Villalba_files/VILLALBA di S. Lumia

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Villalba_files/VILLALBA di S. Lumia
Salvatore Lumia
VILLALBA
immagini e ricordi...
Ai miei genitori
che mi hanno insegnato
non con le parole, ma con l’esempio
a distinguere il bene dal male...
I miei ricordi
Manco da tantissimi anni dal mio paese ed è di gran lunga maggiore il numero degli anni passati lontani, eppure continuamente mi vengono in mente avvenimenti e sensazioni che ho provato nei
primi anni della mia infanzia, come se questi anni fossero stati una scuola alla quale fare riferimento per tutta la vita.
Ho voluto scrivere queste note soprattutto per soddisfare il mio desiderio di raccogliere ricordi
che vanno e vengono nella memoria e per tentare di rivivere sensazioni che ormai appartengono ad
un mondo ed a uno stile di vita che non esiste più e che invece mi appartiene intimamente e fortemente. Spero che i miei figli, nati e cresciuti in un contesto completamente diverso, leggendole possano capire valori che in questa società, che dà sempre più importanza alla ricchezza e al successo,
sembrano fuori moda.
Mi piacerebbe poter raccontare di una comunità povera e semplice per la maggior parte dedita
ad una agricoltura primitiva e poco remunerativa e che presto ha dovuto fare i conti con una emigrazione che ha diviso le famiglie e svuotato il paese; di un paese nel quale si viveva nel ricordo degli anni passati, della mafia, di don Calò, delle bombe al comizio di Girolamo Li Causi, tutte cose
passate e che a noi bimbi sembravano quasi un racconto irreale. La mafia, morto don Calò Vizzini
(per molti anni capo riconosciuto della mafia in Sicilia), e avendo poca possibilità di sfruttamento si
era spostata altrove e il paese viveva in una monotona tranquillità che raramente veniva turbata da
qualche incidente sul lavoro o qualche morte prematura.
A volte capitava anche che due ragazzi innamorati se ne scappavano (fuivano) sia per superare
l’avversione delle famiglie al loro matrimonio che per affrettare la data delle nozze. Per la verità a
volte scappavano, d’accordo con le famiglie, per risparmiare le spese della cerimonia nuziale. In
ogni caso al mattino quando i genitori soprattutto della ragazza scoprivano la sua assenza cominciavano a urlare e a disperarsi, perché i vicini sentissero, a ingiuriare i ragazzi e giurare che con loro
avevano chiuso e che non avrebbero più messo piede nelle loro case. La notizia della “fuga” faceva
presto il giro del paese e subito cominciavano i pettegolezzi. Dopo pochi giorni i ragazzi tornavano
a casa e dopo la riappacificazione con i genitori si celebrava un matrimonio un po’ sottotono, i ragazzi mettevano su casa e tutto tornava come prima.
* * *
Sino agli anni ‘60 gli uomini lavoravano la terra con metodi ed attrezzatura ancora arcaici. Tutti i
lavori dall’aratura alla semina, dalla mietitura alla trebbiatura erano manuali. Si lamentavano sem-
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Villalba vista da Carlo Levi
Villalba non è che uno dei tanti abitati della Sicilia interna: poco più che un villaggio contadino, un centro di miseria, di costrizione, di fatica e di servitù. [...]
È situata nel centro geografico del grande triangolo della Sicilia, al confine delle tre province di Palermo, di Agrigento e di Caltanissetta: il suo territorio fatto di feudi, ha la forma di una foglia di edera che si
stenda nel punto d’incrocio dei confini delle tre province. Villalba è costruita sul rapido pendio di un colle.
Un aggregato di casupole contadine, divisa da un incrocio di strade diritte: tredici strade in discesa, parallele, intersecate da sei trasversali. Queste strade dal fondo sassoso, piene di polvere o di fango, a seconda
della stagione, diventano sempre piu polverose quanto più ci si avvicina alla campagna circostante all’abitato, con case sempre più misere, piccole e squallide, su cui piomba violento il sole. Sono dei bassi di una
stanza, che prendono luce dalla porta, o da uno sportello della porta; e dentro vi puoi vedere gli eterni
aspetti della strettura, dell’antica fame, della penuria ereditaria dei paesi meridionali: i pavimenti di terra, le
misere suppellettili, i letti dove si affollano i bambini, gli adulti e gli animali; e il fumo acre della paglia delle
lettiere che si brucia, dove manca anche la legna, sotto la pentola della minestra di erba.
Quando le vidi, queste strade formicolavano di bambini, di animali, di gente, e di occhi neri, di gesti silenziosi. Ora lo spazio pare cresciuto, non perché nuove case siano state costruite, ma perché Villalba si è
andata rapidamente spopolando, si che la popolazione in pochi anni si e dimezzata. L’emigrazione, che ha
ripreso in modo crescente un po’ in tutti i paesi de Sud, ha qui, in Villalba, raggiunto uno dei punti piu
estremi. Spinti dall’antica fame, dalla scarsezza del lavoro, dalla cattiva soluzione dei problemi del feudo, dal
peso greve della mafia, i contadini sono partiti e partono per il nord, per la Liguria, per Albenga, dove, lavorando la terra, o cavando sabbia dal fiume Centa, vanno cercando, e talvolta trovano, vita e fortuna.
E tuttavia Villalba, questo villaggio spopolato, è stato ed è tuttora, almeno simbolicamente, una capitale. Una capitale della condizione contadina feudale e della lotta per la terra. Una capitale della mafia, della
vecchia mafia del feudo, che qui imperava nelle sue forme piu tipiche e, a suo modo, esemplari.
Questa era la città natale, il regno di Calogero Vizzini, don Calo, che per tanti anni, e fino alla sua morte, fu considerato la figura piu rilevante, il capo effettivo della mafia siciliana, che aveva in un villaggio del
feudo la sua capitale.
Nel mezzo di quell’agglomerato, nel centro di quelle tredici strade o sentieri ruinosi, unico luogo piano
in quel pendio di miseria, cuore e centro di un potere grandissimo, che ama celarsi in luoghi piccoli e oscuri, e la piazza.
È veramente una piazzetta, poco più di uno slargo piano in mezzo a quelle pendici: avra forse poco più
di una trentina di metri di lunghezza per una quindicina di larghezza. Ma vi e tutto, assolutamente tutto
quello che fa l’antica società siciliana, tutto raccolto in quei pochi metri, in quelle poche case, in quelle poche persone. È un rettangolo pianeggiante, ma, poiche a posto di traverso sulla costa scoscesa, le case a
valle sorgono più in basso di quelle a monte, e sono divise dalla piazza da una specie di trincea scavata che,
con degli scalini, raggiunge il lastricato del passeggio. È la piazza Madrice, così detta perché vi sorge la
chiesa madre.
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pre, i contadini, per il duro lavoro e per lo scarso raccolto. Ascoltavano con invidia i racconti degli
emigranti che parlavano di paga settimanale o mensile, di cottimo, di lavoro stando a sedere (che
sembrava voler dire non lavoro) e in molti nasceva la voglia di piantare tutto e di andare via in cerca
di miglior fortuna.
Anche noi ragazzi, che dividevamo la nostra giornata tra la scuola e i giochi in giro per il paese
e che a volte, soprattutto durante le vacanze, andavamo a “dare una mano” in campagna, sognavamo il nostro futuro lontano dal paese, al nord o all’estero, pensavamo ad un impiego in una grande
fabbrica, alla macchina, allo stipendio sicuro tutti i mesi, alla vita piena di comodità e di divertimenti. Ognuno di noi aveva uno zio, un amico o un conoscente da qualche parte, in “continente”.
Moltissimi erano in Liguria – ad Albenga – lavoravano come muratori o come camerieri, altri nel
Bresciano, a Lumezzane, lavoravano in fabbriche o officine dove si producevano articoli in acciaio
inossidabile e dove molti lavorando a cottimo, magari non in regola, in officine insalubri, si sentivano fortunati perché più pezzi facevano e più soldi guadagnavano.
Mi ricordo che quando venivano in paese portavano cucchiai, grattuggie, pentole e altre cose in
acciaio e le donne, abituate ad usare le stoviglie in rame o in alluminio, si stupivano nel vedere
queste cose lucide che “non si rovinavano mai e che dopo lavate tornavano come nuove”.
Io, avendo i miei zii a Bologna, ho sempre pensato a questa città come il posto ideale per costruirmi un futuro migliore.
E intanto il paese si svuotava, famiglie intere emigravano, molti giovani andavano via e in paese
rimanevano gli anziani e alcune famiglie che per un motivo o per l’altro avevano deciso di continuare a vivere con l’agricoltura e adesso avevano la possibilità di ingrandire la loro proprietà acquistando le terre a prezzi vantaggiosi.
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La vita in paese
In paese vi erano pochi negozi che vendevano un po’ di tutto dai generi alimentari alle pastiglie
per il mal di testa. Mi ricordo che oltre i soldi accettavano come pagamento anche le uova che poi
rivendevano a prezzo maggiorato. Capitava che, mia madre, quando avevo bisogno di un quaderno
o delle matite, mi dava un uovo che io barattavo con quello di cui avevo bisogno.
Spesso arrivavano in paese dei venditori ambulanti.
Al mattino presto si sentiva la voce inconfondibile dell’ortolano che arrivava con il mulo e con
delle ceste piene di verdure. “Acci tenneri e bedda scalora” (“Sedano tenero e bella scarola”) urlava
e poi si fermava agli angoli delle strade e aspettava che arrivassero gli acquirenti.
Durante la giornata altri venditori arrivavano in genere con le macchine o i camioncini a vendere ogni genere di mercanzia, dalla frutta alle patate, dalle cose per la casa alle stoffe, ai corredi e all’abbigliamento. Tutti avevano un urlo incomprensibile ma inconfondibile. Le donne si avvicinavano
alla macchina stracarica di ogni mercanzia e dopo aver scelto la cosa che loro interessava cominciavano a contrattare sul prezzo. La contrattazione era lunga e laboriosa anche su prodotti di prezzo
modesto ed era una scena tutta da vedere con continui tira e molla e minacce da parte delle donne
di non acquistare niente finché non si raggiungeva un compromesso che desse all’acquirente l’illusione di aver fatto un affare e di aver spuntato il prezzo migliore.
Alcuni venditori, soprattutto quelli di frutta e patate, oltre il pagamento in soldi, proponevano lo
scambio della frutta con il grano o le fave e questo invogliava molto di più le donne perché di soldi
nelle case c’è n’erano pochi e invece del grano o un po’ di fave si riusciva a rimediarle.
Altri personaggi di tanto in tanto spuntavano in paese...
Arrivava lo stagnino (“lu quadararu”) che stagnava e riparava le pentole di rame e aveva fama di
essere abbastanza sfortunato perché si diceva in paese che tutte le volte che lui arrivava pioveva e il
suo lavoro, che si svolgeva all’aperto, diventava più complicato. Era diventato un modo di dire (“la
fortuna di lu quadararu”) per indicare una persona per nulla fortunata.
Artigiani di mestieri ormai scomparsi e che al solo pensiero che siano esistiti fanno sorridere erano quelli che aggiustavano gli ombrelli (“lu paraccaru”) e quelli che incollavano le brocche di terracotta, le giare e addirittura i piatti rotti e li cucivano con il fil di ferro come raccontato tanto bene da
Pirandello nella “Giara”.
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L’attività principale del paese era
l’agricoltura e le colture principali
erano il grano duro e, ad anni alterni, fave o lenticchie.
Il territorio era diviso in tanti appezzamenti più o meno piccoli e
quindi ogni contadino aveva diversi
appezzamenti dislocati in vari punti
del territorio, alcuni dei quali anche
molto lontano dal paese. Questo obbligava la gente a lunghi spostamenti
al mattino molto presto, per lo più a
cavallo di muli o a piedi.
Mio padre lavorava la terra e
quando c’erano le vacanze a scuola
mi portava con sè affinchè, anche se
piccolo, potessi dargli una mano.
Così presto mi sono abituato a fare i
lavori nei campi.
In ottobre si arava la terra con un
aratro tirato da due muli. In seguito
si iniziava la semina e qualche volta
sono andato con mio padre per “buttare le sementi”. Lui stava avanti con
i muli che tiravano l’aratro ed io dietro portando una borsa (“coffa”) piena di semi che lasciavo cadere uniformemente all’interno dei solchi.
Il grano si seminava in tutti i solchi quindi ad ogni virata l’aratro chiudeva il solco precedente e
ne apriva un altro. I legumi invece si seminavano un solco si e uno no. A volte esageravo nel buttare
i semi e allora si correva il rischio di finirli prima della fine della giornata.
