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Periodico bimestrale, Registro Tribunale di Pisa
n° 612/2012, 7/12 “Network in Progress”
#23 Novembre/Dicembre 2014
www.nipmagazine.it
[email protected]
Enrico Falqui_ [email protected]
Direttore Responsabile
Stella [email protected]
Direttore Editoriale
Valerio [email protected]
Direttore Creativo
Francesca Calamita_ [email protected]
Responsabile attività culturali e formative
Paola Pavoni_ [email protected]
Responsabile network culturale
Vanessa Lastrucci_ [email protected]
Responsabile Social Networks
Ludovica Marinaro_ [email protected]
Responsabile Atelier, tirocini
Claudia Mezzapesa_ [email protected]
Responsabile programmazione pubblicitaria e traduzioni
Hanno collaborato a questo numero di NIP:
Flavia Veronesi, Laura Malanchini, Nicoletta Cristiani, Virginia
Firenzuoli, Chiara Salvadori
con il patrocinio di:
Copertina originale a cura di:
Federica Simone
graphic designer
www.itacafreelancec.it
Casa Editrice: ETS, P.za Carrara 16/19, Pisa
Legale rappresentante Casa Editrice:
Mirella Mannucci Borghini
Network in Progress
Iscritta al Registro della stampa al Tribunale di Pisa
n° 612/2012,
periodico bimestrale, 7/12 “Network in Progress”
ISSN 2281-1176
Editing and graphics:
Vanessa Lastrucci
Virginia Firenzuoli
Chiara Salvadori
Valerio Massaro
Editoriale
Le Miroir di
Corajoud
A
lcune settimane fa,
ci ha lasciato uno dei
più grandi paesaggisti della nostra epoca, Michel
Corajoud, autore di grande talento e insegnante
infaticabile nella Scuola
Nazionale Superiore del
Paesaggio di Versailles, di
cui è stato, insieme a Pierre Donadieu e Bernard
Lassus, uno dei fondatori.
P
er chi come noi, non
ha avuto il privilegio
di vivergli accanto nella
sua attività professionale, ma ne ha seguito gli
insegnamenti
espressi
dal suo pensiero e incorporati nei suoi straordinari progetti, l’emozione
per il suo addio alla vita è
pari al rimpianto di aver
dovuto interrompere l’ascolto delle sue frequenti
e coraggiose esortazioni.
Come quando, esortava
i suoi allievi a rifiutare il
fatto che le scienze del
paesaggio fossero considerate, nella pratica
quotidiana, nulla più che
un’estensione dell’Urbanistica, ricordando a tutti
che "…le paysage est l’endroit où le ciel et la terre
se touchent".
M
ichel Corajoud ricordava, anche, nel-
le sue sempre affascinanti
conferenze, che la sua generazione si era formata
nella convinzione che la
creatività e la fantasia fossero lo strumento per conquistare il futuro e che la
loro missione fosse costituita dal creare, attraverso il progetto, qualcosa di
completamente nuovo rispetto al passato. Tuttavia,
strada facendo, egli aveva
compreso che "il processo
storico, che è incorporato
in ciascun luogo, fornisce
la conoscenza necessaria
al paesaggista per creare
qualità nuova nel progetto di trasformazione di
uno spazio, che non è né
amorfo né statico, bensì
dinamico e in continuo
divenire".
I
l suo pensiero,così come
il suo agire, era sempre
in costante movimento,
mai facile, mai prevedibile. Aveva iniziato la sua
carriera di Paesaggista
(1974) nei quartieri periferici di alcune città francesi, proponendo parchi
pubblici come fuochi di
una nuova centralità urbana, come nel caso del
Parco Jean Verlhac (20 ha)
a Grenoble dove adottò un
linguaggio popolare fondato su un’esegesi della
cultura materiale tipica
della campagna francese,
o il Parco di Gerland (80
ha) a Lione, ideato e realizzato con l’aiuto competente e instancabile della
moglie Claire, divenuto
celebre per l’illuminazione notturna del giardino
“megaphorbiaie” che crea
un’atmosfera cromatica
struggente e onirica all’interno di un frequentatissimo luogo pubblico.
Q
uesta esperienza è
stata anticipatrice di
uno dei progetti più conosciuti di Corajoud, il
Parco de Sausset en Seine-St Denis (200 ha) che
lo impegnò per oltre sette anni fino al 2005, mettendo fine alla stagione
della progettazione dei
grandi parchi pubblici
nei paesi mediterranei.
In occasione di due viaggi
a Parigi,uscendo dall’aereoporto Charles De Gaulle,
visitai con attenzione questo parco, immenso, dalle
geometrie potenti e rigorose, che produce stupore,
meraviglia e grande fascino per qualsiasi visitatore.
L’invenzione creativa di
Corajoud, in questo caso,
è consistita nell’uso di
piantagioni a crescita rapida alternate a quelle a
crescita lenta, che hanno
prodotto nel tempo una
varietà di spazi, di scenari,
di volumi che si contrappongono ai vuoti, dando
ritmo e dinamismo alla
percezione dello spazio.
Una lezione impareggiabile sulla dimensione
"temporale" del paesaggio, realizzata attraverso
l’uso di specie vegetali
che ritardano, accelerano e modificano senza
sosta il progetto di architettura che si è concepito
attraverso di esse.
M
ichel Corajoud era
un uomo coraggioso, che affrontava a viso
aperto anche le contestazioni di progetti di cui era
autore, come i Giardini
d’Eole (4,2 ha), realizzato
a Parigi in un’area lasciata libera dallo smantellamento di un sistema
ferroviario nel quartiere
densamente abitato di
Montmartre.
Q
uesti giardini erano
stati fortemente voluti dalla popolazione del
quartiere e Corajoud ne
aveva interpretato i desiderata con grande accortezza, creando uno spazio
pubblico vissuto e funzionante nei primi anni
di vita ma che successivamente aveva cambiato
progressivamente la composizione sociale dei suoi
frequentatori, diventando
un luogo abbandonato e
pericoloso, lasciato in balia di bande di casseurs
e di spacciatori. Il grande
paesaggista francese non
si era tirato indietro di
fronte alle critiche di una
parte della popolazione
e
dell’amministrazione
parigina, difendendo con
rigore e passione le sue
scelte sull’organizzazione degli spazi dei giardini,
opponendosi allo stravolgimento delle sue scelte
originarie.
L
a celebrità mondiale
gli era stata, però, attribuita dal progetto di spazio pubblico di nuova generazione della Place de
la Bourse a Bordeaux sul
lungofiume della Garonna, realizzando dei parterre policromi lineari e il
M
iroir d’Eau (la fontana più grande
in Europa), divenuta dal
2008 ad oggi un simbolo
iconemico della Città, visitata da milioni di turisti.
Quest’estate ho passato
uno splendido pomeriggio assolato, nell’osservazione continua dello
“spettacolo”
popolare
che si costruiva “dentro”
e “fuori” dallo specchio
d’acqua; le ombre degli
insiders e degli outsiders
di questo “teatro d’acqua”,
si sovrapponevano sulla
superficie acquatica alle
immagini rovesciate degli
edifici che circondano la
Piazza, creando un effetto
magico e sublime fatto di
controluce, di dissolvenze
e di ibridazioni cromatiche in continuo divenire.
L
e Miroir d’eau è il testamento di un paesaggista che non ha mai
smesso di sorprenderci
ed emozionarci con le sue
“invenzioni” progettuali, che non ha mai smesso di “mettere in scena”
le relazioni multiple che
associano le cose del paesaggio. La sua dipartita
dal mondo terreno fa parte integrante del suo programma d’azione paesaggista, che esprimeva con
la celebre frase: “esplorare i limiti, oltrepassarli”.
Stavolta però, ne sono cer-
to, la sua anima si aggira
ancora tra le ombre e le
dissolvenze di Place de la
Bourse, nel Miroir di Corajoud.
a cura di Enrico Falqui
#23
Contents
RUBRICHE
Architettura che non ci piace
Expo Gate, la porta di ingresso di Expo 2015
di Laura Malanchini
Frames
MilanoCittàAperta.
Cinque anni di narrazioni fotografiche indipendenti
a cura di MiCiAp e NIP magazine
p12
p15
FOCUS ON
p21
L’aperto e l’Agòn.
Diagramma di un percorso di rigenerazione a Pristina.
di Caterina Padoa Schioppa
INTERVISTA
p37
ORTI DIPINTI
Intervista a Giacomo Salizzoni
a cura di Nicola Maggiaioli
IL PROGETTO
p53
Waitangi: dove i luoghi diventano storia.
In Nuova Zelanda un paesaggio straordinario celebra
l’identità di un popolo. di Enrica Bizzarri
CREATIVITÀ URBANA
p67
UN’ESPERIENZA A MARRAKECH.
Design per lo sviluppo sostenibile.
di Giuseppe Lotti, foto di Itaca Freelance
LE RECENSIONI
_il libro_
LA VITA DELL’ARCHITETTURA È FINITA.
Buildings must die. A perverse view of architecture.
di Vanessa Lastrucci
p79
Cover Story
Alla domanda “Che lavoro fai?”, in barba a
Tyler Durden (al secolo Brad Pitt in Fight
Club) e al suo “Tu non sei il tuo lavoro...”, risponde sempre
allo stesso modo: “SONO una grafica!”
“SONO” e non faccio perché la grafica non si fa seduti alla
scrivania dalle 9.00 alle 18.00 con pausa pranzo alle 13.00,
non si fa attaccati ad un monitor intervallando un “salva
con nome” ad un “mi piace” su Facebook. La grafica, quella
vera, è come una storia d’amore che va curata e coltivata
durante tutto l’arco della giornata, degli anni, della vita.
Con questa convinzione a 14 anni, frequentando il non amato liceo classico, capisce che da grande vorrà ESSERE una
grafica e trascorre ogni lezione a disegnare e colorare. Certo questo non aiuterà il rendimento ma la spingerà veloce
come il vento, una volta diplomata, ad iscriversi prima all’Istituto Italiano Design di Perugia e poi all’Istituto Europeo
di Design di Milano.
Proprio sul posto di lavoro incontrerà tante persone diversissime tra loro che daranno una forte impronta al suo percorso: alcune atroci, come l’unico architetto di tutta Milano che osa ritenere il pile elegante e sbraita con tutti dalla
mattina alla sera, altre invece qualificate e speciali che, oltre ad avere una conoscenza profonda della progettazione,
non hanno paura di insegnare ed aiutare gli altri a crescere.
Dopo tanti anni di lavoro trascorsi ad approfondire ciò che
ama, incontra un bel ragazzo umbro, decide di amare anche
lui e torna a Perugia. Qui riscopre il senso dell’avventura
e si tuffa, insieme ad altri due folli come lei, in un progetto
ancora in fasce: “Itaca”.
A più di un anno da questo nuovo inizio, si commuove vedendo Itaca crescere come se fosse un figlio; si “avvelena”
nel vedere la grafica bistrattata da quei professionisti (geometri, artisti, architetti o non meglio qualificati) che non
si limitano a fare il proprio lavoro ma si cimentano nel suo
grande amore senza conoscerlo veramente; annaspa nella jungla dei social network e soprattutto si guarda in giro,
fotografa, scarabocchia, curiosa, assaggia, prende appunti,
cuce, incolla, insomma… È ancora una grafica!”
Digitando “integrazione” su google è facile trovare immagini di puzzle e mani di diversi
colori che si stringono, ci si imbatte spesso in notizie ansa che riguardano Lampedusa e
in pagine di vari ministeri che parlano principalmente di immigrazione.
Il vocabolario invece ci spiega che vuol dire “rendere intero, pieno, perfetto ciò che è incompleto, aggiungendo quanto è necessario...”.
Non so perché ma ragionando su questa definizione mi è venuto in mente Escher: le sue “metamorfosi” sono un manifesto dell’evoluzione di un oggetto tramite l’aggiunta di elementi.
La mia copertina, tra interpretazione personale di una definizione e tributo all’opera di
Escher, vuole quindi suggerire come, partendo da una forma geometrica schematica e statica, si possa arrivare ad una composizione piena, ricca e vitale solo aggiungendo nuovi elementi.
Questa, per lo meno, è la mia idea di “integrazione”: un arricchimento positivo e vivace
che ci permetta di remare contro all’arida serialità del consueto.
