continua... - Il lavoro sul film

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continua... - Il lavoro sul film
Antonio Costa
Investire in immagini: cinema e intertestualità
I manuali fissano la data di nascita dellʼintertestualità alla fine degli
anni Sessanta, con due articoli di Julia Kristeva, apparsi nel 1969 sulla rivista «Tel Quel»1, con referenze nobili allʼopera di Bachtin. Testi
che saranno ripresi subito dopo nel volume Semeiotiké2, cui fa seguito
nel 1970 il saggio Le texte du roman3. Deriva da qui la nozione di
competenza intertestuale messa allʼopera da Umberto Eco a partire da
Lector in fabula4.
Il termine ha avuto subito enorme fortuna. Lo usa Roland Barthes
seguito, a ruota, da Antoine Compagnon nel suo La seconde main ou le
travail de la citation5. E ancora Gérard Genette nel suo Palimpsestes,
che ha come sotto titolo La littérature au second degré6. Come avveniva allʼepoca dello strutturalismo, non si faceva grande distinzione
tra media, contesti e supporti; come non si faceva grande differenza
tra termini come testo, scrittura e intertestualità, che venivano usati in
tutti i campi. Spesso, ad usarli, erano studiosi come Barthes o Eco, che
usavano gli stessi strumenti per analizzare testi letterari molto complessi o banalissimi messaggi pubblicitari. Ne è passato del tempo.
Ancora nel 1976 Michel Marie, nel testo Analyse textuelle del collettivo Lecture du film, poteva discorrere indifferentemente di linguaggio
1
Julia Kristeva, Pour une sémiologie des paragrammes (1967) e Bakhtine, le mot, le dialogue et le roman (1967).
2
Julia Kristeva, Semeiotiké: recherches pour une semanalyse, Seuil, Paris. 1969 (tr. it.
Semeiotiké. Ricerche per una semanalisi, Feltrinelli, Milano, 1978, pp. 119-170).
3
Julia Kristeva, Le texte du roman: approche sémiologique dʼune structure discoursive
transformationnelle, Mouton, The Hague, 1970.
4
Umberto Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi,
Milano, Bompiani, 1979.
5
Antoine Compagnon, La seconde main ou le travail de la citation, Seuil, Paris, 1979.
6
Gérard Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Seuil, Paris, 1982 (tr. it.
Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino, 1997).
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cinematografico e di scrittura filmica7. Oggi Alberto Abruzzese, nel
suo recentissimo Lessico della comunicazione, si sente invece in dovere di distinguere tra scrittura audiovisiva, intesa come operazione
relativa alla sceneggiatura che precede la produzione di un testo audiovisivo, e scrittura audiovisiva, intesa come «operazione grazie alla
quale si otterranno la specifica forma della composizione in cui lo stile
della scrittura è stato sostituito da un intero apparato di produzione del
cinema e della televisione»8.
Quasi senza accorgercene, ci siamo spostati in Italia e decisamente
verso il cinema e verso lʼaudiovisivo. Qui bisogna partire, come sempre, dalle lettere classiche. Al liceo, il mio vecchio professore di italiano e latino – in realtà era giovanissimo… non aveva ancora fatto
il servizio militare – ci parlava di critica delle fonti che di lì a poco
avremmo studiato allʼuniversità. Non sapeva che stava già parlando
di intertestualità, anche se non scordava di citare Croce, che diceva
«studiare unʼopera letteraria nelle sue fonti è una vera e propria contraddizione in termini: quando unʼopera cʼè non si risolve nelle fonti, e
quando si risolve nelle fonti, significa che lʼopera non cʼè».9
Sarà perfettamente inutile, temo, spiegare questi concetti al nugolo di
cinefili che appena usciti dalle proiezioni di B movies italiani allʼultima
Mostra del Cinema di Venezia (2004), stabilivano una rete di collegamenti intertestuali tra le opere di Tarantino e Castellari, tra Joe Dante e
Mario Bava. A chiarire a tutti le idee ci ha pensato di lì a poco Marco
Müller che, da gran patron della cerimonia di chiusura della Mostra, ha
offerto agli italiani, in diretta dal palcoscenico della rinata Fenice, un
esempio di deriva intertestuale, che il più dotato degli sceneggiatori, o il
più spericolato dei teorici del trash non sarebbero riusciti a pensare. Ecco
In Antonio Costa (a cura di), Attraverso il cinema. Semiologia, lessico, lettura del film,
Longanesi, Milano, 1978, pp. 7-16.
8
Alberto Abruzzese, Lessico della comunicazione, Meltemi, Roma, 2003, p. 525.
9
Benedetto Croce, La ricerca delle fonti, in Problemi di estetica, Laterza, Bari, 1910;
citato in Marina Polato, Lʼintertestualità, Laterza, Bari, 1998, p. 26.