Il lavoro era faticoso perché oltre a dover portare la “coffa” con le sementi, quando la terra era
un po’ umida si appesantivano gli scarponi e questo rendeva ancora più difficoltoso il camminare.
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Cominciando presto al mattino, dopo un po’ ci si fermava a fare colazione che in genere era
composta di pane, formaggio, olive, frittate e più raramente mortadella, scatolame e poc’altro.
Anche il pranzo più o meno aveva gli stessi ingredienti e in ogni caso si mangiavano sempre delle
cose fredde e asciutte e questo rendeva molto più faticoso il lavoro nei campi.
Mio padre diceva sempre che se ci fosse stata la possibilità di mangiare un piatto di pasta o
qualcosa di caldo la fatica si sarebbe dimezzata. Spesso mi raccontava di quando lui era piccolo e
andava in campagna con suo fratello; siccome avevano sempre molta fame al mattino si dividevano
il pane cosicché ognuno se lo gestiva come voleva e – ricordava ancora – nel periodo che c’erano
le fave verdi cominciavano a mangiarle per riempirsi lo stomaco e far durare il pane il più a lungo
possibile. Quindi nonostante tutto adesso ci si poteva considerare fortunati.
Qualcosa di caldo si mangiava la sera a casa, ma anche in questo caso il pasto era composto da
minestra, molte volte di verdure e molto abbondante, e poco secondo per lo più verdure rifatte in
frittata o patate.
La carne si mangiava poche volte e soprattutto la domenica. Mia madre mi mandava dal macellaio a comprare “tri unzi” (250 g) di carne, di maiale o di castrato, che poi cucinava al sugo insieme
con le patate; con il sugo condivamo la pasta e poi ci dividevamo come pietanza la poca carne e le
patate. A volte mangiavamo il baccalà fritto o le sarde anche queste fritte. Nella pescheria del paese
arrivavano solo sarde, paganelli, seppie e poche altre qualità di pesce.
Un pasto importante per tutti, ma soprattutto per noi bambini, era la colazione a base di latte e
orzo in grandi tazzoni dove spezzettavamo tanto pane. Il latte era molto buono: in genere mio padre teneva una capra e tutte le mattine la mungeva e quindi avevamo il latte fresco. Solo in certi periodi che la nostra capra non aveva latte lo compravamo, ma anche in questo caso passava il capraio che lo mungeva su ordinazione.
In genere, oltre ad avere una capra, tenevamo anche una pecora, cosicché con il latte di capra
che non mangiavamo e il latte della pecora mia madre faceva il formaggio. Quando si faceva il formaggio c’era la possibilità di variare la colazione con la “ricuttedda” che era ricotta con il siero caldo nel quale si metteva il pane. Mi ricordo anche il buonissimo sapore del formaggio appena tirato
dal siero (la “tuma”) che mia madre mi allungava e che divoravo subito.
La mamma faceva delle formine di formaggio sui sette-otto etti e che dopo stagionate venivano
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messe in una giara di terracotta e servivano sia come companatico che da grattuggiare sulla pasta.
Inoltre dalla pecora e dalla capra nascevano agnelli e capretti che però, soprattutto quando eravamo più poveri, mio padre vendeva e a noi non restava che la testa, la coratella e le budelline per
fare le “stigliuleddi”.
Un’altra cosa molto presente come companatico erano le olive verdi o nere che venivano preparate durante la stagione della raccolta e poi tenute sotto sale le nere e in salamoia le verdi in vasi di
terracotta. Una parte delle olive verdi veniva schiacciate e messe in salamoia, con spicchi d’aglio e
altri odori, perché fossero pronte presto per essere mangiate.
A volte quando d’inverno pioveva o nevicava mio padre, non potendo andare in campagna, si
alzava e cucinava delle fave o dei ceci neri che mangiavamo, conditi con olio e inzuppandoci del
pane, anche a colazione.
Per cucinare si usava una cucina costruita in muratura nella quale per alimentare il fuoco si metteva la paglia soprattutto di legumi. In molte case era presente una cucina a gas che però veniva
usata per bollire il latte, per friggere le uova e per cotture brevi.
Naturalmente capitava spesso che quando si cucinava qualcosa la si mangiava più volte consecutivamente.
Un legume prodotto a Villalba e molto rinomato erano le lenticchie che si mangiavano assieme
a tagliolini fatti in casa con farina di grano duro, oppure condite con olio come pietanza.
Ogni contadino al momento della raccolta vendeva il grano prodotto ma teneva indietro quello
che presumeva gli sarebbe servito per la semina dell’anno successivo e per i bisogni della sua famiglia. Questo era considerato un bel risultato perché garantiva il pane per la famiglia.
Periodicamente il grano veniva portato in quantità di 30-40 kg. al mulino per essere macinato.
La farina veniva tenuta in un fusto di legno col coperchio e quando si doveva fare il pane se ne setacciava un po’ per togliere la crusca (“caniglia”) e quindi si impastava, si faceva il pane e si portava
al forno per cuocerlo. Al fornaio veniva pagato qualcosa per ogni pane infornato.
Mia madre faceva il pane d’inverno una volta la settimana e d’estate due volte. Faceva delle pagnotte di 2 kg. circa l’una e sopra ci metteva tanti semi di papavero. Appena sfornato il pane era
buonissimo e spesso lo mangiavamo condito con olio, sale e pepe.
I miei genitori ci avevano abituati ad avere un grande rispetto per il pane e di considerarlo cone
un dono di Dio e quindi non andava assolutamente sprecato e, anche quando era duro e si faceva
fatica a mangiarlo, lo si usava per metterlo nel latte o nel brodo delle verdure cotte.
La classe seconda elementare (1958-59)
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Dopo questa divagazione sulle abitudini alimentari torniamo ai lavori dei campi. Eravamo arrivati alla semina che avveniva in dicembre.
Bisognava aspettare che il grano e i legumi seminati crescessero un po’ e quindi si zappavano
per muovere la terra e per strappare tutte le erbacce. Tanto per cambiare anche questo era un lavoro
molto faticoso perché bisognava stare sempre con la schiena curva e fare attenzione con la zappa a
strappare solo l’erba e non anche il grano.
Intanto passavano i mesi e arrivava la primavera. La campagna cambiava colore e il grano e i legumi cominciavano a maturare.
Quando si seccavano le fave e le lenticchie venivano strappate con le radici e messe in fasci a
seccare.
Poi arrivava il momento della mietitura del grano che veniva fatto a mano con la falce ed era un
lavoro molto impegnativo e faticoso, sia perché si lavorava dall’alba al tramonto, e in giugno le ore
di luce sono tante, sia perché il caldo a volte afoso raddoppiava la fatica. A complicare le cose, a
volte, veniva a piovere poco prima della mietitura così il grano si sdraiava per terra e questo rendeva ancora più difficoltosa la mietitura.
Comunque era una cosa che si faceva con entusiasmo, soprattutto quando si vedeva che il grano
era bello e che il raccolto sarebbe stato abbondante.
Siccome il periodo della mietitura era breve e c’era bisogno di manodopera dall’agrigentino, in
particolare dalla zona di Palma di Montechiaro arrivavano “i mietitori” (contadini che avendo le terre nelle zone vicino al mare avevano già mietuto il loro grano e venivano qui per guadagnare qualcosa), si accampavano in piazza e, con la falce a portata di mano, aspettavano che qualcuno li assumesse.
La sera, i contadini andavano i piazza, assumevano quelli di cui avevano bisogno, scegliendo
naturalmente i più giovani e quelli che avevano l’aspetto più robusto, li portavano a casa loro e li facevano dormire fuori di casa
in giacigli di fortuna pronti
per partire per il luogo di lavoro quand’era ancora buio,
perché bisognava essere sul
posto appena albeggiava.
Anche mio padre assumeva quelli di cui aveva bisogno, anzi con qualcuno
aveva instaurato un rapporto
di stima reciproca e lo aspettava anche negli anni successivi.
I mietitori cominciavano
a tagliare il grano con la falce, se lo appoggiavano sul
braccio che teneva la falce e
quando ne avevano fatto un
bel mazzo lo legavano sempre con un pugno di spighe e
lo poggiavano a terra. Più tardi, uno di loro, con una attrezzatura rudimentale che lo
aiutava a prendere i vari
mazzi di spighe si sarebbe
messo a confezionare dei fasci che si chiamavano “gregni” e che contenevano una
diecina di mazzi.
Gli strumenti per la mietitura:
ancinu, ancineddra e fauci.
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Mietitori in piazza in attesa di un ingaggio.
Gli uomini erano molto veloci nell’eseguire le varie operazioni della mietitura e il tutto avveniva in modo armonico, stavano tutti in fila e ognuno mietendo un paio di filari procedeva di pari
passo con gli altri.
Durante la mietitura, nonostante l’arsura che la fatica e il caldo provocavano, molti cantavano
stornelli o canzoni allegre e chiedevano da bere a volte acqua ma più spesso anche vino. Il mio incarico, quand’ero piccolo, era quello di passare con il “da bere”. L’acqua e il vino si tenevano in brocche di terracotta diverse fra loro; “la quartara” per l’acqua e “lu fiascu” per il vino, si cercava di tenerli all’ombra, magari mettendoci sopra qualcosa di bagnato, perché stessero più freschi possibile.
In questa occasione, anche il mangiare era un po’ più abbondante e a volte, prima di mezzogiorno, andavo in paese per prendere le polpette o dell’altra carne che mia madre aveva preparato
e che portavo ancora calde dentro una pentola. Ci si fermava a mangiare, a volte sotto il sole, e si
stava fermi lo stretto indispensabile perché bisognava in fretta tornare a mietere e al pomeriggio si
lavorava quasi fino al tramonto per poi tornare in paese facendo magari 5 o 6 chilometri a piedi.
La mietitura durava alcune settimane e non si stava fermi neanche la domenica.
Ultimata la mietitura era già tempo di “pisare”, cioè di trebbiare il grano. Anche questa, prima
dell’avvento delle trebbiatrici, si faceva con metodi antichi, sempre gli stessi da secoli.
Il primo giorno bisognava preparare “l’aria”. Era uno spiazzo pianeggiante dove strappavamo
tutte le stoppie e le erbacce, poi bagnavamo la terra con l’acqua, ci spargevamo della paglia e la
Sulla mietitura e su quanto fosse faticosa mi sembra interessante pubblicare questo brano tratto
dallo scritto di S. NICOSIA, La coltivazione tradizionale del frumento nei latifondi del “vallone”,
apparso su La cuItura materiale in Sicilia. Atti del I congresso internazionale di studi antropologici siciliani (Palermo, 12-15 gennaio 1978). Palermo 1980, 231-232.
«L’estrema durezza delle condizioni di lavoro [...] si trasforma in una costante insidia alla vita.
Mancano naturalmente dati precisi o approssimativi, ma non c’è contadino che non conservi
memoria di mietitori “caduti all’antu” (sul posto di lavoro) in preda a febbre violenta, per colpo di
sole, broncopolmonite, emorraggia, congestione, in realtà morti di lavoro e di fatica [...]:
“N’annata ca cci fu un forti scarmazzu e ccaminà na stasciuni pericolosa, a Pasquali (contrada di
Villalba) nni muriaru quarchi ccinqu o sei; mentri attaccavanu li gregni cadivanu muarti di cent’anni
picchì la timpiratura era troppu scarmazzusa”. (Anni fa si verificò una stagione caldissima e l’estate
trascorse piena di pericoli, a Pasquali morirono cinque o sei persone; mentre legavano i covoni
cadevano esanimi, come se fossero stecchiti da cent’anni, perché la temperatura era molto afosa).
[...]. Quando i contadini ripetono che “tri unzi di fauci si fidanu un cristianu purtallu a la fossa” (tre
once di falce possono condurre un uomo alla tomba), non fanno altro che trasferire sullo strumento tutte le potenzialità mortali della mietitura, sproporzionate rispetto all’inconsistenza della
falce».
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schiacciavamo in modo che impastandosi con la terra formasse una specie di pavimento. Preparavamo la “straula”, un carro senza ruote, che sarebbe servito per portare il grano all’interno dell’aia.
L’indomani mattina di buon’ora – perché il grano era meglio trasportarlo quando non era ancora molto caldo – trasportavamo il grano all’interno dell’aia fino a riempirla.
A questo punto cominciava “la pisata”.
