qui - Sconfinare
Transcript
qui - Sconfinare
n°34- ESTATE 2012 direttore: DaviDe Lessi È un giornale creato dagli studenti di Scienze Internazionali e Diplomatiche di Gorizia L’EDITORIALE di Giovanni Collot C ome si fanno a descrivere cinque anni? Anni di ansie e soddisfazioni, di sogni e di frustrazioni, di scoperta del mondo e di sé, di maturazione. Anni di delusioni per esami che ti aspettavi più interessanti, per persone che ti aspettavi migliori. Ma anche anni in cui scopri e sviluppi le passioni vere, che ti accendono il fuoco dentro e ti spingono a saperne di più. E soprattutto, anni in cui nascono le amicizie migliori, quelle che sai ti porterai dietro tutta la vita, non importa quanto lontano sarete –perché il mondo vi aspetta, e le gente come voi non sa stare ferma– ma sarete sempre legati, perché l’anima in fondo è sempre la stessa, e voi siete gemelli d’anima. Cinque anni di SID, che a dirli sembrano posone che li hanno popolati, alcune se ne sono andate dopo il triennio, altre sono rimaste, per- SALVIAMO L’EURO! Un Appello alla classe politica europea per di Edoardo Buonerba & Dario Cavalieri C on la paura di tornare a settembre e di dover pagare un panino alla mortadella con 500.000 DeLira, ci rivolgiamo innanzitutto alla doni le facili demagogie e abbia il coraggio di creare un’agenda europea per il programma elettorale del prossimo che conservi il ricordo e quell’idea di comunità studentesca che è ciò che dà ancora un senso a Gorizia. Non è solo la didattica, tanto vituperata ma che comunque sa raggiungere vette di qualità. Non è la città, spesso troppo ostile alla novità, ma che sa farsi scoprire pian piano e farti innamorare. È che in questo angolo d’Italia sceglie di rinchiudersi gente di valore, che lo fa pullulare di attività. Per dirla con Ungaretti: “Questo è l’Isonzo / E qui meglio / Mi sono riconosciuto / quanto mi riguarda, sicuramente . Decine di persone sono passate sulle sue pagine, ognuna con il proprio punto di vista personale, e ognuna ha arricchito il giornale di una parte di sé. Ed è bello vedere che, dopo cinque anni, c’è ancora qualcuno che ha voglia di raccontare e di mettersi in gioco. Il numero che avete tra le mani vuole dimostrare questo: è vero, è più ridotto del solito, per questioni di sessione estiva e di (che vi abbiamo raccontato nello scorso numero). Ma siamo convinti che il numero minore di pagine non per forza porti ad una minore qualità, anzi. La decisione di pubblicare è stata presa perché avevamo ancora tanto da dire e volevamo dirlo insieme. Con quell’ottimismo e quel pizzico di follia che ci hanno sempre contraddistinto, e con la presunzione che parlare sia meglio che tacere. Sperando di fare un piacere a voi lettori, che di siete linfa vitale quanto la Redazione, e a cui ci sforziamo di dare sempre ragioni per continuare a sostenerci. Tanti sono ancora gli anni da raccontare. Cinque, cinque e perché no, ancora cinque. E state tranquilli: continueremo a raccontarli insieme ancora a lungo. Cambieranno scrittori, impagistere e a cambiare chi avrà il privilegio di farvi parte. Per concludere con le parole di qualcuno più grande, ! Disegno di Silvia Fancello e dia un messaggio corretto ai mercati ducia dei cittadini. Che lo sforzo di fare Europa non sia solo prerogativa delle istituzioni europee: perché non è più tollerabile questo immobilismo della classe politica su una questione che per noi non è più ineludibile. E’ una questione politica non esternalizzabile. Per fare l’Europa – nel senso di una compiuta unione politica, nella forma di federazione – c’è bisogna della volontà. Quella con la V maiuscola. I cittadini devono partecipare e intendere i motivi dell’Europa e un tramite importante è quello dei partiti. Finora siamo stati abituati a cessioni di competenze per settore. Ora ci vuole un passo in più: più Europa proprio ora che le classi politiche viaggiano sull’onda del malcontento. Perché di Europa ce n’è ancora molta da fare, ma senza saremo in un baratro. Ecco i nostri 5 motivi, quindi. non ci resta che ScOnfInARE di Davide Lessi C erte storie sono come i migliori mai. Per me è una di queste. Più di sei anni fa un capannello di studenti fondò un giornale. Passione, presunzione, chissà. C’è di certo che da allora ho degli amici fraterni. Poi, durante l’Erasmus, qualcosa si ruppe e rischiai di disamorarmene. Mai avrei pensato di diventare il direttore. Meno che meno di dover scrivere un commiato. No, non bastano queste righe per raccontare due anni e dieci numeri cartacei. Né per spiegarvi cosa è dilano i numeri: dieci mila contatti al mese. Giudicate voi, il mio sarebbe un parere di parte. Anzi di una parte di questa storia. Il protagonista è giusto rimanga re. Con le sue pagine da riempire per chi avrà ancora voglia di mettersi in gioco. Scrivere, provocare, confrontarsi con opinioni diverse. E con le proprie. è questo: un foglio bianco, un cursore lampeggiante. Tu, davanti, nudo e solo. Non importa chi e se ti leggerà. Se sarai soddisfatto di quello che hai scritto ce l’avrai fatta. Certo, lo spirito è sempre stato quello di non prendersi troppo sul serio. Ricordo la candidatura di un nostro collaboratore a sindaco di Gorizia. «Il candidato che ha studiato», era lo slogan elettoraalle feste in osmica e ai tentativi, impacciati, di conoscere una collaboratrice con la scusa di una riunione in Torretta. Certe storie sono come i migliori romanzi: lasciare ad altri la possibilità di continuare a scriverle. Quando presi la direzione di questo giornale, proposi di far diventare pubblicisti i suoi collaboratori più attivi e lungimiranti. Due anni dopo, mentre uno di questi sta diventando giornalista a tutti gli effetti sento il bisogno di salutarvi. E lo voglio fare con quelle parole con cui cominciai: « ne, unita all’essere pronti a fallire, fallire e fallire e ancora?». 