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come sono andate le cose: Joe Dante cita tra i principi dei B movies Enzo
G. Castellari, e la pur brava traduttrice, dopo un momento di panico, traduce Castellari in Castellitto. Una improvvida voce off la corregge subito
in Castellani. E la cerimonia può felicemente proseguire. A questo punto
mi domando cosa abbia capito il povero spettatore medio, già vituperato
a suo tempo, per essere passato con troppa disinvoltura dai Due soldi di
speranza di Castellani (1951) a Cipolla Colt di Castellari (1976), e oggi
ridotto a incrementare lo share degli sceneggiati televisi su Padre Pio,
interpretati da Sergio Castellitto…
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Come si è arrivati allʼattuale interesse per lʼintertestualità, dopo anni,
se non addirittura decenni, in cui si è lavorato sul concetto di autosufficienza del testo? Il ritorno dʼinteresse verso lʼintertestualità ci riconduce al concetto di storicità del testo, al legame tra testo e contesto,
e attribuisce una nuova e importante funzione allo spettatore, cui è
richiesto di attivare relazioni esplicite e implicite.
Ho già affrontato questa problematica a proposito delle citazioni
letterarie nel cinema, cioè a proposito di unʼintertestualità che ingloba nel corpo dellʼimmagine la parola letteraria10. In questa occasione,
cercherò di affrontare la questione opposta, vale a dire la presenza
dellʼimmagine cinematografica (citazione, allusione, calco eccetera)
nel testo letterario. Non senza aver precisato che la letteratura è spesso
fonte preziosissima per lo storico e il teorico del cinema.
Parafrasando Compagnon si potrebbe dire che nella citazione
cinematografica in un testo letterario cʼè il tentativo di riprodurre
nella scrittura la passione del vedere: insomma è come se la scrittura-lettura volesse eccedere dai suoi limiti, sollecitare il ricordo,
lʼincanto e lʼemozione della visione filmica, tematizzare i processi
Cfr. Antonio Costa, Nel corpo dellʼimmagine, la parola: la citazione letteraria nel cinema, in Ivelise Perniola (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Marsilio,
Venezia, 2002, pp. 33-48.
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di identificazione e modelli di comportamento indotti dal cinema.
La citazione del cinema in letteratura comporta sempre una chiamata in causa (citare è alla lettera un chiamare in causa, come ci insegnano i dizionari di etimologia) della relazione tra scrittura, lettura
e visione (cinematografica). Dinamiche e tensioni tra questi tre piani
sono diventate temi centrali degli studi semiotici sul cinema (nelle sue
relazioni con la letteratura) a partire dagli anni settanta.
Esaurita la prima fase degli studi semiotici (1964-1971), il cui oggetto centrale è stato il linguaggio cinematografico e, di conseguenza, soprattutto i codici (codici specifici e non specifici), lʼattenzione si
sposta sul film come testo, al fine di comprendere i meccanismi e le
dinamiche che definiscono i singoli film o gruppi di film11. È in questo
ambito che si è sviluppata la problematica della scrittura, intesa come
principio dinamico di funzionamento del testo filmico, che vive e si
sviluppa attraverso un gioco complesso di conformità e di opposizione
ai codici del linguaggio filmico. Parallelamente, grazie ai contributi
di studiosi di scuola metziana che si sono occupati dei rapporti tra
tecniche narrative cinematografiche e tecniche narrative letterarie, si è
lavorato sui principi dinamici di funzionamento dei testi letterari nelle
relazioni con altri codici e altri linguaggi12.
Attraverso il lavoro sul concetto di scrittura (sia letteraria che filmica), sul cui sviluppo è stato determinante l’influsso esercitato da
Derrida, si è cercato un superamento del logocentrismo e del fonocentrismo della linguistica strutturale, da cui derivava l’impostazione
di tutta la prima semiotica del cinema13. In una prospettiva del genere
si collocano i lavori di Marie-Claire Ropars-Wuilleumier, in cui il
concetto di scrittura filmica è implicato più negli aspetti dinamici e
11
Christian. Metz, Langage et cinéma, Librairie Larousse, Paris, 1971 (tr. it. Linguaggio
e cinema, Bompiani, Milano, 1977).
12
Cfr. Antonio Costa, Immagine di unʼimmagine. Cinema e letteratura, Utet Libreria,
Torino, 1993, pp. 17-44; Silvestra Mariniello (a cura di), Intermédialité et cinéma, in
«CiNéMAS», vol X, n. 2-3, 2000, pp. 7-202.
13
Cfr. Dominique Château, Cinéma et philosophie, Nathan, Paris, 2003.
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instabili di traccia che in quelli sistematici e statici di segno linguistico14.
Ma l’idea derridiana di scrittura come traccia, come luogo in cui si manifestano le tensioni verso un superamento della linearità della catena
fonematica della linguistica, è stata feconda soprattutto nell’analisi di
testi letterari collocabili in un’area prossima al cinema o in genere alle
performing arts: mi limiterei in questo ambito a citare i saggi di RoparsWuilleumier raccolti in Écraniques, libro che porta il significativo sottotitolo Le film du texte, nel quale troviamo un’analisi “filmica” di testi
letterari, in particolare di quelli che Ropars chiama romanzi postmoderni (tra questi mette ad esempio Neige noire di Hubert Haquin15). Su una
linea analoga si collocano le analisi di Jeanne Marie Clerc di Été indien
di Claude Ollier oppure di Tryptique di Claude Simon16.