Mio padre prendeva i muli, andava al centro dell’aia e incitandoli, li faceva girare in modo che
cominciassero a schiacciare le spighe. I muli correvano e mio padre ogni tanto li frustava perché andassero ancora più forte. Ai bordi dell’aia ci voleva qualcuno che avvicinasse con un tridente le spighe che venivano fuori. All’inizio quando il mucchio era grande si faceva parecchia fatica ma man
mano che le spighe venivano pestate diventava più semplice.
Dopo un po’ mio padre si fermava, portava fuori i muli e cominciavamo a rigirare il grano in
modo che la parte pestata finisse sotto e quella ancora da pestare andasse sopra, quindi rientrava
nell’aia e riprendeva ad incitare i muli. Verso la fine della “pisata” cominciava a cantare “la ladata”
un canto che spronava i muli e nello stesso tempo ringraziava il Signore e i Santi per il raccolto.
Finita la “pisata” bisognava “spagliare” cioè separare il grano dalla paglia. Per far questo c’era
bisogno del vento che alcune volte faceva i capricci e rendeva il lavoro più difficoltoso e l’attesa
che soffiasse snervante. Ci si metteva uno di fianco all’altro con un foulard legato in testa e con il
tridente si buttava in aria il grano e la paglia. La paglia più leggera volava ai bordi dell’aia lasciando
il grano sempre più pulito.
Nei giorni successivi si ammucchiavano altre spighe nell’aia e si rifacevano le stesse operazioni
finché non erano finite le spighe. A questo punto dopo aver spagliato con il tridente bisognava
pulire ancora più a fondo il grano e questo si faceva spagliando con un badile di legno (“pala”).
Rituna
(per trasportare la paglia) sui muli
Triangulu e crivu
(per setacciare il grano e i legumi)
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Finita questa operazione il grano era ben pulito, si cominciava a riempire le bisacce, e a trasportarlo a casa.
Si facevano diversi viaggi, con i muli, e le bisacce in genere venivano vuotate in una stanza trasformata in magazzino in attesa di vendere il grano a uno dei commercianti del paese.
Ovviamente per tutto il periodo della “pisata” e del trasporto del grano l’aia non rimaneva mai
incustodita, neanche di notte, e spesso mi capitava di rimanere a dormire in campagna, magari in
compagnia di mio nonno o di mio padre. Ci preparavamo il letto all’aperto stendendo una bisaccia
sul mucchio della paglia, ai bordi dell’aia, coprendoci con un pleid e con una cerata perché di notte la temperatura si abbassava e cadeva la brina.
In questi casi anche la cena la consumavamo sul posto e il menù era sempre il solito (pane e
companatico).
Una volta, invece, che assieme a mio nonno eravamo rimasti a custodire l’aia in località “cuazzu di la Cruci”, essendoci nelle vicinanze una fattoria abitata da pastori che conoscevamo andammo a cena da loro e ci prepararono pasta con la ricotta: l’avevano stesa su un asse e tutti mangiavano riempiendo il cucchiaio direttamente dall’asse. Uno dei pastori vedendomi un po’ esitante, si
mise a ridere e dicendomi che di solito non usavano piatti ma ne prese uno e me lo riempì di pasta.
La pasta era ben condita con ricotta molto buona e dopo cena, con mio nonno, tornammo verso
l’aia veramente soddisfatti.
Dopo aver finito di “pesare” il grano nei vari appezzamenti di terra che avevamo e dopo averlo
immagazzinato in casa, mio padre metteva da parte quello che ci sarebbe servito per fare il pane e
per la semina, il resto lo vendeva.
La vendita del grano, assieme a quella delle lenticchie e delle fave erano praticamente l’unica
fonte di guadagno e il ricavato doveva bastare per le necessità della famiglia fino al raccolto dell’anno successivo.
In seguito anche la paglia del grano veniva trasportata, riempiendo due enormi reti di corda (“rituna”) che poi venivano legate ai due lati del mulo, trasportate verso case e immagazzinate nella
“paglialora”, servivano d’inverno come foraggio per gli animali.
La paglia dei legumi invece veniva usata per alimentare il fuoco della cucina.
Partita a carte in piazza Vittorio Emanuele II.
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La Chiesa Immacolata Concezione
La chiesa Concezione prima e dopo il restauro.
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La chiesa si affaccia sull’ex largo della
Concezione (l’odierna via Guglielmo
Marconi o “La funtana”).
La Concezione (o “Chisa nica” costituisce la
seconda chiesa Madre costruita a Villalba,
dopo quella sorta nel primo nucleo
originario del paese (tale chiesa originaria era
ubicata nel luogo attualmente corrispondente
ad un magazzino di fronte all’ex cinema in
via Nicolò Palmieri).
Fu costruita per volere del Sacerdote Lo Bello
e del Barone Placido Palmieri, dopo che, con
l’aumento della popolazione residente, lo
spazio della chiesetta originaria venne
considerato insufficiente.
La chiesa venne aperta al culto il 20 luglio
1795. Fu deciso di ubicare la nuova
parrocchia più a monte del primo nucleo
abitativo, nella zona corrispondente fra
l’attuale via Nicolò Palmieri (ex strada
Maggiore) e via Cesare Battisti (ex via San
Luca), sempre al fine di prevedere l’ulteriore
espansione urbana del paese.
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La Chiesa Madrice
San Giuseppe
La sua costruzione risale al 4 maggio
1828, quando il Decurionato (potere politico comunale dei tempi) deliberò la costruzione di una nuova chiesa e stanziò i primi
fondi. Alle spese concorsero anche il Marchese e la popolazione. I villalbesi che non
furono in grado di contribuire alla costruzione con denaro o grano, offrirono la propria manovalanza. La chiesa venne ubicata
sulla via Grande a margine di una zona già
satura di abitazioni. Davanti ad essa fu
creata la zona libera che poi costituirà la
grande piazza e agorà del paese.
Con questa costruzione e la relativa
piazza, venne valorizzata l’angusta traversa
della Madrice (Corso Umberto) la quale assunse la configurazione di corso principale,
fermato a monte dalla cappella di S. Maria
del Soccorso (“la Madonna di lu Succursu”).
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La cappella di S. Maria del Soccorso (“la Madonna
di lu Succursu”)
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S. Giuseppe
Sul culto di S. GIUSEPPE, patrono di Villalba, pubblico questo scritto tratto dal libro di Giovanni Mulè Bertòlo, “MEMORIE DEL COMUNE DI VILLALBA” pubblicato nel 1900. Da notare la
bella descrizione dei “vicchiareddi” con notizie dettagliate sulle usanze del tempo rimaste
pressochè immutate almeno fino alla fine degli anni ’60.
Il patrono di Villalba è S. Giuseppe.
Non mi è dato, per quante indagini e ricerche io abbia fatte, di poter dire quando e da chi, cioè,
dal barone, o dall’autorità ecclesiastica, o dal voto popolare, o dal magistrato municipale, s. Giuseppe
sia stato prescelto a tutelare il popolo villalbese.
Io son tentato a credere che la scelta del santo sia dovuta alla famiglia Palmieri, sapendo quanta
devozione pel falegname di Nazaret si annidava nell’animo del decano sac. Michelangelo Palmieri, zio
e tutore di Niccolò, compratore e perciò primo barone di Miccichè. Ma si lascino da canto le ipotesi e
le supposizioni e si ammetta il fatto compiuto.
S. Giuseppe è festeggiato due volte l’anno: il 19 marzo e la terza domenica di settembre.
L’entusiasmo, la devozione e la fede, che si manifestano tanto nell’una quanto nell’altra festa sono
sinceramente sentiti.
La nota speciale della festa del 19 marzo sta nei cosi detti vicchiareddi. Non c’è tugurio che in
quel giorno non sia in moto per bandir la tavola a li vicchiareddi.
Il numero di questi in ogni banchetto non può essere minore di tre, dovendo esservi rappresentata
la sacra famiglia: Gesù, Maria,
Giuseppe. Può essere elevato sino
a 19 per indi ricominciare dal 3.
La elevazione procede gradatamente, aumentando ogni anno di
uno il numero de li vicchiareddi. Il
passaggio dal 19 al 3 è, direi, repentino.
In qualunque traversia della vita, come un caso di grave malattia, un pericolo di qualunque natura ecc., il primo aiuto, che s’invoca, è quello di san Giuseppe, il
quale, se le cose piegano a bene,
può star sicuro che la riconoscenza gli verrà dimostrata il giorno 19
marzo col banchetto a li vicchiareddi, il cui primo numero spesso
è determinato nel momento della
invocazione.
Ordinariamente li vicchiareddi sono scelti fra le classi povere,
ma siccome il numero grande dei
medesimi non può essere dato da
tale classe di cittadini, bisogna cercare li vicchiareddi fra i fanciulli di
classi piuttosto agiate.
Il pranzo si dà a mezzogiorno
del 19 marzo. Tutti in quell’ora,
tutti mangiano e l’odor delle vivande spandesi da ogni casa, sicchè
l’aria n’è proprio satura.
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L’abbondanza e la varietà delle vivande sorprendono: tutto ciò che offre di cibi la stagione, ritirando i generi anche da lontani comuni e città, è lautamente imbandito. Le tavole sono apparecchiate
con fasto e lusso, sempre rapporto al grado di agiatezza del devoto, che le appresta.
Metà di spicchio di melarancia per ciascuno da li vicchiareddi, mi si permetta la frase, dà la stura
allo sfilar delle pietanze: minestra, maccherono con cacio e sugo di carne o di uova o con mollica fritta, fritto di cavolfiore, cardoni, finocchi, bietole, pastinache, uova, piselli e fave verdi, carciofi, polpette, pesci, magari l’arrosto e chi più ne ha più ne metta. Anche il dolce, anche il caffè non fanno difetto
presso talune famiglie. Si dà termine al desinare con uva passa, o con fichidindia, o con finocchi, o
con lattughe ecc. ecc.
Sparecchiate le tavole, li vicchiareddi ritornano alle proprie case, carichi di ogni ben di Dio: pane
di s. Giuseppe, sotto forma o di bastone o di barba o di bambino o di corona, bianchissimo e fine di
grande mole, unto la superficie di bianco d’uovo cosparso di seme di papavero o di sesamo; una zinna
di vacca; una grossa melarancia; un finocchio dolce; una lattuga; un carciofo.
Le pietanze di s. Giuseppe non sono destinate soltanto a pasto de li vicchiareddi: c’è la parte che
la devozione distribuisce ai parenti, agli amici, ai vicini. E però v’ha famiglie, che, non avendo vicchiareddi da festeggiare, lasciano in riposo e in pace per quel giorno la cucina, perchè son certi che la devozione non le lascerà a bocca asciutta, anzi le fornirà e in abbondanza di vivande da permettere alle
medesime il potere scegliere fra tanto ben di dio. Ce n’ha da soddisfare tutti i gusti.
La parola vicchiareddi, come suona la parola, ti fa credere che gl’invitati alla tavola di S. Giuseppe
siano donne od uomini inoltrati negli anni. Ce n’ha d’ogni età. Il nome fu trovato, perchè nella persona dei commensali si vuole immedesimata quella del falegname di Nazaret, che in fatto di anni non la
cede a chicchessia.
Nelle ore pomeridiane il simulacro è condotto in processione, con la quale si chiude la festa del 19
marzo.
L’altra festa, che si celebra nella terza domenica di settembre, va notata per un ricco apparato dell’interno della chiesa, per il solenne vespro, per la messa cantata, per la imponente processione del simulacro, per le melodie musicali, per l’illuminazione serale delle strade principali ed infine per lo sparo
di macchina pirotecnica.
Non mancano i bozzolari (turrunari), che detto fatto ti piantano nella piazza principale le loro modeste e semplici tende, gli spacciatori di nocciuole abbrustolite, di azzeruole e simili.
Tutti i voti e tutte le promesse che si fanno nel corso di un anno si traducono in fatto. La banda
musicale ha un bell’affaccendarsi nelle ore antimeridiane, accompagnando i fedeli, che a capo scoperto e spesso a pie’ scalzo vanno a depositare nella madre chiesa, come espressione dei voti e delle promesse, chi oggetti
d’oro, chi cera, chi
pane, chi frumento, chi danaro. E il
buon vegliardo vede così costituirsi
un discreto gruzzoletto: non per niente sta scritto nella
statua l’Ite ad Joseph.
Nel medesimo
giorno, fuori l’abitato, ha luogo il
mercato del bestiame istituito sin da
remoto tempo, come leggesi nella
deliberazione presa
dal decurionato il 2
luglio 1853.
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(sopra) la tavola imbandita dei
“vicchiariaddi”
(a destra) i dolci tipici: spingi,
cannoli e zippuli.
