il mito di guareschi resiste al tempo

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il mito di guareschi resiste al tempo
AA. VV.
IL MITO DI GUARESCHI RESISTE AL TEMPO
IL POPOLARE SCRITTORE PARMIGIANO SI SPEGNEVA DIECI ANNI FA A CERVIA
di AA. VV., dalla «Gazzetta di Parma, 22 luglio 1978
AVEVA BISOGNO DI COMUNICARE
di Vito Orlando
Giovannino Guareschi disse addio alla vita a Cervia, dieci anni fa, proprio di questo giorno, nel modo più rapido che uomo possa desiderare: cadde fulminato ai piedi del letto e non ebbe tempo di salutare per l’ultima volta la
Pasionaria, Albertino, Margherita, che amava di quell’amore profondo e un po’ scontroso proprio della gente di
campagna. Ma a me piace immaginare che, avvertiti non so come, calati non so di dove, Don Camillo e Peppone,
non più nemici date le circostanze, s’affrettarono verso la casa di Cervia e, entrati di soppiatto dalla finestra, colsero l’ultimo respiro del loro, posso dirlo?, immortale creatore, Don Camillo benedicendo, Peppone segnandosi.
Se è vero che chi perde una persona cara perde qualcosa di sé, quel 22 luglio del 1968 ciascuno di noi fu qualcosa di meno: non mi riferisco soltanto alle legioni dei lettori di Candido e dei suoi libri o alla sparuta squadretta
degli amici. Guareschi, infatti, fu ammirato e amato pure, e in modo singolare, dai compagni di prigionia in Germania. Buona sorte m’ha concesso di incontrare il capitano Mario Tagliaferri di Milano, ospite dei lager insieme a
Guareschi dal novembre del ’43 all’agosto del ’45. Le notizie che mi dà sono scheletriche, ma significative. «A Sandbostel, nella baracca Cultura che i tedeschi ci consentivano di utilizzare, Guareschi, nonostante la prostrazione fisica causata dalla denutrizione, l’implacabile demolitrice del corpo e dello spirito, ci leggeva, puntata dopo puntata, il manoscritto delle Lettere al postero, in cui narrava in chiave ironica al figlioletto lasciato in Italia, per futura
memoria, le nostre vicissitudini».
«Anche nelle situazioni più tristi manteneva lo spirito esuberante, quasi fisicamente bisognoso di comunicare il
suo mondo agli altri: molto aveva ricevuto in dono dalla natura e non poteva tenere tutto per sé.
«Nel campo di Wietzendorf, a liberazione avvenuta, e in attesa del rimpatrio — racconta ancora il cap. Tagliaferri —, nell’agosto del ‘45 Guareschi organizzò delle pseudo-trasmissioni radiofoniche utilizzando la carcassa di
un vecchio apparecchio collegato a un microfono. Baracca 90, Così fu battezzata la pseudoradio, comunicava notizie inerenti la vita del campo con commenti ora umoristici ora sardonici che non offendevano e, al contrario, sostenevano il morale di tutti noi cui dagli Alleati era stato assicurato il trasporto in Italia in aereo e toccò, invece, attendere la tradotta-lumaca!».
Guareschi ha raccontato queste cose, ma averne avuto la conferma dalla viva voce di un sopravvissuto a
quell’inferno ci rende ancor più caro l’Autore e più bruciante la morte improvvisa e prematura.
Vito Orlando
SEFOSSE ANCORA VIVO...
Intervista-lampo a Marantonio
— Mi dica, anzitutto qualcosa di ciò che lei pensa dell’umorismo e della satira politica.
— Dove non c’è umorismo non c’è libertà d’espressione. L’umorismo diventa critica soprattutto se si inserisce nella satira politica o di costume. È difficile scindere l’umorismo dalla satira politica o di costume: infatti, la satira si serve dell’umorismo per
completare l’idea. La satira politica, sia grafica che letteraria, è un mezzo estremamente efficace per rappresentare situazioni, denunciare storture, ridimensionare personaggi, combattere la retorica e il conformismo.
I nostri politici in genere non apprezzano molto la satira; fanno finta di non accorgersene, ma sono certo che faccia molta leva
sul loro comportamento. La satira è molto combattuta, tanto è vero che in molti Paesi dove non vi è libertà, manca la satira o
meglio esiste solo in un certo modo. Per esempio, non è permesso criticare il Governo o gli organi del partito politico. La presenza
di giornali satirici, in quei Paesi, non è una buona ragione per dire che si pratichi la satira, perché questa è sempre a senso unico.
In Italia, dove vi è libertà, non esistono oggi giornali satirici; però, esistono giornali che praticano la satira politica con la più
ampia libertà.
— Colpisce di più la vignetta con parole o la vignetta senza parole che interpreta visivamente un sottinteso,
ampio discorso?
— La vignetta senza parole è senz’altro la più efficace, la più elegante, la più intelligente, ma è anche la più difficile, perché,
concepita un’idea, è necessario corredare il disegno di elementi molto espressivi che debbono sostituire le parole e questo comporta,
nella maggioranza dei casi, un eccellente disegno. La seconda ragione, cioè l’altra difficoltà, sta nel farsi comprendere appunto
perché il disegno è privo di parole.
— Il suo giudizio su Guareschi.