Federica Simone ©
WWW.ITACAFREELANCEC.IT / [email protected]
Federica Simone ©
Architettura che ci piace/ non ci piace
Expo Gate,
la porta d’ingresso di Expo 2015
«Prima si vedeva il Castello, adesso solo
questi due “stendipanni” bianchi»
È questa la frase che ricorrentemente si
sente pronunciare da diversi mesi a Milano da cittadini e turisti che passano in
Largo Beltrami. Si riferiscono ad ExpoGate, il progetto di ScandurraStudio che
ha vinto il concorso per l’Infopoint Expo
2015, luogo di informazione e intrattenimento che dovrebbe essere il biglietto
da visita dell’Esposizione Universale a
cui la città si sta preparando. Si tratta di
due “caselli” simmetrici, in vetro e tubi
di acciaio modulari, con una piazza centrale attrezzabile.
La zona del Castello Sforzesco, fin dal Piano Regolatore del 1884, è sempre stata
tra le più delicate della città, suscitando
lunghi dibattiti a causa del forte valore
identitario che il monumento riveste per
i milanesi. Il vuoto urbano incorniciato
dai fronti dei circus di Foro Bonaparte,
è il teatro della complessa relazione tra
questi, l’asse Duomo-Dante-Castello ed
il suo fondale prospettico, che trova due
fulcri d’eccezione nel complesso equestre dedicato a Garibaldi e nella splendida Torre del Filarete.
Ciò che crea spaesamento nei cittadini rispetto ai due nuovi ospiti di questa
porzione di città è la mancata corrispondenza tra le finalità, concettuali e formali, con cui questi sono nati ed il risultato
finale. ExpoGate è stata concepita infatti come installazione temporanea, che
doveva simboleggiare i temi dell’Expo:
il cibo e la crisi ecologica planetaria. La
giuria e lo stesso Scandurra, inoltre, motivano le proprie scelte con la volontà di
inserirsi nel contesto in modo “leggero”
e “non protagonista”, rispettando l’asse
preesistente e creando un’apertura sul
Castello.
12
Fin da una prima occhiata, però, la struttura risulta un’architettura invadente
che, oltre ad utilizzare materiali e cromie estranei al sapore ottocentesco del
luogo, va a sottolineare la prospettiva già
di Laura Malanchini
esistente, forzando in un’unica direzione la complessa trama di interazioni che
conformano quello spazio e togliendo il
focus dell’attenzione dal monumento in
cui la città si riconosce, per portarlo su di
sé. Sul piano concettuale, poi, la “stonatura” rispetto al tema di Expo2015 “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” è ancora più evidente.
Per quanto sia vero che i padiglioni mettono in scena, settimana dopo settimana,
vari eventi che raccontano la storia di
Milano e nuove tendenze culturali legate ai temi dell’alimentazione e della
sostenibilità, la struttura che li accoglie
è fuoriscala - e fuoriluogo - rispetto al
ruolo che svolge. La poca attenzione per
le tematiche proprie dell’Expo si ritrova
nel metodo di utilizzo delle risorse: i 18
metri di altezza delle vele laterali vengono sfruttati, infatti, solo con funzione
di grossi megaschermi, che non giustificano l’utilizzo di ulteriori materiali e
denaro, mentre al piano terra, lo shop,
che avrebbe potuto contenere gadget di
Expo e segni di identità meneghina (perché no?) legati alla produzione agricola, si configura invece come “trappola”
commerciale per turisti, degna del miglior negozio di cianfrusaglie brandizzate dei nostri tempi.
Inoltre, il rischio concreto, conferma-
Architettura che ci piace/ non ci piace
to dall’amministrazione comunale, è che
questa installazione non si limiti al periodo dell’Expo, ma venga mantenuta come
architettura permanente anche dopo il
suo termine. Paura fondata, poiché già in
fase di cantiere sono state poste fondazioni altrimenti illogiche, in quanto prevedono costi elevatissimi per un eventuale
smontaggio. Già i 5 milioni di euro circa
che sono stati spesi, sebbene non siano
molti per un’opera di architettura definitiva, sarebbero infatti uno spreco enorme
se essa fosse un’installazione che sarà rimossa alla fine della manifestazione, e ci si
chiederebbe allora perché tali risorse non
siano state destinate ad operazioni più coerenti rispetto alle tematiche trattate da
Expo2015, ad esempio alla riqualificazione
di una delle innumerevoli cascine milanesi abbandonate, che racchiudono in sé la
storia dell’agricoltura italiana ed europea.
D’altra parte, se la struttura non sarà rimossa, non è dato sapere quali funzioni
ospiterà all’interno di quello spazio che
Scandurra definisce come “pubblico e
flessibile”: quale finalità le verrà attribuita
“a posteriori” che possa giustificare la sua
presenza in quel luogo e in quel contesto?
ExpoGate, in conclusione, a causa dell’alto grado di incertezza ed ambiguità con
cui è stata progettata e con cui si parla del
suo futuro, sembra un’ulteriore riprova di
quanto sia ancora poco considerata l’importanza di un’attenta e motivata pianificazione e di quanto, come spesso accade
oggi, le parole-chiave che muovono amministrazioni e progettisti (sostenibilità, identità, integrazione, trasparenza) non trovino
poi una trasposizione coerente nelle scelte
adottate per le trasformazioni urbane.
13
JOURNAL OF URBAN PHOTOGRAPHY
Milano
Città
Aperta
www.miciap.com
“...Dichiariamo così finalmente Milano “città aperta” e accettiamo la nostra
guerra all’interno del divenire caotico della città. Questa stessa città che, in
quanto fotografi, desideriamo conoscere e far conoscere. E far conoscere
per poter cambiare.”
(testo tratto dal MANIFESTO di MiCiAp, www.miciap.com)
MilanoCittàAperta è un progetto di: Alberto Locatelli - Alfredo Bosco - Isacco
Loconte - Nicola Bertasi - Roberta Levi - Simone Keremidtschiev - Thomas
Pagani
Per informazioni scrivere a [email protected]
foto di Nicola Bertasi
MilanoCittàAperta
5 anni di narrazioni
fotografiche indipendenti
a cura della redazione di
Miciap, journal of urban photography
(www.miciap.com)
in collaborazione con la
Redazione di NipMagazine
Sono passati cinque anni da quando ci siamo
incontrati per la prima volta in un piccolo
appartamento del Ticinese: cercavamo dei
racconti per immagini che aggiungessero senso
alla nostra città.
Abbiamo pubblicato 20 numeri, al ritmo delle
stagioni che passano. Sono moltissimi i fotografi
che ci hanno dato fiducia, alcuni famosi e
altri sconosciuti; e poi grafici, web designer,
giornalisti, photoeditor, professori universitari,
musicisti, gestori di locali e di spazi espositivi. Con
loro siamo cresciuti, ma vogliamo continuare a
raccontare Milano, con le sue storie e i suoi luoghi,
quelli che spesso non si vedono, come fossero
celati dietro una spessa nebbia. Desideriamo che
questa nebbia si diradi sempre di più.
Noi di Miciap crediamo che la rivista debba essere
un luogo aperto, di scambio e di arricchimento.
Crediamo nello spirito di collaborazione: ogni
membro della redazione lavora per realizzare
ogni trimestre una pubblicazione di grande
qualità.
Crediamo nella curiosità. Guardare lontano,
verso traguardi ambiziosi, non deve allontanare
lo sguardo dalle piccole cose che sono spesso le
più importanti.
Crediamo che la fotografia sia una narrazione.
Crediamo nella gentilezza, nel rispetto, nell’onestà
e nell’accoglienza.
Il progetto MilanoCittàAperta ha mantenuto
un alto livello qualitativo durante questi cinque
anni di intensa attività. Siamo molto contenti
dei risultati raggiunti ma vogliamo fare ancora
di più. Vorremmo costruire una rete in Italia che
permetta presto al progetto di radicarsi in altri
lidi.
Lanciamo qui su NIP magazine un appello
caloroso agli amici fotografi, photoeditors,
curatori e giornalisti, per creare insieme a noi e
altre CittàAperte.
Andrea Kunkl
tratto dalla serie: Incendio grigio
ISSUE #14 - WINTER/2013
Un viaggio attraverso il paesaggio interiore delle terre agricole lombarde, minacciate dall’avanzata del cemento e dagli espropri per la costruzione di una
nuova tangenziale esterna.
Annalisa Cimmino
tratto dalla serie: Riverside
ISSUE #14 - WINTER/2013
Un orizzonte immaginario segue il fiume Lambro e circonda una Milano inaspettata.
l’aperto E L’aGòN:
Diagramma di
un percorso di
rigenerazione
a Pristina
1
di Caterina Padoa Schioppa
SPORT DI REGIME A PRISTINA
O
scura,
provocante,
assurda.
Ferita, efferata. Pristina oggi medita sull’eredità materiale, politica
e sociale della recente guerra civile.
Se esiste un’unicità delle storie, l’universalità della Storia permette di raccontare alcune vicende, forse troppo
complesse per essere comprese, attraverso una sintesi di linguaggio – la fotografia ci riesce benissimo – che non
cerca e non dà spiegazioni.
N
elle sue viscere Pristina, come altre regioni post-belliche o nuove
aree metropolitane, mostra quello che
nella teoria della complessità è definito un comportamento emergente,
un comportamento adattivo che in
condizioni di equilibrio instabile garantisce la sopravvivenza del sistema.
Gli effetti sono inequivocabili: la proliferazione di sistemi informali (sia organizzativi che spaziali), la “balcanizzazione” dello stile, e per finire la perdita
di una forma urbis riconoscibile2. La
Storia ci insegna che, in assenza di una
strategia sistemica, proprio queste for-
me di adattamento – qui generate da
un’incontinente e generica urbanizzazione – costituiscono più di ogni altro
segno il potenziale urbano su cui lavorare per dare inizio a un processo di rigenerazione3.
I
n questo senso Pristina è un pretesto
per interrogarsi sul ruolo del progetto di architettura e di paesaggio che è
non solo dispositivo politico e spaziale,
ma anche strumento di conoscenza e di
invenzione capace di dare una forma al
materiale vitale, cresciuto come l’erba
sull’asfalto, e di riciclare e di imprimere nuovi significati al patrimonio che
una forma, seppur mistificata, ce l’ha.
Il tentativo è di costituire un common
ground4, uno spazio fisico e ideale di
condivisione di storie, di esperienze e
di saperi che possa sovvertire la figurazione retorica del progetto dello spazio
– tipica del regime comunista e di tutti
i regimi totalitari – senza necessariamente rinunciare alla funzione simbolica dello spazio pubblico cittadino.
In basso: Pristina: Palazzo della Gioventù e dello Sport ©Filippo Romano Prishtina 2013/14
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In alto: Pristina: Palazzo della Gioventù e dello Sport ©Filippo Romano Prishtina 2013/14.
Per questo è sensato chiedersi se le categorie “deboli” con le quali siamo abituati oggi a pensare le città che, all’opposto, si sciolgono e si sparpagliano5,
siano le più adatte per fabbricare l’ossatura morfologica di un corpo urbano
ancora troppo molle. Per il “Newborn
Kosovo”6 costituire questo spazio – autentico ground zero – può diventare
una macchina di riconciliazione con
una storia difficile e piena di contraddizioni prima ancora che macchina di
rigenerazione urbana. Anche qui, per
iniziare la metamorfosi estetica e culturale, è essenziale aggrapparsi alle radici, ai “fondamentali”: pescare nelle
forme del paesaggio, nelle tradizioni
costruttive, nelle storie mitiche condivise, quelle per esempio del periodo
Ottomano, ma anche nell’architettura
che il regime ha lasciato in eredità.
I
l Pallati i Rinisë dhe i Sporteve (Palazzo della Gioventù e dello Sport) è una
delle più spettacolari architetture del
regime comunista, con le quali la città
ha stabilito un rapporto ambivalente.
Costruito tra il 1977 e il 1981, rimasto incompiuto per gli stravolgimenti politici, e poi danneggiato in un incendio che
nel 2000 ne distrusse una parte consistente, il Palazzo dello Sport è oggi una
strana contaminazione di usi, un genere ibrido a suo modo “tipico” a Pristina7.