Li Vicchiariaddi
Era la vigilia della festività del patrono, san Giuseppe, e in tante case del paese le donne si davan
da fare, già di prima mattina, per preparare, secondo la tradizione, “li vicchiariaddi” (i poverelli). Quello di “fari li vicchiariaddi a san Giseppi” è stato da sempre un rito col quale la gente di Villalba ha inteso ringraziare il Santo per avere egli esaudito un voto, o per pregarlo di fare un miracolo, di venire incontro ad un bisogno. La “purmissioni”, il voto al Santo, veniva sciolta nel giorno della sua festività
con un abbondante pasto offerto ad alcuni “vicchiariaddi”, il cui numero poteva arrivare dieci, quindici
e a volte anche più, a seconda del miracolo richiesto e delle possibilità economiche di chi aveva fatto
la “purmissioni”.
Sulla tavola, dopo avervi disteso una candida tovaglia tutta ricamata a mano, veniva esposto “il pane di san Giuseppe”, tante forme di pane quanti erano “li vicchiariaddi”, tutte con la crosta lucida di
bianco d’uovo spalmato e “’mpaparinata” di semi di papavero, e ciascuna raffigurante una gamba, un
braccio, una testa, a seconda degli ex voto, o anche una “varva”, la barba di san Giuseppe.
Spesso le forme di pane riproducevano a dimensioni naturali, “lu bamminu”. Col pane, venivano
esposti gli altri simboli della “devozione”: una lattuga, un finocchio, un cedro (“pirittuni”), un carciofo.
Per il giorno di “san Giuseppi ’ntre marzu”, qualche centinaio di poveri potevano mangiare a sazietà: pasta al sugo, uova, carne, pane a volontà, ed anche il dolce, “sfingi di san Giuseppi” e “zippuli”, pezzetti di un impasto di farina condita con grasso e fritti.
Alla fine dell’abbondante pasto, ogni “vicchiariaddu” portava a casa uno di tutto di quella roba da
mangiare, dal pane al carciofo.
Luigi Lumia, Villalba, storia e memoria,
Caltanissetta, Edizione Lussografica, 1990
22
Festa di San Giuseppe
La raccolta delle “purmissioni”.
23
Momenti della
Festa di
San Giuseppe
La banda,
la processione,
l’albero della
cuccagna (la
“ntinna”), la “Musica
a palco” e la piazza
piena di villalbesi
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25
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Modi di dire...
A bon’è ca si mori.
Meno male che si muore. È la consolazione estrema a tutte le sventure e ai sacrifici.
A li ricchi ricchizzi figli masculi e cuntintizzi. A li poviri puvirtà figli fimmini e calamità.
Ai ricchi ricchezze, figli maschi e contetezze. Ai poveri povertà, figlie femmine e calamità. Per il fatto che una volta le donne lavoravano raramente, avere figlie femmine, sopratutto se più d’una, veniva considerata quasi una calamità.
Arti di pinna.
Arte della penna, cioè dello scrivere. In una società dove pochi erano riusciti a completare le elementari, saper scrivere bene era considerato estremamente difficile. Quindi si diceva “e chi ci voli,
arti di pinna?” di un lavoro che sembrava difficoltoso, a chi doveva farlo, ma che in realtà era molto
semplice.
A San Giustu ch’era giustu ci mancava un jtu.
A San Giusto ch’era giusto ci mancava un dito. Sta ad indicare che non esiste una persona veramente giusta.
A tia m’arraccumannu lampiuni / quannu passu di cca lustru m’hà fari.
A te mi raccomando lampione / quando passo di qua luce devi farmi. Affinché l’amata, che attende
alla finestra, mi veda.
Augurio di vaneddra trivulu di casa.
Allegro in strada e intrattabile in casa.
Avanti arrussichiari na vota ca aggiarniari cintu voti.
Meglio diventare rossi una volta che sbiancare cento volte.
(foto di Giuseppe Virgiglio)
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Carta veni iucaturi s’avanta.
Carta viene giocatore si vanta. Nel senso che quando le cose vanno per il verso giusto ci si sente
bravi e ci si prende tutti i meriti.
Ca squaglia ‘mmucca.
Che si disfa in bocca.Si dice di qualcosa di delizioso.
Cca sutta ‘un ci chiovi.
Qui sotto non ci piove. Nel senso che finché si sta in questa situazione ci si può sentire al sicuro.
Ci voli fidi puru a chiantari un pedi d’auliva.
Ci vuole fede pure a piantare un albero d’ulivo. Per il fatto che gli alberi di ulivo entrano in produzione piena dopo molti anni indubbiamente chi li pianta fa un investimento per il futuro. Quindi,
nella vita, ci vuole fiducia a fare qualsiasi cosa.
Cu avi un malu vicinu avi un malu matinu.
Chi ha un cattivo vicino ha un cattivo mattino.
Cu mangia fa muddrichi.
Chi mangia fa molliche. Lo si dice soprattutto degli amministratori o dei politici che nella convinzione comune sfruttano la loro posizione per arricchirsi ma nello stesso tempo fanno avere qualcosina anche agli altri.
Cu nesci arrinesci.
Chi va via dal proprio paese fa fortuna.
Cu nun ti canusci caru t’accatta.
Chi non ti conosce ti compra a caro prezzo. Nel senso che a volte si ha tanta stima di una persona
fidandosi dell’apparenza senza conoscerla veramente.
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Cu paga prima mangia pisci fitusu.
Chi paga prima mangia pesce andato a male. Nel senso che è buona norma, per evitare sorprese,
pagare una qualche prestazione solo dopo che si è verificata la corretta esecuzione e il risultato
soddisfacente.
Cu piglia torci, cu piglia cannili e lu santu cu lu portanu li minchiuna.
Chi prende torce, chi prende candele e il santo chi lo porta i minchioni. In occasione delle processioni gli uomini si affannavano intorno alla statua del santo che in genere veniva portato a spalle;
però siccome c’era da portare anche i candelabri i più furbi se li assicuravano perché più comodi da
portare e ai più ingenui restava da portare la statua.
Questo detto lo si dice in generale quando c’è qualcosa da fare e i più furbi si defilano facendo i lavori più comodi.
Cu s’havi a ‘mbriacare di vinu buano l’havi a fare.
Chi si deve ubriacare di vino buono lo deve fare. Lo dicono i genitori ai figli quando magari si fidanzano con qualcuno che secondo loro non è alla loro altezza.
Cu tuttu ca sugnu uorbu, la viu niura.
Sebbene sono cieco, la vedo nera. Un detto che indica un grande pessimismo.
Di ‘na figlia centu nori.
Di una figlia figlia cento nuore. Generalmente si dice che fa di una figlia cento nuore chi promette a
tanti di vendere o donare la stessa e sola cosa.
Fari lu fissa pi nun pagari la dugana.
Fare il fesso per non pagare dazio.
Figli nichi, guai nichi; figli ranni, guai ranni.
Figli piccoli guai piccoli; figli grandi guai grandi. Vale a dire che finché i figli sono piccoli i problemi nei rapporti con loro non sono insuperabili, tutto sommato si dice che finché la sera quando si
va a letto si è tutti in casa c’è da stare tranquilli, ma quando i figli crescono i problemi diventano
sempre più grandi ed aumentano le preoccupazioni.
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Iri a ligna senza corda.
Andare a legna senza corda. Si dice di chi è inadeguato a svolgere una qualche funzione.
La gaddrina ca camina porta la vozza china.
La gallina che va in giro torna con lo stomaco pieno.
La ‘nchiusa pi’ lu mmiernu.
La riserva per l’inverno. I contadini erano molto contenti se riuscivano, al momento del raccolto, a
mettere nel granaio tanto frumento per i bisogni della famiglia per tutto l’inverno.
L’aciaddru ni la gaggia o canta p’amuri o canta pi raggia.
L’uccello nella gabbia o canta per amore o canta per rabbia.
L’acqua fa mali e lu vinu fa cantari.
L’acqua fa male e il vino fa cantare. Diceva il mio bisnonno che se l’acqua era buona non scorreva
nei ruscelli.
Li corna sù cuomu li dienti: duolino quannu spuntanu, ma pua siervinu pi mangiari.
Le corna sono come i denti: dolgono quando spuntano, ma poi servono per mangiare. Si dice di chi
per convenienza si è rassegnato e finge di ignorare la relazione della moglie con persona che gli
può procurare un utile economico.
Lu curnutu a lu so paisi, lu sceccu unni va va.
Il cornuto al suo paese, il somaro dove va va. Cioè il cornuto lo si riconosce solo al proprio paese,
mentre il cretino lo si conosce subito e ovunque.
Lu dittu di l’anticu non fallisci.
Il detto degli antichi non fallisce. Si dice per dare più valore a un proverbio antico.
Lu vitti ‘mmucca a un cani.
L’ho visto in bocca a un cane. È un modo scherzoso per rispondere a qualcuno che cerca qualcosa.
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Lu pisci feti di la testa.
Il pesce puzza dalla testa. Nel senso che se la società non è sana la colpa è di chi la governa.
Lu surci dissi a la nuci: “dammi tiampu ca ti spirtusu”.
Il topo disse alla noce: “dammi tempo che ti faccio un buco”.
Mala via fa lu fumu.
Il fumo ha preso una brutta via. Lo si diceva a qualcuno che non si comportava bene.
Mamma Ciccu mi tocca; Ciccu toccami.
Mamma, Francesco mi tocca; Francesco toccami. Era la scena tipica di due fratelli che si stuzzicavano, prendendoci gusto, l’uno accusava l’altro di esserne il responsabile, ma nello stesso tempo lo
sollecitava.
‘Mbriachi e picciriddri lu signuri l’aiuta.
Ubriachi e bimbi il signore li aiuta. Lo si diceva in genere quando un bambino cadeva rovinosamente senza farsi alcun male.
Migliu diri chi sacciu ca diri chi sapiva.
Meglio dire che ne sò che dire che sapevo.
Miagliu lu tinto canusciutu ca lu buanu a canusciri.
Meglio il cattivo conosciuto che il buono da conoscere.
Misericordia dissiru li griddri quannu si detti fuacu a li ristucci.
Misericordia dissero i grilli quando si diede fuoco alle stoppie. Si dice quando ci si trova in una situazione senza scampo. La parola misericordia non è invocazione, ma constatazione che non c’è
scampo.
Monaci e parrini viditici la missa e stuccatici li rini.
Monaci e preti seguiteli a messa ma rompetegli la schiena. Nel senso di ascoltare le cose che dicono i preti senza fermarsi a guardare i loro comportamenti che non sempre sono in linea con le cose
che predicano.
Nca cuamu voli Ddia, Cc’è cu mangia e cu talia!
Ma, come vuole Dio, c’è chi mangia e chi guarda. La rassegnazione della povera gente costretta a
stare dalla parte di chi guarda.
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Nun taliari quanti siti ma cu cu siti.
Non guardare quanti siete ma con chi siete.
Ogni minestra voli essere tastata.
Ogni minestra vuole essere assaggiata. Nel senso che è buona norma non fidarsi delle apparenze.
O santa lagnusia ‘un m’abbannunari ca mancu spieru abbannunari a tia.
O santa pigrizia non mi abbandonare che io pure spero di non abbandonarti. Anche se detto in prima persona si usa per criticare la pigrizia degli altri.
Picciutti e muli vunu stari suli.
Giovanotti e muli vogliono restare soli. Sta a dire che ai giovanotti va lasciato lo spazio per realizzarsi.
Pungiri lu sceccu ni la muntata.
Pungolare il somaro nella salita.
Quantu è laida la vista di l’uacchi.
Quanto è brutta la vista degli occhi. Quando è brutto vedere cose belle che poi non si possono avere.
Quannu la furtuna nun ti dici jettati ‘nterra e cuagli vavaluci.
Quando la fortuna non ti parla gettati a terra e raccogli lumache. La preparazione e la serietà non
valgono niente senza l’aiuto della fortuna.
Quannu lu diavulu t’accarizza voli l’arma.
Quando il diavolo ti accarezza vuole l’anima. Quando qualcuno ti riserva tante attenzioni e probabile che vuole chiederti qualcosa.
Quannu lu pedi camina lu cori sciala.
Quando si va in giro il cuore è allegro.
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Sali mitticcianni na visazza conzala cumu vua è sempri cucuzza.
Sale mettine una bisaccia condiscila come vuoi è sempre “cucuzza”. Le “cucuzze” sono zucche
lunghe molto diffuse in Sicilia. Si mangiano, nel periodo estivo, bollite e condite con olio, sale e pepe. Si dice che siano rinfrescanti ma sono sicuramente poco saporite.
Sa unni ci lucinu l’uacchi.
