispezionato il magazzino; egli era sospetto sia
ai fascisti che ai tedeschi. (…) Fummo accolti allora da un altro buon amico, il signor Utile
[Domenico Utili] (…) Di qui andammo in un vero rifugio, una villa alla periferia di Forlì, di
proprietà del signor [Antonio] Spazzoli. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del
tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio
Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
I generali, a Forlì, furono alloggiati a casa di Antonio Spazzoli, dove rimasero
per sette giorni. Poi, da lì, sempre in bicicletta, si diressero verso la foce del
Savio, dove era stato stabilito il punto per l’imbarco. Anche questa volta
all’appuntamento non si presentò nessuno.
Il 24 mattina arrivarono da Pozzo Alto Ferguson e il capitano Spooner, sfiniti per il viaggio in
bicicletta, e in una sola tappa. Arrivò poco dopo, da Pesaro, l’ingegner R.[uggero] C.[agnazzo] su
una macchina da piazza (…) Lo accompagnava E.[zio] G.[alluzzi] di Cattolica, ricercato dalla
polizia per aver organizzato in quel porto il primo imbarco di R.C. Al cadere della notte giunsero
Neame, O’Connor e Boyd, pure in bicicletta provenienti da una casa colonica presso il torrente
Bevano, ci avviammo in direzione della costa, per una squallida contrada di bonifica, spesso
affondando nel fango e nell’acqua fino ai fianchi. Alle 22, giungemmo sul punto prestabilito, a nord
della foce, dove ci aspettavano due pescatori. (Bruno Vailati in: I generali inglesi clandestini a
Cervia / Giovanni Vicari. – Verrucchio : Pazzini, 1990)
Il 23 novembre andammo in bicicletta a Cervia, una pedalata di due ore, arrivammo al tramonto. Per
due ore e mezza camminammo verso la spiaggia, attraverso chilometri di palude e di viottoli
allagati. Una camminata terribile nel buio, con l’acqua fino alle ginocchia, in mezzo al fango che a
momenti strappava le scarpe. Sfortunatamente il punto che la “Forza A” aveva scelto per mandare la
nave era probabilmente il posto più controllato della costa adriatica. Tutt’intorno c’erano posizioni
militari tedesche, posti di osservazione e vedette. Di conseguenza ci dovemmo spostare in un punto
della costa un miglio e mezzo più in su e dovemmo mandare un ufficiale britannico e uno italiano al
largo con una barca a remi, all’appuntamento convenuto. Essi continuarono a lanciare i segnali
luminosi prestabiliti, ma senza risultato alcuno (…) alla luce incerta dell’alba (…) tornammo in
bicicletta a Cervia infreddoliti. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente
generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e
Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Ora io vidi questi ufficiali-generali, riferii loro del piano di salvataggio che si era concordato a Bari
con la “A” force, costoro furono portati a Milano Marittima all’albergo “Mare e Pineta” e
all’appuntamento del 24 ci recammo puntualmente alle foci del Savio con notevole disagio perché
faceva freddo, perché le foci del Savio sono una enorme palude, ecc. ed io andai in mare a fare i
segnali convenuti e non venne nessuno perché ci accorgemmo che era in corso una grossa manovra
antisbarco alla quale ci trovammo inopinatamente mescolati con aspetti grotteschi e drammatici al
tempo stesso come spesso accade nella vita. Cioè: noi in barca con un ufficiale inglese in divisa da
capitano – regolare: Kaki – facemmo dei segnali luminosi – (…) e vedendo delle [barche] che ci
passavano vicino gridando ordini in tedesco e credendo che fossimo dei loro, con degli slovacchi a
cavallo che correvano lungo la riva. Cose, ripeto, inenarrabili (…) Quindi ritornammo
faticosamente, bagnati, morti di freddo all’Hotel “Mare Pineta” attendendo l’appuntamento del 28 al
quale regolarmente non venne nessuno. (Dall’intervista di Roberto Maltoni a Bruno Vailati. Roma,
1976 – ISRFC 3/14 1539)
Il gruppo ritornò a Milano Marittima, dove si rifugiò nelle ville rimaste
abbandonate e attese il giorno del secondo appuntamento, il 28 novembre. Al
loro sostentamento provvide Ettore Sovera, proprietario dell’albergo Mare e
Pineta.
