Due facce della stessa medaglia
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Due facce della stessa medaglia
MOVIMENTO PER LA DECRESCITA FELICE – Torino CONCORSO DI IDEE 2014: Diritti umani lesi dalle azioni quotidiane Forma n.1: testo scritto RACCONTO di Federica Pernetta – IIS Giovanni Giolitti – Torino Due facce della stessa medaglia Lo sfruttamento degli immigrati nei latifondi è una realtà che ci riguarda da vicino. Soprattutto nelle regioni del Sud, uomini senza scrupoli si servono di loro per il proprio tornaconto. Non tutti però sono a conoscenza di questo fenomeno, o perché non lo vedono o perché scelgono di non vederlo. Concetta faceva parte di quest'ultima cerchia di persone: superficiale, abituata ad ottenere tutto e subito senza badare a spese e senza chiedersi che cosa le sue scelte potessero comportare per altre persone. La ragazza era oltremodo viziata e piena di sé, ma non malvagia; non era come suo padre. L’uomo era avido di potere e pericoloso, possedeva ampi terreni agricoli nei quali lavoravano stagionalmente persone che avevano avuto la sfortuna di essersi imbattute nei suoi uomini. I malcapitati lavoravano in nero, a ritmi disumani, il salario che percepivano era pressoché inesistente e le case in cui abitavano potevano a stento essere definite tali. Dormivano a terra nello stesso spazio in cui mangiavano; solo i più fortunati avevano a disposizione vecchi materassi tarlati: era sempre meglio di niente e guai a lamentarsi. La parola diritti suonava vuota. Anzi, subivano vessazioni e soprusi da parte del caporale e dei suoi uomini e per cercare di rimanere lucidi e non perdere la speranza pensavano ai cari che avevano lasciato nel loro paese, ai quali mai avrebbero potuto raccontare dove li aveva condotti il cosiddetto viaggio della speranza. Bidal pensava al padre e alla madre in Senegal, agli anni trascorsi in famiglia, prima della sua partenza. Erano poveri ma avevano voluto che il figlio continuasse gli studi. Bidal si era laureato in medicina. Poi avevano voluto che partisse: ed era arrivato in Puglia nella speranza di poter continuare gli studi e cercare lavoro. La città dove Bidal era nato era povera e non offriva grandi speranze per il futuro; ecco perché aveva detto sì al viaggio: lo aveva fatto per la sua famiglia, per guadagnare qualche soldo in più e rendere anche la loro vita più dignitosa. Nel suo cuore ringraziava ogni giorno il padre per tutto ciò che gli aveva insegnato; gli aveva insegnato anche a lavorare la terra e questa, da quando era in Italia se lo ripeteva ogni giorno, era stata la sua fortuna. Niente lavoro come medico; solo un lavoro a giornata, oggi sì domani forse, a raccogliere frutta e verdura; un lavoro in nero, faticoso, a volte davvero troppo faticoso per 10 € al giorno… Ma Bidal sperava nel futuro e non vedeva l'ora di poter riabbracciare suo padre e sua madre. Un pensiero andava sempre anche alla sorella più piccola che, nonostante la giovane età, l’aveva sostituito nell’aiutare i genitori nei lavori pesanti. In Italia questa era la stagione della raccolta dei pomodori. Anche i campi del papà di Concetta erano coltivati a pomodori e Concetta voleva sempre trovare alla sua tavola i più rossi, belli e gustosi; le domande da dove arrivassero e per quale motivo alcuni fossero più tondi altri meno non se l'era mai poste. Se non rispettavano certi parametri se ne liberava come se non avessero alcun valore. E lo stesso faceva dell’altro cibo. Nella cucina di casa sua la dispensa, il frigorifero erano sempre ricolmi; e Concetta non ne faceva caso. Era una cosa normale, no? D'altra parte, la ragazza viveva all’insegna del lusso e anche dello spreco, di cibo ma anche di vestiti: se non erano all’ultima moda, esattamente come per il cellulare o per le scarpe, erano da buttare. “Non si compra qualcosa perché serve; si compra perché è di moda, perché gli altri ce l’hanno, perché piace avere una cosa in più” questo pensava Concetta ed erano cose normali, o no? Le preoccupazioni di Bidal erano ben più gravi: lui non sapeva neanche se sarebbe arrivato a fine giornata. Ma Concetta non conosceva Bidal. Nella scuola di Concetta c'era, da qualche anno, un laboratorio sul Consumo consapevole. Così