Chi sa dove gli luccicano gli occhi. Si dice di una persona che è sparita improvvisamente e non si
riesce ad untuire dov’è.
Scassapagliara.
Distruggipagliai. Ladruncoli di poco conto.
Scrusciu di carta e cubaita nenti.
Rumore di carta e torrone niente. Si dice quando qualcosa in apparenza promette tanto ma alla fine
non c’è niente di buono.
Siccari lu cori.
Seccarsi del cuore. Si secca il cuore per un’aspettativa delusa o per un desiderio non soddisfatto.
Si ungiaru: pani duru e cutiaddro ca nu taglia.
Si sono messi insieme: pane duro e coltello che non taglia.
Tri cosi lu signuri non potti cangiari: cucummari, cucuzzi e testi di viddrani.
Tre cose il Signore non è riuscito a modificare: cocomeri, zucche e teste di contadini.
Unni va lu sceccu va la cuda.
Dove va l’asino va la coda. Si dice di una persona che segue sempre un’altra senza pensare con la
sua testa.
Un patri campa 7 figli, 7 figli nun puanu campari un patri.
Un padre mantiene 7 figli, 7 figli non possono mantenere un padre. È un modo di dire facile da capire e sempre attuale anche se adesso non ci sono più sette figli da mantenere.
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La Settimana santa
Ancora una volta, per parlare dei riti della Passione ricorro allo scritto di Giovanni Mulè
Bertòlo, “MEMORIE DEL COMUNE DI VILLALBA” pubblicato nel 1900 che a pagina 255 e segg.
così descrive la devozione e la partecipazione con cui i Villalbesi seguono la commemorazione della Settimana santa soprattutto del Giovedì e Venerdì.
La Settimana santa è, come tutti sappiamo, una serie di giorni, nei quali predominano la compuntazione e la mestizia, perchè le cerimonie, che in esse si compiono con quella semplicità, onde la religione dell’amore e del perdono ama e preferisce di ammantarsi, commemorano la istituzione della eucaristia e riproducono la passione e la morte di Gesù Cristo, procedendosi alla preparazione delle solennità pasquali. Tutto ciò che sa di mondano è totalmente proscritto.
Nulla di speciale presentano i primi tre giorni e l’ultimo di questa settimana, e però li salto a pie’
pari. Invece richiamo a sè la mia attenzione il giovedì e il venerdì, nel quali si compenetra e si compendia per i Villalbesi la Settimana santa.
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Il giovedì nella piazza della madre chiesa e nelle ore pomeridiane si appresta una tavola sontuosa e
ricca. Si chiama la Cena del Signore il giovedì santo: vocatur enim haec dies Coena Domini.
Un agnello pasquale di zucchero, una zinna di vacca, una melarancia, una lattuga, un carciofo, un
finocchio dolce, un pane di siligine mista a zucchero stanno innanzi a ciascuno dei posti destinati ai
dodici apostoli.
Nel centro della tavola sta un agnello di zucchero molto più grande degli altri: delle sue carni devono cibarsi gli apostoli.
Un popolo immenso gremisce la piazza, i balconi e le finestre, che vi fanno prospettiva, rigurgitano di donne e di fanciulli, che attendono la venuta del Redentore e dei dodici discepoli. Una detonazione di mortaretto annunzia la venuta, la quale procede a suon di bàttola.
Gli apostoli vestono un bianchissimo càmice, che va giù sino ai piedi, e portano un lungo bastone,
la cui capocchia è costituita da un mazzo di fiori legato con un bel nastro di seta. Il Cristo è involto in
una cappamagna a fondo nero ed orlato con frangia di color giallo.
Giunti dinanzi alla tavola ciascuno occupa il suo posto. S. Pietro lava i piedi ai compagni, s. Giovanni li asciuga e Cristo li bacia. Indi questi amministra il sacramento dell’Eucaristia agli apostoli e poi
dà ai medesimi una fetta delle carni dell’Agnello.
Terminata la cerimonia, ritornano alla chiesa, dove si compiono le funzioni di rito.
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Siamo al venerdì santo.
«Le funzioni e le cerimonie di questo
giorno sono tutte piene di tristezza e di lutto, perchè sono destinate a rappresentare il
dolore della Chiesa per la morte del suo divinissimo sposo».
Nelle ore antimeridiane il quaresimalista
espone la vita di Cristo, divisa in sette parti.
Alla fine di ciascuna parte un coro di fedeli,
tutti contadini, alterna il canto dello Stabat
e del Popule meus: questo canto in vernacolo è detto si loda.
Sino a pochi anni addietro, tale funzione aveva luogo la sera del giovedì santo,
ma siccome i tempi son tristi e la morale a
cagione dell’ora riceveva strappi ed offese,
il sentimento religioso consigliò di rimettere
alle ore antimeridiane del venerdì la storia
della passione di Cristo.
Compiute le cerimonie di rito in chiesa,
alle ore 18 d’Italia i preti ed i chierici in abito di lutto, preceduti da un tamburo velato
a nero e dalle corde rallentate, che suona a
colpi distaccati, annunzianti sventura e do-
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lore, portano al Calvario Gesù Cristo disteso sur una bara. Si anticipa così di tre ore
la morte del Salvatore del
mondo!
Pervenuta la processione,
che parte dalla chiesa madre,
nei pressi della piazza della
Concezione, spunta dalla traversa Vizzini l’Addolorata, la
quale va in cerca del diletto figlio e trovatolo gli tien dietro
sino al doloroso passo.
La mestizia di quel momento distende il suo velo sul
volto di tutti i credenti nell’ira
ventura e predomina e impera una compunzione vera,
reale, fortemente sentita.
Eccoci al Calvario!
È una collinetta, che par
fatta apposta dalla natura per
si mesta cerimonia. Si ascende alla vetta gradatamente
per un ridosso, largo non più
di 16 metri, ai fianchi del
quale a pari intervalli sorgono
delle piccole cappelle deno37
minate stazioni della via crucis. Al culmine della collinetta si elevano, o a dir
esattamente, si elevano tre croci, non rimanendo in piedi oggi che quella di centro. Su questa s’inchioda il Redentore
del mondo e rimane spettacolo di profondo dolore e insieme di inaudita ingiustizia e d’ingratitudine senza nome.
La collinetta rivestita di un verde tappeto, coincidendo il venerdì santo col
tempo di primavera o poco prima, si
presenta da un capo all’altro, dalle ore
18 alle ore 24, gremita di fedeli d’ogni
sesso, d’ogni classe, d’ogni età, tutti genuflessi che pregano.
È una scena commovente, che la
penna non sa descrivere.
Un sacerdote, sul piedistallo della
croce, ad intervalli ricorda le fasi strazianti, le scene tremende del martirio di
Cristo e ad intervalli i soliti cori intuonano le note lamentevoli dello Stabat mater e del Popule meus.
Alle ore 21 il sacerdote annunzia la
morte del figlio di Dio e le campane delle chiese fanno sentire i loro lugubri rintocchi, e contemporaneamente lo sparo
di grossi mortaretti, entro spelonche incavate nella collinetta, provocano di questa una scossa che par di tremuoto. L’effetto non può essere
meglio indovinato!
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In quella medesima ora le congregazioni religiose, il clero, i gentiluomini vestiti a nero, donne coperte di gramaglie, in una parola, tutto il popolo è lì in atto di preghiera e con le lagrime agli occhi.
La musica con le sue meste melodie completa quella scena, che intender non la può chi non la
prova!
Alle ore 24 ha luogo la deposizione di Cristo dalla croce: la salma è posta entro un’urna elegantemente adornata, la quale viene portata dai consolidati della congregazione del ss. Sagramento ed è seguita immediatamente dalla statua dell’Addolorata.
Clero, autorità, confraternite, gentiluomini, scolaresca, tutti i cittadini, disposti in ordinata processione, rischiarata da innumerevoli e quantità di ceri,
accompagnano il corpo esanime del Salvatore alla
madre chiesa, percorrendo la via Maggiore, parte
della traversa dell’Abbeveratoio e la strada della madrice.
Tutti i balconi, tutte le finestre, che stanno a
prospettiva delle suaccennate vie, sono riccamente
illuminate.
Entrati in chiesa, il quaresimalista, asceso il pulpito, pronunzia un breve discorso, il quale ogni anno ha una chiusa, direi, obbligata: la indicazione del
luogo, in cui dev’essere deposta la salma del Redendore, e questo luogo fortunato o è il cuore delle verginelle o è il cuore dei ministri dell’altare.
Così hanno termine le cerimonie della settimana santa, le quali, specie il venerdì, attraggono ogni
anno molti cittadini dei finitimi comuni.
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Venerdì Santo con i
personaggi viventi
(1983)
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(foto di Giuseppe Virgiglio)
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I canti...
La ladata
La ladata
Abbatti ddrùacu! Ehhh, talè talè!
Allèghira, mula, allegra,
allegra c’am’a ffari paglia, massara! talè talè!
E ttìralu ssu pedi, e lu vidi ca l’àutru veni.
Allegra mula allegra!
E ttàgliala e rritàglia,
ca veni lu vìantu e ssi la pìglia.
E cavaddru, cavaddru, talè!
E trappulìa, trappulìa,
ca la paglia abbianchìa
e lu furmìantu arrusicchìa.
E allìasti beddra armala
ca t’à ppurtari na bbella nova.
E cchi nnova è arrivata,
sia ladatu e rringraziatu lu nomu
di lu ddivinìssimu Sagramentu.
Ebbiva di lu Càrminu Maria
Maria netta e ccuncetta
senza màcchia di piccatu ‘ncialu a me.
Allegra, mula, allegra!
E sant’Alò bbinidittu
ca ni guarda l’armaluzzi
a nnu e a ccu nn’avi ancora.
E santa Luciuzza
ca ni guarda la vista di l’ùacchi
a nnu e a ttutti li criaturi di lu munnu.
E la madunnuzza di Tagliavia
ca ni scanza ogni prìculu, ogni via.
E santa Rusalia
ca ni scanza di pesti, di càuci,
tirrimoti, malatia e mmorti mprovvisa,
libbera sdòmini. O libbera sdòmini, Signuri!
E la madunnuzza di Luritu
ca ni scanza d’ogni priculu.
E la madunnuzza di Gibilmanna
ca ni cci arraccumannamu lu cori,
lu cùarpu e ll’arma.
E ppìglia di susu e pòrtala nti ssu funnu
ca cc’è lu patri di tuttu lu munnu.
E Palermu, Napuli e Supranu
fanu la festa a ssant’Austinu.
E tutti li santi sunu a Gulisanu
e lu santu Crucifissu a Busacchinu.
E lu signiruzzi di Bilici
ca pi nnu morsi a la cruci.
E ttri bboti si lada lu Signuri,
Maria, l’Eternità, lu Sarvaturi.
E ttri bboti l’amu dittu
E ttri bboti l’amu ladatu
cchiddru Ddia ca n’a ccriatu
ad ogn’ura, ogni momentu
Maria, l’Eternità, lu Sagramentu, a Dio Maria.
E firrìa tri bboti ntunnu
e pporta parola c’am’a gghiri a lu vìantu.
E ttu a lu vìantu e ia a lu rrivìantu
ia ngràzia di Ddia e ttu nsarvamìantu.
E nsarvamìantu, muli!
Abbatti là! Ehhh, talé talé!
Allegra, mula, allegra,
allegra che dobbiamo fare la paglia, massara!
E tiralo quel piede, e vedrai che l’altro lo segue.
Allegra, mula, allegra.
E tagliala e ritagliala
che viene il vento e se la piglia.
Eh cavallo, cavallo, talè!
E pesta e ripesta
che la paglia imbianca
e il frumento arrossa.
E sbrigati bell’animale
che debbo portarti una buona nuova.
E che nuova è arrivata,
sia lodato e ringraziato il nome
del divinissimo Sacramento
Evviva Maria del Carmine
Maria netta e concetta
senza macchia di peccato in cielo, a me.
Allegra, mula, allegra!
E sant’Alò benedetto
che ci guarda gli animali
a noi e a chi ne ha ancora.
E santa Lucia
che ci guarda la vista degli occhi
a noi e a tutte le creature del mondo.
E la madonna di Tagliavia
che ci scansa da ogni pericolo, da ogni via.
E santa Rosalia
che ci scampa di peste, calci,
terremoti, malattie e morte improvvisa
libera nos, domine. O libera nos, domine, Signore!
E la madonna di Loreto
ca ci scansa da ogni pericolo.
E la madonna di Gibilmanna
che le raccomandiamo il cuore,
il corpo e l’anima.