N
e costituisce il basamento un variopinto centro commerciale che con
il suo brulicare di vita sembra compensare il vuoto spettrale che regna nella
piazza antistante l’ingresso al monumento. Al suo interno un’arena centrale per lo sport e lo spettacolo, e contigui, enormi spazi abbandonati, adibiti
temporaneamente a parcheggio, a fiere ed esposizioni per artisti. Al di là, intrappolato tra il palazzo e la ferrovia, un
altro territorio vacuo, grande come due
campi da calcio, oggi abusivamente occupato dalle automobili e dai pullman.
23
C
on la sua forza espressiva e la sua
spigolosa geometria, questo gigante manifesto per la celebrazione del
corpo e della disciplina evoca la funzione solenne di una cattedrale in una
città medievale. Progettato per essere
percepito e riconosciuto dalle colline
che circondano la città, il Palazzo dello
Sport non è solo un esempio paradigmatico di architettura di regime, ma è
anche il diagramma spaziale di un meccanismo coercitivo, ridondante perciò
di messaggi occulti.
U
n monumento che è anche un ammonimento. Un’anatomia urbana
che è anche una “meccanica del potere”.
Come fece notare Michel Foucault,
lo sport è una macchina pedagogica simile a q
uella
militare, che non a caso sceglie il corpo
come oggetto e bersaglio del potere.
Il corpo che “si manipola, che si allena,
che obbedisce, che risponde, che diviene abile”8.
L
o sport nei paesi comunisti, come
anche nei regimi nazisti e fascisti,
era un sistema centralizzato9. Confinati nello spazio e nel tempo, gli sport di
gruppo erano caratterizzati da una rigida routine, che doveva rivelare non tanto il carattere individuale del singolo
atleta, ma piuttosto il carattere comunitario e associativo della morale socialista10. D’altra parte, fin dal mondo grecoromano,e poi nelle società borghesi e in
tutti i regimi totalitari del Novecento, lo
sport fu un formidabile dispositivo mediatico, di controllo e di propaganda politica, abilmente trasformato in gioco.
Già nel VII secolo a.C., infatti, l’invenzione dei Giochi Olimpici è il “trionfo
di un comunicare non verbale e transculturale”11 che permette di abbandonare momentaneamente il sistema di
regole e uscire dai confini – il portarsi
In basso: Pristina: Palazzo della Gioventù e dello Sport ©Filippo Romano Prishtina 2013/14.
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In alto: Pristina: Palazzo della Gioventù e dello Sport ©Filippo Romano Prishtina 2013/14
L’APERTO COME
SPAZIO DELLE
POSSIBILITÀ INATTIVE
lontano che l’etimologia del termine sport contiene12 – per conoscere la tregua politica e religiosa,
e dare spazio alla costruzione del
mito, da immortalare in narrazioni epiche e prodigiose opere d’arte.
L’eccezionalità dell’evento ha sempre avuto come specchio un’architettura fastosa, pioniera, ardita.
Ancora oggi per le città di tutto il pianeta le Olimpiadi sono un’occasione
unica per investire in grandi opere di
architettura e per grandi processi di rigenerazione urbana.
Esiste poi un’altra, forse antitetica, mitologia legata allo sport e che non a caso
fabbrica paesaggi più rarefatti e più
eversivi. È quella descritta per esempio
nelle pagine di Roland Barthes13, quando parla del Tour, la corsa in bicicletta,
in cui il corpo è ancora protagonista ma
di un contatto carnale con l’aperto. Un
viaggio, a tratti angoscioso, in cui si stabilisce un legame con la natura. Come
l’eroe omerico, nel suo movimento vagabondo “il corridore trova nella Natura un ambiente animato col quale mantiene scambi di
25
nutrimento e di soggezione”. E come
in ogni epopea, a un tempo “periplo di
prove ed esplorazione totale dei limiti
terrestri”14, l’uomo che compie tali sforzi sovrumani, e che conosce il proprio
stato più bestiale, per affrontare meglio
la natura e liberarsene più facilmente,
la umanizza, la personifica.
Q
uesto rovesciamento di ruoli e di
significati tra uomo e natura, che
lo sport all’aperto sembra rendere
possibile, spiega lo spessore antropologico dell’esperienza dell’aperto15,
come luogo dell’incontro tra le due
condizioni imprescindibili dell’uomo,
la sua animalitas e la sua humanitas.
Martin Heidegger parla di questo luogo come una zona di non-conoscenza
tra l’essere e il nulla dove si fa l’esperienza del “vuoto profondo”, della
sospensione, grazie alla quale “accade l’emergere delle possibilità [che]
giacciono inattive”, similmente al
campo che viene lasciato a maggese
per essere seminato un altro anno16.
La dimensione fisica dove le possibilità giacciono inattive è per lo sportivo
quella di uno spazio esteso, senza limiti,
che nei paesaggi urbani può significare
resti di natura che lambiscono, o penetrano e intersecano l’abitato, sentieri
che inanellano territori negletti, spazi
abbandonati e inselvatichiti, infrastrutture obsolete – ferrovie, gazometri, fabbriche, depositi etc. – dove tutto giace
inattivo e dove esiste pur tuttavia una
vitalità latente.
D
i questa vitalità si sono accorti da
tempo architetti e paesaggisti, immaginando operazioni di riciclo attraverso processi a bassa intensità,
talvolta consistenti solo in un sistema
di segni che traccia nuove relazioni
e modifica il significato degli oggetti.
“Paesaggi grafici” vengono chiamati, anche se, per la verità, è sempre
attraverso la grafia che il paesaggio riceve la propria legittimazione.
È di-segnandolo che un paesaggio può
essere inteso e forgiato.
In basso: Pristina: Diagramma di un percorso di rigenerazione ©SPgroup 2013/2014
©SPgroup sigla che indica “Sporting Loop” titolo del progetto del gruppo di studenti G.A. Carosini, C. Cemplini, C. Cotado, G. D’alpaos, V. Dall’orto, D. Desnica, L. Gege, I. Mastro, P. Muñoz
Montaner, D. Savarrkar, M. Scaccabarozzi del Corso “Common Ground Laboratory Pristhina”
presso il Politecnico di Milano nell’a.a. 2013-2014.
26
In alto: Pristina: Diagramma di un percorso di rigenerazione ©SPgroup 2013/2014
©SPgroup sigla che indica “Sporting Loop” titolo del progetto del gruppo di studenti G.A. Carosini, C. Cemplini, C. Cotado, G. D’alpaos, V. Dall’orto, D. Desnica, L. Gege, I. Mastro, P. Muñoz
Montaner, D. Savarrkar, M. Scaccabarozzi del Corso “Common Ground Laboratory Pristhina”
presso il Politecnico di Milano nell’a.a. 2013-2014.
L
o sport, che è uno dei primari artifici per fondare il common ground
– nelle società antiche come in quelle moderne – non a caso è funzione
essenziale anche per la rivitalizzazione e la sublimazione di siti disturbati, o marginali. Ma come si è visto,
gli scenari che la pratica dello sport
può delineare sono contrapposti, e
le geometrie dello spazio inverse.
I
l primo scenario celebra l’evento
pubblico attraverso un processo di
concentrazione nello spazio, di architetture e di spettatori, e nel fare
questo consolida la struttura gerarchica e la geometria classica della città. Nel secondo scenario la conquista
del grande vuoto – condizione corporea e psichica – avviene attraverso la
deriva, l’antievento per eccellenza17,
cioè il dispiegamento di un movimento caotico e solitario all’aperto.
Anche questo secondo scenario struttura lo spazio, ma in modo labile, usando geometrie fluide e complesse.
I
due scenari non sono incompatibili o
alternativi. Il più delle volte si sovrappongono e si avvicendano, si spartiscono lo spazio e si alternano in popolarità.
Ma in posti come Pristina,negli anni del
regime e in quelli della guerra, lo sport
all’aperto non si è potuto praticare.
Ciò che altrove è gesto ordinario e
istintuale – il camminare, correre e
pedalare liberamente – qui a lungo è
stato oggetto di un’interdizione, di cui
il Palazzo dello Sport, baluardo in rovina di un sistema di potere ormai decaduto, rappresenta ancora lo spettro.
Per questo il recupero del Palazzo dello Sport non sembra possibile se non
dentro un quadro più ampio, una scala
fisica e temporale più articolata, che includa la deriva nello spazio cittadino, la
conquista del grande vuoto come traguardo di un nuovo common ground.
È l’occasione per scavare in un territorio dimenticato o volutamente celato,
già pieno di insidie ma anche di possibilità che giacciono inattive, tracciati per camminare, correre e pedalare.
Tracciati per ricordare.
27
SPAZIO MOBILE PER LO SPORT
E PER LA COMMEMORAZIONE
A
lla radicalità dell’operazione, corrisponde tuttavia la limitatezza del
segno. Il segno senza il quale un vasto
territorio non sarebbe riannodato per
una lunghezza di circa 40 km (il tempo di una maratona) è una linea, non
una superficie immacolata, una tabula rasa, un campo senza direzioni
dove tutti i movimenti sono leciti. Una
linea scandita da increspature che ne
alterano la levigatezza, e che rintraccia
grandi riserve di natura, architetture
minori per lo sport, archeologie moderne – dalle cave alle superfici sintetiche dei parcheggi – per trasformarle in
frammenti di un nastro illustrato, accavallato al centro nell’area intorno al Palazzo dello Sport. Una linea che incide
il suolo e definisce uno spazio mobile
per lo sport e per la commemorazione
(ancorché priva di sacralità e di obiettivi precisi), simile a quello di un pellegrinaggio che, come spiega Paul Connerton18, racconta bene il cerimoniale
di un corpo che si muove in maniera
prestabilita all’interno di un perimetro
e che attraversa un sistema stabile di
loci, intesi nell’accezione ciceroniana
come segni mnemonici capaci di sollecitare l’emotività nell’arte della memoria.
E
merge la figura di un circuito ad
anelli concentrici, un labirinto lineare, una “deriva organizzata” per camminatori e ciclisti,attraverso un sistema
di luoghi rimediati, riscoperti, che fungono da memoriali e da terrazze belvedere, dalle quali conoscere la città con
sguardo diverso. Dentro questo corridoio urbano è proprio la percezione ad
28
essere alterata: diradata, diluita, arcaica
come in un film in bianco e nero, essa è
estranea all’“estetica della sparizione”
tipica della percezione istantanea del
guidatore di automobile, percezione
quest’ultima in cui tutto è “già visto e
immediatamente dimenticato”19. Uno
spazio, dunque, che sembra contraddire il trionfo dell’oblio sulla memoria di
cui la città contemporanea è artefice.
Resta equivoca la nozione di aperto cui
l’abitante di Pristina è esposto.
D
a un lato questo processo rigenerativo scardina un limite, che è insieme fisico e mentale, e come un fluido
urente scongela un organismo ibernato, scompiglia abitudini calcificate dalla
paura e dall’insicurezza che l’assenza di
libertà ha generato. Dall’altro, esso addensa un materiale disperso e costruisce una topografia stabile che sembra
negare l‘apertura appena acquisita.
Per sciogliere l’equivoco è bene ripensare all’aperto come luogo delle possibilità, come esperienza relativa, non
misurabile, irripetibile, definita da una
relazione tra due mondi, quello interiore e quello esteriore. Inteso così,
il segno che evoca metaforicamente
l’infinito è ciò che si intende per “diagramma”, un campo vettoriale cui sia
stata assegnata una direzione, ma dove
frequenza e intensità sono ignote e in
continuo cambiamento; un nastro di
Moebius, una superficie allungata non
orientabile, infinitamente deformabile,
espandibile e modificabile dove giacciono inattive le potenzialità dei futuri
sportivi a Pristina.
NOTE
1_Questo articolo è il frutto di una riflessione
cominciata con gli studenti del Corso “Common Ground Laboratory Pristhina” presso
il Politecnico di Milano nell’a.a. 2013-2014.
Si ringraziano gli studenti: G.A. Carosini, C.
Cemplini, C. Cotado, G. D’alpaos, V. Dall’orto, D. Desnica, L. Gege, I. Mastro, P. Muñoz
Montaner, D. Savarrkar, M. Scaccabarozzi,
che hanno sviluppato il progetto intorno al
Palazzo della Gioventù e dello Sport. Nell’articolo le immagini da loro prodotte portano
la sigla ©SPgroup (“Sporting Loop Group”).