si chiamava, ma Concetta non sapeva bene che cosa si facesse là; ne aveva sentito parlare da alcune compagne che di pomeriggio a volte si fermavano per incontrare “esperti” dicevano loro, con cui parlare di sostenibilità, ambiente, sovranità alimentare, stagionalità. Il laboratorio aveva preso avvio grazie ad una professoressa dell’istituto che da qualche anno organizzava percorsi su quegli argomenti, rivolti a studenti dell’Istituto ma anche a classi di altre scuole, e ad adulti che - in vari modi - si avvicinavano e volevano approfondire i temi dell’ambiente, del cibo, dei diritti e della salute. Un giorno spinta dalla curiosità, Concetta decise di unirsi ai compagni e seguire un laboratorio; il primo incontro si sarebbe tenuto il pomeriggio stesso. La professoressa iniziò introducendo il concetto di sviluppo sostenibile e invitando gli studenti a cercare delle definizioni. Alla fine, sul cartellone che ancor oggi si può vedere all’interno del Laboratorio del Consumo consapevole della loro scuola, arrivarono a scrivere questo: La qualità della vita presente e futura è legata alla riduzione dei consumi e alla capacità dell’ambiente di rigenerare le risorse che noi preleviamo. Lo sviluppo – per essere sostenibile – deve rispettare la regola delle tre ‘E’: Rispettare l’ECOLOGIA cioè la capacità dell’ambiente di mantenere nel corso del tempo le sue funzioni di fornire risorse e smaltire i rifiuti. Garantire l’EQUITA’ intergenerazionale: le generazioni future devono poter godere del medesimo diritto di usufruire delle risorse del pianeta. Puntare ad un’ECONOMIA che sappia generare reddito e lavoro e sostenere nel tempo le popolazioni, valorizzarne le specificità territoriali e distribuire efficacemente le risorse. Questa riflessione portò al secondo concetto: consumo consapevole che gli studenti così definirono: “Ciascuno di noi ha gli stessi diritti, ieri, oggi e domani. Perciò ciascuno può e deve agire in modo tale che le risorse del pianeta siano utilizzate entro dei limiti che possiamo indicare così: coloro che verranno dopo di noi hanno il diritto di trovare almeno le stesse condizioni e risorse che noi abbiamo trovato.” L’insegnante aveva sottolineato che è importante imparare a recuperare l’equilibrio tra necessità sociali, economiche e ambientali basando le nostre azioni su legalità e su uno stile di vita responsabile. Aveva continuato dicendo che ogni popolo ha il diritto di consumare un cibo sano, prodotto attraverso un’ agricoltura sostenibile ed ecologica, che dia priorità ai mercati locali, promuovendo un commercio trasparente che garantisca redditi equi a tutti gli attori del percorso produttivo così come il diritto dei consumatori di conoscere la filiera produttiva e la distribuzione. La ragazza rimase stupita di ciò che aveva sentito: si era resa conto di quanto ne sapesse poco sull’argomento e quanto avrebbe potuto imparare. Il laboratorio sarebbe proseguito con un incontro la settimana seguente e Concetta decise che non l’avrebbe perso per nulla al mondo. La docente questa volta non era da sola; c’era Davide che lavorava presso una ONLUS impegnata su questi temi. In questa lezione volevano parlare ai ragazzi della relazione tra uomo e ambiente, di come il primo si deve comportare nei confronti dell’ambiente per non danneggiarlo; il concetto da spiegare era: l’impronta ecologica. Anche su questo tema i ragazzi prepararono un cartellone nel quale si legge che il concetto di impronta ecologica può essere così rappresentato: è il “peso dell’uomo sulla Terra”. E’ importante capire la relazione tra il nostro consumo di risorse naturali e la capacità della Terra di rigenerarle; così come capire il rapporto tra tutto ciò che buttiamo via e la capacità del pianeta di riassorbirlo. Con tutto questo, noi lasciamo un' impronta sul nostro pianeta! Facendo ricerche e leggendo articoli, i ragazzi hanno capito che la biocapacità della Terra era stata superata a partire dagli anni ’80: l’impronta ecologica dell’uomo contemporaneo è dunque troppo alta, pesiamo troppo sul pianeta! Il nostro modo di consumare, sprecare è insostenibile! Stiamo utilizzando risorse destinate alle generazioni future! Il percorso sul consumo consapevole proseguiva; ad