Fummo alloggiati in una villa disabitata a Cervia e ci fu mandato cibo da un albergo delle vicinanze,
di proprietà del signor Sovera [Ettore] (…) mentre stavamo nascosti in questa villa, una volta un
gruppo di tedeschi, in cerca di alloggio, vennero al cancello del giardinetto e stavano per entrare in
casa. Li distrasse la signora Tellesio [Gabriella Sanders, moglie di Giovanni Telesio] (…) attraversò
di corsa la strada, invitò i tedeschi a bere qualcosa in casa sua e poi li mandò a cercare alloggio
altrove. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In:
La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano :
Angeli, c1992)
In giornata, giunse sul posto una divisione germanica ippotrainata che requisì tutte le abitazioni
vacanti. Dopo aver cambiato alloggio per due volte, uscendo dalla porta posteriore pochi istanti
prima che i tedeschi forzassero gli ingressi principali, decidemmo finalmente di alloggiare gli
inglesi presso l’albergo Mare e Pineta, dove aveva sede la mensa tedesca e slovacca. Potettero per
vari giorni riposarsi tranquillamente. Il direttore amico sottraeva per loro, dalla mensa sottostante, i
piatti migliori. (Bruno Vailati in: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. –
Verrucchio : Pazzini, 1990)
Anche l’appuntamento del 28 andò a vuoto e il gruppo ritornò a Milano
Marittima. Da lì, i generali, affidati a Ferruccio Boselli, in contatto con i Gap di
Cesena, si diressero verso la campagna retrostante.
Il 28 notte ripetemmo l’operazione (…) ma senza miglior risultato. Tutta la notte fummo
disorientati dalle luci e dai razzi di una manovra aeronavale notturna nella quale ci trovammo
improvvisamente inseriti, colla nostra barchetta a remi. (Bruno Vailati in: I generali inglesi
clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. – Verrucchio : Pazzini, 1990)
Tornammo a Cervia e fummo nascosti in un’altra villa disabitata. Questa volta eravamo nel bel
mezzo di un’area dove erano acquartierati i tedeschi. Ci fu un altro allarme grave: qui, infatti,
proprio il giorno del nostro arrivo, l’ufficiale tedesco addetto agli alloggi venne proprio alla nostra
villa e bussò alla porta. (…) In questa occasione lo stesso signor Sovera stava in giro di
perlustrazione intorno alla villa per proteggerci. Andò dal tedesco e gli disse che, nel giro di un’ora,
gli avrebbe potuto procurare la chiave della villa, se i tedeschi fossero stati disposti a tornare più
tardi. (…) Venne carponi alla porta sul retro, entrò e disse: “Dovete andarvene immediatamente”.
(…) Prendemmo le biciclette, pedalammo lungo sentieri nella pineta dietro Cervia e lì restammo
acquattati all’erta fino a notte, quando fummo portati via in campagna, per rifugiarci in una casa di
contadini. In questa occasione la nostra guida fu un giovane comunista di Cervia, chiamato
[Ferruccio] Boselli (…) Boselli si fece carico di noi e si occupò dei nostri nascondigli. (Da:
Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e
i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
I Generali inglesi di pasaggio nel cesenate
Con i generali inglesi a Cervia che per alcuni giorni sostarono a Canuzzo [dai] Malucelli l'incontro
fu chiesto dal CLN di Cervia perche non erano in grado di procurare i documenti falsi un gruppo
GAP della 29 Brigata li prelevo nel mulino di Bagnile e li porto nel podere Sbrighi (dett. Palunzen)
l'incontro avvenne in un pomeriggio in mezzo ad un campo nella discussione fra inglesi e 2 GAP si
afronto il problema del imbarco alla foce del fiume Savio (il primo era fallito il sommergibile non
arrivo, Ecco la necessita dei documenti falsi per potersi spostare con un minimo di copertura). Sera
fatto tardi e la notte la passarono nella stalla della famiglia Sbrighi, alla mattina dopo furono
accompagnati da due GAP dal avv. Comandini che preparo foto e documenti falsi, la notte seguente
la passarono in casa di Otello Magnani, alla mattina volevano andare a Forlì da [Antonio] Spazzoli,
malgrado il parere contrario di alcuni uomini della 29 GAP e dello stesso Magnani. Giunti a Forli da
Spazzoli vi rimasero una giornata pero le cose erano cambiate e non si sentirono sicuri ritornarono a