Una collocazione a parte spetta a un saggio di Gianni Celati sulla prosa di Beckett, nel quale viene chiamato in causa il principio di
costruzione delle gag della slapstick comedy per definire il tentativo
della scrittura beckettiana di fuoriuscire dalla meccanica ripetitività
(linearizzazione) e dalla chiusura della rappresentazione (monumentalizzazione) del testo letterario e di aprirsi al movimento, alla corporeità, al gesto17. Il richiamo al cinema e alla grande stagione dei
comici americani (Buster Keaton, Laurel & Hardy, i fratelli Marx)
acquista un particolare significato in rapporto a uno scrittore come
Beckett approdato, fatalmente si direbbe, alla realizzazione di unʼopera cinematografica (Film, Alan Schneider, 1965), estremo omaggio
alla maschera Buster Keaton che ne è il protagonista, ma anche punto
Cfr. Marie-Claire Ropars-Wuilleumier, Le texte divisé, PUF, Paris, 1981 e Écraniques.
Le film du texte, Presses Universitaires de Lille, Lille, 1990.
15
Hubert Haquin, Neige noire, édition critique établie par Pierre-Yves Macquais,
Bibliothèque Québécoise, Montréal 1997 (sui rapporti tra scrittura letteraria, scrittura
filmica e relazioni intertestuali in Haquin, alla luce dei lavori della Ropars-Wuilleumier,
cfr. Introduction, pp. LV-LXXXVIII).
16
Jeanne-Marie Clerc, Littérature et cinéma, Nathan, Paris, 1993.
17
Gianni Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione comicità e scrittura, Einaudi, Torino,
1975, pp. 53-80. Dʼaltra parte Celati ha compiuto in quanto narratore operazione dello
stesso tipo a partire da Comiche, Einaudi, Torino, 1971.
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di approdo di una scrittura programmaticamente tesa alla fuoriuscita
dai limiti del testo18.
In realtà, lʼidea di unʼinterazione tra scrittura e visione ha nutrito
unʼintera stagione di studi narratologici, nel cui ambito il concetto di focalizzazione (ovvero di gestione del punto di vista narrativo, cioè del vedere e del sapere del narratore e dei personaggi) denuncia, fin dalla scelta
del termine derivato esplicitamente dallʼottica, la sua origine visiva, se
non direttamente cinematografica. Tanto è vero che in questo ambito si
registrano vari tentativi di elaborare una narratologia comparata19.
Indubbiamente, dallʼavvento del cinema in poi, la letteratura ha
subito lʼinflusso del modello cinematografico, della narrazione per
immagini in movimento. Può capitare anche che determinati procedimenti descrittivi e narrativi siano definiti da critici o teorici della letteratura attraverso metafore cinematografiche: si può citare, al proposito, unʼanalisi di Eco dellʼincipit dei Promessi sposi in cui la famosa
descrizione di «quel ramo del lago di Como» viene definita nei termini
di un complesso movimento di zoom20; oppure una curiosa espressione di Genette che, a proposito di Balzac, parla del «procedimento
della carrellata in avanti»; e del resto proprio allo scrittore francese
è stato dedicato un pregevole studio dal titolo Balzac cinéaste21. Ciò
non significa ovviamente che gli autori citati intendano attribuire a
romanzieri ottocenteschi lʼinvenzione dello zoom, del travelling o di
altre tecniche cinematografiche. Significa solo che la metafora cinematografica può servire perfettamente a visualizzare un rapporto tra
personaggio, narratore e mondo circostante, secondo un procedimento
Samuel Beckett, Film, tr. it. Einaudi, Torino, 1985.
François Jost, Lʼœil-caméra. Entre film et roman, Presses Universitaires, Lyon, 1987;
Seymour Chatman, Coming to Terms: The Rhetoric of Narrative in Fiction and Film,
Cornell University Press, Ithaca, N.Y., 1990.
20
Umberto Eco, Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano, 1985 p. 253.
21
Cfr. Gérard Genette, Nouveau discours du récit, Seuil, Paris, 1983 (tr. it. Nuovo discorso del racconto, Einaudi, Torino, 1987, p. 59); Anne-Marie Baron, Balzac cinéaste,
Klincksieck, Paris, 1990.
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che mette in funzione quelle che Eco ha chiamato «sceneggiature intertestuali visive»22 e che è riscontrabile sia nella prosa di un narratore
che in quella di un critico, non meno che nellʼattività di cooperazione
testuale del lettore. Il cinema eredita dalle grandi macchine narrative dellʼOttocento tutto un insieme di strategie visive e visionarie e le
mette allʼopera grazie alle nuove possibilità tecniche. Del resto, nella
narrativa ottocentesca, non mancano esempi di prefigurazione del dispositivo cinematografico: da ricordare LʼÈve future (1886) di Villiers
de lʼIsle-Adam, in cui uno dei personaggi è addirittura Thomas A.
Edison, inventore del kinescopio e del fonografo; oppure Le château
de Carpathes (1892) di Jules Verne, il cui protagonista rievoca lʼimmagine e la voce della donna amata attraverso un dispositivo che combina la fantasmagoria di Robertson con il fonografo di Edison23.
