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La rieducazione di Barilla - [ Il Foglio.it › La giornata ]
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10 novembre 2013 - ore 08:00
La rieducazione di Barilla
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Una gogna di stampo maoista per l’imprenditore che aveva osato difendere la famiglia naturale
Guido Barilla aveva sempre tenuto un
profilo schivo e riservato, sin da quando alla
morte del padre Pietro, vent’anni fa, aveva assunto
la guida del colosso alimentare parmense (un
fatturato complessivo che nel 2012 è stato di 3.200
milioni di euro, esportazioni in più di cento paesi,
trenta siti produttivi, di cui quattordici in Italia e
sedici all’estero). Il tempo libero Barilla lo passa in
famiglia o con gli amici di sempre, non frequenta
Confindustria, rifugge il demi-monde, non compiace
i giornali custodi dell’opinione pubblica, e a chi gli
chiede cosa pensi degli imprenditori in politica,
risponde: “Non è il loro mestiere”. Dieci anni fa Barilla vinse il premio “migliore azienda familiare del
mondo”, dopo Lego, Hermès, Puig, Henkel, Zegna, Murugappa, Johnson Family Enterprises e Bonnier.
Guido Barilla non si è mai espresso pubblicamente e probabilmente non lo farà mai sulle proprie
simpatie politiche. Unico indizio, l’amicizia con Romano Prodi. Ma forse è proprio questo profilo gentile,
da faticatore di impresa diverso da quello che, retoricamente, ama definire “il capitalismo di carta”, ad
aver fatto di Barilla la vittima prelibata di un gigantesco witch-hunting, una damnatio memoriae da vivo.
La prima volta che Guido Barilla è incappato nell’ira progressista è stato quando,
dieci anni fa, decise di ristrutturare l’azienda e si parlò di chiudere qualche
stabilimento improduttivo. I sindacati gli diedero dell’“immorale”. Allora per cavarsela gli bastò il
rito stantio della concertazione. Stavolta, per riparare all’accusa infamante di “omofobia”, serviva una
operazione ideologica senza precedenti, un rapidissimo e dispotico adeguamento ai tempi,
all’uniformismo bacchettone, al relativismo inteso come assoluto. Per dirla con Charisma News, il
mega portale cristiano americano, “dopo le frasi pro famiglia, il produttore di pasta Barilla si è inchinato
all’agenda gay friendly”.
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Nemmeno un mese fa, Guido Barilla dichiarava alla “Zanzara” su Radio 24: “Noi abbiamo
una cultura vagamente differente. Per noi il concetto di famiglia è sacrale, rimane uno dei valori
fondamentali dell’azienda. La salute, il concetto di famiglia. Non faremo uno spot gay perché la nostra
è una famiglia tradizionale”. Barilla disse che lui non discriminava, ma soltanto che credeva nella
famiglia naturale e che non avrebbe fatto pubblicità gay. Dei giorni scorsi l’annuncio: “Diversità,
inclusione e uguaglianza sono da tempo parte integrante della cultura, dei valori e del codice etico di
Barilla”, ha affermato l’amministratore delegato, Claudio Colzani. “Allo stesso tempo, il nostro impegno
è volto a promuovere la diversità perché crediamo fermamente che sia la cosa giusta da fare”.
Nel giro di due giorni, Barilla ha creato in azienda un “Diversity and Inclusion Board”,
una sorta di consiglio di guardiani e di esperti che dovrà vigilare sulla promozione di politiche “inclusive”
da parte del colosso italiano. Da bersaglio omofobo, Barilla diventa una specie di ong dei buoni
sentimenti egualitari. Barilla ha annunciato il “Chief Diversity Officer”, un supervisore delle
discriminazioni gay. Non sazia di tanta inclusione, l’azienda parteciperà al Corporate Equality Index
sviluppato dalla Human Rights Campaign americana per verificare le “politiche e pratiche aziendali
relative ai dipendenti Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali)”. Quest’ultimo è una sorta di
rapporto annuale su come una azienda o una corporation tratta i dipendenti gay o trans. Se ad
esempio il datore di lavoro paga il cambio del sesso del dipendente, questo bollino blu andrà a
giovamento dell’“indice di inclusività”. Barilla non poteva scegliere strumento migliore per ricollocarsi
nella società civile.
