L`amore è paziente - Parrocchia Sant`Ippolito

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L`amore è paziente - Parrocchia Sant`Ippolito
PARROCCHIA S. IPPOLITO MARTIRE
PARLAMI D’AMORE…
4 dicembre 2011
L’AMORE E’ PAZIENTE
La carità è paziente, è benigno l’amore; non è invidioso l’amore, non si vanta,
non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non
tiene conto del male ricevuto, non gode dell`ingiustizia, ma si compiace della verità.
Nella seconda parte dell’inno Paolo con linguaggio discorsivo e quasi narrativo
(non esauriente: Dio non può essere definito) ci indica 15 note o caratteristiche
dell’amore: è come una cascata di verbi di crescente intensità che indicano una
realktà che supera ogni immaginazione – appunto perché è Dio, in definitiva, al
centro dell’inno e non semplicemente un carisma o una virtù.
Osserva il cardinale Martini che sette delle note sono positive e otto negative
e anche le positive “richiedono un patire più che un agire”. Forse – ipotizza Martini –
Paolo vuole segnalarci che “amare non significa fare qualcosa per gli altri, come si
pensa abitualmente, ma piuttosto sopportare gli altri come sono”. “Sopportare” dice,
ma io direi accettare, accogliere: un poco come fanno i genitori con i figli, che a
volte non li sopportano ma li accolgono.
La carità è paziente come l’amore dei genitori che si alzano anche dieci volte la
notte per il bambino che piange.
La parola pazienza ha origine dal latino volgare patire (cfr. il greco pathein e
pathos, dolore corporale e spirituale).
Il primo tratto dell’ amore è l’ essere paziente, il patire protratto nel
tempo. Pazientare è patire la presenza dell'altro, lasciare cioè che la sua presenza ci
raggiunga, ci tocchi, lasciare che la sua iniziativa sia da noi ricevuta. Pazientare non è
subire passivamente l'altro, come la pietra del torrente subisce l'incessante scorrere
dell'acqua, ma consentire attivamente che l'agire dell'altro si eserciti su di noi.
Questo lasciare che l'altro sia presente attivamente nella nostra vita è ben
espresso nel termine greco macrothymia, che letteralmente significa: grande animo,
«magnanimità». Magnanimo è chi fa spazio all'altro che entra nella sua vita.
L'incarnazione più emblematica della magnanimità è la donna gravida, il cui corpo si
dilata con la crescita del figlio.
Ciò che il nome di pazienza evoca non è la sola passione, ma la passione
prolungata. La magnanimità può allora essere altrimenti intesa come «longanimità»,
capacità di accogliere l'altro nel corso di un lungo tempo. L'amore paziente non tiene in
pugno l'iniziativa, che invece concede all'altro. Non è amore prodotto secondo i tempi
propri, ma secondo i ritmi dell'altro.
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Ma occorre ricordare che anche la passione deriva dal latino passus che è
participio passato di patire cioè la stessa radice di pazienza. Perciò la pazienza
declina la passione, ne è motivata nelle due accezioni del termine: passione come
forte coinvolgimento amoroso e passione come dolore prolungato.
L’ORIGINE DELLA VERA PAZIENZA
L’origine divina
Il messaggio biblico sulla pazienza ci riguarda prima di tutto perché è la
testimonianza dell’atteggiamento di Dio verso il mondo e soprattutto verso il suo
popolo. Ricordiamo esempi come Caino, Noè, Ninive, o anche il popolo d’Israele:
durante il cammino nel deserto o nelle loro infedeltà nella terra promessa, possiamo
ricordare la pazienza di Dio. La pazienza di un Dio che offre la possibilità di
continuare a vivere nonostante la colpa. La posizione di Dio si pone fra i due poli
estremi della collera e della grazia.
Dio è paziente, con la possibilità che egli possa distruggere o salvare. Dio
stesso legittima la testimonianza della sua pazienza in Gesù Cristo, nella sua venuta
sulla terra per morire sulla croce.
“Ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione
che è in Cristo Gesù Dio lo ha prestabilito come sacrificio propiziatorio mediante la
fede nel suo sangue, per dimostrare la sua giustizia, avendo usato tolleranza verso i
peccati commessi in passato, al tempo della sua divina pazienza; e per dimostrare la
sua giustizia nel tempo presente affinché egli sia giusto e giustifichi colui che ha fede
in Gesù” Rm 3, 24-26.