Delle varie forme di intertestualità classificate da Genette come
allusione, citazione, implicazione, e simili, mi interessa in questa
fase della mia ricerca il fatto che esse funzionino come passwords,
come segnali di riconoscimento, come lasciapassare. Farò subito
qualche esempio. Il primo è da Minority Report (Id., 2002) di Steven
Spielberg, in particolare una sequenza, quella in cui John Anderton,
interpretato da Tom Cruise, ha il contatto con il suo fornitore di droga.
Questʼultimo, attribuendo la frase a suo padre, dice: «In the land of the
blind the one-eyes man is king». Che significa: nella terra dei ciechi,
chi è guercio è re. Si tratta di una citazione da The Country of the Blind
di Wells, uno dei più inquietanti racconti di fantascienza mai scritti24.
In questo caso, il punto è capire cosa significhi individuare questo riferimento. Però, prima vorrei completare gli esempi. Il secondo è tratto
da Fahrenheit 451 (Id., 1966) di Truffaut: lʼesempio non è casuale, e
lo vedremo fra poco. Siamo nel momento in cui la Old Lady risponde
Umberto Eco, Lector in fabula, cit., p. 59.
Max Milner, La fantasmagorie. Essai sur lʼoptique fantastique, PUF, Paris, 1982 (tr. It.
La fantasmagoria. Saggio sullʼottica fantastica , Il Mulino, Bologna, 1989).
24
Herbert G. Wells, Il paese dei ciechi in Racconti, Garzanti, Milano, 1985, pp. 233-259.
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alla domanda del pompiere su che cosa rappresentino per lei tutti quei
libri. Lei risponde «Questi libri erano vivi e mi hanno parlato». Che
altro non è che una ripresa da I libri della mia vita di Henry Miller,
libro amato da Truffaut che userà proprio questa frase nellʼesergo del
suo libro I film della mia vita25 (il cui titolo è ricalcato su quello di
Miller). Unʼallusione a un testo letterario, dunque. Però, non esiste solo
la relazione tra testo audiovisivo e testo letterario, poiché, senza cambiare sequenza, vi sono due riferimenti alla competenza intertestuale
(propriamente filmica) dello spettatore. Osserviamo golfino e taglio
dei capelli della Old Lady: ricalcano pettinatura e abbigliamento di
Bette Davis, bibliotecaria in Storm Center (Al centro dellʼuragano,
1956) di Daniel Taradash, film che Truffaut aveva molto amato. La
bibliotecaria interpretata da Bette Davis, messa sotto inchiesta e rimossa dal suo incarico per aver fatto leggere a uno scolaretto dei libri
sul comunismo, ha ispirato il personaggio della Old Lady che sceglie,
in nome della libertà, di finire sul rogo assieme ai suoi amati libri.
Nello sviluppo della sequenza, vediamo delinearsi unʼaltra allusione
cinematografica: il rogo di Giovanna dʼArco, quello di Rossellini, piuttosto che quello di Dreyer. Per chiudere il cerchio, ricorderò che in
Minority Report, Spielberg cita con ogni evidenza proprio Fahrenheit
451 quando fa calare dallʼalto gli uomini della squadra anti-crimine
esattamente come i pompieri allʼattacco degli hommes-livres.
È evidente che il reperimento di tali “fonti” non comporta, per
quanto esse siano più che plausibili, alcuna legittimazione o attribuzione di valore estetico. Oltre tutto i film citati possono essere compresi
e anche apprezzati senza riconoscere tali “fonti”. Ma il loro riconoscimento attiva una serie di collegamenti che possono illuminare certi
aspetti della genesi di unʼopera e, soprattutto, diventare segnali di un
reciproco riconoscimento di autore e spettatore. Emerge così quella
coscienza di appartenenza a una comunità, secondo quellʼidea, cenFrançois Truffaut, Les films de ma vie, Flammarion, Paris, 1975 (tr. it. I film della mia
vita, Marsilio, Venezia, 1978).
25
24
trale nellʼestetica contemporanea, dellʼesperienza estetica come dispiegamento della capacità dellʼoggetto estetico di “fare mondo”, di creare
comunità26. Da uno studio approfondito della politica degli autori non
può non risultare che lʼaspetto più moderno di tale “metodo critico” sta
non tanto nel primato dellʼautore come padre-padrone dellʼopera, quanto
in questa affermazione del sentimento di appartenenza derivato non tanto
da un supposto giudizio oggettivo sulla struttura dellʼopera, quanto dalla
radicale soggettività che si manifesta nei rituali della cinéphilie27.
Nel corpo della parola, lʼimmagine
Ma torniamo alla questione delle citazioni del cinema in letteratura.
Per costruire una tipologia delle citazioni cinematografiche in un testo
letterario occorre inevitabilmente fare riferimento alla complessità e
alla varietà di fenomeni che sono compresi sotto il temine cinema. Per
non parlare della varietà di accezioni in cui viene usato il termine citazione nei vari contesti. Facendo unʼautocritica, devo ammettere che
noi cinefili siamo tra coloro che più abusano della parola “citazione”
e la usiamo anche là dove un teorico della letteratura come Genette
userebbe tutta una serie di termini con differenti sfumature, dalla allusione alla citazione vera e propria, al plagio e alla parodia28.