2_Per un approfondimento si consigliano:
K. Voeckler, Prishtina Is Everywhere. Turbo
Urbanism: the Aftermath of a Crisis, Amsterdam: Architectura & Natura Press, 2008;
Kosovo 2.0, Public Space, n.5/2013
3_Pensiamo alla Berlino che, dopo la Caduta
del Muro nel 1989, ha fatto della sua “decadenza” l’elemento di attrazione. Investendo
nella tecnologia, nei servizi, nel turismo e
nei cosiddetti settori creativi – con il famoso motto del suo Sindaco Klaus Wowereit
“Berlino capitale povera ma sexy”– in pochi
anni ha visto crescere la propria economia
in modo esponenziale.
4_Common Ground è l’espressione ambigua
che ha dato il nome alla 13° Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di
Venezia, curata dall’architetto inglese David
Chipperfield.
Delle molteplici interpretazioni che questa espressione può avere – approfondite
nell’editoriale di Luca Molinari su il Post del
28.082012 (http://www.ilpost.it/lucamolinari/2012/08/28/common-ground-la-13-mostra-internazionale-darchitettura-divenezia/)– in questo ambito si vuole insistere
sulla funzione dell’architettura della città
come strumento di scavo e di interpretazione delle radici comuni, della Storia e delle
tradizioni nella costruzione di spazi pubblici
e abitativi. Per un approfondimento si consiglia: D. Chipperfield (a cura di), Common
Ground: a critical reader, Venezia: Marsilio
Editori, 2012
5_Cfr. A. Branzi, Modernità Debole e Diffusa,
Ginevra-Milano: Skira, 2006
6_Con “Newborn Kosovo” si intese la nascita
del nuovo stato indipendente del Kosovo, il 17
febbraio 2008. Fu allora eretto il monumento-scritta Newborn, scultura urbana di Fisnik Ismaili e l’agenzia Ogilvy Kosova, posta
davanti alla piazza sopraelevata del Palazzo
della Gioventù e dello Sport.
boliche, come nel caso di una delle Moschee
nel quartiere commerciale del Bazaar, in
parte occupata da un supermercato.
8 _Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire,
Torino: Einaudi, 1976
9_Già il regime fascista in Italia, con l’Opera Balilla e le Associazione della Gioventù
Italiana Littorio – considerati da alcuni il più
gigantesco esperimento di educazione di stato che la storia ricordi – ha usato la retorica
del corpo e della disciplina associata all’addestramento sportivo come potentissimo
strumento di massificazione culturale.
10_Cfr. V. Girginov, M. Collins (a cura di),
Sport in Eastern European Society: Past and
Present, London: Taylor & Francis, 2004
11_Cfr. G. Anceschi, Lo spettacolo planetario
dello Sport, in Navigator, Ambiente Sportivo,
n.9/2004
12_Il termine sport è l’abbreviazione della
parola inglese disport che significa divertimento, deriva. Dal latino deportare, composizione della parola de, che significa allontanamento, e portare stava a significare
portarsi lontano, ovvero allontanarsi, uscire
fuori porta dalle mura cittadine per svolgere
attività fisiche.
13_Cfr. R. Barthes, Miti d’oggi, Torino: Einaudi, 2005
14_Ibidem
15_Cfr. G. Agamben, L’aperto, Torino: Bollati
Boringhieri, 2002
16_Citazione presa da G. Agamben, L’aperto,
cit.
17_Nel concetto di deriva situazionista,
l’evento è per definizione non-pianificato.
L’intenzione è infatti quella di smarrirsi per
provare emozioni forti e per innescare un’azione artistica e catartica, prima ancora che
politica. Per un approfondimento si consiglia: G. Débord, La società dello spettacolo,
Milano: Baldini Castoldi Dalai, 2001
18_Cfr. P. Connerton, Come la modernità
dimentica, Torino: Einaudi, 2010
19_Concetto di Paul Virilio approfondito in
P. Connerton, Come la modernità dimentica,
cit.
7_Il “genere ibrido” è molto diffuso a Pristina, anche in architetture importanti e sim29
Il Multiverso
tratto dalla serie: Naviglio, cuore di Milano
ISSUE #8 - SUMMER/2011
La Milano “città dell’acqua” rivive in queste immagini allo stesso tempo
surreali e storiche. Non tanto per ricordare il passato, quanto per auspicare un futuro ancora possibile.
Mara Costantini
tratto dalla serie: 5 miglia di braccia milanesi
ISSUE #10 - WINTER/2012
Cos’è diventata la Milano agricola di un tempo? Una ricerca fotografica sui luoghi
dove sorgevano un tempo cascine e dove si lavorava la terra.
Matteo Scarpellini / ALMA Photos
tratto dalla serie Gradients
PREVIEW ISSUE #22 - AUTUMN/2015
Giussago, Dicembre 2013
Andrea Mariani e Roberta Levi / A13 Studio
tratto dalla serie Sovrastrutture
PREVIEW ISSUE #22 - AUTUMN/2015
8 giugno 2014, TEM - Lotto C - Collegamento A1, Melegnano
Nicola Maggiaioli (1973), architetto, dal 2006 è uno dei due fondatori
e partner dello studio di architettura MOA di Firenze, con esperienza
nell’interior design sia commerciale che privato.
[email protected]
Orti Dipinti è un laboratorio a cielo aperto dove praticare orticoltura
urbana, scambiare conoscenze e integrarsi socialmente anche con i più
emarginati. Ortaggi, aromatiche e frutti crescono insieme alle idee su
ambiente, sostenibilità e sovranità alimentare.
http://www.ortidipinti.it
[email protected]
The first urban garden of Florence was born almost
a year ago, inaugurated by then mayor, Matteo Renzi.
Started under the impetus of Giacomo Salizzoni, a
renaissance man (architect, designer, photographer)
with a passion for Guerrilla Gardening.
It is an organic garden in which the core coordinators
work together with a large group of volunteers to
grow vegetables, herbs, fruits and flowers, using a
combination of rediscovered ancient practices and
innovative technologies.
The movement is also about the recovery of unused
parts of the city as the garden is located on an abandoned
running track in the center of Florence.
ORTI DIPINTI
Intervista a Giacomo Salizzoni
a cura di Nicola Maggiaioli
Orti Dipinti è un laboratorio a cielo aperto dove
praticare orticoltura urbana, scambiare conoscenze
e integrarsi socialmente anche con i più emarginati.
Ortaggi, aromatiche e frutti crescono insieme alle idee
su ambiente, sostenibilità e sovranità alimentare.
Il primo orto urbano di Firenze è nato quasi un anno
fa, inaugurato dell’allora sindaco Matteo Renzi, sotto
la spinta di Giacomo Salizzoni, creativo poliedrico
(architetto, designer, fotografo) con la passione per il
Guerrilla Gardening.
Si tratta di un orto-giardino biologico in cui il gruppo
organizzatore, assieme ad un folto gruppo di cittadini
volontari, coltiva ortaggi, piante aromatiche, frutti e
fiori, con un misto di riscoperte tecniche antiche e
tecnologie innovative.
Ma si tratta anche di un recupero di una parte
abbandonata della città in quanto l’orto sorge su di una
vecchia pista di atletica in disuso, nel centro di Firenze.
1. Orti Dipinti, what’s the origin of the name you have
chosen for the Community Garden?
My friend Luciano Artusi, an expert of Florentine history,
revealed to me when we were beginning the project the
etymological origin of the street name, Borgo Pinti.
Since the late Middle Ages, the street had, and still has, many
convents with orchards and gardens. The landscape was
beautiful and several artists of the time were living on the
street and often portrayed it in their paintings. From that the
road took the name of Borgo Pinti.
It came naturally, therefore, to use the name “Orti Dipinti” to
recall the street’s story and to help remember the location of
the garden. The athletics track is situated in an area that was
once a part of the Orto dei Salviati, which was a garden of huge
importance, producing botanical selections long before the
advent of the first botanical garden, and an incubator for many
cultivars of vegetables, which would later become typical of
Tuscany. I still remember the excitement when we discovered
the beautiful heritage of the place.
2. There is an increasing interest in cultivation in cities.
Is there a difference between Community Garden, Urban
Garden, Shared, Disseminated and Didactic?
38
With regard to Italy, the “social urban gardens” have existed
since the 60s and 70s, depending on the city. They are
places within the city equipped for growing in the ground,
usually with small plots of 60 square meters each, handled
by individuals or families. The “shared gardens” are run by
groups of people or organizations, sometimes they coincide
with the “Community Garden”, where citizens normally do
not have their own individual space, but in fact share with
other people. Some of these gardens are open to visits by
school groups, tourists or general public; they serve a didactic
function as well as productive. Urban gardening’s latest design
takes into account this educational aspect, since the growing
space is limited and so is production, it is imperative to also
offer other social and educational activities. In fact, I like to talk
about it as Community Garden 2.0.
1. Orti Dipinti, qual è l’origine del nome che avete scelto per
il Community garden?
L’amico Luciano Artusi, grande conoscitore della storia
fiorentina, mi svelò a suo tempo l’origine etimologica della via
“borgo Pinti”.
Fin dal basso medioevo la via aveva, e ha tuttora, molti conventi
con relativi orti e giardini. Il paesaggio era dunque splendido,
tanto da convincere diversi artisti del tempo che, piazzati sulla
via, lo ritraevano nei loro dipinti. Da lì la via prese appunto il
nome di Borgo Pinti.
È venuto spontaneo, dunque, dare il nome “Orti Dipinti”, per la
memoria di questa storia e per aiutare a ricordare la posizione
del giardino.
La pista di atletica è situata in un’area che un tempo faceva
parte del grande Orto dei Salviati, che fu di grande importanza
perchè faceva già selezioni botaniche ben prima della nascita
del primo orto botanico, e fece da incubatrice per molti cultivar
di ortaggi divenuti poi tipici della Toscana. Ricordo ancora
l’emozione, quando scoprimmo questa bella eredità del luogo.
2. C’è un interesse crescente nei confronti della
coltivazione in città. C’è differenza tra Community
Garden, orto urbano, condiviso, diffuso, didattico?
Per quanto riguarda l’Italia, gli “orti urbani sociali” esistono
dagli anni ’60-’70, a seconda delle città. Sono luoghi della città
attrezzati alla coltivazione in terra, con piccoli appezzamenti
solitamente da 60 mq ciascuno, gestiti da singoli cittadini o
nuclei famigliari. Gli "orti condivisi" sono invece gestiti da
gruppi di persone o associazioni, a volte coincidono con i
"Community Garden", dove di norma i cittadini non hanno
singoli spazi propri, ma condivisi appunto con altre persone.
Alcuni di questi orti si aprono a visite di scolaresche, di turisti o
persone qualunque, svolgendo una funzione didattica, oltre che
produttiva. Gli orti urbani di ultima concezione tengono molto
in considerazione quest’aspetto informativo, dal momento
che gli spazi esigui per coltivare, essendo poco produttivi,
suggeriscono altre attività sociali e didattiche. Infatti mi piace
parlare di Community Garden 2.0.
39
3. How did you come up with the idea of creating a
Community Garden and how did you get to involve
sponsors and authorities?
As an architect I have always looked with admiration at the
ability of our greatest teachers to transform places apparently
degraded, abandoned and “ugly” into something new, useful
and “beautiful”. My father is one of these people. I was inspired
to look for a place to turn into an extreme edible garden. I was
aware of many international examples in this style, and I liked
the idea of being able to achieve something similar here in
Italy, in Florence, adding the Italian strong points: good food
and an agricultural tradition. I started looking for a suitable
space, through Google map, starting from my neighborhood,
Sant’Ambrogio, and when, after several surveys, I ran into what
later became Orti Dipinti I stopped because I thought it was
perfect: a former athletics track in disuse since the ‘80.
First we submitted a rough draft of our proposal to convince
the users of the space (the Institute Gaetano Barberi, who offer
recreational activities for young people with difficulties) and
the property owners, the City of Florence, of the value of our
initiative. We then contacted associations, companies, private
institutions, and raised the necessary amount to start the
garden, opening officially last October.
As one of our main objectives was the benefit of the
community, we have involved residents of the area from the
beginning, a fact that has determined the success of Orti
Dipinti, where similar projects have failed.
40
3. Come ti è venuta in mente l’idea di realizzare un
Community Garden e come sei riuscito a coinvolgere
sponsor e autorità?
