Finzione, morte ed erranza: nella poesia di Titti Ferrando
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Finzione, morte ed erranza: nella poesia di Titti Ferrando
Finzione, morte ed erranza: nella poesia di Titti Ferrando “Un poeta non è mai quello che sembra”, recita l’epigrafe al blog personale di Titti Ferrando, a richiamare quella famosa definizione che Pessoa diede del poeta: “Il poeta è un fingitore / finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente”. Nei versi di Pessoa la finzione, da iniziale antidoto al dolore, diventa sua chiave d’accesso. Mi pare che ciò avvenga in queste poesie, dove il poeta come oggetto e/o fonte di finzione è tematizzato più volte (ben tre), e tutte in stretta correlazione con un dolore, una diversa fine. Non è facile tematizzare i poeti in poesia. Il maggiore rischio che si corre è quello di idealizzarne la figura, fare del poeta l’essere superiore e sensibile, una specie di salvatore laico, magari sottolineato da una maiuscola. Questo tipo di caduta, infantile e didascalica, è una sorta di cartina al tornasole per capire se chi scrive sa usare o no il suo strumento, se è lontano o no dalla sua materia. Titti Ferrando appartiene, a mio avviso, alla schiera di chi è vicinissimo alla propria materia, e proprio per questo ha saputo affinare lo strumento espressivo per evitare o almeno ridurre al minimo il rischio di sentimentalismo, patetismo o idealizzazione insita in questo tipo di tematiche. Vediamo come e dove questo avviene. Anzitutto, due volte su tre – in “Se una notte d’estate” e in “Cadenza d’inganno” – il poeta è solo nominato, e quindi non descritto, non eroicizzato. Nella prima poesia il poeta è appena un’ipotesi, un’immaginazione (non a caso il testo si apre con un “se” ipotetico) la cui sola funzione è quella di testimonianza muta, dello sguardo: “mi vedrebbe distesa nell’erba / avvolta nella mia storia”. Qui il poeta agisce come un ruolo che può essere staccato dal corpo: non è reale nella misura in cui non possiamo identificarlo con la totalità fisica e biologica di chi scrive. Se azzardiamo invece tale sostituzione metonimica (poeta come testimone di dolore = poeta come persona che scrive), la delusione si fa cocente: “la parola non è mai innocente / neanche quella dei poeti”. Questo finale sentenzioso, sunto di una poesia (“Il poeta”) notevole per leggerezza e amara e partecipe ironia, mi ha ricordato nei modi Vivian Lamarque. Il poeta come persona fisica, nella riflessività autoreferenziale che è componente stessa dello scrivere (“Si ascoltava parecchio / si ascoltava pensare”) cade preda di un’auto-illusione (“Credeva d’aver dato molto”, corsivo mio). Egli, sembra suggerirci qui Ferrando, pecca in buonafede, ma non per questo non deve essere sottoposto a critica (anzi, autocritica). In “Cadenza d’inganno”, come in “Se una notte d’estate” e a differenza di “Il poeta”, del poeta si esplicita il suo non essere reale: “cadenza d’inganno / di poeti immaginati” (corsivi miei). La cadenza d’inganno è una formula melodica che “crea un momento di sospensione che determina un aumento d’interesse verso la composizione in quanto la sensazione di una conclusione viene disattesa” (Wikipedia). Se prendiamo l’espressione “cadenza d’inganno” in questa accezione tecnica, allora la valenza che assume in questa poesia è dolorosamente calzante: le allusioni a un suicidio o comunque a una morte inattesa nei primi versi (“dell’ultimo / attimo il gesto e il respiro”) rispecchiano questa fine deviante, ma al tempo stesso la sconfessano nel segno di una “conclusione *che+ viene disattesa” in quanto la vita – di cui “linea del palmo che stringo / nel pugno” è una specie di perifrasi – viene comunque affermata (“è”). Viene in mente l’Ungaretti di “Veglia”: “non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita”. Alla vita si resta comunque attaccati, o la si stringe nel pugno, nell’illusione che non sfugga. Questa sensibilità, anzi sensitività nei confronti della fine, della dissoluzione, impregna di sé ogni poesia: è una sensibilità barocca, ma senza gli eccessi espressivi del barocco. C’è anzi un dettato poetico preciso e scandito, alieno alle volute: una luce chiaroscurale netta, Caravaggesca. Penso in particolare a “Le quattordici”, dove le