Castiglione di Cervia per avere informazioni dal loro amico Boselli (comunista) che li nascose da
un contadino in attesa di essere imbarcati. Nel frattempo giunse a casa Fusconi un maggiore della
RAF nipote di Viston Ciorcil [Wiston L. S. Churchill] mi ricordo molto bene alla sera si ascoltava
Radio Londra e poi Radio mosca, 3 rulli di tamburo e poi una voce lontana annunciava proletari di
tutti i paesi unitevi, parla Mosca parla Mosca. l uficiale inglese si alzo in piedi gridando comunist
niente Bono, Bolsevich non bono, per noi era la prima volta che sentivamo da un inglese tanta
rabbia direi odio, naque una discussione con mio padre noi siamo comunisti e ti salviamo la vita e
lei ci ripaga con accuse infamanti. Il giorno dopo il maggiore fu accompagnato nella zona di
Castiglione dove erano nascosti i Generali e dopo pochi giorni si imbarcarono nei pressi di Cattolica
e raggiunsero le isole tremiti gia liberate dagl'alleati. Il maggiore dei comand nelle sue memorie
ringrazia il mare e pineta e tutti i cervesi che l'anno aiutato, ma in modo particolare il comunista
Boselli e Fusconi Alfredo di Ronta per tutto quello fatto per loro a rischio della loro vita e delle
famiglie stesse. (Firmato: I GAP della 29 Brigata G. Sozzi. Manoscritto di (Vittorio (Quarto)
Fusconi - 2001)
Per qualche giorno il gruppo rimase nascosto nella campagna al confine fra
Cesena e Cervia. Quindi ritornò nuovamente a Cervia. Neame e O’Connor
furono ospitati a casa di Ida Paganelli, Boyd all’Hotel Mare e Pineta. Lì, li
raggiunse nuovamente Vailati che li trasportò sino alla villa di Pietro Arpesella,
a Riccione, con un macchina presa a noleggio. I posti di blocco tedeschi vennero
agevolmente superati grazie ai documenti falsi che nel frattempo erano stati
preparati appositamente per loro.
Arrivammo in macchina, senza danni, a Riccione, passando posti di blocco tedeschi, rassicurati in
certo senso da false carte d’identità italiane che ci erano state procurate e da falsi permessi tedeschi
di possedere e guidare biciclette. In questi documenti eravamo descritti come impiegati di una
fabbrica di marmellata italiana che lavorava per il tedeschi [l’Arrigoni]. A Riccione abitammo in
casa del signor Arpesella. (…) La sua casa, nella quale stavamo nascosti, era a pochi metri, un
viottolo appena, dal Quartier generale tedesco. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario
del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio
Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Mentre i generali sono a Riccione, Vailati parte per Pesaro, dove Cagnazzo ha
acquistato una barca. I due sono raggiunti da Ferguson e Spooner ma il mattino
del 7 dicembre, mentre tutto è pronto per partire, dal porto arriva la notizia che
la polizia ha fatto piantonare la barca.
Un’ora dopo, la casa di R.[uggero] C.[agnazzo] fino a pochi istanti prima alloggio suo, di E.[lio]
G.[alluzzi] e mio, nonché dei due capitani inglesi, veniva perquisita e saccheggiata. Lasciammo
Pesaro come Dio volle, tra le maglie di una sorveglianza appositamente approntata, rinunciando a
servirci di quella base di imbarco. (Bruno Vailati in: I generali inglesi clandestini a Cervia /
Giovanni Vicari. – Verrucchio : Pazzini, 1990)
La seconda sera arrivò Cagnazzo (…) con la notizia che l’intero progetto era andato a monte (…)
Avevamo perso la speranza e decidemmo lì per lì di andare verso il Sud, a Cingoli, con Arpesella ed
un suo amico, l’avvocato Juliani [Celestino Giuliani]. Ci era stato detto che a Cingoli c’era una
stazione radio clandestina in contatto con le truppe alleate. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine
dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a
cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Venuti a conoscenza del fallimento del nuovo piano, i generali, su suggerimento
di Pietro Arpesella, decisero di andare a Cingoli, dove era funzionante un
collegamento radio con le truppe alleate. In compagnia di Vailati raggiunsero
Cingoli, con la stessa macchina a noleggio che avevano già utilizzato in
precedenza.