Da architetto ho sempre guardato con ammirazione la
capacità dei nostri maestri di trasformare luoghi in apparenza
degradati, abbandonati e “brutti”, in qualcosa di nuovo, utile e
“bello”. Mio padre è uno di questi. Ero alla ricerca di uno spazio
urbano estremo da tramutare in un giardino commestibile.
Ero al corrente di molte realtà internazionali in questo senso,
e mi piaceva l’idea di poter realizzare qualcosa di simile anche
da noi in Italia, a Firenze, aggiungendo i punti di forza italiani:
il buon cibo e la tradizione agricola. Ho iniziato a cercare uno
spazio adeguato partendo dal mio quartiere, S. Ambrogio, e
quando dopo diversi sopralluoghi sono incappato in quello
che poi è diventato Orti Dipinti mi sono fermato, perchè mi è
sembrato perfetto: una ex pista di atletica in disuso dagli anni
‘80.
Convinti i fruitori dello spazio (l’istituto Gaetano Barbieri,
che si occupa di attività ricreative per ragazzi con difficoltà)
e la proprietà, ossia il Comune di Firenze, della bontà della
nostra iniziativa attraverso un progetto di massima, abbiamo
contattato associazioni, imprese, privati, istituzioni, e siamo
riusciti a raccogliere la cifra necessaria ad iniziare l’attività,
inaugurando lo scorso ottobre.
Essendo uno dei nostri obiettivi l’aspetto sociale, abbiamo
fin dall’inizio coinvolto i residenti della zona, fatto che ha
decretato il successo di Orti Dipinti laddove altri progetti simili
hanno fallito.
41
4. How is the renovation project of the area being
developed and what effects is it having in terms of the
neighborhood?
This entire area has historically been used for conventional
vegetable gardens, so our intervention in a sense returns the
area to its original function even if in a contemporary twist.
Based on the feedback received from residents, on the site’s
physical characteristics and on the likely costs, we developed
the basic project, which still continues to evolve.
The choice of preserving the tarmac in the athletics track was
strategic for several reasons: it allows for the easy mobility
of the crates within which we cultivate, which are moved
depending on need with the pallet lifter, the possibility
of wheelchair access, and also the play aspect (bikes,
skateboards). The heat, which it absorbs, and returns, is useful
to grow vegetables, even during the cold winter.
Also having the garden in the crates allows more ergonomic
and less tiring cultivation.
The impact on the neighborhood has been really positive and
beyond our imagination.
The alternatives for this space were to restore the track, build
residential buildings, or a parking lot. With this in mind,
everyone agreed on the superiority of the idea of having an
urban garden where they could eventually participate, (even if
just leaving food refuse which we can transform into compost,
a great fertilizer), and the chance to involve young people with
disabilities in our activities.
The results for now are very positive; the flow of people who
are interested and involved is rising continuously. At first they
were young people, then the ladies of the district, and even
some farmers are now coming to see how we get such a great
production. It is also frequented by people who come just to
meet, read, paint, take pictures, or rest.
42
4. Come è stato sviluppato il progetto di recupero dell’area
e che effetti ha avuto in termini di riqualificazione del
quartiere?
Tutta questa zona è storicamente sempre stata usata come
orti conventuali, per cui il nostro intervento in un certo senso
restituisce all’area la sua antica funzione anche se in chiave
contemporanea.
Sulla base dei feedback ricevuti dai residenti, delle
caratteristiche fisiche del luogo e dei possibili costi, abbiamo
realizzato una base di progetto che ancora oggi continua ad
evolvere.
La scelta di preservare il tartan della pista di atletica è stata
strategica per diverse ragioni: la estrema mobilità delle casse
all’interno delle quali coltiviamo, che vengono spostate a
seconda delle esigenze con il transpallet; la possibilità di
deambulazione con sedie a rotelle; l’aspetto ludico (bici,
skateboard). Anche il calore che assorbe e restituisce è utile
agli ortaggi, che crescono più rigogliosi, anche durante il freddo
invernale.
Inoltre avere l’orto nelle casse permette una coltivazione più
ergonomica e meno faticosa.
Gli effetti sul quartiere sono stati davvero positivi e al di
sopra di qualunque immaginazione. Le alternative per questo
spazio erano ripristinare la pista di atletica, costruire edifici
residenziali, oppure un parcheggio auto. Con queste prospettive
l’idea di avere un orto urbano a cui eventualmente partecipare
anche solo lasciando i residui alimentari (che utilizziamo come
fertilizzante), e coinvolgere i ragazzi disabili nelle nostre attività,
ha messo d’accordo tutti.
Il bilancio per adesso è assolutamente positivo, il flusso di
persone che si interessano e si coinvolgono sta salendo
continuamente. All’inizio venivano giovani, poi le signore del
quartiere, adesso vengono anche contadini a chiederci come
facciamo ad avere una produzione così eccezionale. Ma vengono
anche persone a leggere, dipingere, fare foto, riposarsi.
43
5. There are many associations with an interest in urban
gardens; what are your references? Do you belong to a
larger network?
There are many associations that have something to do with
urban gardens. They are emerging more and more, fortunately,
and each time more focused on this issue.
We at Orti Dipinti are members of several groups. For example
Campagna Amica, Coldiretti, Ixorto, Slow Food, Italia Nostra
and Grow The Planet to name a few.
Networking is important, as long as you do not compromise
the freedom of expression of each urban garden. You just need
to clarify right away what are the common values shared with
these groups: short reckonings make long friends.
Our references are also beyond national borders. We tend to
look around because these phenomena, in other countries
such as Anglo-Saxon ones, have developed before and have
a lot to teach us. In large cities like London, Paris and Berlin
they are gearing up beautifully. They have less sun and less
agricultural tradition but they are better than us.
5. Sono molte le associazioni che si interessano di orti
urbani; quali sono i vostri riferimenti? Fate parte di una
rete più ampia?
Ci sono molte associazioni che hanno a che fare con gli orti
urbani. Ne stanno nascendo sempre di più, fortunatamente, e
ogni volta più focalizzate su questo tema.
Noi di Orti Dipinti facciamo parte di alcuni gruppi associati.
Ad esempio Campagna Amica, Coldiretti, Ixorto, Orti Urbani di
Italia Nostra e Grow The Planet solo per citarne alcuni.
Fare rete è importante, a patto che non si pregiudichi la libertà
di espressione del singolo orto. Bisogna solo trovare i valori
che accomunano tutti questi interventi, e sottoscriverli per
chiarirsi fin da subito: patti chiari, amicizia lunga.
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I nostri riferimenti sono anche oltre ai confini nazionali.
Tendiamo a guardarci attorno perchè questi fenomeni in altri
paesi, ad esempio quelli anglosassoni, si sono sviluppati prima e
hanno tanto da insegnarci. In grandi città come Londra, Parigi,
Berlino si stanno organizzando splendidamente. Hanno meno
sole e meno tradizione agricola ma sono più bravi di noi.
6. Next year Expo 2015 will develop the theme of nutrition
for the planet in a sustainable way, and they will talk about
biodiversity, waste, food chain etc. Do you think that the
activities of Community Gardens will offer a contribution?
The demand to meet and talk about the future of our food is
a priority: agriculture is the main cause of global warming,
pollution of aquifers and deforestation. The global population
is increasing and we will soon face the challenge of making
nutrition more healthy and sustainable.
For major productivity of food any Community Garden is
meaningless in this context, but like all small seeds, if they are
left to grow they can give great results. Their main job is not in
fact to nourish the stomach, but the mind, trying to plant one or
more seeds of environmental awareness. We are the true roots
of the Community Garden and our task is to grow and spread
our good fruit around the world.
As a Chinese proverb says “do not give me a fish but teach
me to fish”: the community garden is giving people the
opportunity to learn to “fish”; it gives us food sovereignty,
breaking the chain with those multinationals which offer
us food to them more convenient to cultivate, transport
and trade. The products also are collected before reaching
maturation (which occurs in travel in terms of pigment, but
not on nutrients and organoleptic level): a tomato from the
supermarket compared to a cultivated tomato and eaten at
maturation can have an amount of iron up to two thousand
times lower.
We also rely a lot on biodiversity and this allows us to avoid
using treatments on plants because, considering the variety,
they are “defending themselves.” Moreover we cultivate
vegetables that are not common on the market, such as yellow
tomatoes, purple potatoes, white eggplants, yellow zucchini, red
basil, and very interesting among the herbs we will soon have
the strawberry, pineapple, orange and ginger mint, among the
others. Among our projects there is also to set up a greenhouse
in which to plant seeds already checked in January and
therefore to save costs on vegetables.
45
6. L’anno prossimo l’Expo 2015 svilupperà il tema del
nutrimento per il pianeta in chiave sostenibile, e si
parlerà di biodiversità, spreco, catena alimentare ecc.
Credi che l’attività dei Community Garden possa dare il
suo contributo?
L’esigenza di incontrarsi e parlare tutti del futuro del nostro
cibo è prioritaria: l’agricoltura è la principale causa di
riscaldamento globale, inquinamento delle falde acquifere
e disboscamento. La popolazione globale sta aumentando
e dovremo presto affrontare la sfida dell’alimentazione
rendendola più sana e sostenibile.
Per la produttività di cibo qualunque Community Garden è
insignificante in quest’ottica, ma come tutti i piccoli semi, se
fatto crescere può dare grandi soddisfazioni. Il suo compito
infatti non è nutrire lo stomaco, ma la mente, cercando di
installare uno o più semi di consapevolezza alimentare e
ambientale. Siamo noi le vere piante dei Community Garden e
abbiamo il compito di crescere e spargere i nostri buoni frutti
per il mondo.
Come dice un proverbio cinese “non darmi il pesce ma
insegnami a pescare”: il community garden è dare alle persone
la possibilità di imparare a “pescare”; ci offrono la sovranità
alimentare, spezzando la catena con le multinazionali che ci
propongono alimenti per loro più convenienti da coltivare,
trasportare, commerciare. I prodotti inoltre vengono raccolti
prima della raggiunta maturazione (che avviene in viaggio
in termini di pigmento, ma non a livello di sostanze nutritive
ed organolettiche): un pomodoro del supermercato rispetto
ad un pomodoro coltivato e mangiato nel momento della
maturazione può avere una quantità di ferro fino a duemila
volte inferiore.
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Puntiamo molto anche sulla
biodiversità e questo ci permette di
non usare alcun trattamento sulle
piante perchè, data la loro varietà, si
“autodifendono”. Inoltre coltiviamo
verdure che non si trovano
normalmente in commercio, come
pomodori gialli, patate a pasta viola,
melanzane bianche, zucchine gialle,
basilico rosso, e molto interessanti
tra le piante aromatiche avremo
presto la menta alla fragola, ananas,
arancio e zenzero fra le altre. Tra
i nostri progetti c’è anche quello
di allestire una serra in cui poter
piantare semi controllati già a
gennaio e risparmiare dunque nei
costi degli ortaggi.
7. You cultivate inside the City: What impact has pollution
had on grown products?
On a plant, what we eat is processed mainly through the roots,
because the leaf has the almost exclusive function of absorbing
the sun’s rays. The substance of the final product depends
mainly on the soil, fertilizer, water and the way in which the
plant grows; it is sufficient to wash well before consuming to
avoid those pollutants that may be deposited externally.
This technique allows the vegetables to grow in a more healthy
and lush way, consuming less water and less fertilizer and
preventing many weeds from growing undesirably.
The wooden boxes are made with wood from intelligent
deforestation, without chemical treatments; they are
constituted in order to leave cracks that enables ventilation to
the soil, which is very positive for the plants although it does
mean more dehydrates of the soil. The ampoules inserted into
the ground limit this phenomenon.
The combination of heat and moisture, however, seems to
work well because our vegetables are already very productive,
and ripen earlier than those of other vegetable gardens in the
ground.
7. Coltivate in città: che impatto ha l’inquinamento sui
prodotti coltivati?
Di una pianta, quello che noi mangiamo, viene processato
perlopiù attraverso le radici, perchè la foglia ha quasi solo la
funzione di assorbire i raggi solari. La sostanza del prodotto
finale dipende dall’interno, quindi il terreno, il fertilizzante,
l’acqua e il modo in cui la pianta si sviluppa, incidono in
modo maggiore rispetto a sostanze inquinanti che si possono
depositare esternamente; è sufficiente lavare bene prima di
consumare.