Il cinema può essere citato attraverso un film. È quanto fa ad esempio Helen Dewitt in The Last Samurai29, romanzo nel quale, a essere citato, è il film Shichi nin no samurai (I sette samurai, 1954) di
Kurosawa. Esso viene citato in quanto tale, per la vicenda che racconta
e per i personaggi che mette in scena. Si tratta di un testo filmico di cui
26
Si veda Gianni Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano, 1989, pp. 90-91.
Nellʼelaborazione di tali idee, Vattimo fa esplicito riferimento allʼermeneutica ontologica
di Hans Georg Gadamer e in particolare a Wahreit und Metode, Mohr, Tubingen, 1965 (tr.
it. Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1983).
27
Cfr. Antoine de Baecque, La cinéphilie. Invention dʼun regard, histoire dʼune culture
1944-1968, Fayard, Paris, 2003; vedi anche Id., Les Cahiers du Cinéma. Histoire dʼune
revue, tomo I, À lʼassaut du cinéma, Cahiers du cinéma, Paris, 1991, pp. 48-49 e passim.
28
Gérard Genette, Palinsesti, cit.
29
Helen Dewitt, Lʼultimo samurai, tr. it. Einaudi, Torino, 2002.
25
viene evidenziata la funzione di modello comportamentale, una delle
funzioni più evidenti e meglio indagate del cinema. La protagonista,
Sibylla, vive da sola con il figlioletto Ludo, al quale ha deciso di non
rivelare lʼidentità del padre. Perché il bambino possa avere dei modelli
di comportamento virile, Sibylla gli mostra, almeno una volta alla settimana, il film di Kurosawa: ed è questo che differenzia lʼuso di questo
testo audiovisivo dagli innumerevoli testi che il bambino superdotato
legge in lingua originale (dalla Bibbia a Omero) fin dalla più tenera
età. Tuttavia, non esiste una vera e propria interazione tra il piano della
scrittura letteraria e quello della scrittura filmica. La Dewitt sembra
avere del film una concezione puramente referenziale, al punto che
quando deve riferirsi a un passo preciso di I sette samurai, ricorre a
una trascrizione della sceneggiatura; non tenta, cioè, alcuna forma di
“ricreazione letteraria”30, ma cita direttamente la sceneggiatura. Per
esempio, nel capitolo 7 della parte II (pp. 159-161), vengono riportati brani del soggetto originale del film, passando dalla narrazione in
prima persona alla scrittura in terza persona della sceneggiatura (differenziata per lʼuso del corsivo). Ecco un esempio:
[...] Mi guardo una cassetta finché non si alza.
40 briganti, in Giappone, si fermano su una collina ai piedi della quale
sorge un villaggio. Decidono di saccheggiarlo dopo la mietitura dell’orzo. Un contadino li sente31.
Il cinema può venire citato per una sua particolare stagione, per
unʼepoca particolarmente felice o ricca di fascino singolare. Quando il
narratore (o meglio la narratrice) di Myra Breckinridge di Gore Vidal si
30
Riprendo il termine usato da Gina Lagorio, Il decalogo di Kieslowski. Ricreazione narrativa, Piemme, Casale Monferrato, 1992 (si tratta di un interessante caso di narrazione
letteraria di unʼopera cinematografica).
31
Helen Dewitt, Lʼultimo samurai, cit. p. 159.
26
dichiara perfettamente dʼaccordo con la tesi di Myron secondo il quale
«i film dal 1935 al 1945 compreso hanno segnato il culmine della cultura occidentale, compiendo ciò che ebbe inizio nel teatro di Dioniso
il giorno in cui Eschilo parlò per la prima volta agli Ateniesi»32, viene
citato lʼetà dʼoro del cinema hollywoodiano e viene citato il cinema
come istituzione sociale totale, in termini che sembrano echeggiare in
forma iperbolica le tesi dei “giovani turchi” dei «Cahiers du cinéma».
Più complesso è il caso di romanzi come Triste, solitario y final
di Osvaldo Soriano o Il libro delle illusioni di Paul Auster, nei quali
si realizza un amalgama di realtà e finzione, o meglio le convenzioni
della finzione romanzesca sono messe al servizio di una finzione di
secondo grado33. Nel romanzo di Soriano i protagonisti sono eroi della
finzione letteraria e cinematografica. Philip Marlowe, il personaggio
creato da Raymond Chandler, e Stan Laurel, lʼattore che diede vita
con Oliver Hardy a una delle coppie più celebri del cinema comico
americano. Storia del cinema e finzione (letteraria e cinematografica)
diventano tuttʼuno. In Il libro delle illusioni di Paul Auster, il protagonista è un attore, Hector Mann, una star del cinema muto di pura invenzione di cui però viene fornita filmografia e reperibilità delle copie
nelle varie cineteche di tutto il mondo: egli viene presentato assieme a
personaggi reali della storia del cinema come Chaplin, Harry Langdon
e Buster Keaton. In altri casi invece la scrittura letteraria serve semplicemente a ripercorrere il fascino delle più celebri storie narrate, come
accade per esempio in Il bacio della donna ragno di Manuel Puig34.