Il 10 dicembre prendemmo l’ardire di scendere in macchina a Cingoli ed avemmo un colloquio con
un colonnello italiano e col generale [Ettore] Ascoli, che stavano organizzando bande partigiane in
quella zona. Io stesso mandai un messaggio radio diretto al generale Montgomery per chiedergli di
mandare a porto Civita Nova una nave da guerra britannica per raccoglierci. Ancora una notte
trascorremmo tre notti scomodissime chiusi in una casa disabitata e il nostro soggiorno, proprio
sopra una stalla, puzzava orribilmente. Tutti noi avevamo avuto una brutta tosse e raffreddore (…)
fu proprio lì che ebbi il mio peggiore attacco. (Da: Autobiografia di un soldato : pagine dal diario
del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio
Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Vailati, che non aveva nessuna fiducia in quel tentativo, lasciati a Cingoli i tre
generali ritornò a Cattolica, dove riuscì ad accordarsi con il proprietario di un
motopeschereccio utilizzato per il contrabbando. Il 13 ritornò a Cingoli dove
espose ai generali il suo nuovo piano. Il 17 dicembre il gruppo è di nuovo a
Riccione, ospite di Arpesella, in attesa di imbarcarsi.
… lasciato il gruppo a Cingoli per ulteriori tentativi, tornai a Cattolica assieme ad E.[zio]
G.[alluzzi], che in quel porto aveva già organizzato nell’ottobre l’imbarco clandestino dell’ingegner
R.[uggero] C.[agnazzo]. La situazione locale, fortemente intorbidata in seguito all’episodio, era
venuta normalizzandosi. Al nostro arrivo, i controlli ai posti di blocco e nel porto non erano
maggiori di quanto non fossero altrove sulla costa, e la truppa tedesca in città ammontava appena a
un battaglione. Circostanza importantissima, i motopescherecci erano ancora autorizzati ad uscire
ogni mattina per la loro attività purché rientrassero al tramonto (…) All’uscita del porto veniva
effettuata un’ispezione pro forma dalla sentinella tedesca di guardia, ma di solito le barche non
venivano perquisite. (Bruno Vailati in: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. –
Verrucchio : Pazzini, 1990)
… ero venuto a conoscere un uomo di Cattolica che si chiamava Paolo Galluzzi il cui padre era
stato a capo di una lega di pescatori – chiaramente un antifascista – ritengo letteralmente comunista
della prima maniera, diciamo; anti lettera. Ora, Paolo Galluzzi era un uomo molto pratico, molto
organizzato e avendo contatto, appunto con i pescatori di Cattolica, da dove proveniva, mi disse che
accadeva spesso che barche di Cattolica uscite a pescare in Adriatico, invece di andare a pescare,
attraversavano il fronte, andavano dall’altra parte e portavano messaggi, portavano anche prodotti…
c’era una via di mezzo fra l’attività antifascistica e la borsa nera, diciamolo pure: tanto che Paolo mi
ebbe a dire: se vogliamo contrabbandare questi generali, lasciamo stare i militari e rivolgiamoci ai
contrabbandieri. Entrati in rapporto con questi pescatori, ci incontrammo a Rimini in casa di un
signore che si chiamava Arpesella di cui non so molto, credo fosse semplicemente un uomo d’affari,
una specie di padrino, diciamo. (Dall’intervista di Roberto Maltoni a Bruno Vailati. Roma, 1976 –
ISRFC 3/14 1539)
La mattina del 16 eravamo già pronti e in condizione di comunicare col capitano Ferguson e
Spooner a Pozzo Alto. In serata, inviammo a Cingoli un messaggio invitando il generale ed
R.[uggero] C.[agnazzo] a raggiungerci, cosa che essi fecero il giorno successivo, giungendo a
Riccione in serata. (Bruno Vailati in: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. –
Verrucchio : Pazzini, 1990)
All’ultimo momento sorse il problema di pagare il proprietario del
motopeschereccio, non c’era denaro sufficiente e fu Arpesella a provvedere,
anticipando la somma necessaria. La notte del 18 dicembre, Vailati andò a
prelevare i tre generali con il solito taxi e da Riccione, li accompagnò sino a
Cattolica, al porto, dove si imbarcarono, col favore di una fitta nebbia. Nella
stiva erano ad attenderli Cagnazzo e la moglie, Paolo Galluzzi, i due ufficiali
inglesi, Ferguson e Spooner, che avevano passato le linee per aiutarli nella fuga,
un soldato sudafricano, Macmullen, aggregatosi all’ultimo momento e il frate
camaldolese Leone Checcacci, che sin dall’inizio era stato messo al loro servizio
dal priore dell’Eremo di Camaldoli e che ora, divenuto sospetto ai fascisti,
fuggiva con loro per mettersi in salvo. La nave partì il mattino dopo, alle cinque,
e raggiunse Termoli, oltre la linea del fronte, alle 11 del 20 dicembre.
