Terronia: un nome, un programma.

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Terronia: un nome, un programma.
Terronia: un nome, un programma.
Bravo Longo.Le sue analisi sono sempre illuminanti.Io non sono né storico né economista. Mi infiammo, però, quendo
sento, leggo, vedo certe cose che mi stanno a cuore.Terronia: un nome, un programma.
A pensarci bene anche l’altro nomignolo affibbiatoci, Terroni a noi, Terronia alla nostra Terra, è oltremodo riduttivo.
Forse vorrà dire che siamo quelli che coltivano la terra, che prevalentemente, essenzialmente coltivano o si occupano
della terra.
Non è, per questo, dispregiativo: onore ai contadini, onore a chi col suo impegno ci consente, con i più svariati metodi
dell’agricoltura moderna, di nutrirci e deliziarci con i frutti prelibati di Madre Natura …coltivata.
Ma è riduttivo se si considera che è applicato, da quelli del nord, ai discendenti dei Duociciliani che coltivavano la terra sì
(con i frutti della quale si sfamarono i cosiddetti salvatori venuti, dicevano, a liberarci) ma, nel 1856, come Paese, erano
la terza potenza industriale al mondo.
Cinquemila fabbriche solo nella parte continentale del Regno, molti più occupati, nell’industria e nell’artigianato, di quanti
non ve ne fossero nel resto d’Italia … fino all’unità[1]. Poi, ad unità avvenuta, comincia la riduzione delle commesse alle
fabbriche del sud, la loro chiusura, il blocco di quelle che erano in costruzione, la scientifica messa in difficoltà di quelle
che in altri modi non si poteva far chiudere.
L’industria del nord decolla, i suoi fatturati raddoppiano, aumentano gli occupati … mentre quella che era stata una potenza
industriale va incontro alla deindustrializzazione, alla disoccupazione, all’emigrazione fino a quel momento praticamente
sconosciuta.
Ci è rimasta solo l’agricoltura (non potevano togliercela e non avevano interesse a farlo). E così siamo diventati … terroni.
Questo era il ruolo previsto per noi nel programma del loro risorgimento e questo ci hanno fatto diventare.
E ci disprezzano pure per questo!! Ma la finiscano!
Giuseppe Tomasi di Lampedusa scriveva che, con l’unità, tutto è stato cambiato per lasciare tutto com’era.
Ma di che parlava? Dubito che conoscesse le reali condizioni del Sud prima dell’unità! Se le avesse conosciute avrebbe
fatto dire che tutto era cambiato affinché cambiasse tutto ciò che realmente interessava far cambiare: la distribuzione
della produzione industriale, dei depositi bancari, delle tasse pagate, della spesa pubblica; in somma: della ricchezza
prodotta e posseduta.
Giorni fa un noto industriale del nord ha detto che questo Paese manca di un progetto. Fa parte della solita retorica che
serve a lasciare le cose come le ha messe l’unità perché, è evidente, per noi Terroni il progetto c’è già ed è quello scritto dai
“risorgimentalisti pro domo loro” e realizzato con i fatti cosiddetti unitari.
A noi non è mai andato bene, questo programma e, fatte salve le prime reazioni di rifiuto ad esso dei vari Proto,
Polsinelli, Bruno, Salvemini ecc ecc, poi tutto è finito nel dimenticatoio, complice una politica di annientamento culturale
della nostra memoria storica.
Ma questa memoria va riemergendo; sempre più meridionali si riappropriano della loro vera identità, gloriosa ma amara
(…di qui la nostalgia).
Per questo motivo sarà sempre più difficile farci digerire quel programma originario[2] o il suo succedaneo nato dalle
mutate condizioni internazionali.
Anche per questo, almeno nell’anima, non dovremmo più sentirci né terroni né meridionali.
Buttiamocelo dietro le spalle: siamo Duosiciliani.
Futuro
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[1] G. De Crescenzo, Le industrie del regno di Napoli.[2] Rosario Villari, L’interdipendenza tra Nord e Sud, 1977: “…la stessa
industria centro settentrionale, sorta su queste basi parassitarie e malsane, non aveva capacità di espansione ed aveva
come condizione permanente di vita l’inferiorità del Mezzogiorno” … il quale, non essendolo, inferiore al nord , PRIMA dell’unità
(anzi, il contrario…) doveva diventarlo e poi rimanerlo. E’ tutta qui la genesi del nostro problema o, almeno, a me così pare.
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