ogni incontro Concetta capiva sempre qualcosa in più sul mondo che la circondava e le esigenze e i limiti che il pianeta Terra ha. La ragazza era sempre più coinvolta, si stava appassionando e lentamente, molto lentamente sentiva di voler cambiare le sue abitudini, non solo alimentari. Uno degli ultimi incontri ebbe come tema lo spreco alimentare. Fu proprio Concetta a portare ai compagni alcuni dati tratti da uno studio FAO del 2013 e trovati sul sito: http://www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it/pdgcs/italiano/speciali/WFD11/FaoIfadPam.htm “Siamo 7 miliardi, produciamo cibo per 12 miliardi di persone, ma 842 milioni di persone muoiono di fame. La soluzione? Ridurre gli sprechi. Nel Nord e nel Sud del mondo. Perché chi di noi contribuisce a buttare tali quantità di cibo, opera un'enorme ingiustizia sociale oltre che inquinare il pianeta con milioni di tonnellate di Co2. (...) La sfida è planetaria. Ma ognuno di noi può fare la sua parte. Subito.” I ragazzi capirono che l’unica soluzione è che la popolazione che consuma e spreca più di quanto sia necessario riduca i consumi e gli sprechi per permettere a tutti di vivere dignitosamente in un ambiente che ritorni ad essere sano. L’insegnante propose agli studenti di verificare dati e informazioni sugli eventuali sprechi di cibo nelle rispettive famiglie: senza dir nulla, per una settimana, ciascuno avrebbe osservato il cibo acquistato, consumato e anche quello che sarebbe finito nella pattumiera, riportando i dati su una tabella di rilevazione. Il confronto fece capire ai ragazzi che in molte famiglie si butta via tanto cibo… Un’altra osservazione fu condotta anche all’interno della mensa scolastica dell’istituto; ognuno portava il pranzo da casa e Concetta iniziò a notare cose a cui prima di allora non aveva prestato attenzione. Parlando insieme tra compagni durante il pranzo, scoprirono che ad esempio i loro pomodori avevano prezzo e provenienza diversi… Arrivata a casa Concetta pensò di chiedere al padre il motivo: dopotutto se un alimento è uguale ad un altro, dovrebbe esserlo anche nel prezzo. Concetta aveva maturato anche altre domande: da dove arrivava il cibo che trovava sulla sua tavola e come veniva prodotto? Essendo il padre un esperto in quel campo, avrebbe potuto risponderle. Invece il padre si incupì e rispose in modo vago, anzi quasi subito troncò il discorso; sapeva di non aver mai raccontato alla figlia la verità sui suoi campi e su coloro che ci lavoravano, e non aveva intenzione che la figlia andasse oltre con quelle curiosità. La ragazza era stranita, aveva sempre visto il padre deciso e sicuro di sé e non capiva perché non le rispondesse in modo preciso… Durante un successivo incontro pomeridiano del percorso sul Consumo consapevole, furono affrontati i temi della sovranità alimentare e dei diritti dei lavoratori. A colpire in particolar modo i ragazzi fu un articolo: The Dark Side Of The Italian Tomato trovato da Rosaria, un’amica di Concetta, sul sito: http://www.internazionale.it/webdoc/tomato/ Tra le tante informazioni, Rosaria lesse la testimonianza di Prince Bony - Lavoratore stagionale ghanese: «Durante la stagione della raccolta dei pomodori, riesco a mandare un po' di soldi alla mia famiglia in Ghana. Ma non posso ripartire, né farli venire, né dire loro in che condizioni vivo qui». La storia di Prince Bony è emblematica di questo meccanismo perverso. Seduto davanti alla sua casa fatiscente, che dovrà presto lasciare perché il tetto minaccia di crollare, non sa dove andrà per continuare il suo viaggio. Vero e proprio Sisifo dei tempi moderni, sembra condannato a raccogliere pomodori come il figlio di Eolo faceva rotolare la sua pietra verso la cima della montagna. Quello che Prince ignora è che il frutto del suo lavoro in nero, nei campi di pomodori del sud Italia, rischia di spingere a loro volta gli agricoltori dell’Upper East Region, nel nord del Ghana, ad abbandonare le loro terre. Quelle stesse terre che un tempo erano anche le sue. Questa affermazione era davvero forte: dunque, Prince lavorava in Italia in condizioni terribili, con uno ‘stipendio’ inadeguato in rapporto alla fatica e alle ore di lavoro… e per di più il suo stesso lavoro