Trattenendo la sua ira e la punizione che ci spetterebbe, invece della
Condanna, Dio concede alla sua creatura grazia. Poiché Cristo ha portato su di sé
l’ira, e la punizione che Cristo ha patito ha adempiuto ogni giustizia. Dio concede
ancora del tempo, lascia che bene e male continuino ancora a convivere, con tutti i
rischi che questo comporta. “Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora
comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano”. At 17, 30
Egli perciò è il Dio della pazienza. “Il Dio della pazienza e della consolazione
vi conceda di aver tra di voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù” Rm 15,
L’origine umana
Non è certamente una questione di carattere: l’iracondo, il sanguigno, non
avrebbero speranza, o ne avrebbero meno rispetto al flemmatico. Alcuni attribuiscono
la capacità di esercitare la pazienza alla forza di volontà umana o al carattere, non
realizzando che tutte le virtù possono essere imitate, ma non per questo provengono
dall’alto. Tra gli uomini ve ne sono disposti ad avere grande pazienza anche nel
male.
I briganti di una volta e gli uomini di malavita oggi devono possedere questa
“virtù”. Un detto indiano dice: se il tuo nemico ti ha fatto del male siediti e aspetta
sulle rive del fiume, prima o poi passerà il suo cadavere. Nel caso di questo tipo di
pazienza bisognerebbe dire quel che l’apostolo Giacomo dice della sapienza:
“Questa non è la saggezza che scende dall’alto; ma è terrena, animale e diabolica”
Gc 3,15
Un aforisma recita: “L’uomo empio è colui che è facile ad adirarsi e difficile a
placarsi mentre l’uomo pio è colui che è difficile ad adirarsi e facile a placarsi”.
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Torniamo a San Paolo.
Il primo verbo che usa in riferimento alla carità è che è“paziente”. Sarà un
caso? Una scelta stilistica … o forse un’ispirazione dello Spirito Santo, il frutto
dell’esperienza di chi conosce Cristo e ha conosciuto, tramite Lui, il Padre?
Abbiamo visto che l’Antico Testamento torna continuamente sul tema
dell’infinita pazienza di Dio. Le storie bibliche sono imbevute di popoli pieni di peccati,
re che cercano di soddisfare i propri capricci, ma non seguono la volontà di Dio;
profeti che sono tentati dalla paura e pensano di abbandonare la propria missione;
persone ricche e povere, uomini grandi e piccoli, uomini e donne, che peccano una e
un’altra volta...
E davanti a tutto questo Dio con “certosina” pazienza, aspetta.
Una punizione (quale genitore non la darebbe al proprio figlio?) potrebbe
essere un deterrente temporaneo, ma non muterebbe i cuori degli uomini. Coloro che
desiderano la morte del re cattivo per mettere fine alle ingiustizie, non sanno che
potrebbe arrivarne un altro ancora peggiore. L’uomo è debole, e il suo Creatore lo
conosce bene, così debole, da rischiare di rimangiarsi alla sera ciò che aveva
promesso al mattino.
Dove trova Dio, tanta pazienza? La risposta è una sola: nel suo amore. Un
amore che a volte sembra “eccessivo”. Al cospetto di un’evidente ingiustizia, di un
crimine atroce, noi chiediamo vendetta. Dio aspetta. Inoltre, per nostra sorpresa,
perdona, cura, innalza ed ama.
Il Nuovo Testamento è la più grande dimostrazione della pazienza divina. Il
popolo che cammina nelle tenebre riceve la luce: è giunto il Messia al suo popolo! E
molti, indifferentemente, gli hanno voltato le spalle. Il Salvatore era tra i suoi, e i suoi
non l’hanno ricevuto. Arrivò il dramma della Passione, e il Padre non mandò le dieci
legioni di angeli che avrebbero potuto cambiare la storia dell’uomo.
Quella pazienza divina, senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, conquista
più cuori che un braccio potente e disposto a sottomettere con tormenti ai propri
nemici. Anche se facciamo fatica a comprenderlo.
Lo ricordava Papa Benedetto XVI nell´omelia che diresse incominciando il suo
pontificato (24 aprile 2005): "Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E, ciò nonostante,
tutti necessitiamo la sua pazienza. Il Dio che si è fatto agnello, ci dice che il mondo si
salva per il Crocifisso e non per i crocifissori. Il mondo è redento per la pazienza di
Dio e distrutto per l´impazienza degli uomini".
Se guardiamo la storia personale di ognuno, riconosceremo che Dio è
stato infinitamente paziente con noi. Nonostante tanti errori, cadute, peccati,
egoismi, Lui ha saputo aspettare in silenzio. Aspettava l´ora della conversione, l´ora
nella quale il suo Amore avrebbe potuto perdonare, ripulire, guarire le ferite più
profonde.
Se Dio si comporta così con noi, non possiamo incominciare ad essere
anche pazienti con gli altri e perfino con noi stessi? La pazienza che è povertà
piena di amore, ci porterà a non fissarci sempre sugli aspetti negativi delle persone e
delle cose per cercare la scintilla di bene che si nasconde in ogni cuore. Ci porterà a
sorridere a chi ci disturba, ci fa lo sgambetto, ci umilia, ci mette in ombra, ci ferisce
coi suoi capricci e le sue ingratitudini.