E pigliala di sopra e portala nel fondo
dove sta il padre di tutto il mondo.
E Palermo, Napoli e Soprano
fanno la festa a sant’Agostino.
E tutti i santi sono a Collesano
e il santo Crocifisso a Bisacquino.
E il signore di Bilici
che per noi morì in croce.
E tre volte si loda il Signore,
Maria, l’Eternità, il Salvatore.
E tre volte l’abbiamo detto
e tre volte l’abbiamo lodato
quel Dio che ci ha creato
ad ogni ora, ogni momento
Maria, l’Eternità, il Sacramento, a Dio Maria.
E gira tre volte intorno
e porta parola che dobbiamo andare al riposo.
E tu al riposo ed io al riposo
io in grazia di Dio e tu in salvamento.
E in salvamento, muli!
45
Amuri amuri chi m’a fattu fari
m’a fattu fari na grandi pazzìa
lu patrinostru m’a fattu scurdari
la mèglia parti di l’avirmarìa.
Amore amore, che m’hai fatto fare
m’hai fatto fare una grande pazzia
il padrenostro m’hai fatto scordare,
la maggior parte dell’avemaria.
Ivu mPalermu e cci stetti tri gghiorna
ca si ssapiva cci stava tri anni;
c’apprìassu mi currìaru tanti donni
ca mancu ntra un cannitu tanti canni.
Andai a Palermo, ci sono stato tre giorni
che se sapevo ci stavo tre anni;
che mi corsero appresso tante donne
che neppure in un canneto tante canne.
Cu la me amanti lu fìcimu un pattu
cu mori prima si vesti d’aluttu.
Con la mia amante lo facemmo un patto
chi muore prima si veste a lutto.
Il carcerato la notte sogna
pensa alla libertà, muore e si danna.
Lu carzaratu la notti si sonna,
penza a la libbertà, mori e ss’addanna.
Sutta lu to fadali cc’è lu meli
sugnu picciùattu e lu vurria tastari.
Sotto il tuo grembiule ci sta il miele
sono picciotto, e lo vorrei assaggiare.
Malata ti vurrìa a lu spitali
na pàula maligna nta lu cori
e lu dutturi chi ti pozza urdinari
na sputazzeddra di lu primu amuri
ca di mia era ti facìa muriri
ca stassi triccent’anni a nu sputari.
Lu mali di li fìmmini è la panza
ca ncàglianu l’anciddru di lu nìgliu.
Malata ti vorrei all’ospedale
un tumore maligno nel cuore;
e il dottore ti possa ordinare
un po’ di saliva del primo amore;
chè, per me fosse, ti farei morire
chè starei trecent’anni senza sputare.
Il male delle femmine è la pancia
chè agganciano l’anguilla senza lenza.
Lo vo sapiri ia picchì un ti vùagliu
si ttutta grampiata di lu nìgliu.
Lo vuoi sapere perché non ti voglio
sei tutta graffiata dal nibbio.
“Gnura Pippina faciti ssa bbasa
viditi si mmi voli sta carusa
ca primu di fari la bbasa
spiati s’è mmassara o è llagnusa”.
“Ca di lu massarizzu un si nni parra
ca p’un cunzari lìattu dormi nterra”.
“Signora Peppina, fate voi la proposta,
vedete se mi vuole questa ragazza;
ma prima di fare la proposta
informatevi se è laboriosa oppure pigra”.
“Di laboriosità non se ne parla
che per non rifare il letto, dorme a terra”.
Chi ppatruni capitavu aguannu
mi duna càccia assà e mmalu cuvìarnu
lu pani mi la duna a quannu quannu
lu vinu misuratu cu lu cùarnu.
Che padrone ho trovato quest’anno
mi dà molto lavoro, e malo mangiare;
il pane me lo dà di tanto in tanto
il vino misurato con il corno.
Lu sùannu di la notti m’arrubbasti
ti lu purtasti a ddòrmiri cu ttia
gnià mprestamillu tu n’ura di sùannu
c’all’ùrtimi d’Aùstu ti lu rìannu.
Il sonno della notte mi hai rubato
a dormire con te lo hai portato;
prestamelo tu un’ora di sonno
che alla fine di Agosto te lo rendo.
Lo vuoi sapere quando mi quieto
quando dormo con te lato con lato.
Lo voui sapere qual è il miglior dormire
nel letto abbracciato con le femmine.
Sono lontano e mi iri il respiro,
pensa se ci dovessimo baciare.
Lu vo sapiri quannu mi quietu
quannu dormu cu ttia latu cu llatu.
Lu vo sapiri qual è lu mègliu dòrmiri
nti lu lettu abbrazzatu cu li fimmini.
Sugnu luntanu e lu hiatu mi tiri
ca penza si n’avùrramu a bbasari.
46
Nel volume di Giuseppe Ganci Battaglia, Streghe, stregoni e stregonerie in Sicilia, Organizz.
Ed. David Malato, Palermo, 1972, p. 141, troviamo questa leggenda su
PIZZO DI LAURO
A mezzogiorno di Villalba, un paesino a 55 chilometri da Caltanisetta, non molto lontano dal paese, giace una roccia grande e severa, circondata di mistero, di solitudine e di paure, denominata
“Pizzo di Lauro”, che domina la cima di un poggio e sorge fuori da un’aspre giogaia di monti.
Quante storie intorno a quella roccia! Storie di tesori nascosti e di terribili cani, custodi inesorabili
del tesoro, di brutte streghe e di belle fate; fate selvagge e crudeli che comandano sui nani, sui
diavoli, sulle streghe e sul tesoro, e da secoli vivono in quella roccia ove hanno, a loro disposizione, alti palagi tutti d’oro e di gemme e dove trascorrono, con personaggi misteriosi, tutte le notti
in canti e danze d’amore. E guai, guai a colui che si attentasse di farsi notare, di notte, in quelle
vicinanze!
La cima di questa roccia misteriosa, paurosa ma nello stesso tempo fortunata per gli innumerevoli
tesori che contiene, è alta, eretta e difficile a guadagnarsi. Colui che avesse la fortuna di raggiungerla diventerebbe il più ricco del mondo e il più felice, perché, oltre ad arricchir se stesso, arricchirebbe anche tutto il paese, del quale potrebbe perfino con tante ricchezze, lastricar d’oro tutte
le vie. Pure nessuno mai, in tanti secoli da che ha vita la leggenda, tentò di raggiungere la vetta
della roccia, la quale, quantunque dalla parte posteriore par che inviti a salire, pure, giunti a metà
della sua altezza, la salita si presenta talmente ripida e vertiginosa che più di un temerario è precipitato dall’alto di essa giù nel burrone sottostante. Raccontano, infatti, i contadini di quella contrada, che a notte alta, passando da quei pressi, hanno inteso voci sepolcrali e lamentevoli delle anime condannate a viver sempre qui, ripetere con voce angosciosa lo stornello:
Pizzu di Lauru, pri la to ricchezza
nui pirdemu la via e la salvezza
(Pizzo di Lauro, per la tua ricchezza
abbiamo perduto la vita e la salvezza).
Il giorno in cui qualche coraggioso, saprà guadagnare il vertice della roccia, disincantare nani,
streghe e fate, e portar via la ricchezza, le povere anime condannate, saranno liberate.
47
Ma sògira mi dissi va travàglia
nun fari maluppàtiri a mma figlia;
ca cci la nchivu la casa di paglia
ca po mmanciari la mamma e la figlia.
Mia suocera mi disse: va travaglia
non far patire la fame a mia figlia;
io gli ho riempito la casa di paglia
che può mangiare la mamma e la figlia.
Ca non ci vàiu cchiù a ccavaddru a sdùassu
ca nàtichi di culu un mmi nni lassu.
Non ci vado più a cavallo a dorso
che natiche di culo non ve ne lascio.
Affàccia a la finestra beddra figlia
trema lu visu mia comu na foglia
casi comu na pàmpana virmiglia
c’àbbiti nti li grasti di tirraglia
binidittu so ma’ c’appi ssa figlia
di li billizzi lu suli cummòglia.
Affaccia alla finestra bella figlia
trema il viso mio come una foglia;
che sei come un pampino vermiglio
che abiti nelle graste di terraglia;
benedetta sua madre, ch’ebbe questa figlia
con le bellezze sue copre il sole.
Fanci ca t’accattavu menza lira
fallu pi ccarità stòccati ora.
Falce che t’ho comprato mezza lira
fallo per carità, spezzati ora.
La ma fanci si chiama Sarafina
ca quannu vivi vinu meti bona.
Ca di lu tantu lu vìviri acqua
ca mi cantanu li ggiurani mmucca.
Curàggiu amuri mia vegnu di mètiri
li grana l’aiu cca un putemu pàtiri.
La mia falce si chiama Serafina
che quando beve vino miete bene.
Che del troppo bere acqua
le rane mi cantano in bocca.
Coraggio amore mio, vengo di mietere
i soldi li ho qua, non possiamo patire.
Conza ssu lettu e mitti ssi chiumazza
stasira è la nostra cuntintizza
conza ssu lettu e sparma ssi linzola
quantu mi vìagnu asciucu sti sudura
conza ssu lettu ncapu li to minni
quantu arriposu n’ura e po’ mi manni.
Prepara il letto e metti i cuscini
stasera è la nostra felicità;
prepara il letto e stendi le lenzuola
che io vengo ad asciugarmi questi sudori;
prepara il letto sopra il tuo seno
che io riposo un’ora, e poi mi mandi via.
Nti sta vaneddra cci stanu du suoru
ca tutti dui crìscinu a la para
la ranni beddra e la nica l’avanza
di una e ll’altra cc’è la differenza;
ia di la nica cci l’aiu la spranza
ca cu la ranni un ci aiu cunfidenza.
Sidici uri di stari a ffacci abbuccuni
li rini si li màncianu li cani.
In questo vicolo abitano due sorelle
e tutte e due crescono alla pari
la grande bella e la piccola l’avanza
dall’una all’altra c’è la differenza;
io nella piccola ho la speranza
chè con la grande non ho confidenza.
Sedici ore di stare a faccia bocconi
la schiena se la mangiano i cani.
La Francia cu l’America cummatti
comu un si vidi hiascu nti sti zotti.
La Francia con l’America combatte
e non si vede fiasco in queste zone.
Tu va dicìannu ca li coffi duni
mmeci l’ammiti tu li cristiani.
Tu vai dicendo che respingi gli amanti
invece sei tu che inviti le persone.
Vincenza mi purmisi quattru trunza
nni lu jardinu sua quann’accumencia
ia nun mùagliu nè ccàvuli e nè ttrunza
vuagliu na vasateddra di Vicenza.
Cùamu àiu a ffari ca nunn’àiu mamma
cu mi la duna na vota di minna
e mi la detti na carusa a quartoddiccianni
ca piniavu ia, diddra midenna.
Vincenza mi promise quattro torsi
nel suo giardino, quando crescono;
io non voglio né cavoli né torsi
voglio un bacetto di Vincenza.
Come debbo fare che non ho più mamma
chi me lo dà una poppata di mammella;
me la diede una ragazza a quattordici anni
che penai io e pure lei.
48
Bella ti la manciasti la mìannula amara
pi ffariti chiamari cavalera.
Bella te la mangiasti la mandorla amara
per farti chiamare cavaliera.
Quant’avi ca l’addrìavu a sta lattuca
ca n’antru si la fici la nzalata.
Quant’è che la coltivo questa lattuga
ma un altro se la fece l’inzalata.
Bella p’amari a ttia persi lu sceccu
ora dimmillu tu a ccu accravaccu.
Galera sì d’amuri dolci ntinni
stinnardu ca fa lustru a ttutti bbanni
d’oru lu pìattu e dd’argentu li minni
mmiatu ddru fanciullu ca cci arrenni
cu tasta latti di ssi bbianchi minni
campa quant’a Nnuvè novicent’anni.
Bella per amare te ho perso l’asino
ora dimmelo tu, a chi cavalco.
Prigione sei d’amore, dolce intento;
stendardo che fai lustro a tutte parti,
d’oro il petto e d’argento i seni
beato quel fanciullo che vi si appende,
chi assaggia latte da questi bianchi seni
campa quanto Noè, novecent’anni.
Chi si corica con te senza camicia
trova il paradiso e non riposa;
chi si corica con te una serata
a mezzanotte sale in paradiso.
A Marianopoli sono nere affumate
non hanno acqua e muoiono di sete;
a Mussomeli son le donne belle
hanno i calcagni come le cavalle;
a Vallelunga sono ammalariate
hanno le pance gonfie come bare.