Di particolare interesse, soprattutto per uno storico del cinema,
sono quei testi letterari in cui viene descritta lʼesperienza della visione filmica, le reazioni di uno spettatore o di un gruppo di spettatori.
Ho già avuto occasione di fare riferimento, in uno studio sulla nascita
Cfr. Gore Vidal, Myra Breckenridge, tr. it. Bompiani, Milano, 1969, p. 41.
Cfr. Osvaldo Soriano, Triste, solitario y final, tr. it. Einaudi, Torino, 1978; Paul Auster,
Il libro delle illusioni, tr. it. Einaudi, Torino, 2003.
34
Manuel Puig, Il bacio della donna ragno, tr. it. Einaudi, Torino, 1978.
32
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27
della teoria cinematografica, a famose pagine della letteratura novecentesca in cui sono descritte sale cinematografiche e le reazioni degli
spettatori, e sono fornite interpretazioni sul significato dellʼesperienza
filmica: da Thomas S. Eliot a Thomas Mann, da Giovanni Papini a
Robert Musil35. Vorrei citare in questa occasione un passo di un romanzo italiano la cui fama è ormai legata, più che al successo popolare avuto allʼepoca della sua uscita, al film di Max Ophüls che ne è
derivato: La Signora di tutti di Salvator Gotta36.
Il romanzo, torbido melodramma passionale, racconta lʼimpareggiabile vicenda di una giovane donna, Chicchi, amata contemporaneamente
da un suo coetaneo, Roberto, e dal padre di lui, Leonardo. In una sala
cinematografica di Casale Monferrato, si ritrovano le tre persone che più
erano state vicine a Chicchi, ora diventata Vera Star, diva del cinema
internazionale: Leonardo, lʼuomo che per lei si è rovinato ed è finito in
prigione; Roberto, figlio di Leonardo, lʼaltro uomo che la ha amata e che
ha avuto il proprio padre come rivale in amore, Nicchi, sorella di Chicchi
e ora moglie di Roberto. Sono tutti e tre assieme nella sala buia, soggiogati dal fascino, dal mistero della diva, familiare ed estranea a un tempo.
Lʼautore li descrive «rassegnati, più che tranquilli», bisognosi di toccarsi,
di tanto in tanto, «per non sentirsi soli»37. Ma è nella celebrazione-agnizione dellʼeroina che Gotta definisce lʼambiguo statuto della diva. Da
una parte ella partecipa di una sorta di energia vitale, di forza cosmica,
descritta con gusto vagamente liberty: «Era di tutti e di nessuno; era la
femminilità fatta essenza, la bella giovinezza diffusa nel cosmo come un
alito di primavera». Dallʼaltra, ella viene mostrata in una dimensione che
è insieme iperrealistica e irreale:
Cfr. Antonio Costa, Teorie del cinema dalle origini agli anni trenta: la prospettiva
estetica, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. V, Teorie,
strumenti, metodi, Einaudi, Torino, 2001, pp. 417-443 (si vedano in particolare le pp.
419-427).
36
Salvator Gotta, La Signora di tutti, Rizzoli, Milano, 1933.
37
Ivi, p. 278.
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28
Sullo schermo non è fatta né di carne né di spirito, non è un’ombra poi che
ha assai più vita delle umane creature. Appare e dispare come una visione.
È più vera della realtà e più inesistente che se fosse morta. Il suo fascino
dura qualche minuto e può resistere tanti anni quanti resiste la materia in
cui è fissato38.
Vorrei, infine, soffermarmi su un racconto di Antonio Tabucchi
che si intitola Cinema39 nel quale il cinema è citato in tutte le sue possibili accezioni e a un grado di consapevolezza metalinguistica che lo
rende da molti punti di vista esemplare, anche per la maestria con cui
utilizza il procedimento della mise en abîme.
Il racconto (in terza persona e al passato remoto) presenta il congedo, nella sala d’attesa di una piccola stazione della costa ligure, tra
una giovane donna e un uomo, Elsa e Eddie, all’epoca della Seconda
guerra mondiale. Lui è un membro della Resistenza e lei è un’attrice
di varietà che, durante la sua tournée in Francia, dovrà svolgere una
pericolosa missione. Tra i due c’è un legame sentimentale: lo capiamo da una battuta dell’uomo, che la mette in guardia dal fatto che il
maggiore che dovrà contattare è un uomo galante, e dal bacio d’addio.
Ma il bacio... non risulta abbastanza appassionato e il regista ordina lo
stop. Quella che ci viene narrata è la ripresa di un film.
Così il lettore è progressivamente informato, tra una pausa della
lavorazione e una nuova ripresa, che Elsa e Eddie sono due attori che
anni addietro hanno interpretato un film del quale ora stanno realizzando il remake. Per loro quindi si ripropone la possibilità di una
relazione di coppia nel momento stesso in cui viene offerta l’occasione di ripetere il successo del film girato in precedenza. Alla maggior
38
Ivi, p. 278-279. Per un approfondimento di questi aspetti, vedi Antonio Costa, I leoni
di Schneider. Percorsi intertestuali nel cinema ritrovato, Bulzoni, Roma, 2002, pp. 143157.