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Ci aiuterà a sollevarci gli uni con gli altri, perché tutti abbiamo difetti, tutti
abbiamo molto da chiedere perdono e perdonare. Non ci chiedeva lo Spirito Santo,
attraverso san Paolo, proprio questo: "Siate piuttosto buoni tra voi, affettuosi,
perdonandovi mutuamente, come Dio vi perdonò in Cristo" (Ef 4,32)?
Le misure che Dio usa con noi sono il perdono e la comprensione. Non
possiamo usare una misura distinta coi nostri fratelli. Né con noi stessi. Benché i
nostri peccati ci opprimano e ci riempiano di vergogna, Dio vuole sollevarci ed
introdurci al banchetto di festa dei cieli.
In ogni confessione la Sua pazienza vince e cancella qualsiasi peccato.
Facendo esperienza dell´abbraccio affettuoso di Dio sarà più facile comprendere chi
vive al nostro fianco, sarà più facile vivere con quella che è la specifica caratteristica
dell’amore cristiano: la pazienza.
LA PARABOLA
Come l'uomo possa vivere l'amore che lo raggiunge, lasciando che prenda
dimora dentro di lui, senza costringerlo e imprigionarlo nelle proprie idee, i propri
desideri, le proprie voglie, senza programmarne i ritmi e i tempi, è raccontato nella
parabola del seme che spunta da solo. Essa evidenzia come il segreto dell'amore
sfugga all'uomo, benché l'uomo possa vederlo crescere e maturare.
Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di
notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la
terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella
spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la
mietitura (Mc 4,26-29).
L'immagine del seme e della terra risente dello sfondo mitologico di culture
arcaiche, che nel seme deposto nella terra e nella terra fecondata dal seme
scorgevano l'intreccio del maschile e femminile, i due principi della vita. Maschio e
femmina sono reciprocamente fertili, danno vita ad altre vite. La loro fertilità biologica
non è però un solo fatto della natura biologica, ma l'incarnarsi dell'amore che l'uomo
e la donna, insieme, seminano nella vita del figlio.
L'amore non nasce dentro di noi se qualcuno non lo semina. Lo sanno con
assoluta certezza gli innamorati, sorpresi dall'altro che, inspiegabilmente, è entrato
nella loro vita fecondandola di nuovi sogni e speranze. Uomo e donna gettano
nell'altro il seme dell'amore che essi non hanno prodotto in proprio. Uomini e donne
possono scambiarsi reciprocamente l'amore, gratuitamente donarselo, ma non
produrlo autonomamente. Lo offrono perché lo hanno ricevuto.
All'origine dell'amore sperimentato da una coppia - insegna la parabola - c'è
Dio. La metafora del seme che cade nella terra e in essa cresce racconta, infatti, del
regno di Dio, di come cioè Dio regni operando nella storia degli uomini. Dio opera
nascostamente: ciò che l'uomo scorge non è Dio che opera, ma l'opera compiuta da
Dio. All'uomo resta velato l'Autore dell'amore, che egli pur riceve e offre. L'amore,
come il seme, sembra automaticamente programmato per crescere e dare frutto.
Come il seme, l'amore appare tra gli uomini quasi abbandonato a se stesso: essi lo
possono accogliere o rifiutare. Agli uomini non è dato di creare l'amore: come il
seme, anche l'amore possiede in se stesso l'energia per crescere e portare frutto.
Agli uomini, però, è chiesto di pazientare come la terra, lasciando che il seme si
depositi nella loro vita, si apra un varco e trovi spazio per crescere e portare frutto.
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In tutto questo processo dell'amore, l'uomo sembrerebbe solo passivo. In
effetti, la parabola nemmeno accenna a tutta l'attività del contadino, che ara, erpica,
solca, irriga, affinché il seme dia frutto. Lasciando in ombra l'attività complementare
del contadino, la parabola esalta l'energia in dotazione al seme, energia dovuta
alla sua origine divina. In quest'ottica si muove anche l'indicazione circa i ritmi di
sonno e di veglia del contadino: per primo viene nominato il dormire, evocando il
primato dell'agire di Dio che opera quando l'uomo dorme, anche quando, cioè, l'uomo
non è consapevole che Dio è all'opera. Ma ciò che appare pura passività, e cioè il
ricevere l'amore, custodirlo, lasciare che maturi fino a dare frutto, se attentamente
considerato si presenta come una forma eccellente, benché originale, di attività.
Acconsentire all'altro, senza programmare i ritmi e conoscere i tempi della sua
crescita, è una forma superlativa di attività, in cui la qualità più propria dell'amore, la
gratuità, brilla nella sua lucentezza.