Questa tecnica permette agli ortaggi di svilupparsi in
maniera più sana e rigogliosa, consumando meno acqua e
meno fertilizzante e impedendo a molte erbacce di crescere
indesideratamente.
I cassoni in legno sono prodotti con legno da deforestazione
intelligente, senza trattamenti chimici; sono costituiti in
modo da lasciare delle fessure che permettono aerazione al
terreno, che è molto positiva per le piante anche se disidrata
maggiormente il terreno. Le ampolle inserite nel terreno,
essendo umide, limitano questo fenomeno.
Il binomio calore-umidità però sembra funzionare bene perchè
i nostri ortaggi sono già molto produttivi, e in anticipo rispetto
a quelli di altri orti su terra.
47
8. You have compared the activity of Orti Dipinti to an
Iceberg, the tip of which is the vegetable garden and the
hidden part consists of projects under construction. What
are these projects about?
48
The ambition of Orti Dipinti is to become a kind of open-air
contemporary laboratory, to exchange information on certain
issues and grow together towards collective objectives. In part
it is already like that and it will be more complete when we
will realize our upcoming projects: Internet, lighting, a sound
system, projector, kitchen, ‘covered’ areas.
In our program there is also the idea of setting up a market for
local products and produce, every first Saturday of the month.
We would like to build a small “green” library, which citizens
can use freely. There is the desire to create games for children,
shaded areas, a tree house, and an intelligent system of
rainwater collection and automatic distribution to the plants.
For this reason we are engaging new sponsors and searching
for others, ensuring them visibility locally and online.
We would like to create, in short, a school, that may set an
example to others, demonstrating that it is possible to create
a self-sustainable model in the field of “green”, able to
train people and professionals, with high social impact and
therapeutic value, encouraging the reusing of abandoned or
degraded spaces.
Together we are building an ark that will take us far. We do not
know where we will arrive, but the route is already clear and
the boat already robust.
8. Hai paragonato l’attività di Orti Dipinti ad un Iceberg,
di cui la punta è l’orto e la parte nascosta è costituita da
progetti in via di realizzazione. Di che si tratta?
L’ambizione di Orti Dipinti è di diventare una sorta di
laboratorio contemporaneo a cielo aperto, dove scambiarsi
informazioni su certi temi e crescere insieme verso obiettivi
comunitari. In parte lo è già e lo sarà più compiutamente
quando realizzeremo i nostri prossimi progetti: connessione
internet, illuminazione notturna, sound system,
videoproiettore, cucina, spazi protetti dalle piogge.
In programma c’è anche l’idea di allestire un mercato di
prodotti locali e d’eccellenza, ogni primo sabato del mese.
Vorremmo costruire una piccola biblioteca “verde”, che i
cittadini possono usare liberamente. C’è la voglia di creare
giochi per bambini, zone d’ombra, una casa sull’albero, un
sistema intelligente di raccolta d’acqua piovana e distribuzione
automatica alle piante. Per questo stiamo coinvolgendo nuovi
sponsor e cercandone altri, garantendo loro visibilità in loco e
online.
Vorremmo in sintesi creare una scuola, che sia di esempio per
altre realtà, dimostrando che è possibile creare un modello
autosostenibile nel settore del “verde”, in grado di formare
persone e professionalità, con alto valore sociale e terapeutico,
riusando spazi abbandonati o degradati.
Insieme stiamo costruendo una barca-arca che ci porterà
lontano. Non sappiamo dove arriveremo, ma la rotta è certa e la
barca già solida.
49
Marco Garofalo
tratto dalla serie: Il vuoto riempito
ISSUE #8 - SUMMER/2011
Lavoro di documentazione del mutamento di un paesaggio, di un quartiere, di un
pezzo di città smontato e rimontato secondo logiche economiche.
Luca Rotondo
tratto dalla serie: Cattedrale nel deserto
Due giganti a confronto: Torre UniCredit, palazzo più alto d’Italia, ritratta
dalla Torre Solaria, l’edificio residenziale più alto d’Europa.
Enrica Bizzarri Libera professionista, si occupa di progettazione e restauro di
giardini e aree verdi, in ambito pubblico e privato. Laureata in Lettere, diplomata
presso la Scuola di Architettura del Paesaggio di Villa Montalto a Firenze,
perfezionata in Restauro dei giardini presso l’U.I.A. di Firenze e in Progettazione del
verde nelle strutture di cura presso l’Università di Milano. Docente a contratto alla
Facoltà di Agraria-Università di Perugia dal 2003 al 2008. Socia AIAPP dal 1999,
attualmente è Vicepresidente della Sezione Centrale.
Vive tra l’Italia e la Nuova Zelanda. www.enricabizzarri.net
Waitangi:
dove i luoghi diventano storia.
In Nuova Zelanda
un paesaggio straordinario
celebra l’identità di un popolo.
di Enrica Bizzarri
S
iamo sempre stati abituati a ricordare eventi storici importanti, più spesso trattati di pace, dal nome delle località in
cui questi patti venivano stipulati o questi avvenimenti accadevano (l’incontro di Teano, il trattato di Yalta, la pace di Cambrai), ma quasi mai i luoghi in quanto tali vengono ricordati per
le loro caratteristiche particolari, essendo di solito località per lo
più anonime, scelte casualmente, per motivi strategici o di risonanza. Ma ce n’è almeno uno dove la risonanza dell’evento è a
stento pari alla magia del sito: Waitangi, il luogo e il momento in
cui comincia la storia della Nuova Zelanda.
I grandi prati che precedono
l’arrivo all’ingresso del
Waitangi National Trust
estate.
N
54
on si tratta di una città, di un villaggio o di un mausoleo,
Waitangi è un immenso, bellissimo lembo di terra, un paesaggio incorniciato tra mare, cielo e foresta, affacciato
sulla spettacolare Bay of Island. Osservando queste colline dal
lato opposto della baia durante una tempesta, con le onde che
si frangono sulla scogliera sottostante contornando con i loro
bianchi spruzzi il promontorio, si percepisce un luogo di grande
potenza, fisica ed emotiva. Waitangi è da sempre un sito sacro
per i Maori, luogo di incontri e di cerimonie, ed è lì che questo
popolo ben saldo nelle sue tradizioni neolitiche, che aveva compiuto il miracolo di giungere in Aotearoa, l’isola della grande
nuvola bianca, su fragili canoe pochi secoli prima, ha incontrato l’occidente e si è confrontato con esso, dopo un periodo di
scontri anche sanguinosi inevitabili come sempre quando due
civiltà vengono a contatto. A Waitangi un paese occidentale
alla testa del mondo industriale di allora ha incontrato, conosciuto e riconosciuto una cultura aborigena del tutto aliena.
W
e have always been used to remember important historical events, especially peace treaties, through the
names of the places they were made or important
facts took place (i.e. the meeting at Teano, the Treaty of Yalta, the
Peace of Cambrai), but it rarely happens that these places are
remembered because of their peculiarities, as they are usually
anonymous locations, randomly chosen, for strategic reasons
or resonance. But there is at least one where the resonance of
the event is hardly equal to the magic of the site: Waitangi, the
place and the time when the history of New Zealand begins.
Il vialetto che sale verso la
Treaty House, fiancheggiato
da esemplari di pohutukawa
(Metrosideros excelsa), al
piede del primo è visibile la
targa che ricorda il dono di un
illustre visitatore.
I
t is not a city, a village or a mausoleum: Waitangi is an immense, wonderful strip of land, a landscape framed by the
sea, sky and forest and overlooking the spectacular Bay of
Island. Looking at these hills from the opposite site of the bay
during a storm, with the waves breaking on the reef below and
skirting the headland with their white spray, one senses a place
of great physical and emotional strength. Waitangi has always
been a sacred site for the Maori, a place for meetings and ceremonies and from here these people so stuck with their Neolithic traditions, managed to reach Aotearoa, the island of the
big white cloud, in their fragile canoes a few centuries before. In
Waitangi they met the West and dealt with it after a period of
unavoidable and sometimes bloody clashes, as it happens when
two cultures come into touch. In Waitangi a western country
that was the industrial leader at that time met, knew and recognized a completely alien aboriginal culture.
55
A
Waitangi il 6 febbraio 1840 i maggiori capi Maori e l’emissario della Corona Britannica si sono incontrati e
hanno concordato una pace che da allora ha consentito
convivenza e sviluppo, un percorso comune che vede oggi la
Nuova Zelanda ai vertici mondiali per qualità della vita.
U
n luogo remoto, lontano centinaia di chilometri dalla capitale Wellington e dalla metropoli cosmopolita di Auckland, dove però capi di stato da tutto il mondo e membri
della famiglia reale inglese arrivano e piantano nuovi alberi a
testimonianza del loro passaggio. Perché oggi i veri protagonisti
di Waitangi sono gli alberi, maestosi esemplari isolati e grandi
gruppi, che segnalano il luogo dal mare, punteggiando le grandi
distese di prato.
Il percorso coperto,
snodandosi tra scarpate
ricoperte di felci, conduce al
museo e al parco.
L
56
’ingresso al memoriale si raggiunge dopo un lungo percorso tra prati verdissimi e masse di vegetazione. Le architetture del centro visita con annesso museo, progettate negli
anni ‘80 dal celebre architetto maori John Scott, sono state rinnovate e ampliate nel 2009, su progetto di Grant Harris. Sostenuti da imponenti pali di legno e costruiti con materiali locali
come il profumato legno di Cupressus macrocarpa, gli edifici
ampi e ariosi richiamano in un’ottica contemporanea la tradizione maori della wharenui (spazio comune dedicato agli incontri), ma anche i rustici ripari dei primi coloni. Le pareti sono
costituite da grandi vetrate che consentono un’illuminazione
naturale e conferiscono una consistenza trasparente agli edifici
che, completamente immersi nella vegetazione, si inseriscono
con naturalezza nel paesaggio coniugando funzione, estetica e
attenzione all’ambiente.
T
he most important Maori chiefs and the British Crown
emissaries met in Waitangi on February 6th 1840, and
agreed on a peaceful co-existence that allowed the mutual development and today New Zealand is at the top in the
world for the quality of life.
E
ven if it is a remote place, hundreds of kilometers away
from the capital city Wellington and from the cosmopolitan Auckland, every time heads of state from around the
world and members of the British Royal Family come to Waitangi, they plant new trees as evidence of their passage. Today
the trees are the real stars in Waitangi: majestic isolated specimens and large groups mark the place from the sea, dotting the
large meadows.
Il percorso verso l’edificio dei
servizi: la trincea è rivestita
con tronchi di felce
(Cyathea dealbata - Ponga).
T
he entrance at the mausoleum is after a long path among
green meadows and vegetation. The visitor centre and
the attached museum’s architecture were designed by
the Maori architect John Scott in the eighties and then renewed
and enlarged in 2009 by Grant Harris. The wide and airy buildings are made of local material such as the smelly Cupressus
macrocarpa wood, and supported by massive wooden poles.
They refer to the Maori tradition of the wharenui (public meeting place) in a contemporary style, but they also remind us of
the rough shelters of the first settlers. The wide glass walls provide natural light and give a transparent texture to the buildings
that, fully plugged into the nature, fit naturally into the landscape combining function, aesthetics and concern for natural environment.
57
I
l percorso di visita inizia con un pergolato che corre quasi
in trincea, tra basse scarpate rivestite di felci. Poi, una volta
superato l’edificio che ospita museo e servizi, si trasforma in
un’ampia passerella costruita completamente in legno che attraversa in quota una gola densamente vegetata, snodandosi a
mezza altezza tra le felci arboree che formano una volta intermedia, appena al di sotto delle chiome degli alberi più alti. Le
felci arboree presenti in Nuova Zelanda appartengono a due
gruppi distinti, Cyathea e Dicksonia, note rispettivamente con
il nome comune di Ponga e Wheki. Cyathea dealbata o Silver
fern e Cyathea medullaris o Black tree fern, detta anche Mamaku, sono tra le più diffuse e iconiche. Tra le seconde, la Dicksonia fibrosa è caratteristica per la corona di foglie secche che ne
rivestono il tronco.
Il sistema di passerelle
e scale, costruito
completamente in legno,
attraversa la forra
consentendo la visione
ravvicinata della volta
arborea. Un percorso
alternativo privo di barriere
consente comunque la
completa accessibilità del
sito.