in nero rischiava di essere causa di un ulteriore dramma nel suo paese d’origine… Il concetto sembrava paradossale e non era così facile da capire. La discussione tra gli studenti e la professoressa proseguì anche con la lettura dell’intero documento trovato da Rosaria. Gli studenti vi lessero informazioni sconvolgenti: «In tutti i piatti ghanesi, c’è del pomodoro. Ma il pomodoro prodotto qui non si vende più». Ayine Justice Atomsko, capo della piccola comunità agricola di Vea, ha il tono amaro di chi ricorda un’altra epoca. Solo vent’anni fa, la coltura del pomodoro era florida in questa regione del nord del Ghana. Tutti i contadini ne coltivavano qualche ettaro, con la garanzia di riuscire a venderli a buon prezzo. (…) «Ormai non coltivo più pomodori. Non saprei a chi venderli» dice Aolja Tenitia, contadina locale.(…) Tra i baracchini del mercato, le venditrici si lamentano. Nei loro panieri, i pomodori succosi finiscono per guastarsi e marcire. I clienti non vogliono più prodotti freschi, ma solo scatole di Salsa, Gino e Obaapa, marche di pomodoro concentrato importate dall’Italia o dalla Cina. A partire dagli anni 2000, il governo di Accra ha ridotto i dazi doganali sulle importazioni di alcuni prodotti, fra cui il pomodoro concentrato, generando a medio termine un vero e proprio diluvio di prodotti esteri nei mercati locali. Ogni anno, il Ghana importa circa 50mila tonnellate di pomodoro concentrato. Un mercato succulento che l’Italia, già monopolista fino a circa dieci anni fa, si contende oggi con la Cina. (…) “L’Italia, terza agricoltura europea dopo la Francia e la Germania, si contende con la Spagna il primato nella produzione di ortaggi. Negli ultimi dieci anni, sulla base dei dati FAOSTAT, l’Italia ha prodotto in media 6 milioni di tonnellate di pomodori ogni anno. Secondo la FAO, l’ammontare medio degli aiuti europei al settore del pomodoro era nel 2001 di 45 euro alla tonnellata. Inoltre, secondo Oxfam, l’Unione Europea sovvenziona la produzione totale di pomodoro in Europa per circa 34,5 euro a tonnellata; una sovvenzione che coprirebbe il 65% del prezzo di mercato del prodotto finale. Ma chi si rende conto a Bruxelles del paradosso di sovvenzionare un prodotto destinato all’esportazione, che fa dumping sulle produzioni locali in Africa?” Dunque, i ragazzi volevano ora capire il concetto di dumping… Se ne incaricò Salvatore che per la lezione successiva arrivò con la definizione. Aveva consultato tra gli altri, il sito: http://economia.tesionline.it/economia/lexicon.jsp?id=2042 (…) Il dumping indica la pratica commerciale, adottata da un fornitore o produttore, consistente nel vendere un bene in uno o più mercati esteri a prezzi inferiori di quelli praticati nel mercato d’origine attuando una concorrenza sleale sia verso i produttori /esportatori locali suoi concorrenti, sia verso i produttori esteri. Il produttore che pratica il dumping talvolta è sovvenzionato dallo stato. La sovvenzione, in questo modo, gli può permettere di colmare le perdite derivanti dal vendere in dumping. Lo scopo, intuitivamente, è quello di conquistare rapidamente quote consistenti di mercati esteri ed è collegato anche all’ obiettivo non secondario di procurarsi scorte di valute straniere. Questo fenomeno è monitorato dalle organizzazioni internazionali come il WTO e la UE che, per contrastarlo, hanno previsto misure ad hoc, definite antidumping. (Pierpaolo De Nardi). Sul sito di un Istituto di Torino, nella pagina del Consumo consapevole, Salvatore aveva trovato una serie di slide sull'argomento; in una di queste aveva letto: “Negli anni ’70 gli alti livelli di produttività agricola saturano il mercato e nascono le eccedenze, nascono i sussidi che i paesi industrializzati concedono ai loro produttori per favorire lo smaltimento delle eccedenze agricole”. Insomma, per i ragazzi, il problema rimaneva confuso: l'UE sovvenziona i propri produttori, anche quelli che fanno dumping, ma crea contemporaneamente misure anti/dumping... Tra gli studenti del laboratorio iniziarono a girare delle voci circa lo sfruttamento degli immigrati anche nei latifondi delle campagne del loro paese; qualcuno cominciò a parlare anche dei campi del padre di Concetta; furono