2 Estate 2012 UNA SIRIA NON FA PRIMAVERA Ma l’America non lo sa di Federico Petroni * N el giardino del Medio Oriente l’America è un giardiniere disattento. Obama e soci confondono migna spuntata in Libia e in Siria. Così le rivolte a Damasco e dintorni vengono interpretate secondo il paradigma della primavera araba: il popolo che si solleva, il tiranno da abbattere, la democrazia e le aspirazioni di libertà da sostenere. Intanto, le insurrezioni siriane si arrampicano sino alla vetta della “guerra civile”. Così la etichettano per la prima volta le Nazioni Unite, per bocca di Henri Ladsous, sottosegretario generale per il peacekeeping. Il livello di violenza è tale che il comandante degli osservatori Onu, Major General Robert Mood, ha sospeso le attività di monitoraggio, giudicate troppo pericolose. A premere il grilletto semantico sono stati diversi fenomeni. Il “cessate il fuoco” del 12 aprile ignorato. I massacri di Hula e Qubeirperpetrati dalle milizie shabbiha, con decine e decine di morti tra la popolazione sunnita, donne e bambini compresi. Gli elicotteri impiegati dal regime per stroncare i petromonarchie saudita e qatarina. La posizione diplomatica di Washington è chiara: il dittatore Assad deve dimettersi e favorire la transizione. Per raggiungere l’obiettivo la strategia prevede il sostegno Niente armi ma aiuti umanitari e, soprattutto, tecnologie dell’informazione. L’infowar è la vera guerra che gli Usa non esitano a combattere, come riporta un recensono telefoni satellitari e apparecchi di connessione a Internet BGANs: l’obiettivo è bucare la censura del regime riempiendo la mediasfera di immagini delle vere o presunte stragi perpetrate dai seguaci di Assad. che gli Stati Uniti eseguono risulta stonato nel coro della Siria. Annan ha minacciato il “fallimento” del suo piano in assenza di manca di un’azione unitaria e omogenea e di bastioni difensivi. L’unico motivo per cui il copione regge è che, in anno di elezioni e di colloqui con l’Iran riesumati, Obama non intende lanciare l’ennesima guerra a stelle e strisce contro un paese musulmano. Limitarsi al grido “Assad cada” rischia di rivelarsi sterile. La partita siriana non è infatti un’insurrezione popolare per una società più democratica. La guerra civile a sede a New York, già autrice di una campagna a favore Lo schema però è miope perché pretende di dotare i “citizen journalists” siriani degli strumenti per far emergere la loro voce, quando il risultato è una propaganda che distorce la responsabilità della violenza, accollata interamente al regime. In generale, lo spartito SHADOW ARMY Le nuove guerre sono combattute a contratto di Patricia Ventimiglia L a generalizzata ristrutturazione delle Forze Armate ha portato alla costruzione di eserciti di professionisti dando ampio spazio all’outsourcing delle attività militari. scono servizi di carattere militare e legati alla sicurezza del personale diplomatico in ambito internazionale, sono diventate atne, accanto agli eserciti nazionali. I vantaggi legati all’utilizzo di PMF sono notevoli: oltre che sul piano economico, risultano decisivi anche e soprattutto in ambito politico, in particolare in termini di immagine rispetto alle opinioni pubbliche nazionali. Ciò grazie soprattutto alla riduzione del numero di morti fra i soldati “in prima linea”, evitando in questo modo la potenziale perdita di elementi delle forze armate, formati ed addestrati con largo investimento dei soldi dei contribuenti, a fronte della maggiore “spendibilità” dei membri delle compagnie private. Vista la riduzione dei bilanci della difesa statunitense, le PMF sono diventate la prima fonte per colmare qualsiasi tipo di gap tecnologico dell’esercito. L’outsourcing ha portato sicuramente vantaggi al personale militare americano che, grazie all’amministrazione Bush, non si deve più occupare della mera logistica lega- derie, costru- impianti). Q u a n d o queste società mato contratti per occuparsi anche dello spionaggio e delle operazioni combat, sul piano giuridico si sono poste di inquadramento normativo per i membri di queste imcontractors). contractor può essere vista come quella di un moderno mercenario, anche se viene denominato “personale civile al seguito delle forze armate”: ma se intraprende operazioni militari, nel diritto internazionale non vi sono normative che regolino la sua azione o un’ eventuale giurisdizione a cui egli dovrebbe essere soggetto. Barack Obama quando era senatore, cercò di regolarizzare la posizione dei contractors. Non solo non vi riuscì, ma sotto la sua presidenza si è arrivati a farne un uso molto maggiore di quanto non abbia fatto l’amministrazione Bush. Gli ultimi dati noti al Congresso sono che, per circa 250.000 militari regolari dislocati tra Iraq e Afghanistan, c’è un ugual numero di contractors. Ad oggi le maggiori società a contratto con il Dipartimento della Difesa ed il Dipartimento di direttamente dall’esecutivo e non rispondono al Congresso che non conosce la natura che agisce nell’ombra, ma che è mosso unicamente da interessi economici. Può condurre operazioni in patria e all’estero che non sarebbero consentite a militari regolari perché proibite da accordi internazionali, a cominciare dalla Convezione di Gineoccupano da anni degli interrogatori nelle prigioni a Kabul e sono state accusate più volte di tortura. Le guerre in Medio Oriente sembrano perciò sempre più in mano a compagnie private che agiscono solo in base ad un contratto da onorare. Con il ricorso all’impiego delle PMF, il perseguimento dell’interesse nazionale non può dirsi assicurato data la natura puramente economica del rapporto che lega queste le società e lo Stato. L’esercito viene messo sempre più spesso in seconda linea, facendo combattere nelle zone più pericolose i soldati privati così che l’opinione pubblica non potrà mai conoscere i numero esatto di feriti o di morti che è costata una certa azione bellica. Si va dunque progressivamente a svuotare di si- Damasco e dintorni è una lotta per la ridistribuzione del potere. “La caduta di Assad regime. Non darebbe immediatamente il là a un ampio sviluppo democratico”,sostiene la voce isolata di Vali Nasr della Johns La guerra di Siria va confrontata col precedente libico, non distorta attraverso il prisma della primavera araba che può applicarparlamento sciolto d’arbitrio dai militari al Cairo) ma non a una guerra civile settaria. to sommato un uomo solo al comando), la caduta di Assad scoperchierà, invece che placare, il vaso di Pandora di un regime che si regge sul mutuo sostegno di una rete due milioni), gli alawiti, la borghesia medio-alta sunnita. “La discussione negli Stati Uniti”, argomenta Nasr, “è ancora del tutto focalizzata sulla transizione dall’autoritarismo alla democrazia. Ma gli Usa non hanno una vera strategia per affrontare la guerra tra sette nella regione”. Sbaglia anche chi, negli Usa, invoca un’azione militare. La narrazione degli interventisti è duplice: da un lato, i liberal-neoconprotect”; dall’altro, “meglio una missione in Siria oggi che una guerra totale in Medio Oriente domani”. Per evitare che le armi chimiche di Assad cadano nelle mani sbagliate; che per vendicarsi il tiranno sguinnel caos proliferi il jihad, una proxy war giocata tra Iran e Arabia Saudita, allora meglio intervenire subito,come sostiene Robert Satloff del Washington Institute. Che succede però se l’operazione “Dente del Giudizio” non elimina le cause dell’infezione? La ricetta degli interventisti prevede l’imposizione di una , la creazione di zone cuscinetto per difendere i civili, il lancio di una cyberwar per stroncare la tecnologia del regime, contatti con la diplomazia araba per formare l’opposire. Vedi gli esempi della Libia e dell’Iraq post-Saddam. Il risultato di questa distorsione concettuale è che gli Usa vanno alla guerra delle idee armati di concetti sbagliati. O semplicistici. Applicata alla politica estera, l’ideologia americana è binaria. Bene vs. Male. Il manicheismo si fa Globo. E le sfumature spariscono. *Laureato alla LUISS con una tesi sulla gestione mediatica della guerra in Afghanistan da parte del generale Petraeus, analista di politica estera per Limes e The Post Internazionale 3 Estate 2012 SALVIAMO L’EURO: IN CONTINUA DALLA PRIMA E cco i nostri 5 motivi, quindi. Sicuramente parziali ma fondamentali, per non fare dell’Europa un capro espiatorio. 