39
Antonio Tabucchi, Piccoli equivoci senza importanza, Feltrinelli, Milano, 1985, pp.
131-150.
29
consapevolezza dei due personaggi (letterari) corrisponde la maggior
consapevolezza dei due attori e del regista nella resa della vicenda. Di
qui una serie di riferimenti metafilmici, giocati sul filo dell’ambiguità
e dell’“indecidibilità”.
Per esempio, quando il regista interrompe il primo ciak della scena
d’addio si richiama la necessità di rispettare i canoni interpretativi del
primo film (ogni remake risponde più o meno indirettamente a una
poetica della nostalgia):
«Non così», sbuffò con disappunto «ci vuole un bacio appassionato, all’antica, come nel primo film». Cinse dimostrativamente l’attrice con il
braccio sinistro, obbligandola a flettersi all’indietro. «Si pieghi su di lei e
la baci con passione» disse all’attore. E poi rivolto a tutti: «Pausa»40.
Questo passo della narrazione prima (letteraria) accentua il carattere convenzionale della narrazione seconda (cinematografica) nel
rispetto del genere di appartenenza (il mélo appunto). Il racconto evidenzia, però, come il film che gli attori stanno girando aspiri a essere
moderno, ad adeguarsi ai canoni della nuova estetica cinematografica,
allo stesso modo in cui i personaggi hanno assunto un atteggiamento
consapevole e disincantato rispetto al nuovo tentativo sentimentale in
cui a poco a poco si lasciano coinvolgere.
Il clima è quello di La nuit américaine (Effetto notte, 1973) di
Truffaut al quale Tabucchi si è con tutta evidenza ispirato. Nel film
di Truffaut si raccontano le fasi di realizzazione di un film, Je vous
présente Pamela. Queste riprese avvengono nei vecchi studi della
Victorine, culla del realismo poetico, del “cinema di qualità”, come
lo chiamavano con intenti polemici i giovani della Nouvelle Vague: si
tratta quindi di una sorta di remake del “cinéma de papa”; e non è un
modo di dire, visto che il film racconta la relazione tra la giovane mo40
Ivi, p. 135.
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glie del protagonista con il di lui padre (non mi risulta che qualcuno
abbia mai messo in evidenza che la trama è la stessa di La signora di
tutti di Max Ophüls, tratto appunto dal romanzo di Gotta che abbiamo citato sopra). Nel santuario del vecchio cinema francese si respira
però l’aria dei nuovi tempi, del cinema moderno: «Non si faranno più
film come Vi presento Pamela. I film di domani si gireranno per le
strade...». Allo stesso modo nel racconto di Tabucchi le convenzioni
del vecchio mélo convivono con le aspirazioni del cinema moderno.
«“È moderno”, disse calcando l’aggettivo [è Eddie l’attore che sta parlando del regista], “sembra uscito dai “Cahiers du cinéma”». Poco
dopo è l’attrice che rivolta al regista dice: «Per favore, ci risparmi i
discorsi sulla bellezza della presa diretta [...], già ci ha fatto abbastanza lezioni»41.
Il racconto letterario di Tabucchi si sviluppa lungo due direttrici:
quella della finzione cinematografica e quella della vita reale. Come
in una perspective faussée di Escher cʼè un punto in cui la finzione
travalica i suoi limiti e tracima nella realtà. È quando Eddie (nella vita
reale) dice a Elsa, non senza ironia:
«Io ti avevo avvisato di non fargli troppi sorrisi, ma evidentemente non seguisti il mio consiglio, anche se la scena non fu inclusa nel film». Sembrò
riflettere un momento. «Non ho mai capito perché lo sposasti».
In questo passo Eddie si riferisce al copione del film recitato sul
set dai due attori, e in particolare a questo passaggio: «“Un’ultima
cosa” disse lui muovendosi, “so che il maggiore è un uomo galante,
non gli fare troppi sorrisi”»42. La tecnica narrativa usata da Tabucchi
è la stessa, sia che narri ciò che viene messo in scena nella finzione
filmica, con l’artificio di ripeterla due volte come appunto le scene del
film, sia che narri la vita reale.
41
42
Ivi, pp. 135-136.
Ivi, pp. 134-135 e pp. 138-139.
31
«È tutto un film»
Dopo questa rapida, e tuttʼaltro che sistematica, elencazione dei casi
più disparati di citazioni cinematografiche in testi letterari (ma abbiamo fatto anche alcuni esempi di critica letteraria) proveremo a fare una
prima proposta di classificazione, una tipologia, mettendo in evidenza
come nella narrativa contemporanea il cinema funzioni spesso come
un gioco riflessivo, una mise en abîme, lungo la sottile linea che separa
la messa in scena di sé nella vita reale e la messa in scena dei personaggi nella finzione cinematografica.