La pazienza è attività, sino ad assumere il tratto della lotta, del
combattimento contro la fretta e l'ansietà: la fretta che vorrebbe già vedere il frutto;
l'ansia, che teme di non poterlo vedere. Fretta e ansia mal s'accordano con l'amore
che come un germoglio, se venisse tirato per accelerarne la crescita, finirebbe
spezzato. L'amore non matura improvvisamente, ma gradualmente, non solo
perché si accresce diventando più grande, ma anche perché si completa, prende
cioè qualità nuove. Sappiamo che nei quotidiano rapporto di coppia l'amore vive e
cresce vigoroso solo se continuamente alimentato dalla reciproca volontà di bene.
Diciamo che essere pazienti verso l'altro vuol dire essere pazienti anche
verso di noi, che abbiamo deciso di stringere con quella persona un legame unico e
unificante e di lasciarcene quindi condizionare in modo esistenziale. Ciò significa
che abbiamo posto nell'altro le nostre più profonde aspettative ma, si badi bene,
anche noi ne siamo portatori nei suoi confronti. Ora questa posizione non è per
niente comoda perché implica continuamente la possibilità di verificare
l'inadeguatezza di ambedue le parti a raggiungere le mete ideali che si erano
proposte. La delusione circa le capacità nostre ed altrui di corrispondere
perfettamente alle aspettative di felicità implicite in ogni sincero rapporto d'amore può
essere motivo di incrinatura, se non di rottura del rapporto stesso.
Ecco allora che si rende necessario il ricorso alla pazienza, che non corre a
conclusioni catastrofiche, ma, per prima cosa, si impegna in un esame
intelligente e sereno della situazione.
La prima constatazione, la più realistica, è che non siamo perfetti, e
questo è talmente ovvio che sembrerebbe inutile ricordarlo, ma, nell'innamorarsi c'è
una specie di euforia che lo fa dimenticare facilmente.
L'altro corrisponde a ciò che abbiamo sempre sentito di desiderare, è la nostra
felicità, ma non può esserlo in ogni momento e perfettamente, proprio per i limiti che
ci sono in ogni uomo.
La pazienza riconosce e "sopporta" questi limiti, anche se non io fa senza
sofferenza, ma non si dà per vinta e opera per superarli con l'aiuto dello Spirito
d'amore che la sostiene.
Gran parte delle crisi coniugali nascono dall'incapacità di sopportare la
delusione nei confronti di quella persona che ci aveva fatto innamorare.
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Chi dice all'altro: "Tu mi hai deluso" in maniera definitiva forse non l'aveva
mai conosciuto e amato veramente, ma ha amato la sua illusione, in definitiva se
stesso e si è predisposto ad un rapporto fallimentare.
Viene a mancare allora l'apertura all'altro, che è l'aspetto più essenziale
dell'amore coniugale e subentra invece l'atteggiamento egoistico con il timore
dell'offesa, che si esprime con l'assumere posizioni di difesa e di aggressività.
La pazienza accetta invece di "patire" con l'altro i limiti che si riscontrano e di
farne occasione di umile e intelligente riconoscimento, di dialogo, di richiesta e offerta
di perdono reciproco e questo "settanta volte sette" perciò si parla di pazienza infinita.
La pazienza non perde la sua fiducia nell'altro e nelle sue forze di recupero,
non si rassegna ai suoi difetti, non rinuncia a cercare insieme di migliorare, non
dispera.
La pazienza amorosa non è senza fine: la potenza divina porta l'amore a
maturazione, al momento in cui l'amore dà frutto, può cioè essere offerto ad altri e
ulteriormente seminato. In quanto espressione del regno di Dio, la maturazione del
frutto dell’amore sarà compiuto allorquando il regno sarà definitivamente stabilito.
L’amore non pretende la compiutezza definitiva su questa terra, ma rimane paziente,
quieto, perché già qui può gioire dell’insondabile crescita di ciò che non è ancora
maturo.
Il mio nome è pazienza
C'è chi dice che in paradiso Dio chiami ciascun eletto col nome di una
virtù.
Non potrà chiamarmi Speranza: non ho atteso nessuna gioia sulla
terra né in cielo.
Né Fede: non sono stata certa.
Né Carità: ho amato Dio e il prossimo con parsimonia.
Né Generosità: ho contato, pesato,misurato tutto.
Né Zelo: non ho cercato di conquistare.
Né Povertà: mi compiaccio del mio benessere.
Né Umiltà: mi compiaccio dei miei pensieri.
Né Sincerità: non sono vera.
Né Scienza: non ho memoria.
Né Pietà: non ho ardore.
Il nome sarà quello dell'asino: Dio mi chiamerà
Pazienza.
poetessa spirituale francese Marie Noël (1883-1967)
Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che
fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore
davanti all'errore e ai sentimenti.
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
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chi e' infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia
aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o
della pioggia incessante.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non
risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere
vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto
di respirare.
Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una
splendida felicitaà.
Martha Medeiros
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