1 Analisi economica cieca. Il debito sovrano ha rimesso in discussione più di 50 anni di storia europea e il fatto che tale debito sia calcolato nella stessa valuta scatena nuovi rancori, incentiva gli stereotipi ma soprattutto da’ una grande occasione alla classe politica europea di esternare le sue colpe. E questo lo facevano i nostri governi anche in epoche non di crisi bastanza presa in considerazione). È l’Euro la colpa dei nostri mali. Con la Lira stavamo meglio. I tedeschi ci tengono con il cappio alla gola. Ora, ci siamo messi un chiodo in testa per sentirci un po’ più teutoni, per capire meglio questa visione dei popoli mediterranei che dall’epoca delle antiche e vino. All’epoca della creazione dell’euro tutti sapevano che la condizione imposta dalla Germania è che il cambio con il marco fosse di 1 a 1. Ovvero, moneta forte per sostenere l’industria d’alta tecnologia tedesca, per sviluppare un forte mercato interno (che all’epoca si pensava potesse assorbire di tutto) ma a scapito, ahinoi, degli Stati tradizionalmente esportatori di prodotti primari o di prodotti industriali di media tecnologia. Ed eccoci qui al giorno d’oggi a piangere un mercato interno morto, chiedendo soldi, invocando il ritorno alle monete nazionali. Un’orda di ciechi guidata da cani miopi. 2 No Euro, no party. I lirano- stalgici vogliono uscire dall’Euro. Alle analisi economiche di svantaggio, potrebbero obiettare: se hai la tua moneta e decidi sulla politica monetaria a casa tua svaluti, se sei in crisi come oggi, e riparti dalle esportazioni. Ci l’economia classica). Oggi, però, il mercato, anzi i mercati sono cambiati, dall’epoca in cui l’illuminato David Ricardo scriveva la Legge dei Vantaggi Comparati. Oggi la produzione è internazionalizzata e «spacchettata». Ritorneremo alle svalutazioni incontrollate, alle carriole di soldi, quei pochi euro che erano sui conti correnti verrebbero risucchiati di nuovo nel vertice della svalutazione, correremo di nuovo all’oro, in Svizzera, ai dollari (o all’euro rimasto fuori dalle nostre porte). Raddoppieremo i suicidi di gente che non ce la fa (Grillo, non ti stava tanto a cuore questo aspetto?), combatteremo contro i mercati emergenti del Real e dello Yuan con la DeLira, il nostro debito non si sa più come lo conteremo e anzi, nell’incerprincipio, uscire dall’euro sarebbe tornare alle dogane, ai tassi di cambio, al controllo delle persone alle frontiere? Questa non è la nostra generazione. 3 L’Euro è simbolo. Perché, vivaddio, l’Euro è dopotutto un simbolo. Simboleggia, a nostro modo di vedere, una costruzione. Rap- 5 PUNTI presenta la creazione più tangibile da quando i paesi europei hanno smesso di farsi la guerra tra loro. Togliendocela, ci privereste della chiave di volta del “sogno europeo”. sentire. Noi vi risponderemmo: le fondamenta di questa costruzione latitano, a volte – una coscienza “europea” è ancora lungi dal radicarsi, nei popoli d’Europa – ma su non in alcuni simboli? Detto fatto. I governi europei hanno pensato bene di cancellare (Trattato di Lisbona, 2007) ogni riferimento ai simboli dell’Unione: motto, bandiera, inno. Scomparsi da tutti i testi. 4 Europa sociale. Allora è questo il momento di rilanciare un’Europa sociale, prima di tutto. È proprio ora che è bene rilanciare quel programma sociale che per primo ha creato una cultura europea all’interno dei giovani: il programma Erasmus. Incentivare e facilitare la mobilità e l’internazionalizzazione, soprattutto della nostra incancrenita Italia. voce. Togliere da quelle poltrone questi mestessi e del loro potere. Rilanciare il sistema Italia con questa nuova generazione che sta solo pagando il prezzo dell’abuso altrui. Che abbia il coraggio e l’esperienza di parlare, condividere e rimettere in discussione. Che i partiti italiani diano voce a questa generazione e che tornino attraverso di essa a rilanciare un programma europeo vero, de- di Dario Cavalieri & Edoardo Buonerba 5 Chi eravamo, chi vogliamo continuare ad essere. In questa Europa c’è molta Italia. Altiero Spinelli e Alcide de Gasperi, prima di tutto. Ma anche agli altri Padri Fondatori: i francesi Jean Monnet e Robert Schuman, il tedesco Kondrad Adenauer, il belga PaulHenri Spaak. Uomini d’altri tempi, direte. Già. Ma sono persone che proprio in un periodo di crisi, quando l’Europa era in ginocchio, hanno saputo dare una voce a un desiderio di condivisione di cui non ci dobbiamo stancare. Pragmatici, terribilmente pragmatici. Bene, Egregi signori. In questo pare una qualità troppo d’altri tempi. Ecco: pragmatismo vuol dire anche non essere sordi di fronte al grido che da più parti vi proviene. Concludendo.. Dalla parte di chi crede che per vincere la Crisi ci voglia un’Europa “politica” sono ora schierati economisti di mezzo mondo prima di Maastricht ritenevano che una moneta, per funzionare, la dovessi accomdi bond europei), gran parte della stampa mo, a questo proposito – e sempre più fette dell’opinione pubblica. Ora, gentilissimi Signori, il vento sembra davvero cambiato. A A voi, l’arduo compito di coglierlo. Per non rimanerne travolti. ORA chE TUTTI fANNO OUTINg SUgLI STATI UNITI d’EUROPA C urioso il mondo. Da timido sostenitore dell’idea di un’Europa Federale ho spesso sperimentato in questi anni, sulla mia pelle, quel sottile imbarazzo che si può provare solo quando, parlando di tematiche europee, alla parola “federalismo” si viene allegramente associati al leghista medio. Un’ulteriore conferma la si poteva avere cercando il termine su Google: Lega Lega Lega Lega. Risultati inframezzati dai memorabili video del Senatur. Ma di federalismo in senso europeo, di Stati Uniti d’Europa, poco o