Nella zona di Rimini avemmo un colloquio con i generali, con questo Arpesella, c’era Cagnaccio il
quale aveva fallito il suo tentativo ed era rimasto bloccato di qua e si convenne di fare un tentativo
di imbarcare tutti sul peschereccio dal nome fatidico “Dux”. L’organizzazione che curava tutto
questo, che aveva interessi non indifferenti nel contrabbando delle sigarette chiese un compenso.
Compenso che non si poteva pagare per mancanza di mezzi, ma i generali inglesi firmarono una
cambiale che rappresentava il prezzo di questa operazione. (Dall’intervista di Roberto Maltoni a
Bruno Vailati. Roma, 1976 – ISRFC 3/14 1539)
... il generale di corpo d’armata Niam [Neame], il generale Boy [Boyd] e il generale O’Cornell
[O’Connor] arrivarono a casa mia non in divisa ma con abiti civili inglesi. Dopo un primo tentativo
di fuga miseramente fallito per carenze di organizzazione dell’Intelligence inglese, dopo un paio di
giorni il tentativo fu rinnovato. Privi di notizie dal Comando degli Alleati, abbandonammo l’idea
del trasferimento tramite l’aiuto dei loro mezzi e decidemmo il tutto per tutto. Prendendo in affitto
un peschereccio a Cattolica per centoventimila lire, che fui io a versare. Venne decisa
immediatamente la data di partenza, ma avremmo dovuto attendere anche un frate di Camaldoli e
due persone amiche dell’ebreo che doveva accompagnare i generali. Quindi il trasferimento non
sarebbe più stato limitato ai tre generali, bensì a sette persone in tutto. Di certo non dimenticherò la
data del ventisei gennaio 1944 [?], il giorno dell’operazione, trasferimento via mare da Riccione
verso Sud. Con la nebbia che impediva di distinguere un qualsiasi oggetto a due metri di distanza, a
passo duomo e con il cuore in gola, lentamente, con tanto timore, raggiungemmo il porto-canale di
Cattolica, a bordo di due macchine. (…) I momenti più drammatici furono quelli dell’imbarco sul
peschereccio, poiché il controllo dei natanti di transito si effettuava a soli sessanta metri dalla
guardia tedesca, armata di mitraglie. Si trattava di un militare nazista che si trovava nella garitta, al
controllo del traffico dei natanti in entrata ed in uscita dal porto–canale. Il fermo o il lasciapassare si
eseguiva a voce: il comandante annunciava il nome del peschereccio, ed era facoltà del militare
fermare per l’ispezione oppure dare il benestare. (…) fui rimborsato delle spese sostenute per il nolo
del peschereccio, ma solo tre anni dopo e senza interessi. (Da: Diario di bordo : intervista a Pietro
Arpesella / Giuseppe Chicchi. – [Rimini?] Pietroneo Capitani, 2000)
Il 17 dicembre tornammo a Riccione, nella villa di Arpesella, (…) Una volta arrivati scoprimmo
che, dopo tutto, i piani di Bruno Vailati non erano così avanti come avevamo pensato. Ero furioso
per esser stato trascinato via da Cingoli, proprio mentre stavo aspettando una risposta al mio
messaggio radio a Montgomery. Proprio per questa ragione trovai molto difficile persuadere
O’Connor a tornare al Nord. Ciò nonostante decisi di rischiare il tutto per tutto e di imbarcarci
immediatamente. Non potemmo farlo il 17 dicembre perché non riuscii a trovare il danaro per
pagare il capitano italiano della nave. Comunque la mattina successiva il signor Arpesella arrivò
col denaro: 100.000 lire. Cagnazzo cercò di dissuadermi dal salire su quella barca. Lui e Vailati
erano violentemente in disaccordo al riguardo. (…) ma il capitano del peschereccio fu portato al
mio cospetto e mi piacque. (…) Presi subito tutti gli accordi perché potessimo salire a bordo (…)
Mi piacque anche il modo con cui il capitano ci mise di fronte tutti i rischi, le difficoltà e la
franchezza con cui confessò di non conoscere né la navigazione né la costa verso il Sud. Mi fidai
fino al punto di consegnargli lì per lì 100.000 lire; anche se questo suscitò la perplessità di alcuni
dei presenti. Quella sera avemmo il sospetto che qualcosa fosse andato storto di nuovo: l’accordo
era che un taxi sarebbe venuto a prelevarci alle 18,30, invece non arrivò che alle 20,40. Io,
O’Connor e Boyd passammo due ore di attesa angosciosa. Alla fine uscimmo nel buio,
raggiungemmo il porto di Cattolica, dopo essere stati fermati ad un posti di blocco tedesco e dopo
che le nostre carte furono esaminate, e uscimmo dalla macchina ad un miglio dalla nostra nave. Al
momento di separaci dal nostro piccolo, coraggioso taxista che ci stava scarrozzando a Nord e a Sud
per lunghi viaggi e per molti giorni, con mio grande imbarazzo egli ci abbracciò e ci baciò sulle
guance. Questo taxista, dopo la nostra fuga, fu tradito ed arrestato; il suo nome era Alfredo Lisotti.