tracce della morte (“paura d’ossa e di capelli”, “natura morta”) sono esorcizzate dalla finzione – ora forse sì in accezione positiva – che continua “a inventare segreti /e perdoni per le bambole”. Alle forti tracce barocche di questa poesia se ne aggiungono di surrealistiche, che richiamano alla mente Lorca e, più in generale, una visionarietà mediterranea (“riempio i miei stivali di pesci / e acqua di mare”). A Lorca fanno pensare i tropi del cavallo, dello stagno e dell’annegare, al Picasso di “Guernica” gli occhi sbarrati (le stelle aguzze sembrano invece rimandare a Van Gogh). C’è una costellazione coerente in tutto ciò: Lorca, con altri poeti spagnoli d’inizio novecento (la “Generazione del ‘27”) si proponeva di raccogliere l’eredità di Góngora, il grande poeta barocco del Seicento spagnolo; e Ungaretti stesso, a cui ho accennato prima, è stato in Italia il maggiore esponente del recupero barocco (traducendo Góngora, fra l’altro). Ma i riferimenti vanno anche a poeti più discorsivi: penso a Montale, a cui l’ultimo verso di questa poesia si richiama (“E non so amare che ombre” ricorda “Ma è possibile, / lo sai, amare un’ombra, ombra noi stessi”, versi dell’ultimo Montale), e a Raboni, che intitolò una sua raccolta proprio Cadenza d’inganno. Per non dire del calco sintattico da un titolo di Calvino (Se una notte d’inverno un viaggiatore) nel verso “Se una notte d’estate un poeta”. Poeti e narratori che agiscono dunque come memoria consapevole o inconscia, ma sempre come punti di appoggio e compagni di viaggio lungo un percorso comunque personale. Mi pare anche interessante constatare che siano tutti autori uomini, fatto – credo – poco comune, dato il frequente riferirsi di poetesse ad altre poetesse (o poete, se si preferisce). La poesia di Ferrando ha sì dei tratti tipicamente riferibili come “femminili” (si veda la poesia “Durante me”, e in particolare l’ultimo, sarcastico e doloroso verso: “(ma noi donne siamo così brave ad aspettare)”). Oppure anche la fisicità della voce e della lingua poetica (tre esempi su tutti: “scalciare nell’aria orme di parole / non dette”, “Non credevo che la compassione / mi facesse cadere preghiere dalle labbra”, e “premendomi contro le parole”). Una fisicità archetipica, non cronachistica né circostanziata, ma piuttosto vicina agli esiti del realismo magico teorizzato per il romanzo latinoamericano (definizione che rimanda, fra l’altro, all’abolizione di ogni confine netto tra realtà e finzione, in accordo con le poesie di Ferrando). Il catalogo dei temi non sarebbe completo se non aggiungessimo almeno quello della compartecipazione umana (“Lo sguardo dal ponte”: si noti come il vedere, il testimoniare torni ancora, insieme alla morte, in una triade fortemente interrelata) e dell’erranza (”In gemiti di passi incerti”: anche qui c’è un eco dell’erranza gitana andalusa, perfino in certi versi ripetuti come da ballata, e la morte, anzi “innumerevoli piccole morti”). Uno spaesamento esistenziale, certo, ma la cui angoscia è controbilanciata, tutto sommato, da una positività di fondo, perché non avere radici aiuta a essere più disponibili all’ascolto, più aperti all’imprevisto, tanto che c’è una componente volitiva in tutto ciò (“Questo volermi fare spazio”, corsivo mio). Una piccola nota, a mo’ di conclusione, sulla lingua poetica di Ferrando. Avevo accennato a una dizione composta, elegante: basta scorrere i versi per accorgersi di come gli enjambement forti siano evitati o ridotti al minimo, il periodare sia ampio ma mai convoluto, e la tipologia versale rimandi alla tradizione della ballata (i parisillabi, soprattutto ottonari e decasillabi, prevalgono forse sui tradizionali imparisillabi), che è dopotutto il genere dove si mescolano specificità dell’io poetante e un senso di collettività, di destino comune che è difficile non trovare qui. La cura fonosimbolica è anch’essa evidente. A esemplificazione di ciò prendo i bellissimi versi “il pavone / nel buio diventa vulnerabile e muto”, dove insistono la fricativa sonora ‘v’ e la vocale posteriore ‘u’ a mimare il buio e la vibrazione di un lungo brivido: quello di chi si scopre inerme, nudo (“smesse le penne”), e perciò più pronto ad accogliere. Pubblicato su www.giardinodeipoeti.wordpress.com © Davide Castiglione