Il gruppo lancerà anche “un progetto online a livello mondiale finalizzato a
coinvolgere le persone sui temi di diversità, inclusione e uguaglianza”. E all’interno
della Barilla sorgerà persino un “Operating Committee”, costituito da dipendenti, che formulerà
“raccomandazioni in relazione a obiettivi, iniziative e miglioramenti per rafforzare uguaglianza e
inclusione all’interno dell’azienda, nonché per monitorarne i progressi”. Capitalismo orwelliano. Spot
come veicoli dell’identità di genere: “Non ci sono più donne in cucina negli spot Barilla e sono gli
uomini che fanno la spesa”, hanno detto dall’azienda dopo la furia iconoclasta scatenata contro il loro
patron, citando l’attore spagnolo Antonio Banderas che in una pubblicità cuoce il pane e lo mangia con
altri uomini.
E’ la perfetta riedizione dello schema della “rieducazione” nella Cina di Mao come ci
è stata descritta da Jean Pasqualini. Uno sterminato esercito di ragazzini invasati e moralisti
percorse le città e i villaggi della Cina cantando “L’oriente è rosso” e distruggendo i simboli del passato.
I dipinti antichi furono lacerati, i pianoforti sventrati, i dischi spezzati, i libri bruciati, le porcellane
sbriciolate, le sete tagliate. Ma le vecchie idee, il vecchio mondo, sopravvivevano nella testa degli
uomini. Così bisognava “rieducarli”. Vecchi e stimati professori, scrittori, maestri, capisquadra vennero
dileggiati, accusati con livore, sottoposti a gogne sommarie che si ripetevano giorno dopo giorno per
l’edificazione, per l’educazione delle masse, finché avevano la forza di reggersi, finché non trovavano la
forza di togliersi la vita. L’accusa? “Degenerazione morale”. “E’ cattivo, ha l’anima oscura”, gridavano gli
accusatori agli imputati, costretti a stare con la testa bassa, immobili, in silenzio, indossando
magliette con l’elenco delle loro “colpe”.
In quel progetto egualitario e millenaristico, in quegli “incontri di vita democratica”,
come venivano chiamati, prima arrivava la confessione pubblica del prigioniero, poi l’interminabile
verifica della sincerità del pentimento. Mai un giorno di riposo, che spettava invece ai delinquenti
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comuni, perché la rieducazione era considerata alla stregua di una medicina, e le cure non conoscono
né sabati né domeniche. Oltre alla denutrizione che mina il corpo (il boicottaggio della Barilla?), la
rieducazione cinese prevedeva sedute di autocritica, film edificanti e graduatorie ideologiche che
classificavano ogni settimana i prigionieri a seconda del loro apparente ravvedimento.
Anche quella di Guido Barilla è stata una
rieducazione in piena regola. I prodotti Barilla
con scritto “Hate Pasta” ricordano le statue di Budda in
Cina con addosso i cartelli “idolo reazionario”. La prima
“verifica” sul patibolo è avvenuta il giorno dopo
l’intervista alla “Zanzara”: “Sull’evoluzione della famiglia
ho molto da imparare”, dichiara il povero Barilla in un
video in più lingue su YouTube, dal titolo “Mi scuso”
(che tempi quando c’era il j’accuse). Si tratta di un
documento agghiacciante, il primo degli “incontri di vita
democratica” di Barilla. Nel video l’imprenditore ha il
volto contrito, rassegnato, vinto, la voce nervosa,
costretto a umilianti scuse, sul modello dei dissidenti cinesi. In poche ore un brillante imprenditore che
lavora il grano, che lo imbusta e lo porta nelle tavole di tutto il mondo, un eroe del capitalismo italiano,
è stato trasformato sui notiziari in un criminale ideologico, in un reietto amorale, in un infame della
società civile. Caterina Pes, segretaria di presidenza della Camera, gli dà del razzista: “Che
l’imprenditore si permetta di accostare famiglia tradizionale e salute, lasciando intendere che le
famiglie omosessuali abbiano legami con la malattia fisica o mentale, appartiene al peggior razzismo”.