nulla. Quasi all’improvviso oggi la stessa parola, questa volta in senso europeista, è usata, senza paura, da illustri professori e giornalisti di tutto il mondo. Navigando per Internet alla ricerca di un po’ di materiale su cui tentare di costruire un articolo sensato, scopro che gli Stati Uniti d’Europa non sono più un obiettivo puramente Federalista anzi, tutt’altro: ultimamente tutti sembrano desiderarli ardentemente. Per citare alcuni tra gli exploit più clamorosi ed importanti, l’11 giugno, Giorgio chiara come “sia ormai un obbligo andare verso gli Stati Uniti d’Europa”, affermazione subito sostenuta dai colleghi Laurence Parisot del Medef ( Mouvement des Entreprises de France, ndR) e il direttore generale Kerber. Industriali uniti per un’Europa Fe- derale quindi, ma in buona compagnia: in un convegno organizzato all’Università Gregoriana dal titolo «Costruiamo gli Stati Uniti d’Europa» le maggiori sigle sindacali, assieme a Coldiretti, Compagnia delle Opere, Confcooperative, Confartigianato e Mcl nascita degli Stati Uniti d’Europa allo scopo di «costruire una comunità di popoli che crede nella possibilità di affermare un umanesimo universale». I partiti politici si sprecano nel dichiarare il proprio attaccamento all’idea federalista, da Alfano, capogruppo - del PD Enrico Letta che vede l’Europa federale come “ il destino ovvio dell’Eurozona”. Il blog del movimento 5 Stelle rigurgita di proposte federaliste anche se Grillo stesso, il 19 Aprile, dichiara alla trasmissione Piazzapulita “Sono per valutare una seria proposta di rimanere in Europa e, con il minor danno possibile, uscire dall’euro, non pagare il debito pubblico o pagarne solo una parte’’ ; certo non una dichiarazione in senso europeista. Insomma tutti si scoprono federalisti convinti e convincenti, complice la stampa nazionale ed internazionale, che si è appassionata all’argomento. In queste ultime settimane non v’è stato giornale, testata online o all-news televisiva che non abbia pubblicato almeno un articolo sulla – tutto ad un tratto vitale ed urgentissima - necessità di dare maggiore unità politica all’Unione Europea. L’escalation nella stampa internazione è cominciata quasi in sordina, con un articolo quanto mai federalista dal titolo ropa” comparso sul Corriere della Sera l’11 marzo 2012. Ma il successo dell’idea federalista si ha avuto con il “Manifesto per gli Stati Uniti d’Europa”, una serie di articoli di importanti politici ed economisti presentato sul Sole24Ore il 6 giugno in vista del Consiglio di Bruxelles del 28-29 giugno, culminato con un articolo di Martin Schulz, politico tedesco e presidente del Parlamento Europeo da pochi mesi, che apre le porte ad una reale, sincera, unione politica dell’Europa. Insomma, la domanda che ora sarebbe lecito porre è, “perché allora non li facciamo questi Stati Uniti d’Europa?”. Le risposte vanno dall’economia ai fattori di politica interna, al semplice fatto che stiamo parlando di paesi con una storia nazionale secopropria sovranità nazionale. Ma fra tutte le possibile motivazioni del perché ancora non si parla di Stati Uniti d’Europa ve ne voglio proporre una, presentata da Antonio Larizza alcune settimane fa sul Sole24Ore. Partendo da alcuni articoli denigratori del WSJ sulla situazione economica dell’Italia, Larizza ipotizza una possibile realizzazione degli di Stefano Suardi Stati Uniti d’Europa con la creazione di un competitor agguerrito per gli USA. Secondo i dati Eurostat del 2011 i Paesi dell’Unione avrebbero un PIL maggiore degli USA, una crescita annuale simile (1.5% per i Paesi dell’Unione e 1.7% gli USA) e un debito pubblico inferiore sia in termini assoluti che in termini rispetto al PIL, tenendo conto che gli USA che si sono indebitati del 114% mentre per i paesi della ipotetica unione ci si è fermati a un indebitamento del 82%. Sono solo supposizioni, certo, ma che ci possono parzialmente far capire a cosa e a quanto stiamo rinunciando non sostenendo l’idea federalista. Che non è più utopia, ma è sempre più una possibile realtà. 4 2012 Estate professione REPORTER: Dall’Afghanistan ai social network, il giornalismo secondo DaniElE MasTROgiacOMO di Lorenzo Alberini D aniele Mastrogiacomo è un giornalista di Repubblica. La sua carriera nel quotidiano fondato da Eugenio Scalfari è cominciata oltre trent’anni fa; da ventisei è inviato speciale, prima per la cronaca giudiziaria e poi in zone di guerra. Tra i diversi Paesi in cui si è recato ricordiamo Somalia, Congo, Palestina, Libano, Iraq, Afghanistan. Proprio nel Paese dei Taliban, cinque anni fa, Mastrogiacomo è stato rapito mentre si dirigeva verso Lashkargah, nella provincia meridionale di Helmand, per intervistare il mullah Dadullah. Sul suo sequestro, in cui hanno perso la vita il suo autista e il suo interprete, Daniele Mastrogiacomo ha scritto un libro (‘’I giorni della paura’’, 2009). In una calda mattinata bolognese, davanti a un tea freddo e un taccuino, in compagnia della moglie, racconta a Sconfinare il suo punto di vista sul giornalismo e sul reporter di guerra. Sconfinare è un giornale universitario su cui scrivono diversi ragazzi che vorrebbero fare del giornalismo. Pensa che ci sia ancora posto per i giovani che vogliono fare questo mestiere? Vedi, il giornalismo è molto cambiato. Prima era un mestiere particolare, stravagante e più difficile. Oggi ci sono più mezzi di comunicazione, come internet con i social network. Questi danno più possibilità, offrono più strade. Quindi secondo lei le nuove tecnologie della comunicazione fanno bene al giornalismo? Nonostante la ‘’gratuità’’ di molti di questi mezzi – penso a internet – che sta mettendo in difficoltà i giornalisti? È vero, però quando ho iniziato io c’era una sola strada da provare: il posto fisso in redazione, mentre oggi ci sono più strade. Puoi fare il collaboratore, puoi farti più contatti. Se conosci il capo della polizia, ad esempio, puoi avere più informazioni sugli scontri in città, come ieri qui a Bologna per l’arrivo di Monti alla festa de La Repubblica. Cosa pensa del citizen journalism? È positivo che ognuno possa scrivere o prevale il rischio di inquinare le fonti? Il citizen va benissimo per reperire le informazioni, ma poi il giornalista le filtra, le collega, le unisce a filo per fare la collana del servizio; ha il compito di rendere leggibili al pubblico le informazioni. Questo il citizen non lo può fare. Se lo facesse sarebbero tutti giornalisti, invece no. Cosa consiglia a chi vuole cominciare questo mestiere? Devi avere tanta curiosità, costanza e anche cultura, devi informarti molto e devi osare, provare a fare. E poi il giornalista