mosse insinuazioni che via via diventavano anche battute pesanti alle quali la ragazza non credeva o non voleva credere. In cuor suo però aveva intuito che qualcosa non andava e un dubbio iniziò a insinuarsi in lei; continuava a chiedersi come poteva un agricoltore come il padre permettere a sé e alla famiglia un tenore di vita così elevato, possedere case al mare e in montagna e pagare tutti i contadini che lavoravano nei suoi campi; da dove arrivava tutto quel denaro? Prima non si sarebbe posta queste domande, ma ora sapeva, era a conoscenza di realtà che aveva sempre ignorato e temeva che il padre le nascondesse qualcosa; così decise che sarebbe andata a controllare lei stessa. Il giorno seguente, uscendo da scuola, notò in strada un ragazzo che si aggirava con aria terrorizzata, come per paura di essere scoperto da qualcuno. Rimase per qualche istante a osservarlo, le faceva quasi tenerezza, le dispiaceva per lui anche se non lo conosceva. Le sembrava anche triste. Arrivata a casa tornò ai suoi pensieri: era decisa più che mai a scoprire cosa le stesse nascondendo il padre e, facendo attenzione a non farsi vedere, si diresse verso uno dei campi in cui sapeva che era in corso la raccolta dei pomodori. Ciò che si ritrovò davanti la lasciò allibita: pensava che certe cose potessero accadere solo nei film, non nella realtà e soprattutto non a causa di suo padre. Tra le tante cose, vide donne e ragazzi che non ce la facevano più a lavorare, costretti però a continuare dall'occhio vigile e severo di certi uomini che controllavano i lavoratori. In mezzo a tutte quelle persone, un ragazzo attirò la sua attenzione: qualcosa di lui l’aveva colpita, le sembrava di averlo già visto, ma non ricordava dove, almeno fino a quando non se lo trovò davanti. Era il ragazzo impaurito che aveva visto la mattina, vicino a scuola. Come mai si trovava lì? Di chi dunque aveva paura? Di suo padre? Queste domande la spaventarono, forse perché temeva di scoprire la risposta; ancora una volta aveva paura di guardare la realtà anche se era davanti ai suoi occhi. Nei giorni che seguirono, Concetta continuò a pensare a quel ragazzo e a tutte le altre persone che aveva visto lì. I dubbi cominciarono a tormentarla: doveva sapere. Decise di tornare nel campo alla ricerca del ragazzo e di risposte alle sue domande. Le persone erano tante e per ritrovarlo ci volle non poco tempo. Bidal non parlava bene l’italiano, ma riuscirono a comunicare grazie ad un altro lavoratore che fece da tramite. Non sapeva bene chi fosse quella ragazza e perché si interessasse a loro; Bidal le spiegò che la mattina in cui lei l’aveva visto vicino alla scuola, lui doveva comprare del cibo per sé e per i compagni e per pagarlo doveva usare i pochi soldi della paga. Per arrivare in città, un socio del caporale lo aveva fatto salire sul suo furgone, ma anche questo viaggio aveva avuto un costo. Ed era sempre così, ogni volta che uno di loro andava in città. Nei giorni successivi si incontrarono di nuovo, sempre facendo attenzione a sfuggire agli sguardi degli uomini che controllavano i lavoranti. Il ragazzo le raccontò della sua vita in Senegal, della sua famiglia; dei suoi studi; e poi le parlò del viaggio della speranza e della sua vita qui, in Italia, dove era venuto per fare il medico; nessuna università però gli aveva aperto le porte: troppo cara la retta annuale... Bidal, con molta vergogna, le raccontò anche delle condizioni in cui lui e molti come lui vivevano qui, in Italia. Il giorno dopo Concetta volle vedere anche le case dei lavoratori di suo padre: era uno spettacolo agghiacciante. Le abitazioni erano cadenti, le finestre rotte, i muri scrostati e i pavimenti sporchi; non mancavano animali indesiderati e c'erano delle persone ammalate che cercavano di curarsi da sè, senza farlo sapere ai padroni, altrimenti li avrebbero sostituiti. Concetta si rese conto di quanto i suoi problemi fossero piccoli paragonati a quelli di Bidal e dei suoi compagni; della sofferenza che provavano ogni giorno dovendo vivere in quel campo, lavorando senza sosta per pochi spiccioli e senza avere notizie delle loro famiglie per mesi e mesi. In un certo senso la ragazza si sentiva in colpa: era di suo padre la