Guido Barilla avrebbe potuto seguire il gesto di un altro famoso imprenditore
alimentare, l’americano Dan Cathy, presidente e direttore della catena di fast food
Chick-fil-A, con 1.614 ristoranti sparsi per gli Stati Uniti. “Siamo per la famiglia, secondo la
definizione biblica di nucleo familiare”, ha detto Cathy. “Siamo un’azienda a conduzione familiare e
siamo sposati con le nostre prime mogli. Ringraziamo Dio per questo. Siamo disposti a tutto per
rafforzare le famiglie”. Non è favorevole al matrimonio gay, insomma. E anche in America boicottaggi, a
cominciare dai sindaci di Chicago e Boston, rispettivamente Rahm Emanuel e Thomas Menino, che si
sono opposti all’apertura di punti vendita nella propria città. “I valori Chick-fil-A non sono quelli di
Chicago”, ha detto Emanuel. “Sono irrispettosi dei nostri residenti”. A ovest Edwin Lee, sindaco di San
Francisco, ha detto che la catena non condivide “i valori della sua città che garantiscono eguaglianza a
tutti”. Il sindaco di Washington, Vincent Gray, ha accusato quei fast food di vendere i “polli dell’odio”.
Cathy però non ha indietreggiato, non ha piegato la testa, e il boicottaggio ha perso, e con esso
l’intolleranza ideologica. E Cathy ne è uscito con l’onore, e il business, salvati.
Ma forse per Barilla l’onda d’urto è stata troppo forte. La brava gente di spettacolo si è
accanita contro di lui. Roberto Vecchioni, quel cantastorie che celebrava le gesta dei kamikaze
palestinesi, ha chiamato Barilla “un povero cretino”. Dopo aver umiliato il nemico, hanno voluto vederlo
strisciare ai loro piedi. Così Barilla è andato a Canossa, a Bologna, per incontrare Franco Grillini e tutti
i grandi dirigenti di Arcigay, ArciLesbica, Famiglie Arcobaleno e Gaynet. Di “azione e reazione” parla
Aurelio Mancuso di Equality Italia, tra i promotori di #boicottabarilla. Intanto anche i concorrenti
dell’azienda, in un gesto di ipocrisia allucinante e pilatesco, si gettano sul cadavere ancora caldo
dell’appestato.
Misura, Buitoni e Garofalo, per citare alcune aziende, hanno preso le distanze dal
concorrente caduto in disgrazia, attraverso messaggi del tipo: “Tutte le famiglie sono
diverse… e a noi piacciono proprio per questo”. Oppure: “A casa Buitoni c’è posto per tutti”. Dispacci
della Cgil ci stavano informando intanto che migliaia di onesti lavoratori dell’azienda, con la loro limpida
coscienza di genere e di classe, “non condividono il punto di vista” del loro imprenditore. Si arriva,
infine, per usare le parole di Tommaso Cerno, “all’ultima, sacra tappa, una specie di santuario di
Fatima in versione laica, l’ufficio della signora onorevole presidente della Camera, Laura Boldrini”.