dev’essere multimediale: saper fare un filmato, saperlo editare, deve usare vari canali. Inoltre è utile avere più contatti possibile, avere una grande agenda. E sii molto geloso dei tuoi contatti, non darli a nessuno. Parliamo di lei e del suo lavoro. Quale Paese le è rimasto più a cuore? Ce ne sono due: Rwanda e Somalia. Il primo per quello sterminio spaventoso di Tutsi, un milione di morti... La Somalia è un Paese bellissimo ma martoriato da una guerra lunghissima, violenta e legata anche a interessi internazionali. Ma ci sono molti Paesi che mi sono piaciuti... ecco, l’Afghanistan non tanto (ride amaro). A proposito del suo rapimento, cosa pensava in quei momenti? Avevo molta paura. Quando ti rapiscono ti attacchi un po’ a tutto: speri nella tua buona fede perché sei venuto senza armi, speri che stiano contrattando per liberarti. Io ero convintissimo che mi volessero ammazzare, non ho mai avuto dubbi. Pensavano che fossi una spia. Io sono vivo per fattori casuali, c’è gente che ci sta anni, che viene ammazzata. “der Norde si volemo parè quelli ricchi, der Sudd si volemo esse quelli simpatici!” di Irene Manganini I mmaginate di essere nati e cresciuti, che so, a Roma, a Perugia, a Fermo oppure ad Arezzo, ma comunque nella zona geograficamente definita «Centro Italia». Bene. Ora supponete di dovervi trasferire, forti dei vostri venti anni, nel profondo Nord-Est… a Gorizia, magari. Sì, diciamo a Gorizia. Ora, tralasciando lo shock culturale da «come mai mi sento in Erasmus in Austria nonostante io sia tecnicamente ancora in Italia?», e mettendo da parte anche la sorpresa derivante dalla mancanza di cartacce per terra, dalla quantità ai tuoi occhi spropositata di persone in bicicletta e contemporaneamente di pensionati avanti con gli anni e dalla presenza più che marcata di forze dell’ordine sul territorio, c’è un altro fatto che probabilmente vi lascerà perplessi. Un qualcosa di un po’ meno evidente e visibile, ma sul quale è interessante soffermarsi: i vostri amici del posto (o dei dintorni) vi chiamano, seppur affettuosamente, «terroni». No, un attimo. Terroni? A casa tua, che per comodità ipotizzeremo essere a Roma, la Terronia (concetto per noi piuttosto neutro) inizia da Napoli. «Ma no, ma no, la Terronia è tutto ciò che si trova al di sotto del Po!», ti spiega con gentilezza un’amica di Vittorio Veneto. Ah ok, buono a sapersi. Sono terrona, dunque. Ma poi, la sparata dello studente napoletano: «Vabbuò, ma voi romani mica siete terroni… voi siete su!». Ecco, cari connazionali, così rischiate di creare quella che viene comunemente definita «crisi da mancanza d’identità». Ed è proprio per scongiurare questa rischiosa eventualità che ci si è iniziati ad interrogare, tra studenti toscani, umbri, marchigiani, laziali [del Lazio, non della Lazio, ovviamente! ndr], abruzzesi, (pochissimi) molisani e includendo con riserva anche emiliani/romagnoli (mai capita la differenza), sulla questione: «Se al Sud sono terroni e al Nord polentoni... noi chi diavolo siamo?» E, fidatevi, le risposte sono la state davvero articolate. Nel tentativo infatti di trovare un insulto che ci calzasse a pennello (insulto inteso in senso positivo, di quegli insulti che per il solo fatto di essere espressione di una caratteristica comune a più persone vicine diventano, per quelle stesse persone, motivo di vanto), in molti si sono arrovellati per trovare una risposta. Non senza difficoltà. «Comunque terroni» è la risposta andata più in voga tra i friulani (o meglio dire «del Friuli Venezia Giulia», altra lezione imparata da queste parti) e i veneti. Spinti ad una riflessione vagamente più approfondita, hanno tirato fuori perle come «tamarri», per poi sorbirsi la spiegazione del poco utilizzo di tale termine in zone appenniniche; «tutti romani», andatelo a dire ai toscani!; un allusivo «rossi» con tanto di strizzatina d’occhio, non valido però per tutte le regioni; per finire, ad esempio, con il bizzarro «mezzadri». Se interrogati i diretti interessati del Cen- ‘‘crisi’’ del centro Ti può vendere perfino la security, che tu paghi per proteggerti, ma se gli altri la pagano di più... Non ci sono regole, non c’è rispetto. In questo è cambiato tanto il giornalismo, oggi i rapimenti sono molto più frequenti. Quanto pesa fare un mestiere così rischioso sulla famiglia? Alla famiglia non pensi sempre, se no non lo faresti mai (mi giro verso sua moglie, che sorride). Lei: è la passione per il lavoro, se no non lo faresti mai. Ed è una questione di fiducia: io so che lui farà di tutto per non farsi del male. Lui: per questo devi organizzarti bene. I tuoi contatti sul posto sono fondamentali: da loro dipende la tua vita. Il coraggio è diverso dall’imprudenza. Devi essere sempre cosciente di quello che fai. Lei: ...e devi avere sempre paura. La paura è il tuo terzo occhio. La paura ti tiene in vita. tro, invece, si fanno notare le differenze interne: “noi si è sihuramente il Granduhato», toscani, ovviamente; «Etruschi!» risponde la ragazza umbra, la regione del Centro per eccellenza. Etruschi? Ma non se ne parla proprio. «Papalini?» ARGH. «Chiacchieroni!», forse un po’ generico; «campanilisti», non male in effetti. E infine, la saggezza popolare della nonna umbro-romana «noi semo quello che ce fà più comodo: der Norde si volemo parè quelli ricchi, der Sudd si volemo esse quelli simpatici!». Sicuramente pragmatica. Dichiarazione accompagnata dal commento, simile per contenuto ma vagamente più pessimista, dell’altra studentessa perugina: «in realtà non siamo né carne né pesce: terroni al Nord, polentoni al Sud. Direi forse... polerroni!». Fantasioso, senza dubbio, ma troppo poco evocativo. Insomma, tentativi apprezzabili ma mancanti d’efficacia. La questione sembrava destinata a rimanere irrisolta finché qualcuno, con accennato distacco, butta lì un «burini». Burini. Ok, la parola deriva dal dialetto romanesco, però permettetemi di affermare che è piuttosto valida per l’intera zona centrale. In fondo, a pensarci, un po’ Burini (pronunciato con B iniziale sempre più marcata man mano che si scende nello stivale) lo siamo: legati visceralmente alla nostra terra d’origine, dai modi magari poco raffinati ma autentici e orgogliosi di una cucina di sapori forti e caserecci. Beh, caro lettore, perdona quest’ultima parte scivolata nella nostalgia. L’intento non era certo quello di far sembrare il caro Sconfinare un dèpliant di agrivacanze. Però è innegabile che da oggi la parola «burino» assumerà un’altra sfumatura, almeno per me. 5 Estate 2012 a cura di Eleonora Cecco Intervista a Joel Nome: Joel Melchiori Provenienza: Trentino Attuale domicilio: Calcutta, India. Professione: funzionario diplomatico Come ci sei arrivato: ho frequentato l’Università a Gorizia e successivamente un master in studi europei al Collège d’Europe di Natolin (Polonia) In che cosa consiste il tuo lavoro: da circa un anno svolgo le funzioni di Console Generale a Calcutta, in India. Si tratta di un lavoro dai contenuti molto variegati, che spazia dalla tutela consolare alla promozione delle attività imprenditoriali italiane nell’India orientale, all’organizzazione vera e propria di iniziative nel campo culturale. Quest’anno l’Italia è stata il Paese ospite alla Fiera del Libro di Calcutta, la più importante dell’India: abbiamo portato numerosi scrittori italiani come Alessandro Baricco, Dacia Maraini, Beppe Severgnini, oltre a musicisti e registi. Nell’ultimo periodo ti abbiamo visto sulle prime pagine dei principali quotidiani e nei tg. Qual è stato il tuo ruolo nelle trattative per la liberazione di Bosusco e Colangelo nell’Orissa? Si è avuta notizia del rapimento un sabato notte. La domenica mattina ho preso il primo aereo per la località dove era avvenuto il fatto e ho subito incontrato le autorità locali. La vicenda si è poi prolungata per un mese, durante il quale ogni giorno ho partecipato agli incontri con le autorità indiane preposte alla gestione del caso e, in coordinamento con l’Ambasciatore a New Delhi, ho riferito di volta in volta gli sviluppi all’Unità di Crisi del Ministero. se male? Fin dal primo momento abbiamo trattato la questione con la massima serietà, senza sottovalutare alcun segnale. Questi compiti delicati sono i più immatico, le competenze acquisite al SID ti sono state utili? Le competenze si imparano sul campo: prima di fare il Console ho pasche segue gli italiani all’estero in “distress” ed è stata una palestra eccezionale. Per inciso, il mio capo era anche lei una laureata di Gorizia, una persona eccezionale. Al SID ho però appreso quelle conoscenze di base, senza le quali non avrei potuto superare il concorso diplomatico. Invece in quali ambiti hai dovuto scontare delle lacune relativamente alla preparazione universitaria? Credo che, in - Melchiori matico, dovrebbe essere rafforzata la preparazione nella redazione di testi complessi. In questo settore scontiamo una carenza rispetto ai giovani laureati francesi o inglesi, che sono abituati ad utilizzare schemi di scrittu- S A Una giornata tipo: Quando fai il Console, ogni giornata è a sé…ma – auspicabilmente – si inizia verso le nove, nel mio caso controllo la corrispondenza in arrivo (quello che una volta si chiama “corriere diplomatico”: oggi è rimasto il nome, ma viaggia su una piattaforma telematica), la assegno ai ho qualche incontro con imprenditori italiani o esponenti della ‘business community’ locale, uno staff meeting con i miei collaboratori. Colazione a casa – ho la fortuna di abitare a pochi passi da Consolato – e al pomeriggio, quando non ci sono impegni diversi, scrivo i “messaggi” destinati al Ministero. Alla sera spesso ci sono eventi sociali, che costituiscono occasioni preziose per sviluppare le proprie conoscenze e ottenere informazioni. Un aspetto positivo e uno negativo del tuo lavoro: Quello positivo è la possibilità di conoscere, dall’interno, Paesi e realtà anche molto diversi dal nostro. L’altra faccia a cui ogni giorno andiamo incontro. Il momento più emozionante della tua carriera: Orissa rimane imbattuto! Il consiglio a chi desidera intraprendere la carriera diplomatica: Avere molta tenacia, non farsi spaventare dalle prove e cercare di capire, ad di là delle technicalities, lo spirito con cui le prove d’esame sono propria separazione. Un giorno felice: Il giorno del mio matrimonio, lo scorso settembre. E poi la condivisione di ogni giorno qui con mia moglie. Un sogno da realizzare: Viaggiando molto, i sogni si moltiplicano. E alcuni riguardano progetti al di là della vita professionale… Il prossimo viaggio: A Kathmandu, tra qualche settimana: il Consolato Generale che dirigo segue anche le questioni consolari in Nepal, dove non abbiamo una rappresentanza, che richiedono periodiche visite sul posto. Un episodio goriziano che non dimenticherai: Moltissimi, ma in generale i primi anni trascorsi fra il Collegio “San Luigi” e l’Università con i miei amici Carlo e Paolo. Annuncio di Studenti in Movimento: «L’Ateneo ha calendarizzato le elezioni della rappresentanza studentesca nel mese di novembre per tutti gli organi accademici: Senato, Consiglio di Amministrazione, CdA Erdisu, Dipartimenti! Studenti in Movimento cerca studenti volenterosi e interessati alla Rappresentanza da presentare per Gorizia alle prossime elezioni! Per informazioni contattaci a: [email protected] Firmato: Valerio Sorbello, Ludovico Pismataro, Selina Rosset, Federico Filipuzzi» 6 Estate 2012 SPECIALE: Un’ EStAtE In mUSICA di Valentina Tonutti Alcune tra le date migliori previste nella parte “in alto a destra” dell’Italia. Non resta che scegliere, programmare, risparmiare e godere al sol pensiero. LUGLIO 2012 AGOStO 2012 02.07 Giovanni Allevi @Castello di Udine 03.08 Negrita @Area Concerti Festival-Majano 03.07 The Kooks @Kino Siska-Lubiana 04.08 Mario Biondi @Spiaggia Kursal-Lignano 04.07 Tre Allegri Ragazzi Morti @Sherwood Padova 06.08 Fiorella Mannoia @Lignano 06.07 Mouse On Mars @Monfalcone 13.08 Foo Fighters @Villa Manin-Codroipo 06.07 Afterhours @Sherwood Padova 13.08 Teatro Degli Orrori @Summerend-Claut (PN) 07.07 Ligabue @Cividale FEStIVAL 07.07 Nobraino @Monfalcone 07.07 Aucan @Sherwood Festival-Padova LUGLIO SEXTO 'NPLUGGED (SESTO AL REGHENA-PN) 07.07 Billy Idol @Piazzola sul Brenta (PD) LUGLIO NO BORDER FESTIVAL (TARVISIO-UD) 09.07 Subsonica @Spiaggia di Marina Julia-Monfalcone LUGLIO EXIT FESTIVAL (NOVI SAD - SERBIA) 10.07 Flaming Lips + Verdena @Sherwood Padova LUGLIO A PERFECT DAY (VILLAFRANCA-VR) 10.07 Marracash @Udin&Jazz AGOSTO ROCK EN SEINE (PARIGI) 13.07 Pulp @Fiera della musica-Azzano Decimo (PN) AGOSTO FM4 FREQUENCY FESTIVAL (AUSTRIA) 13.07 Gogol Bordello @Borgo Grotta Gigante (TS) AGOSTO YPSIGROCK (CASTELBUONO-SICILIA) 13.07 Morrisey @Grado AGOSTO A PERFECT DAY (VILLAFRANCA-VR) 14.07 Madness @Fiera della musica-Azzano Decimo (PN) AGOSTO SZIGET (BUDAPEST) 15.07 Buena Vista Social Club feat. O. Portuondo @Trieste 17.07 Alanis Morisette @Piazzola sul Brenta (PD) 19.07 Franco Battiato @Piazzola sul Brenta (PD) 20.07 Kasabian @No Border Music Festival-Tarvisio 20.07 Goran Bregovic @Castello di San Giusto-Trieste 21.07 Paolo Nutini @No Border Music festival-Tarvisio 21.07 Apparat + Soap&Skin @Sesto Al Reghena (PN) 22.07 Max Gazzè @Cervignano 25.07 Damien Rice @Grado 