Cu si curca cu ttia senza cammisa
trova lu paradisu e unn’arriposa
cu si curca cu ttia na siritina
a mmenzannotti mparadisu acchiana.
A li Manchi su nnìuri affumati
nunn’anu acqua e mmòrinu di siti;
a Mussomei su li donni bbeddri
ianu li garri comu li cavaddri;
a Baddrilonga su ammalariati
ianu li panzi comu li tabbuti.
Lu Vanzu di la finestra
...re Porco ama la tranquillità dell’animo e però ai trambusti militari preferisce lo svago e il diporto, passeggiando per la collina rocciosa, che sta a cavaliere della contrada, a prendere non una
boccata, ma un diluvio di boccate di aria quasi sempre frizzante, e a spaziar lo sguardo nella valle
sottostante a traverso una grande apertura formata da due giganteschi massi, che si elevano a circa tre metri di distanza sormontati da un altro masso orizzontale, che la fa da architrave. E questa
vedetta naturale chiamasi Rocca della finestra;
Giovanni Mulè Bertòlo, Memorie del Comune di Villalba
49
(1900)
50
un po’ di storia...
Villalba è un piccolo paese nel centro della Sicilia nella provincia di Caltanissetta. Come altri
paesi di questa zona è sorto nel cuore del feudo intorno alla fattoria padronale. ll paese, in sensibile
pendio, sta a specchio delle Madonie che si innalzano al di là di Polizzi Generosa. Tutto attorno alle
case spazia l’occhio sulle terre del feudo Miccichè.
Micciché a nome arabo (Mikiken) e il feudo è menzionato con suo nome originario in un diploma del 1175, con il quale, dirimendo una controversia tra il vescovo di Cefalù e la nobildonna Lucia Cammarata, si riconosceva a quest’ultima la signoria del feudo. Si giungeva allora al feudo di
Mikiken o dalla trazzera che da Karsa Nube (oggi Castronovo) e Rakalsacca (pietre Cadute) porta
verso l’alveo del fiume Platani, fino a Racalmincer (Regalmici), da dove per la trazzera di Yale (Alia)
per Kassaro o baronia di fontana Murata, fino al feudo di Rakalial, oggi Regaliali.
Le due strade, a forma di ipsilon, si congiungevano al casale di Mikiken, e ancora oggi si congiungono a Villalba, perché le odierne strade sono state ricavate sulle tracce delle antiche trazzere:
da Villalba, per i feudi di Turrumè, Tudia, Kibbò, Xirbi si giungeva e si giunge tuttora a Kalata-Nissa,
l’odierna Caltanissetta.
Secondo le attendibili notizie fornite dallo storico nisseno Giovanni Mule Bertolo, il primo signore che popolò le terre di Micciché, estese 1900 salme (4250 ettari circa), fu don Nicolò Palmeri
Calafato, il quale acquistò la baronia da Domenico Corvino Caccamo, barone di Villanova.
Le prime case del paese vennero costruite nel 1763 e le carte più antiche dell’archivio parrocchiale, circa nascite e morti sono dell’anno 1785. Nel censimento del 1795 il paese di Villalba è
popolato da 1018 abitanti, saliti a 4380 nel 1898.
Unica risorsa del paese e l’agricoltura, che i villalbesi esercitano anche nei feudi di Vicaretto,
Belice, Centosalme, Casabella, Mattarello e Chiapparia, in prevalenza come braccianti o mezzadri.
Il contratto di mezzadria, agli inizi di questo secolo, era ancora concepito in termini assolutamente vessatori e feudali. Il colono nel primo anno preparava la terra a sue spese, concimandola
con stallatico nella quantità minima di 25 carichi (circa 35 q.li) per tumulo di terra (14 are), e la seminava a legumi (fave o lenticchie) e il prodotto era tutto a suo beneficio. Se il proprietario aveva
anticipato le sementi, aveva diritto al rimborso con l’aggio di 5 tumuli per salma (32%). Il secondo
anno la terra veniva seminata a grano e il prodotto veniva diviso in parti uguali tra colono e proprietario. Quest’ultimo, con i suoi campieri, prima di operare la divisione, procedeva ai “prelievi” di diritto e di consuetudine.
Pianta territorio
di Villalba
(Catasto borbonico
1837)
51
Pianta Comune
di Villalba
(Catasto borbonico
1837)
Anzitutto venivano prelevati i diritti spettanti al proprietario, e cioè le sementi maggiorate del
32% (che veniva prelevato dalla quota del mezzadro); il secondo “prelievo” era costituito dalla cosiddetta “dote della terra” o terragiuolo, consistente in un canone minimo di 1 q.le di grano per ettaro di terra, anche esso interamente a carico del mezzadro, poiché l’anno prima il proprietario non
ne aveva avuto alcun utile; terza sottrazione quella per la cassa di ricchezza mobile, quarta la manutenzione del selciato delle stradelle. Quindi si prelevano 2 tumuli di grano per ogni salma di terra
(2,23 ettari) da destinare ai campieri, 1 tumulo per la lampada della masseria, mezzo tumulo per fare la “cuccia” (il grano bollito che si consumava per la festa di S. Lucia) e 1 tumulo per la santa
Chiesa e i monaci del convento.
A rendere ancor più misere le condizioni dei contadini, si aggiungevano inoltre i dazi e i balzelli che gravavano sul prodotto e sul bestiame.
Da un bilancio del consiglio civico del comune di Villalba dell’anno 1812 si rileva che il dazio
sul frumento era di 2 tari e 10 grani L. 1,06) sopra ogni salma di frumento (224 Kg); su ogni salma di
orzo, fave o legumi di 1 tari e 10 grani (L. 0,45); per “ogni testa di cavallo, bue, mulo e vacca (eccetto i seguaci)” di 2 tari e 10 grani; per ogni asina di 1 tari e 15 grani; per ogni 100 capre o pecore
di ó tari; e di 2 grani per ogni capo di carne macellata.
La storia civile di Villalba registra tutta una serie di ribellioni popolari, con le quali i contadini si
sollevarono contro il barone e la mafia per strappare un miglioramento dei patti agrari e con esso
una più umana condizione di vita.
Queste ribellioni cominciarono a verificarsi dopo l’abolizione della feudalità, nel 1812. Furono
alla testa dei contadini, giovani intellettuali della nuova piccola borghesia di Villalba.
Il primo moto rivoluzionario di cui abbiamo notizie a del 1820 e fa seguito ai moti del luglio di
Palermo; il popolo di Villalba tenta l’assalto alla casa di Don Nicolò Palmeri Morillo, barone di Micciché e marchese di Villalba, il quale pota a stento salvarsi la vita. Mule Bertolo cosi descrive l’episodio nella “Storia di Villalba”: “Un gruppo di gente perversa, la quale nei ricchi non vede che i
partigiani dell’aristocrazia, assalta il Palmeri, che non perde la vita grazie al suo segretario, G. Liberti, uomo dalle forme gigantesche, il quale devia un colpo di fucile, sparato al petto del marchese di
Villalba”.
Nel 1848, ancora in occasione del moto rivoluzionario di Palermo, i contadini di Villalba insorsero al grido di “viva Villalba; viva Palermo e viva Pio IX”. Vennero date alle fiamme le carte del regio giudice e si tentò invano di bruciare i contratti di mezzadria del feudo Micciché depositati nell’archivio di un notaio locale. I moti furono soffocati nel sangue. L’anno 1849 registra ben 19 contadini morti ammazzati nelle campagne di Villalba a opera di ignoti.
Nel 1860 manipoli di Villalbesi si aggregarono ai mille di Garibaldi.
52
Di fatto, comunque, il paese di Villalba rimase lungamente ad economia prettamente feudale,
sotto il peso di mezzadrie e concessioni assolutamente esosi.
La chiesa occupa il lato di fondo del rettangolo, e davanti ad essa scende quella che si chiamava
la via Grande, ed ora è detta via Libertà. Il lato opposto della piazza, quello da cui vi si entra per
una delle strade trasversali, la migliore, la centrale è occupata simmetricamente, ai due lati, da due
bar, con qualche sedia davanti alla porta. Il lato maggiore, a monte piazza, e costituito da due case,
in faccia alle quali altre due case chiudono il lato a valle: fra di esse scende la via centrale, che si
chiamava via del carcere e ora si chiama via Vittorio Veneto. Tutte queste case sono formate da un
piano terreno, da un primo piano e da una terrazza. Nel lato a monte, quello verso la chiesa è la sede della Democrazia cristiana, nella parte che si affaccia alla piazza; dietro di essa, nella parte che
da sulla trasversale via Crispi, e la casa di don Calò. Sullo sl lato, la casa verso corso Caltanissetta è
la Sede del Banco di Sicilia. Poco più lontano, fuori della piazza, è la caserma dei carabinieri.
Tutti i poteri mondani sono dunque affacciati su questi tre lati: la politica, l’economia, la vita sociale, la chiesa e la mafia. [...] Questa piazza a dunque come il palcoscenico di un teatro di tragedia dove dall’alba alla notte si mostrano i protagonisti: il popolo, i re, i tiranni, gli uccisori e il coro,
i servi e gli dèi, e tutte le possibili vicende vi si consumano nei gesti e nei simboli della vita quotidiana.
[...]
Fu qui che il 16 settembre 1944 avvenne la famosa strage di Villalba, che segno un momento importante all’inizio del movimento contadino per la terra e la libertà. Nessuno aveva ancora potuto
mettere piede su questa piazza interdetta. giorno era venuto a parlare Girolamo Li Causi. Don Calò
aveva acconsentito a che parlasse purché non toccasse gli, menti della terra, del feudo e della mafia, purché, soprattutto nessuno dei contadini venisse in piazza ad ascoltarli. La piazza, era occupata dai mafiosi, appoggiati in gruppo ai muri, o riuniti, con il nipote di don Calò, davanti alla casa
della Democrazia cristiana. Don Calò stava in mezzo alla piazza, con un bastone in mano; i contadini restavano fuori, lontani, nelle Ioro strade, dietro le finestre o sulle porte. [...]
Li Causi è l’uomo più popolare di Sicilia. ll suo coraggio, la sua figura, hanno un richiamo leggendario, la sua parola tocca i cuori, poiché egli parla la lingua del popolo, con conoscenza ed
amore. Così, alla sua voce, i contadini nascosti e atterriti sentirono come un impulso che li spinse
ad entrare nella piazza proibita, e Li Causi cominciò a parlare, a quella piccola folla imprevedibile,
del feudo Micciché, della terra, della mafia. Dalla chiesa madre lo scampanio del prete, fratello di
don Calò cercava di coprire quella voce. Ma i contadini lo ascoltavano e lo capivano. “Giusto è –
dicevano – binidittu lu latti chi ci detti sa matri. Lu vangelu dici”. Cosi essi rompevano il senso di
una servitù antica, disubbidivano, più che a un ordine, all’ordine, alla legge del potere, distruggevano l’autorità, disprezzavano e offendevano il prestigio.
Fu allora che don Calò, in mezzo alla piazza, grido: “Non è vero!”. Al suo grido, come a un segnale, i mafiosi cominciarono a sparare. Quattordici furono i feriti che caddero, mentre Li Causi gridava: “Fermi, sciagurati, concedo il contraddittorio!” Anche Li Causi fu ferito a un ginocchio.
Fu questo il maggior episodio di quel tempo della lotta contadina. [...]
53
Panorama dal campanile della Chiesa Madre
La Banda in giro per il paese la mattina della Festa di S. Giuseppe (2004)
54
le parole...
Quello che segue non vuole essere un dizionario ma la semplice raccolta di parole che a me, che
manco dal paese da moltissimi anni, serve per mantenere il ricordo e a volte per richiamare nella
mente una frase o un episodio.Ad esempio: mangio spesso dei pistacchi tostati e per me si chiamavano “pistacchi” fino a che durante l’ultima vacanza a Villalba non ho sentito urlare un venditore
ambulante: “fastuchi”!!! Era una parola che avevo completamente dimenticato...
È probabile che molte parole non siano scritte in modo corretto e con gli accenti mancanti o al posto sbagliato.
Abballari = ballare.
A bon’è = meno male.
Abbrazzari = abbracciare.
Abbruscari = bruciare le stoppie.
Abbrusciari = bruciare.
Acchianari = salire.
Accia = sedano.
Acitu = aceto.
Accussì = così.
Adasciu = adagio.
Addimurari = ritardare (si dice anche di una cosa non più fresca “addimurata”.
Addritta = impiedi.
Addrivari = allevare.
Agnieddru = agnello.
Aguannu = quest’anno.
Allammicari = fare la voglia di qualcosa difficile da ottenere.