Contro Barilla è intervenuta anche la moglie del nuovo sindaco di New York, Bill de
Blasio. “Se non ti piace il nostro messaggio trova un’altra marca di pasta”, suggeriva l’azienda
italiana. “Invito accettato!”, il commento che Chirlane McCray, lesbica dichiarata prima di conoscere De
Blasio, ha postato su Twitter, accompagnato da una sua foto al supermercato mentre snobba la Barilla
per un altro produttore di pasta. L’intera stampa americana – Cbs e Cnn, New York Post, Usa Today e
Washington Post – ha azzannato alla gola il povero industriale italiano con interventi di editorialisti,
esperti di marketing e polemisti.
Sul Los Angeles Times, per citare uno dei giornaloni liberal, una columnist ha suggerito a Barilla uno
spot “per la pasta preferita di Putin”, riferendosi al fatto che il presidente russo non è “gay friendly”. E in
un altro sito ancora lo stesso Putin compare con una pasta formato farfalla come orecchino. E il sito
BuzzFeed stila anche una hit parade dei formati di pasta gay o etero: gli spaghetti, per esempio, sono
“straight” (letteralmente i più “dritti”), giocando sul fatto che in inglese il termine significa anche
eterosessuale. Scrivono alcuni utenti: “Grazie Barilla, un altro motivo per comprare la pasta fatta con la
quinoa invece che con la tua farina bianca velenosa”. Al plotone di esecuzione si aggiunge anche una
commissaria Ue, Neelie Kroes, che forse non aveva molto altro a cui pensare: “Alcuni miei amici
compravano la sua pasta…”.
La famiglia ne esce a pezzi. “Per noi della Barilla i giorni successivi alle dichiarazioni che mio
fratello ha rilasciato al programma di Radio 24 sono stati drammatici”, ha detto Luca Barilla,
vicepresidente del gruppo alimentare. Il presidente di Arcigay, Flavio Romani, addirittura paragona la
discriminazione ai danni dei gay fatta da Barilla al trattamento degli ebrei durante la Seconda guerra
mondiale. “Il pensiero di Barilla introduce la discriminazione perfino a tavola, e sembra voler negare quel
desco ideale alle nostre famiglie, ‘sgradite’ come negli anni furono quelle di neri ed ebrei. E proprio
sostituendo nelle frasi di Barilla la parola ‘omosessuale’ con ‘ebreo’ o ‘nero’ riusciamo a cogliere la
gravità di quel messaggio e a riconoscerne il retaggio culturale. Da quella storia ci siamo già affrancati.
Barilla è il rigurgito di un’Italia che non c’è più: glielo dimostreremo”. Siamo al delirio, ma è un delirio
che funziona. Barilla ha appena nominato Talita Erickson, avvocato di origine brasiliana, attualmente
direttore affari legali di Barilla America, a capo del primo Chief Diversity Officer del gruppo. Fra i saggi
assunti da Barilla c’è anche “il gay più famoso d’America”, come venne definito su Newsweek David
Mixner, già consulente e amico di lunga data di Bill Clinton.
Mixner si vanta di tutte le volte che è stato arrestato alle manifestazioni per
l’orgoglio omosessuale. E’ un grande combattente e un pioniere dei diritti gay che a San
Francisco si batteva con Harvey Milk. Ed è anche una macchina economica. Come ha scritto il New
York Times, “è stato in grado di raccogliere milioni di dollari da uomini e donne omosessuali per i
candidati che lui favoriva” (da McGovern a John Edwards). Sarà Mixner a rieducare ora i dipendenti
della Barilla e i suoi consumatori.
Nel loro delirio, le Guardie Rosse arrivarono a mangiare carne umana, carne del nemico revisionista, in
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una sorta di rito finale della “rieducazione”. Da domani, anche noi potremo mangiare pasta Barilla
senza sentirci in colpa, senza il sospetto di “omofobia”, sazi di questo lugubre politicamente corretto.
L’affare Barilla è stato un’indigestione di perbenismo. All’accusato mancavano solo le orecchie da
asino dell’Inquisizione. Il cappello della vergogna e della gogna.
di Giulio Meotti
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