responsabilità e degli uomini come lui che sfruttano i meno fortunati per arricchirsi senza pensare ai diritti umani di ciascun uomo! Il senso di colpa non era l’unico sentimento che Concetta sentiva; provava anche vergogna nei confronti di una persona che aveva stimato da sempre: suo padre. Sentiva di aver vissuto per troppo tempo nell’inconsapevolezza e nella superficialità e che era arrivato il momento di fare qualcosa per gli altri e non più solo per sé stessa. La sera stessa prese coraggio e parlò al padre, cercò di fargli capire che era sbagliato quello che faceva, sia da un punto di vista della giustizia umana sia da un punto di vista strettamente personale: se l’avessero scoperto di sicuro sarebbe andato in prigione! Gli disse che non doveva pensare solo al proprio guadagno: ogni lavoro deve essere dignitoso e svolto nel rispetto dei diritti fondamentali dell’essere umano. Gli disse che contano gli affetti e la libertà, due valori che lui aveva tolto a quei poveri uomini e donne costringendoli a lavorare per lui in quelle condizioni. Il padre di Concetta non aveva mai visto la figlia tanto determinata. Lei insistette, lo portò fuori e lo aiutò a vedere attraverso gli occhi e le parole di quei ragazzi cosa significava lavorare lì. Lui si era sempre fermato al guadagno ma la realtà era ben diversa; la presenza nei campi e il controllo dei lavoranti non erano mai stati affare suo; aveva sempre demandato queste cose ai suoi uomini di fiducia per i quali coloro che lavoravano nei suoi campi non erano persone ma numeri... La figlia gli stava dicendo il contrario; insisteva con questa faccenda che tutte le persone portano in sé diritti fondamentali che nessuno deve togliere loro! Non fu cosa facile, ma piano piano capì di aver sbagliato... Non fu davvero facile e nemmeno immediato ma, come la figlia, anche lui cercò di fare la scelta giusta consegnandosi alle autorità. Per la prima volta Concetta era fiera di suo padre. I giornali parlarono molto della vicenda, la notizia aveva fatto scalpore. Il racconto del caporale che si era autodenunciato continuava a circolare, era oggetto di derisione ma anche di riflessione fra molti; nei mesi successivi altri uomini lo imitarono. Per molti immigrati questi fatti segnarono la fine dello sfruttamento anche se non necessariamente o automaticamente l'inizio di una vita migliore... Alcuni bussarono alla porta di associazioni che si sarebbero prese cura di loro; alcuni trovarono un lavoro dignitoso, altri ripresero il viaggio della speranza... Concetta continuava a seguire l'evolvere delle situazioni. Era tutto molto difficile. Immaginava che quanto era venuto a galla non fosse che una minima parte dell'esistente... Decise che il denaro che era stato ricavato da attività condotte in modo così ripugnante doveva essere impiegato per qualcosa di buono. Lei frequentava il IV anno di un Istituto tecnico per periti informatici e aveva capito che – nel bene e nel male – i social network avevano in sé enormi potenzialità; così decise di aprire una pagina fb, quale luogo virtuale per parlare di diritti umani: ad esempio quelli calpestati nei campi popolati da lavoratori stagionali. https://www.facebook.com/pages/Due-facce-della-stessa medaglia/683462658391503?ref_type=bookmark A Settembre, con la ripresa della scuola, avrebbe proposto all'insegnante e ai suoi compagni del percorso pomeridiano sul Consumo consapevole di farne oggetto delle loro attività, contenitore delle loro riflessioni, dei link a siti amici dei diritti umani! Inoltre si attivò con un gruppo di adulti che prestavano già la loro opera volontaria in tante forme, per dare vita ad un’associazione Onlus per offrire aiuto a lavoratori che si trovano in condizioni di sfruttamento: una porta sempre aperta per coloro che non avevano da soli la forza di ribellarsi alle ingiustizie subite. Grazie alla sua sensibilità e determinazione, agli stimoli raccolti a scuola negli incontri del percorso di formazione sul Consumo consapevole, Concetta aveva aperto gli occhi, ma era consapevole che altri non l’avevano ancora fatto, forse doveva essere proprio questo lo scopo principale della sua associazione: dimostrare che i cambiamenti sono possibili e talvolta doverosi.