Alla luce degli esempi fatti sopra diremo che la citazione cinematografica nellʼambito di una narrazione letteraria può essere sempre
ricondotta a unʼintenzionalità di stabilire una relazione (il più delle
volte di tipo riflessivo, metatestuale, come vedremo più avanti):
a) con il cinema in quanto istituzione (che è altro dall’istituzione
letteraria);
b) con il cinema in quanto dispositivo (quello della visione, che è
altro dalla lettura-scrittura);
c) con il cinema come linguaggio, come tecnica;
d) con un film (testo audiovisivo) o con una categoria di film (genere o insieme di film).
Prendiamo la seguente definizione di mise en abîme fornita da
Dällenbach: «Ogni inserto che intrattiene relazioni di somiglianza con
l’opera che lo contiene»43. Non sarà difficile mostrare che per ognuna
delle accezioni in cui viene citato il cinema negli esempi letterari che
abbiamo fatto sopra ci sarà un’adeguata corrispondenza con un aspetto
determinato dell’opera che contiene il riferimento (cioè la letteratura
come istituzione, come dispositivo, come narrazione, come testo eccetera).
43
Lucien Dällenbach, Le récit speculaire, Seuil, Paris, 1977 (tr. it. Il racconto speculare.
Saggio sulla mise en abyme, Pratiche, Parma, 1994, p. 13).
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La relazione tematica tra la narrazione del romanzo della Dewitt
e quella del film di Kurosawa mi sembra evidente. Parafrasando
Dällenbach, si dirà che come la lanterna magica è emblema della
Recherche di Proust e “le scene di marionette” sono emblema degli Anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe44, così I sette
samurai sono emblema di L’ultimo samurai (Edward Zwick, 2006),
ma secondo un rapporto assai più stretto in quanto la ricerca dei sette
samurai fornisce il modello della ricerca del padre da parte del piccolo Ludo. Allo stesso modo l’ambigua natura della apparizione sullo
schermo cinematografico della diva in La signora di tutti costituisce
l’emblema della forza distruttrice, “irrealizzante” della protagonista
del romanzo di Salvator Gotta. Chicchi è la “Signora di tutti” ancor
prima di diventare una diva del cinema: questo è per così dire il suo
destino, il mistero e il fatale potere del suo fascino. La sua straordinaria facoltà di dominare chiunque entri nella sua vita trova, per così
dire, il suo apice, il suo compimento, sullo schermo e nella misteriosa
dimensione della sala buia.
Il racconto di Tabucchi ci offre un repertorio di riferimenti in cui il cinema viene citato (letteralmente chiamato in causa) in tutte o quasi le accezioni che abbiamo sopra elencato: il cinema in quanto tecnica (la presa
diretta, i ciak eccetera); la storia del cinema (Francesca Bertini, il cinema
moderno, i «Cahiers du cinéma», Anghelopulos, Il dottor Zivago45), i codici cinematografici (le convenzioni del mélo), il cinema come istituzione
(in opposizione alla letteratura). Si tratterebbe di un pezzo di bravura, di
una performance letteraria derivata con ogni evidenza dalle suggestioni
Ivi, pp. 18-19.
È con un riferimento a Il dottor Zivago (film), alla scena famosissima e molto citata della morte del protagonista (Omar Sharif), che Antonio Tabucchi, Piccoli equivoci senza
importanza, cit., p. 149, porta al parossismo il gioco della mise en abîme, mantenuto sul
filo di unʼambiguità assoluta, il regista è tutto intento a dirigere i movimenti dellʼattore rimasto solo sul marciapiede della stazione, quando costui, contro ogni regola, lo apostrofa
in questo modo: «Mi faccia venire un infarto, la prego, [...] qui su quella panchina. Faccio
unʼaria affranta, così, guardi, mi seggo sulla panchina e mi porto una mano al petto, come
il dottor Zivago. Mi faccia morire».
44
45
33
di un film (Effetto notte), se appunto le procedure convenzionali della
messa in scena cinematografica non divenissero, attraverso il gioco della
mise en abîme, la forma simbolica della vita reale come mise en scène,
come progressiva ricerca di autenticità, di realtà, votata con ogni probabilità allo scacco, alla frustrazione.
«Ma io ti amo», disse con voce molto bassa.
Questa volta lei assunse un tono di scherzo. «Ma certo», concordò con
una punta di condiscendenza, «nel film».
«È lo stesso», disse lui, «è tutto un film».
«Tutto un film cosa?».
«Tutto». Attraversò il tavolo con la mano e strinse la mano di lei. «Facciamo
girare la pellicola al contrario, torniamo al principio».
Lei lo guardava come se non avesse il coraggio di replicare. Lasciò che le
accarezzasse la mano e a sua volta gli fece una carezza. «Ti stai dimenticando il titolo del film» disse cercando di trovare una battuta, «non si può
tornare indietro»46.
Da questo punto di vista, i molteplici riferimenti al cinema hanno,
in questo racconto di Tabucchi, una funzione analoga a quella che
hanno l’atto di girare “la manovella” e tutte le altre operazioni relative
alla realizzazione di un film in Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Pirandello, l’opera che nella nostra letteratura dà avvio alla
storia delle relazioni intermediali ancor prima che intertestuali tra la
letteratura e il cinema.
46
Ivi, pp. 142-143.
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