T
ra gli alberi più alti, che formano la vera e propria canopia, si notano in particolare la Nikau palm (Rhopalostylis
sapida) unica palma endemica della Nuova Zelanda, il
bellissimo Puriri (Vitex lucens), carico contemporaneamente di
fiori rosa e frutti simili a ciliegie, il gigantesco Kauri (Agathis
australis), antichissima conifera endemica come anche il Rimu
(Dacrydium cupressinum), podocarpacea dalla chioma vaporosa, formata di minutissime foglie simili a scaglie appuntite.
U
58
sciti dal lembo di foresta e costeggiando il delizioso caffè
costruito sull’acqua, il percorso conduce fino a una piccola spiaggia dove si trovano alcune canoe rituali, tipica
espressione delle abilità nautiche e artistiche maori o fino all’edificio decorato dove giovani locali coltivano musica e danza,
così importanti in questa cultura tribale, cui la sorte ha riservato
miglior fortuna che a tante altre.
T
he visit tour starts with a pergola that runs like a trench,
between low slopes covered with ferns. Then, once you
pass the museum and facilities building, it turns into a
wide wooden walkway that goes through a densely vegetated
gorge, running at half height among the tree ferns that make a
vault just below the highest trees’ crowns. The tree ferns in New
Zealand belong to two different species, Cyathea and Dicksonia,
known by the common name of Ponga and Wheki. Cyathea dealbata or Silver fern and Cyathea medullaris or Black tree fern,
also known as Mamaku, are the most popular and iconic. Among
the second ones, the Dicksonia fibrosa is characteristic for the
dry leaves that cover the trunk.
L’edificio che ospita il caffèristorante, in legno e vetro, si
trova al centro del laghetto tra
felci e vegetazione acquatica.
A
mong the highest trees that form the canopy, you notice
the Nikau palm (Rhopalostylis sapida), the only endemic
palm in New Zealand, the beautiful Puriri (Vitex lucens),
full at the same time of pink flowers and fruits similar to cherries, and the huge Kauri (Agathis australis), a very old endemic
coniferous such as the Rimu (Dacrydium cupressinum) with its
hairy foliage made of very small awl-shaped leaves.
O
ff the edge of the forest, walking by the picturesque café
built on the water, the path leads to a small beach where
you can find some ritual canoes that represent the typical expression of the Maori artistic and nautical skills. You can
also reach the decorated building where local young people can
practice music and dance, that are so important for this more
lucky than others tribal culture.
59
Canoe rituali Maori esposte
nei prati che lambiscono le
rive della Bay of Island.
R
isalendo la collina si raggiunge il vastissimo prato che costituisce il Treaty Ground, dove si fronteggiano i due edifici simbolo dell’accordo di Waitangi: la Treaty
House,
_
prima residenza inglese sul territorio, e la Whare Runanga, tradizionale costruzione maori in legno intagliato, sempre affollati
di turisti e scolaresche. Ma anche qui la presenza degli alberi si
impone allo sguardo, sovrastando le architetture. Il gigantesco
pino del Norfolk (Araucaria heterophylla), piantato all’epoca
del trattato, è alto 43 metri e ruba la scena al vicino Flagstaff, il
pennone di 35 metri su cui sventola la bandiera con la Croce del
_
Sud. Enormi querce quasi nascondono alla vista la Whare Runanga mentre, salendo verso la Treaty House, il sentiero è affiancato da grandi Pohutukawa (Metrosideros excelsa), tra gli
alberi preferiti dalle personalità in visita da portare in dono.
Il percorso in legno che si
addentra nel mangrovieto,
alla foce del Waitangi River.
60
Maori in abbigliamento
tradizionale che giocano
a cricket sul grande prato
del Flagstaff affacciato
sulla baia, un esempio di
integrazione tipicamente
neozelandese.
C
limbing the hill you reach the Treaty Ground, an immense lawn where the two buildings symbolizing the Waitangi Treaty face each other: the Treaty House,
_ the first
English residence in the territory, and the Whare Runanga, the
traditional Maori construction made of carved wood; these buildings are always full of tourists and school children. But even
here the presence of the trees stands above the architectures
and catches the eye. The gigantic Norfolk pine (Araucaria heterophylla), that was planted at the time of the treaty, is 43 meters
high and steals the show to the nearby Flagstaff, the 35 meters
high flagpole where the South_Cross flag waves. Enormous oak
trees nearly hide the Whare Runanga sight, while big Pohutukawa (Metrosideros excelsa), the favorite trees chosen as a gift by
personalities visiting the place, are alongside the path that leads
to the Treaty House.
Nel giardino in stile formale
che circonda la Treaty house
convivono specie europee e
autoctone, come il cabbage tree
(Cordyline australis).
61
Un giovane, altissimo esemplare di
kauri (Agathis australis) richiama
a Waitangi le antiche foreste di
queste possenti conifere autoctone,
decimate durante la colonizzazione
della Nuova Zelanda e oggi
severamente protette.
L
a residenza di tipo coloniale della Treaty House, un tempo chiamata semplicemente “Residency” è circondata da
un curioso giardino, in perfetto stile cottage garden, in cui
rose, lavande, dalie ed erbacee perenni della tradizione inglese
si mescolano a piante indigene come Koromiko (Hebe stricta),
Toi-Cabbage tree (Cordyline indivisa) e Manuka (Leptospermum scoparium).
I
l Waitangi Treaty Grounds costituisce oggi un complesso
memoriale che si estende per quasi 5 ettari di prati e giardini
ed è compreso a sua volta nel Waitangi National Trust Estate,
oltre 500 ettari di coste rocciose e spiagge, prati, un fiume e una
foresta. Luoghi dove terra e mare si incontrano, intrico di isole,
piccole baie e bracci di mare, con un clima subtropicale e una
ricchezza di vita affascinante, per celebrare la memoria e l’identità di un popolo e di un Paese che riconosce nel patrimonio naturale, paesaggistico e culturale uno dei propri valori fondanti.
62
Donna Maori in abito rituale, alle
sue spalle il gigantesco esemplare
di Norfolk pine (Araucaria
heterophylla), piantato dal
rappresentante della Corona
James Busby e da sua moglie
Agnes, intorno al 1830.
T
he residence of the Treaty House, once simply called “Residency” is in the colonial style and it is surrounded by an
intriguing cottage-style garden where roses, lavenders,
dahlias and perennials according to English tradition mix with
local plants such as Koromiko (Hebe stricta), Toi-Cabbage tree
(Cordyline indivisa) and Manuka (Leptospermum scoparium).
T
oday the Waitangi Treaty Grounds represents a memorial complex that covers nearly 12 acres with lawns and
gardens and it is included in the Waitangi National Trust
Estate, more than 1,000 acres of rocky shores, beaches, lawns,
a river and a forest. Places where the earth and the sea meet, a
maze of islands, small bays and sea arms, with subtropical climate and wealth of fascinating life, to celebrate the memory and
identity of a people and a country that is aware of the great fundamental value of the natural, cultural and landscape heritage.
63
Claudio Vitale
tratto dalla serie: Homeless
ISSUE #11 - SPRING/2012
Questo lavoro, che risale a più di una ventina di anni fa, propone fotografie crude ma
gentili, che vanno dritte al soggetto. Dal 1989 i senza tetto delle stazioni milanesi ci
sorridono. Un po’ sarcastici.
Virgilio Carnisio
tratto dalla serie: Isola Untitled
ISSUE #8 - SUMMER/2011
Il passato non torna. Eccetto che nella memoria di chi ricorda, con o senza rimpianti,
ciò che del quartiere Isola era un tempo e che oggi non è più.
Giuseppe Lotti Professore associato del DIDA di Firenze, è Vice-Presidente
del Corso di laurea in Disegno Industriale e Responsabile (Università di
Firenze) dell’International’s Master degree in Design for the cooperation
and sustainalble Development , insieme all’IUAV di Venezia e alla Facoltà di
Architettura di Genova. E’ stato dal 1996 al 2010, Presidente del Centro Studi
Giovanni Klaus Konig ed attualmente dirige il Gruppo di ricerca “ Immagine
e Comunicazione della Facoltà di Architettura di Firenze”.
Un’esperienza
a Marrakech
Design per lo sviluppo locale sostenibile.
di Giuseppe Lotti
foto di Itaca Freelance
I
l Dipartimento di Architettura – DIDA
dell’Università di Firenze ha recentemente promosso un Corso di perfezionamento in Design per lo sviluppo
locale sostenibile che si è tenuto nello
scorso mese di settembre a Marrakech.
Il Corso, promosso in collaborazione
con ESAV – Ecole Superieure des Arts
Visuels, mette a sistema le esperienze
precedentemente condotte – a livello
di obiettivi, metodologie e strumenti di
lavoro.
L
’organizzazione del corso ha inevitabilmente richiesto una riflessione sui concetti alla base del corso.
Quello di sviluppo locale – una definizione non univoca - con conseguente
debolezza e forza del concetto; di finalità: lo sviluppo sociale si concretizza nel
soddisfacimento dei bisogni fondamentali, il miglioramento del futuro economico… e della qualità di vita, la valorizzazione delle risorse locali, la creazione
di un ambiente favorevole per le attività
economiche; di sostenibilità, un concet-
68
to che è cambiato con il tempo nell’ottica di un’attenzione non solo legata agli
aspetti di natura ambientale, investendo aspetti di natura sociale e culturale.
Relativamente ai contenuti del corso, il
design – nelle sue molteplici sfaccettature – è uno degli agenti dello sviluppo
locale sostenibile. Per un lavoro che si
sviluppa a più livelli, dal progetto del
prodotto – dalla valorizzazione delle
produzioni locali al merchandising, a
quello della comunicazione (a più livelli: segnaletica, cartacea, internet, video
design…) al servizio.
C
ome Corso di Perfezionamento
in Design per lo sviluppo locale
sostenibile abbiamo dovuto operare delle scelte – data la brevità del
lavoro. Come focus centrale del Corso
è stato individuato quello del Design
come strumento di valorizzazione delle attività produttive manifatturiere. A
livello operativo sono state fornite agli
studenti indicazioni da rispettare nella
fase di progettazione.
1
La relazione tra prodotti e luoghi
come valore aggiunto – citando i
casi della Denominazione di origine
protetta, i marchi a livello territoriale,
l’esempio di Slow Food, rilevando come
il rapporto tra produzioni e territorio
sia più semplice per il settore agroalimentare legato alle specificità del clima, della terra…
2
Il rapporto tra prodotti e società –
citando, tra l’altro il caso del commercio equo e solidale che si basa
sulla individuazione di diritti per chi
produce. Così Ezio Manzini con estrema lucidità: “…se vi sono prodotti che
portano con sé lo spirito del luogo, la
qualità di questo luogo (e della comunità che lo caratterizza) deve anch’essa
essere garantita… In una battuta: i prodotti di origine controllata richiedono
dei luoghi e delle comunità di qualità garantita…” Ed ancora: la seconda
componente strategica dello sviluppo
locale è “quella legata al tema delle risorse… per esistere, e durare nel tempo, una risorsa richiede di essere scoperta, valorizzata ed opportunamente
coltivata… Ed infine, affinché questa risorsa così valorizzata non si consumi o
degradi, occorre usarla nei limiti delle
sue possibilità di rigenerazione.”1
UNESCO – Article 2: Le “patrimoine
culturel immatériel”… se manifeste
notamment dans les domaines suivants: (a) les traditions et expressions
orales, y compris la langue comme
vecteur du patrimoine culturel immatériel; (b) les arts du spectacle; (c) les
praticulturel immatériel ; (b) les arts du
spectacle; (c) les prati ques sociales, rituels et événements festifs; (d) les connaissances et pratiques concernant la
nature et l’univers; (e) les savoir-faire
liés à l’artisanat traditionnel. sociales,
rituels et événements festifs; (d) les
connaissances et pratiques concernant
la nature et l’univers; (e) les savoir-faire liés à l’artisanat traditionnel.
1
Ezio Manzini, op.cit., pp.104-105.
2
www.wikipedia.it
in basso e nella pagine precedente:
Palazzo El Badi.©ITACAfreelance
3
L’importanza del concetto di capitale sociale, termine con diversi significati, dalla natura multidimensionale. In sociologia utilizzato “per
indicare l’insieme delle relazioni interpersonali formali e informali essenziali
anche per il funzionamento di società
complesse ed altamente organizzate.