Allibbirtarisi = sbrigarsi.
Ammaccari = pigiare, schiacciare.
Ammatula = inutilmente.
Ammiscari = mischiare.
Ammucciàtu = nascosto.
Antru = un altro.
Appinicatu = semiaddormentato
Appizzari = appendere.
Apprìassu = appresso.
Aremi = le carte da gioco di denari.
Aria = spiazzo pianeggiante dove si effettuava
la “Pisata”, cioè la trebbiatura del grano.
Arria = di nuovo.
Arrifriddari = far diventare freddo.
Arriminari = rigirare, mescolare.
Arrimuddrari = rendere molle.
Arrinesciri = riuscire.
Arripusari = prendere riposo.
Arrutuliare = avvolgere.
Assicutari = inseguire.
Astura = a quest’ora.
Astutari = spegnere.
Attagnari = fermare la fuoriuscita di sangue da
una ferita.
Avùrramu = dovessimo.
Bamminu = bambino (si riferisce soltanto al
bambino Gesù, il bambino invece si chiama
“carusu” o “picciriddru”).
Beddramatri = Bella madre.È riferito al nome
della Madonna.Viene usata come esclamazione per suggellare un giuramento.
Bruccetta = forchetta.
Bummulu = brocca (anfora) di terracotta (serviva per portarsi l’acqua in campagna, mentre
per conservare l’acqua in casa si usava un
contenitore sempre in terracotta ma più grande chiamato “quartara”.).
Bonarma = buonanima (si dice di solito parlando di una persona morta - “la bonarma”).
Cacuacciuli = carciofi.
Caddruazzu = il pezzo di salsiccia tra due legature.
Caliari = tostare (si calianu ad es.i ceci o le fave).
Caloriu/Caliddru = Calogero.
Cammisa = camicia.
Camurria = fastidio continuo.
Caniglia = crusca.
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Cannualu = rubinetto.
Cantaranu = cassettone, comò.
Canusciri = conoscere.
Capuliatu = carne macinata.
Carduna = cardi (si dice in senso figurato anche
di una persona ingenua e sempliciotta).
Carriari = trasportare.
Carusu = ragazzo.
Carzaratu = carcerato.
Cavaddru = cavallo.
Cavatuna = maccheroni.
Cerniri = setacciare.
Cchiu = più.
Chiazza = piazza.
Chiddru = quello.
Chistu = questo.
Chiuiri = chiudere.
Chiumazzu = cuscino.
Cipuddra = cipolla.
Coccia = chicchi.
Coffa = canestro fatto di foglie di palma selvatica.
Cravuni = carbone.
Criata = persona di servizio, serva.
Crita = creta, argilla.
Crivu = setaccio.
Crozza = teschio.
Crupìacchiu = coperchio.
Cùamu = come.
Cùarpu = corpo.
Cuccia = grano bollito che si mangia il giorno
di S.Lucia.
Cucuzza = zucche (si chiamano invece “cucuzzeddri” le zucche verdi e lunghe).
Cummigliari = coprire.
Cuntintizza = contentezza, felicità.
Cunzari = preparare (si usa sia come condire
es.”cunzari l’anzalata”, che come rifare
es.”cunzari lu liattu”).
Cuviarnu = governo.
Darisi adenzia = badare a se stesso.
Ddra = là.
Dicica = dice che (si dice).
Diddru = lui.
Difora = in campagna (lett.”di fuori”).Quando si
andava in campagna si diceva “iri difora”.
Ddru = quel.
Doppu = dopo.
Facisti = hai fatto.
Fadali = grembiule.
Farfantaria = bugia.
Fastuchi = Pistacchi.
Feddra = fetta.
Ficudinii = fichidindia.
Fimmini = femmine.
Firrìari = girare.
Friscaliattu = zufolo.
Froscia = frittata.
Frustiari = forestiere.
Funci = funghi.
Funcia = bocca.
Furmìantu = frumento.
Fuvu = sono stato
Gaddrini = galline.
Gaddru = gallo.
Garri = calcagni.
Gastimi = maledizioni.
Ggiurani = rane.
Gnura = signora.
Gnutticari = piegare.
Gregna = covone di grano.
Guasteddra = specie di pane fatto con pasta
non lievitata.
Guanni = Giovanni.
Ia = io.
Iddru = lui.
Inchiri = riempire.
Iri = andare.
Ittari = gettare.
Iumenta = giumenta.
Lagnusìa = pigrizia.
Limmitu = muro a secco usato in campagna per
deliminare la proprietà.
Lìattu = letto.
Lungarini = ovali (allungati).
Lustru = luce.
Maccu = passato di fave con finocchietti selvatici.
Malupàtiri = patire la fame.
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Mancu = neppure.
Mancusu = mancino.
Manta = coperta.
Margiu = palude.
Massaru = laborioso / massarizzu = laboriosità.
Mègliu = miglior.
Miagliu = meglio.
Miannuli = mandorle.
Miat’iddru = beato lui.
Milinciana = melanzana.
Minni = mammelle.
Mischinu = poveretto.
Mmiernu = inverno.
‘Mmucca = in bocca.
‘Mpinciri = inciampare, fermarsi a chiacchierare.
Mprestamillu = prestamelo.
Muddrica = mollica.
Munnari = sbucciare.
Nasca = naso (grande e deforme, altrimenti nasu).
‘Ncapu = sopra.
‘Ncialu = in cielo.
‘Ncuaddru = sulle spalle.
‘Ngiuria = nomignolo offensivo.
‘Ngrasciatu = sporco, sudicio.
‘Ngriddri = al dente.
Nichi = piccoli.
Niuru = nero.
Nuatri = noi.
Nuddru = nessuno.
‘Nzalata = insalata.
‘Nzama = non sia mai.
‘Nzamaddia = Dio non voglia.
‘Nzirtari = indovinare.
Pistari = pestare (si dice anche quando una persona insiste su qualcosa “la pista tantu”).
Pitittu = fame.
Pitrusinu = prezzemolo.
Prescia = fretta.
Priatoriu = purgatorio.
Prìculu = pericolo.
Prisintusu = presuntuoso.
Pua = poi.
Puddricinu = pulcino.
Pulizziari = pulire.
Pumadamuri = pomodori.
Purritu = marcio.
Puru = anche.
Putia = bottega / Putiaru = bottegaio.
Quadaruni = pentola grande di rame.
Quadararu = lo stagnino che riparava e stagnava le pentole.
Quadiari = scaldare.
Quatu = secchio.
Quartara = brocca di terracotta per trasportare e
conservare l’acqua.
Racina = uva.
Raggia = rabbia.
Il portone della “Robba”
Paglialora = locale nel quale si immagazzinava
la paglia di grano che serviva per foraggio.
Padeddra= padella.
Pàmpana = foglia.
Paparina = semi di papavero che si mettono sul
pane.
Paraccu = ombrello.
Parrinu = prete (anche padrino).
Passiari = passeggiare.
Peddri = pelle.
Picca = poco.
Piccamora = per ora.
Picchì = perché.
Picciriddri = bambini.
Pidicuddri = piccioli.
Piacura = pecora.
Pinuzzu/Peppi/Piddru = Giuseppe.
Pitirri = farina di grano duro ben cotto.
Pirrittuni = cedro.
Pirtusu = buco.
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Ralogiu = orologio.
Resca = lisca.
Rini = reni (si usava anche per indicare la schiena es.”mi fanu mali li rini”).
Ristuccia = stoppie.
Rituna = reti di corda che servivano per trasportare la paglia – riempiendoli e caricandoli
sui muli – dalla campagna a casa.
Rranni = grande.
Saimi = strutto.
Sanfàson = fatto alla come viene viene.
Santiari = bestemmiare.
Sasà = Rosario.
Sasizza = salsiccia.
Scantu = spavento.
Sceccu = asino.
Scinniri = scendere.
Scorcia = involucro, guscio.
Scurciari = scorticare.
Scurdari = scordare.
Sfingi = dolci fritti e riempiti di crema, tipo bignè.
Sicchiaru = serratura.
Siccu = magro.
Siddru = se.
Simana = settimana.
Sòggira = suocera.
Spacinnatu = disoccupato (lo si diceva anche
del contadino che avendo finito determinati
lavori nei campi era momentaneamente a riposo).
Spacu = spago.
Sparaciaddru = broccoletti.
Sparagnari = risparmiare.
Sparti = a parte.
Spàrtiri = dividere.
Spiartu = furbo.
Spichi = spighe.
Spirciari = bucare.
Spranza = speranza.
Spranzari = anche se deriva da “spranza” = speranza, viene usato nel senso di togliere ogni
speranza (lo si usa nel caso di una malattia
dalla quale non vi è possibilità di guarire).
Spruniari = spronare.
L’ingresso nel cortile della “Robba”
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Sputazza = saliva.
Squagliari = disfarsi.
Ssu = quel.
Stasira = stasera.
Stenniri = stendere.
Stigglioli = involtini di budelline di agnello o di
capretto.
Strata = strada.
Stricari = strofinare.
Stuccari = spezzare.
Struppiari = fare male.
Stuppari = sturare.
Stuppagliu = tappo.
Sùannu = sonno.
Sucu = succo, salsa.
Sunari = suonare.
Surci = topo (viene usato in questa forma sia
nel singolare che nel plurale).
Surdatu = soldato.
Surfaru = zolfo.
Susiri = alzare.
Susu = sopra.
Svacantari = svuotare.
Tabbutu = cassa da morto.
Tagliarina = tagliolini.
Taliàri = guardare.
Tanticchieddra = un po’.
Tammurinu = tamburo.
Taralli = biscotti tipo savoiardi.
Tastari = assaggiare.
Tècchia = un poco.
Tìampu = tempo.
Tinnirumi = cime delle piante delle zucche verdi (cucuzzeddra).
Tintu = di mala qualità, cattivo.
Totò = Salvatore.
Trasiri = entrare.
Travagliari = lavorare.
Ttia = te.
Tunnu = rotondo.
Tumazzu = formaggio.
Uacchi = occhi.
Uamini = uomini.
Ummira = ombra.
Vacanti = vuote.
Vaneddra = strada.
Varva = barba.
Vasciu = basso.
Vavaluci = lumache.
Vìangnu = vengo.
Vìantu = vento.
Visazza = bisaccia.
Vossia = vostra signoria (si usava per rivolgersi
rispettosamente ai genitori e agli adulti in genere con il significato di “voi”).
Vrazza = braccia.
Vùagliu = voglio.
Vucca = bocca.
Vurrìa = vorrei.
Zappuni = zappa.
Zaùrdu = zotico.
Zi e Za = zio e zia.Usava mettere prima del nome di una persona più grande di età “zi” o
“za”, mentre per parlare dei propri zii si diceva “ma zi” (mio zio).
Zippuli = pezzetti di un impasto di farina condita con grasso e fritti.
Zitu e zita = fidanzato e fidanzata.
Zuccaru = zucchero.
La chiesina nei pressi della “Robba”
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Matrimonio (1965)
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la mia famiglia...
Santo Lumia con figli e nipoti (l’ultimo a destra e mio padre)
Nonna Luigia Russo
con in braccio mio
padre
Mia mamma (la
prima a sinistra)
con amici
Mia mamma il giorno
della prima comunione
Nonna Luigia
Russo con sua
sorella Santa
I nonni Lumia
con i figli
Giovanna,
Giuseppina,
Maria
e Calogero
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Zio Calogero Ferrara (primo a sinistra), io piccolo, nonno Salvatore (ultimo a destra) e un gruppo di amici dello zio
I miei genitori il giorno del matrimonio.
Luisella
e io
Mio padre e mio
fratello
Giuseppe
Mia cugina Luisella Zaffutto,
mia sorella ed io
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I Cavalieri di Vittorio Veneto
(nonno Salvatore Ferrara è
l’ultimo a destra, seduto)
Sul “cozzo di Pirtusiddu” con moglie e figli...
La mia famiglia il giorno della festa per il 55° anniversario di matrimonio dei miei genitori (2004)
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Le foto di questo libretto sono quasi tutte scattate da me
in occasione dei miei soggiorni a Villalba.
Le tre foto riprese dal deltaplano sono di Giuseppe Virgiglio.
La foto della Chiesa di p. 50 è di Michele Salvo (inizio del 1900).
Delle foto antiche non si conosce l’autore.
Per i testi ho attinto notizie da varie pubblicazioni e in particolare:
Giovanni Mulè Bertòlo, Memorie del Comune di Villalba, 1900
Luigi Lumia, Villalba, storia e memoria, 1990
Stampato in proprio nell’aprile del 2005