Torturato brutalmente dai fascisti e dalla gestapo non aprì bocca. Rilasciato all’arrivo delle forze
alleate, morì subito dopo [a Pennabilli, il 26 dicembre 1944] per il trattamento subito. (Da:
Autobiografia di un soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e
i generali inglesi : 1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)
Passammo la mattina del giorno 18 a concordare con gli inglesi le modalità dell’imbarco (…) Verso
le 18, già in piena oscurità, partii in macchina col solito autista Lisotti, per caricare i due inglesi di
Pozzo Alto. Passai in precedenza presso Pesaro per raccogliere il camaldolese padre Leone
[Checcacci] in un monastero che lo aveva fin’allora ospitato. (…) Giungemmo verso le 20,30 ai
sobborghi di Cattolica dove gli inglesi e l’ecclesiastico furono affidati a che li accompagnò al porto
e li fece cautamente scivolare nella barca deserta. Intanto io proseguivo verso Riccione per
raccogliervi i tre generali. Durante la mia assenza salirono a bordo anche l’ingegner R.[uggero]
C[agnazzo]. con la moglie e un fortunato caporale australiano capitatoci tra le mani all’ultimo
momento. A Riccione ero atteso con estrema ansietà (…) partimmo alla volta di Cattolica intorno
alle 21, quando mancava solo mezz’ora al coprifuoco. (…) trovammo Galluzzi ad attenderci (…)
Raggiungemmo il peschereccio a due a due, quasi a carponi, senza prender fiato, mentre dalla
baracca sulla sponda opposta del canale sentivamo le voci metalliche degli uomini di guardia. Nel
sottoponte della barca, umido e buio, raggiungemmo i nostri compagni di viaggio in attesa
convulsa. (Bruno Vailati in: I generali inglesi clandestini a Cervia / Giovanni Vicari. – Verrucchio :
Pazzini, 1990)
Salimmo a bordo carponi e scivolammo giù dentro quello che aveva l’aspetto dei bassifondi di
Calcutta e restammo lì, sdraiati la notte nel cubicolo di quella nave, di quel peschereccio di
cinquanta piedi. Il nostro gruppo di rifugiati comprendeva due generali e un maresciallo dell’aria,
due ufficiali britannici (Ferguson e Spooner), un soldato sudafricano (Macmullen), il signor
Cagnazzo e la moglie, il tenente Bruno Vailati, il signor Galluzzi (…) e per finire padre Leoni
[Leone Checcacci] che stava scappando dai fascisti, dopo aver aiutato i prigionieri britannici per
molti mesi. Dopo una notte fredda e senza pace (…) alle cinque di mattina del 19 dicembre udii il
suono più dolce che si possa immaginare, quando un membro dell’equipaggio italiano mise in moto
i motori Diesel e la nave avanzò lentamente verso l’entrata del porto. (Da: Autobiografia di un
soldato : pagine dal diario del tenente generale Philip Neame. In: La Romagna e i generali inglesi :
1943-1945 / a cura di Ennio Bonali e Dino Mengozzi. – Milano : Angeli, c1992)