Esistono relazioni ben definite fra capitale umano, capitale sociale e sviluppo
economico di una cultura, sia essa un
territorio, una regione o una nazione.”2
4
Il rapporto tra cultura materiale e
cultura immateriale. Come recita
la Convenzione tra la salvaguardia
del patrimonio culturale e immateriale
69
N
ella consapevolezza che, proprio
al design può spettare il ruolo di
tenere insieme questa molteplicità di aspetti – il rapporto tra prodotti e
luoghi, tra prodotti e società, la cultura
materiale e quella immateriale, la valorizzazione del capitale sociale.
P
er vocazione e formazione il design
svolge da sempre un importante
ruolo proprio come connettore e
catalizzatore di contributi disciplinari,
conoscenze, saperi diversi che concorrono a definire l’innovazione. Il design
svolge appieno una funzione di “mediatore e integratore di saperi”3 di provenienza diversa a livello disciplinare ed
extradisciplinare “le tradizionali competenze delle imprese”, territoriale
“con una crescente importanza assunta
dalle reti di conoscenza a livello globale,
muovendo dalle peculiarità dei luoghi”,
tra settori vicini e lontani.
sotto:
Jardin Majoreille. ©ITACAfreelance
70
U
n lavoro “con” i luoghi, dunque.
Con la necessità di cercare di
capire i luoghi. Di qui, nel caso
specifico, la necessità di interrogarsi
sull’identità culturale di Marrakech,
contesto di riferimento del Corso. Marrakech, come ogni luogo del turismo, a
rischio di divenire una città prodotto,
una città cartolina, una città Disneyland
ma anche, per tradizione, luogo dell’incontro e dunque dello scambio. Incrocio tra tradizione modernità, scambio
tra culture, fulcro di attraversamenti
tra Africa ed Europa di cui la piazza Jamaa el Fna è l’emblema.
L
a piazza nella Liste répresentative
du patrimoine culturel immatériel dell’UNESCO, 2008 - “veritable
theatre en plein air”. “La place Jemaa
el-Fna est l’un des principaux espaces
culturels de Marrakech.
sotto:
minareto della Moschea Koutoubia.
©ITACAfreelance
D
evenue l’un des symboles de la
ville depuis sa fondation au onzième siècle, elle offre une concentration exceptionnelle de traditions
culturelles populaires marocaines qui
s’expriment à travers la musique, la
religion et diverses expressions artistiques… Les expressions orales étaient
autrefois continuellement renouvelées
par les bardes (imayazen) qui parcouraient les territoires berbères. Aujourd’hui encore, ils mêlent le geste à la
parole pour enseigner, divertir et charmer le public. Ils tendent désormais à
adapter leur art au monde contemporain en improvisant sur la trame d’un
texte ancien, rendant ainsi leurs récits
accessibles à un plus large public.”
M
arrakech,
dunque,
come
esempio di società interculturale, vero laboratorio della vita
contemporanea. Con il design che si fa
veicolo dell’intercultura, caricandosi di
significati di carattere sociale.
T
utto ciò nella consapevolezza che
in un tale scenario l’Italia può
giocare un importante ruolo. Per
la sua posizione geografica: in mezzo al
mare di mezzo.
in alto a sinistra:
Madersa Ben Youssef.in alto a destra:
Medina. ©ITACAfreelance
3
Claudio Germak, Introduzione, in Claudio Germak (a cura di), Uomo al centro del progetto.
Design per un nuovo umanesimo, Umberto Allemandi & C, Torino, 2008, p.4.
71
C
on il Mediterraneo da sempre
luogo di confronto tra mondi,
modelli di sviluppo e culture diversi. Mediterraneo come mare di mezzo, non solo tra terre, ma tra due modelli
di sviluppo:
- quello comunemente definito come
occidentale che ha portato mediamente a benessere economico ma che pecca
sul piano della sostenibilità ambientale,
nella disparità nei confronti di realtà a
più basso tasso di sviluppo e non appare generalizzabile perché porterebbe in
breve al tracollo del pianeta;
- quello proprio della riva sud, sicura-
mente eccessivamente lento, soggetto
alla minaccia di una occidentalizzazione incontrollata, ma che si esprime in
continuità con il territorio, in rapporto
con la tradizione, in legami ancora forti
tra le persone.
I
l tutto a prefigurare una alternativa
mediterranea che “…vorrebbe valorizzare, piuttosto, la cultura del limes, dei molti dei, delle molte lingue e
delle molte civiltà, del mare fra le terre
estraneo alla dimensione monista, cosmopolitica e umanitaria delle potenze
oceaniche.”4 Mediterraneo come luogo
di incontro con l’altro.
Danilo Zolo, “La questione mediterranea”,
in ivi., p.21.
4
sotto: Piazza Jama’a el Fnaa. ©ITACAfreelance
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sopra: Piazza Jama’a el Fnaa. ©ITACAfreelance
“S
e il Mediterraneo è senza dubbio la culla dell’Occidente, esso è
però anche il luogo di intersezione tra
l’Occidente e il suo Altro, o almeno ciò
che esso ha ritenuto essere il suo Altro,
in particolar modo la cultura arabo-musulmana.”5
conoscimento conflittuale di alterità. Il
Mediterraneo, che si oppone al fondamentalismo della visione unica, della
cultura unica, della fede religiosa unica.
Un luogo pluriverso, plurimo, plurale. Il
luogo dove non è dato a nessuna cultura prevalere sulle altre.”6
C
on Scandurra: “Così è per il Mediterraneo, luogo dismesso e
pure d’incontro di storie meticciate, di ibridismi e non di guerre, di ri-
Roberto Gritti, Patrizia Laurano, Marco Bruno, “Introduzione”, in Roberto Gritti, Patrizia
Laurano, Marco Bruno, Oltre l’Orientalismo e l’Occidentalismo. La rappresentazione dell’Altro
nello spazio euro-mediterraneo, Guerini associatu, Milano, 2009, p.12
6
Enzo Scandurra, Un paese ci vuole. Ripartire dai luoghi, Città Aperta Edizioni, Troina (En),
2007, p.106.
5
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Maria Vittoria Trovato
tratto dalla serie: Isola
ISSUE #9 - AUTUMN/2011
Il quartiere Isola aveva una storia a sé nella geografia milanese, come se ci fosse il
mare attorno. Oggi il ponte sacrifica, per interessi immobiliari, la sua complessa identità.
Daniele Pennati
tratto dalla serie: Ex Sisas
ISSUE #8 - SUMMER/2011
Tra la speranza di una nuova vita e il baratro del disastro ambientale, l’ex polo chimico
SISAS si offre all’obbiettivo fotografico nel suo desolante e inquietante abbandono.
Alfredo Bosco
tratto dalla serie: Fenomenologia a due
ISSUE #5 - AUTUMN/2010
Seguendo le date di un calendario segreto, appassionati tangueri si riuniscono la sera
per ripopolare una Piazza Affari, altrimenti deserta.
il libro
Vanessa Lastrucci
architetto, Responsabile social media per NIP magazine.
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Buildings must die. A perverse view of architecture.
Stephen Cairns, Jane M. Jacobs
The MIT press 2014
Cambridge-Massachussests, London-England
Le recensioni di
La vita dell’Architettura è finita.
di Vanessa Lastrucci
“Architecture carries within itself the traces of
future destruction, the already past future, future perfect, of its ruin... it is haunted, indeed signed,
by the spectral silhouette of this ruin, at work even
in the pedestal of its stone, in its metal or its glass”.
Derrida in “Buildings must die”.
L
S
e queste, fino ad alcuni anni fa, erano soltanto
metafore, oggi si è passati ad una traduzione quasi letterale della somiglianza alla vita nell’edificio:
le biotecnologie hanno permesso di ampliare il numero di elementi che danno la vita, enfatizzando il
biomorfismo e l’antropomorfismo dell’architettura.
Gli esempi della tendenza si sprecano, ma è semplice
pensare a due strutture ben note, come l’Institut du
Monde Arabe di Jean Nouvel dove i diaframmi, che si
comportano esattamente come le pupille dell’occhio
umano, si allargano o stringono in base alla quantità di
luce che li tocca; o la chiesa di Tor Tre Teste di Meyer,
il libro
’etica in architettura ha solitamente per soggetto il progettista, che, con le sue scelte rende l’edificio più o meno sostenibile, più o meno riciclabile,
più o meno conforme a determinati principi di valore dettati dalle variazioni del tempo e delle società.
Ma è possibile ribaltare il soggetto? Si può parlare di etica nell’edificio in sé? Probabilmente sì, ci
rispondono Stephen Cairns e Jane M. Jacobs, se è
così comune assumere che l’architettura abbia una
“vita”, un certo “comportamento” e “reazione” a
vari fattori, una propria “membrana” e via dicendo.
Non si tratta solo di un linguaggio di recente invenzione, gli accostamenti dell’architettura ai sistemi biologici, o alla costituzione umana datano nel tempo a Le
Corbusier e Frank Lloyd Wright, il Filarete e l’Alberti, per arrivare a Vitruvio e probabilmente anticiparlo
ancora indietro, ma di questo non si hanno testimonianze certe.
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il libro
che ha nell’impasto del cemento una particella che
permette di eliminare le patine che si formano a causa degli agenti atmosferici, come eliminare le scaglie
di pelle morta.
L
’etica dell’edificio è però monca se ci si riferisce
soltanto alla vita. Eppure l’aspetto speculare, la
morte, non è altrettanto dibattuto nel mondo dell’architettura. Quale è la relazione dell’architettura con la
morte, come si pone nei confronti di concetti ad essa
correlati come spreco, rovina, distruzione, deterioramento e decomposizione? Con questa domanda si
entra nel cuore del testo, di cui ci vengono chiariti gli
intenti: “arricchire la categoria del design per espanderne l’orizzonte etico e per capire come l’architettura possa imparare a convivere con i fattori che la invecchiano e la deformano”.
È
proprio a partire da questi fattori che i due autori
studiano il concetto con una larga base teorico-filosofica ed empirica, affrontando la ricerca per categorie. Citando solo le più affascinanti:
Dross_ come definito da Alain Berger è il paesaggio
dello scarto, dei terreni di risulta, degli spazi interstiziali e delle soglie. Pur indicatore di una “sana crescita
urbana” è un paesaggio liminale. Ma se si è al limite, si
è vicini alla morte.
Rust_ La condizione più tipica della città contemporanea, è lo scenario formato da edifici costruiti per pura
utilità quali ponti, centrali termiche, manifatture che,
superati nell’uso, si trovano oggi in contesti in cui vengono rivestiti di intenzioni estetizzanti (la più banale:
loft conversion) e rappresentano dei veri e propri
“morti viventi”.
Subtraction_ vista come perdita, è la demolizione o
rimozione a cui tanto si fa resistenza, in tutto il mondo.
Obsolecence_ che definisce le architetture che “rimangono al loro posto, ma accumulano ritardo”
come edifici non finiti, poco utilizzati, o carcasse.
N
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on ci si può ridurre solo a questa semplificazione:
le categorie non possono essere drasticamente
separate, ognuna influenza l’altra e in numerose possono affliggere uno stesso edificio, originando sovrapposizioni ambivalenti e perverse.
C
erte volte l’estetica della decadenza è ricercata.
Una patina di sporco può essere intenzionalmente
inserita nel design in materiali come il corten o altre
superfici che reagiscono alle caratteristiche atmosferiche, definendo un’architettura che si costituisce attraverso l’interazione con le condizioni del contesto.
Il testo investiga soprattutto in questo: come si sono
confrontati e comportati architetti ed edifici riguardo
i fattori distruttivi, spesso lenti, diffusi, ed indistinti,
offrendo una riflessione ampia e sfaccettata sulla durabilità e la programmazione della vita dell’edificio.
Se l’architettura è cosciente dei propri limiti temporali, riuscirà anche ad affrontare la propria morte.
S
tephen Cairns e Jane M. Jacobs scrivono che ogni
metafora con la vita cade quando si avvicina la fine
di un edificio. Al contrario, penso che la morte non
faccia che rinforzarla: la vita dell’architettura è finita,
proprio come l’umana.
il libro
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