26.07 Paolo Conte @Palmanova 28.07 Simple Minds @Grado 28.07 Olafur Arnalds @Sexto ‘Nplugged-Sesto Al Reghena 31.07 Toto @Festival di Majano (UD) Panem et CirCenses Recensione di The Hunger Games di Stefania Ellero G li Stati Uniti ai tempi degli Hunger Games si chiamano Panem, dalla celebre locuzione Panem et Circenses, del poeta latino Giovenale. In questo momento appare quanto mai azzeccata: in un periodo di grande crisi per tutto il pianeta, il fenomeno Hunger Games pare solo l’ennesimo fuoco di paglia, destinato a far parlare di sé per mesi o addirittura per anni allo scopo di essere la solita arma di distrazione di massa, senza essere quel roquale tentano di farlo passare. Guardando dietro la facciata di grande fenomeno mediatico, pubblicizzato per mesi e mesi prima della sua uscita, che ha invaso il web, conquistato migliaia di lettori (soprattutto adolescenti, il target è evidentemente quello) e riempito i cinema, quello che si scopre è che tutto questo gran baccano è, La storia ha sicuramente qualche punto interessante, ma ben lungi dall’essere nuovo o innovativo. È ambientata in uno stato totalitario, chiamato appunto Panem; lo stato è diviso in dodici distretti, ognuno destinato a una propria produzione, tranne l’area opulenta e privilegiata della capitale, chiamata con il fantasioso nome di Capitol City. Il governo organizza ogni anno gli Hunger Games, chiamati in questo modo perché ogni famiglia può comprarsi delle razioni di cibo in più inserendo più biglietti con il nome del le. In questo giorno vengono estratti i nomi di un ragazzo e una ragazza per ogni distretto, i quali dovranno rappresentarlo in questo reality, da cui un solo concorrente potrà uscire vivo. Nonostante l’autrice neghi qualsiasi condizionamento, l’idea sembra presa pari pari dal romanzo del 1999 Battle Royale, del giapponese Koushun Takami. In quella storia era una classe per ogni prefettura a essere estratta, e l’evento non era in diretta televisiva, ma per il resto le somiglianze si sprecano. In particolare, Hunger Games è limitato dal suo stesso stile narrativo, che ruota tutto attorno alla protagonista, Katniss, con il risultato che gli altri partecipanti diventano alla stregua di macchiette – ne vengono presentati due o tre nel corso della storia, e tutti dell’azione si svolge fuori scena, eccezion gioco. Un punto di forza del romanzo di Takami era appunto non solo la lotta, ma anche il raccontare diversi modi di affrontare un gioco al massacro. C’era chi impazziva, chi decideva di partecipare, chi tentava di difendersi per paura, chi decideva per il suicidio. Inoltre il fatto di combattersi tra compagni di classe conferiva una drammaticità e un’alienazione che, anche se non sono stati trattati al meglio neppure in quel caso, avevano qualcosa in più. Hunger Games ha perso questa opportunità, concentrandosi su un punto di vista limitato, e perdendo le sfumature psicologiche che una storia del genere deve prendere in considerazione; in particolare ho avuto l’impressione di una divisione tra buoni e cattivi quasi disneyana, senza contare di giocatori che morivano senza che il lettore sapesse nemmeno i loro nomi, o la causa della loro morte. L’immancabile storia d’amore à la Romeo e Giulietta non fa che aggiungere benl’intento dell’autrice fosse scrivere un libro d’azione e ribellione oppure scrivere l’enne- sima storia d’amore adolescenziale con un bel contorno d’azione e ribellione. Non manca pure il tentativo di effetto sorpresa che sorpresa non è. È indubbio dal primo istante che sarà la sorellina della protagonista a venire scelta per i giochi, è chiaro come il sole che Peeta, il tributo dello stesso distretto della protagonista, sia innamorato di quest’ultima, e nemmeno per un secondo si può dubitare del fatto che sopravvivranno entrambi. La narrazione segue un buon ritmo, questo sì, ma non crea ansia, non crea quel dubbio di arrivare all’ultima pagina o ci si sarebbe mai aspettati. Un ipotetico messaggio sociale non è pervenuto. Tra una lamentela e uno scatto di rabbia di Katniss, non ho avuto il tempo di trovarcene uno. 7 Estate 2012 di Giulia Zeni S iamo tutti intimamente partiti con un’idea di Europa. Quale sia quella che abbiamo riportato poi a casa, è cosa nostra, ma la mia non combacia con lo stereotipo, perché è anzitutto lo stereotipo a non collimare con la realtà. Quale, quale Europa? Stona, quest’interrogativo scettico, posto da un’irriducibile idealista. Ma per una volta vorrei guardare ai fatti. Non per demolire, né per disilludere – solo per mettere in pausa quest’immenso mare mosso e sbirciare sotto la cresta dell’onda. Per capire se c’è della sabbia sul le gambe con l’acqua alla gola cercando qualcosa che non esiste. Belgio, cuore dell’Europa, cuore dell’Unione. I piccoli federalisti europei di Gorizia partono per la capitale della diplomazia e delle istituzioni comunitarie per scoprire, sanno. Cosa sappiamo è che dai trattati di Roma del ’57, con qualche arresto e qualche accelerata, l’Unione non ha fatto che rafforzarsi e crescere, allargare le proprie il diverso, il lontano orizzonte turco. Chissà se accadrà. L’importante, nel mentre, è “che se ne parli”. L’inceppo, l’inghippo, l’impasse – chiamiamolo come vogliamo, questo problema – allora qual è? È comparare teoria e prassi senza restarne disorientati; è richiamare alla mente gli ideali di Spinelli e Schuman e non impallidire davanti alle prime pagine do. Ma è anche, forse, a questo punto, il co- Disfattismo eDificante Il viaggio al centro dell’Europa che sa di amaro e rivoluzione raggio di ridimensionare un dialogo che sa di utopico rifugio e di fuga da quello stesso mondo che si vorrebbe costruire. Il ventre capiente di quei palazzoni grigi con bandiere blu e stelle gialle, tutti vicini, in un quartiere di Bruxelles dilaniato da lavori in corso perenni, sembra chiedere una linfa una Germania-locomotiva e una Grecia-fanalino di coda. Il sogno era alla pari, era tutti fratelli, era Stati Uniti d’Europa. Il sogno era cittadini dell’Unione prima che italiani, francesi e spagnoli, era il guadagno dell’uno è quello dell’altro, era stessi interessi, stesse paure, stessi mezzi per combatterle. Se oggi il veto – o a volte il capriccio – di un capo processo di integrazione tanto agognato, la Mi spieghi qualcuno quali sarebbero le politiche che permettono a un cittadino tedesco di trarre uguale vantaggio dal guadagno di un portoghese e da quello di un conterraneo, e per quali ragioni quel tedesco dovrebbe lavorare alla ripresa greca piuttosto che pensare a rimpinguare il proprio grasso portafoglio. Questo “l’Europa prima dei suoi Stati”. Questo