Senza titolo Cinquant`anni sono passati da quando ho capito che
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Senza titolo Cinquant`anni sono passati da quando ho capito che
• Leggi il seguente articolo. Senza titolo Cinquant'anni sono passati da quando ho capito che cos'era un confine. Mezzo secolo, […], un'eternità o un attimo soltanto... A guardare avanti, cinquant'anni mi parevano tanti a quel tempo, ed ora, invece, quando mi volgo indietro sembra sia solo ieri. Ieri che per la prima volta ho visto un confine. Per arrivarci, si percorreva una strada che portava in periferia, si costeggiava l'alto muro del convento delle Orsoline, dopo il quale l'abitato si diradava, ed ecco che la strada finiva su un reticolato. Una matassa dipanata di filo spinato ti impediva di proseguire, e sembrava proprio che il mondo stesso finisse in quel punto e che oltre non ci fosse più nulla, nulla di duraturo perlomeno, nulla di costruttivo, solo pietre che si sgretolavano sotto le intemperie, […]: cumuli di sassi invasi dalle erbacce, qualche cantone di muro dove cresceva a stento il fico selvatico. Ecco dove finisce il mondo, nessuno sembra sapere che cosa ci sia oltre quel filo spinato e a che cosa montino la guardia quei figuri vestiti di grigio, […], infreddoliti sonnambuli che camminano avanti e indietro e s'incrociano senza scambiarsi una parola. Cinquant'anni sono passati da allora, ma l'immagine è ancora viva. Avevo undici anni e frequentavo un doposcuola che si trovava a pochi passi dal reticolato. Quella strada la facevo tutti i giorni con la cartella sotto braccio. Quell'istituto era la Casa dello Studente slovena, che io frequentavo gratuitamente poiché ero orfano di padre. Ricordo molto bene l'ora del pranzo le cuoche che sospingevano un carrello con un gran pentolone di jota — il tipico minestrone giuliano con fagioli e cappucci macerati nell'aceto — sento ancora l'odore che si spandeva dalle cucine e che impregnava gli ampi stanzoni in cui si passava il pomeriggio a studiare, o il fumo della legna […], e le braci rimaste in cui seppellivo qualche patata che avrei mangiato la sera lungo la strada verso casa. Con il tempo, l’immagine del confine si era fatta familiare, persino le sentinelle armate […] non mi parevano più così minacciose: quando in cortile giocavamo a calcio ci osservavano divertite e avevano la bontà di rimandarci il pallone, se questo sconfinava. Quel luogo l'ho rivisto di recente […]. Cinquant'anni erano passati da allora, ma non mi è sembrato che fosse cambiato molto: gli stessi odori di legno bruciato, di crauti […]. Non c'erano più i reticolati, eppure il confine restava ancora. I confini sono come ferite che quando si rimarginano lasciano visibile una cicatrice. Che dire poi di quei confini che ci portiamo dentro? Già, di quei confini vorrei evitare di parlare perché nel ricordo della mia infanzia, altrimenti luminosa, portano una vena d'amarezza. In quel collegio, in quel doposcuola, ho capito che cosa sono questi confini interiori che ci segnano, è stato proprio lì, in uno di quegli ampi stanzoni in cui si studiava chini sui libri, in cui si architettavano scherzi e burle […], ai nostri controllori, ragazzi di poco più vecchi di noi, […], ecco, proprio lì, su quei tavoli in cui ripassavamo le lezioni di latino, un libro circolò tra le nostre mani, un libro terribile, un album di fotografie che avrei voluto dimenticare, e che mi tolse il sonno per parecchie notti: l'immagine di un mio insegnante, di qualche anno più giovane ma ben riconoscibile, che indossando un'improbabile uniforme e con un fucile si fa ritrarre ghignante accanto ad una tavola imbandita di teste mozzate, […] un'immagine che mi ha perseguitato per molti anni, e ancora oggi non la dimentico. […] Sì, ho vissuto la mia infanzia in una città divisa, in un mondo diviso fuori e dentro, diviso tra i divisi. Io stesso, passando dalle scuole italiane a quelle slovene, e poi nuovamente a quelle italiane, mi sono sentito attratto da due culture, da due lingue, per cinquant'anni, e per qualsiasi scelta abbia fatto, per qualsiasi giudizio abbia espresso, mi sono visto costretto a togliere ad una parte per dare all'altra, perché è inevitabile essere parziali quando si è divisi dentro, quando i confini dentro di noi passano tra cuore e cervello. Ci sono voluti cinquant'anni, ma ora i muri sono abbattuti, le barriere finalmente divelte. Qualche reticolato, semmai, […], resterà ancora nell'anima di qualcuno, perché a lenire certi dolori non basta un'intera vita. [ridotto da Paolo Maurensig, ne “La repubblica”, 28.04.04 ] 1. Rispondi in breve alle seguenti domande usando parole tue. • In un primo momento che sensazioni provocava la vista del confine? • Queste impressioni come cambiavano poi e perché? • Che esperienza segnò la vita dell’autore e perché pensi sia stata determinante? • Che aspetti mette in evidenza l’autore della sua infanzia? Perché? Che pensa del suo passato? 2. Metti un titolo al brano e riassumi in una frase o due il pomeriggio del protagonista da bambino. 3. Nel testo si vede come momenti del passato, belli o brutti, gioiosi o terribili che siano, acquistino un particolare significato nel ricordo. Presenta un avvenimento, un’esperienza o una persona che ti è rimasto/a impressa nella memoria, spiegandone anche il perché. (max. 100 parole) 4. “Sì, ho vissuto la mia infanzia in una città divisa, in un mondo diviso fuori e dentro, diviso tra i divisi. Io stesso, passando dalle scuole italiane a quelle slovene, e poi nuovamente a quelle italiane, mi sono sentito attratto da due culture, da due lingue, per cinquant'anni, e per qualsiasi scelta abbia fatto, per qualsiasi giudizio abbia espresso, mi sono visto costretto a togliere ad una parte per dare all'altra, perché è inevitabile essere parziali quando si è divisi dentro, quando i confini dentro di noi passano tra cuore e cervello.” Che idea hai tu dei confini dentro/fuori/tra le persone? Come senti e vivi i limiti, che cosa rappresentano per te e i giovani della tua generazione, rispetto al passato? In un breve testo (max. 150 parole) affronta tale tematica, partendo dalla tua esperienza e dalle tue conoscenze.