accettare di essere vincolati a regole sterili che prescrivono, nei pranzi fra i vertici di Stato, chi deve sedere alla destra di chi e quale debba essere il funzionario cui viene aperto per primo lo sportello di un’impreziosita auto blu. O meglio: potremmo accettarlo se dietro tutto questo apparire ci fosse della sostanza. Non certo se quello stesso funzionario ferito nell’orgoglio facesse saltare una tavola rotonda. Con tanti saluti ai preparativi di settimane per quell’incontro in cui, come vuole il sensazionalismo giornalistico, “ne sarebbe andato delle sorti dell’Europa”. Queste – giusto un po’ romanzate – sono alcune delle parole che, un po’ con ironia, un po’ con serietà, ha speso per noi del Movimento Federalista il consigliere politico d’ambasciata a Bruxelles. Il nostro Vecchio Continente, con il sogno della resurrezione dalle sue stesse ceneri, per ora vive altrove, lontano da una classe politica ahinoi sbagliata e stanca. Sta nell’incrocio di amicizie che porta una studentessa italiana a trovare ospitalità a Lille da una coetanea semi-sconosciuta, sta S cegliere al buio è molto rischioso, aumenta esponenzialmente le possibilità d’errore. Ma se l’orizzonte luce come decidere in modo consapevole? compiere le proprie scelte, tuttavia l’espressione “crisi di valori” è diventata un cliché vivere circondati da automi senza personaliIl valore dato alle cose è frutto delle particolari propensioni degli individui, delle loro scale di necessità. Invece in una società cui viviamo, la costanza sembra impossibile. Ma aver perso la bussola ci legittima a dimenticare anche la meta? Si usava parlare di “valori popolari”, oggi gli unici valori che si conoscono sono quelli del mercato. Se il marxismo ha introdotto il concetto di plus-valore come cardine della dottrina del capitalismo, con il consumismo di anti-valore. Infatti, borse, spread e valute corrono ogni giorno come sulle montagne russe: su uomini potenti. Talmente potenti da provo- all’italiano medio, sta in tutti i piccoli paragoni che sorgono spontanei una volta che ci si è fatti l’occhio clinico e si sono attivati i ricettori dell’assorbimento. L’Europa Unita frame of mind che politiche comunitarie, sta in singole pedine con vissuti diversi ma che sanno – di fronte alla diversità – inglobarla anziché respingerla. Se il trade-off fra bene individuale e collettivo fosse per quelle stesse pedine un’opportunità invece che un ostacolo, assisteremmo a un salto di qualità tanto osannato quanto ora distante. “Compiti per tutti” alla Brezsny: Step 2. Smettere di esserlo, almeno in pochi, e costruire con le mani, dal nulla, il nuovo. Arrivare al reale attraverso l’ideale. Bund tedeschi e titoli nostrani non possono essere confrontati perché semplicemente il medesimo prodotto dell’unica Banca premessa per lo snellimento di quegli spessi manuali di cerimoniale di cui ancor’oggi si nutre la diplomazia europea. Non possiamo i pastori, nuovi e soli custoDi Dei valori Del gregge di Elisabetta Blarasin nella condivisione non solo di piccoli spazi ma anche di idee. Sta nel realizzare che care scossoni nel mercato, da far cambiare la percezione del cosiddetto “valore”. mente la possibilità di autoregolazione, di- personalità singole. Il consumatore medio, quello che dovrebbe determinare la richiemico ma segue come una pecora interessi Persa la sua identità di classe, di soggetto economico e di individuo, l’uomo medio si allinea ai cosiddetti valori sociali di oggi do e dei suoi meccanismi. Se si lascia che l’interesse di pochi, anzi pochissimi uomini prenda il posto del metro di giudizio autonomo, la crisi dei valori della società diventerà lo sbocco naturale, o forse lo è già diventato. Quando le pecore sociali diventano l’immagine della popolazione di oggi, non c’è da stupirsi se le reazioni davanti alle continue privazioni che vengono C’è bisogno di riprendere consapevolezza della proprie possibilità come individui e di stabile e duraturo degli interessi economici che ci sovrastano. gli si dice di fare e segue i mutamenti del suo contesto in maniera passiva. A determinare l’evoluzione della società sono i potenti. Essi, con i loro interessi, sono diventati in grado di imporre una nuova gamma di comportamenti che sono diventati comuni. L’individualismo appare quindi come l’estremo dei valori a cui siamo giun“anarchico borghese”, che cerca di imporsi nel contesto sociale a discapito degli altri e che mira alla visibilità sul teatro sociale. Dimenticando chi è e che cosa vuole davvero, l’uomo medio si da all’imitazione dei stesso e di rinunciare alla presa di coscienza nonché di posizione nei confronti del mon- Sconfinare non identifica alcuna posizione politica, in quanto libera espressione dei singoli membri che ne costiuiscono il Comitato di Redazione. Sconfinare è un periodico regolarmente registrato presso il Tribunale di Gorizia in data 20 maggio 2006, n° di registrazione 4/06. Editore e Propietario: Assid “Associazione studenti di scienze internazionali e diplomatiche”. Direttore: Davide Lessi Impaginazione e grafica: Giovanni Collot, Lorenzo Alberini, Nicolas Lozito, Francesco Marchesano, Valentina Tonutti Disegni: Silvia Fancello Stampato da Tipografia Budin, via Gregorcic 23, Gorizia (GO) Redazione: Lorenzo Alberini, Alessia Anniballo, Elena Bellitto, Giulia Bertossi, Elisabetta Blarasin, Edoardo Buonerba, Davide Caregari, Valeria Carlot, Dario Cavalieri, Eleonora Cecco, Margherita Cogoi, Giovanni Collot, Domiziana Corbelli, Federica Cordioli, Giulia Daga, Emmanuel Dalle Mulle, Edoardo Da Ros, Gabriella De Domenico, Stefania Ellero, Stefano Facchinetti, Federico Faleschini, Silvia Fancello, Andrea Ferrara, Tanja Lanza, Margherita Gianessi, Raed Lazkani, Davide Lessi, Nicolas Lozito, Matteo Lucatello, Andrea Lucchetta, Irene Manganini, Luca Alvise Magonara Yamada, Alice Mantoani, Francesco Marchesano, Luca Marinaro, Elena Marsoni, Elena Mazza, Diego Pinna, Federico Petroni, Francesco Plazzotta, Emiliano Quercioli, Amalia Sacchi, Francesco Scatigna, Emma Schiavon, Stefano Suardi, Rodolfo Toè, Valentina Tonutti, Nadia Vigolo, Giulia Zeni. Številka 34- POLETJE 2012 Glavni Urednik: DaviDe Lessi SCONFINARE razgovor s GORAN BREGOVIC Musika, Socialne zavezanost in Jugonostalgija Rodolfo Toé prevedel je: Niccolò Spadari G - - Brego toliko Sarajevo? - - Kateri je vaš odnos z vašim rojstnim mestom? Kako se je spremenila Sarajevo v vaših spomin od vojne do danes? - - tih letih? glavnimi zagovorniki nove ‘odkritve’ Balkanske kulture, vsaj za kar zade- kolektivni domišliji? - smeh - Dvajset let po njegovi smrti, katere so vaše premisli o koncu Jugoslavije? - - - -