— Il mio giudizio si limita a Guareschi umorista: uno dei più grossi umoristi. Benché il suo assunto si indirizzasse sul clima politico e di costume italiano, era talmente profondo da divenire universale, perché certe situazioni sono descritte in maniera
tale da essere recepite da qualsiasi popolazione. Questo è del resto dimostrato dalle moltissime traduzioni dei suoi libri.
— Come pensa che Guareschi, se fosse vivo, interpreterebbe la realtà politica di oggi?
— Sono sicurissimo che oggi Guareschi interpreterebbe la realtà politica alla stessa maniera di allora. Perché, a mio parere, non è cambiato molto in Italia. La classe politica è sempre quella, con gli stessi difetti. Ripensando a certe battute di Guareschi, sento che potrebbero benissimo inserirsi in situazioni di oggi. In più, vi è oggi un elemento che farebbe molta gola a Guareschi: il conformismo, che allora era appena incipiente.
LA TESTIMONIANZA DEI GIOVANI
Non capita certamente a tutti gli Autori letti a scuola di essere ricordati con amore dopo parecchi anni: di consueto, stante il deleterio sistema attuale d’insegnamento, il Contemporaneo di turno nella media dell’obbligo viene
studiato a fior di pelle, quanto basta per rimediare la sufficienza, e puntualmente dimenticato. Guareschi, Silone e
pochi altri sfuggono alla ferrea legge. Lo strano è che, nemo propheta!, proprio nel Parmense Giovannino è trascuratissimo. Invece è entrato nel sangue di un cospicuo numero di giovani ternani per merito di Gigliola Azaro
Mazzola, un’insegnante di gran valore, impegnata sino allo spasimo nella lotta contro la scuola sbagliata e per una
scuola finalmente valida. In un ambiente così diverso dal nostro per umori ed inclinazioni, essa ha introdotto la
lettura di Mondo piccolo con risultati di rilievo.
Interviene Laura: «In fondo noi siamo stati l’ultima generazione fortunata nel conoscere Mondo piccolo sui banchi di scuola perché sono sicura che nessun professore lo adotterebbe più come opera narrativa. Figuriamoci, di
questi tempi! Così, pochi oggi conoscono Guareschi o hanno sfiorato il suo mondo, la sua tematica solo attraverso
la frettolosa rispolverata cinematografica del Don Camillo, fatta, per di più, con aria quasi colpevole in mezzo a cataste di film “d’impegno civile”».
Franco possiede un’acuta intelligenza critica. «Quand’ero ragazzo, Guareschi rappresentava il divertimento puro, il sorriso e la risata, l’humor bonario e privo di rancore; adesso se ne apprezza il messaggio, la lungimiranza, la
penetrazione a lungo termine. Con il procedere degli anni —non solo dei suoi anni, ma di quelli della sua epoca,
di cui lui è “interprete” — Guareschi rivela una sempre maggiore malinconia, subito velata dallo scherzo, come
per minimizzarla, come per una forma di pudore. Ma la malinconia rimane e il suo diventa l’umorismo amaro
degli impotenti e dei disperati». Da che cosa scaturisce questa «malinconia» di Guareschi? Franco spiega: «Credo
che lui avesse acquistato, ad un certo punto, la consapevolezza che quel suo mondo potesse esistere solo lì, come
dice, “in quella fetta di pianura che sta tra il Po e l’Appennino, dove possono succedere cose che da altre parti non
succedono. Cose che non stonano mai con il paesaggio. Allora si capisce meglio Don Camillo, e Peppone e tutta
l’altra mercanzia. E non ci si stupisce che il Cristo parli e che uno possa spaccare la zucca a un altro, ma onestamente, però; cioè, senza odio. E che due nemici si trovino, alla fine, d’accordo sulle cose essenziali”. O forse Guareschi si accorge che quel mondo non esiste nemmeno lì, se è vero che ad un certo punto dice — e sembra una
frase da poco — che “non è in nessun punto fisso”. Certo, lui vuole sempre alludere a quella zona, vuol dire che il
paese di Peppone e Don Camillo non è nessuno in particolare, tra tutti quelli che stanno disseminati “in quella fettaccia di terra tra il Po e l’Appennino”. Ma a me ha dato l’impressione, forse sbagliata, che nell’animo di Guareschi
sia entrata a poco a poco la convinzione che quella che lui, in fondo, ci additava come terra universale, “un puntino nero” valido per tutto il mondo, in realtà non c’era. Viveva solo dentro di lui; non poteva vivere altro che dentro
i cuori di buona volontà».
La discussione volge al termine. Ma alla battuta di Lucia: «Forse Guareschi ci ha solo raccontato una favola, una
leggenda», Gigliola Azaro Mazzola sussulta ed interviene in prima persona: «Mi torna alla mente il finale di uno
stupendo racconto di Maupassant, Le loup, in cui il narratore, dopo aver raccontato ai convitati una storia bellissima, incredibile ed eroica, si sente chiedere da qualcuno:
“Questa storia è una leggenda, non è vero?”. E il narratore risponde: “Vi giuro che essa è vera da cima a fondo”. Allora, una donna dice con piccola, dolce voce: “Non importa, è bello avere simili passioni”».
Se in luogo di passioni ponessimo la parola sogno, la frase meglio si attaglierebbe a Guareschi; oppure, in lui le
due parole sono ugualmente valide: si sono fuse e sono divenute sogno e altissima passione civile e umana. Per
questo i miei ex-alunni, tutti gli altri che, aldilà di ogni «impegno» o successo di critica venduta, ancora lo leggono,
tutta la gente limpida e di buona volontà ed io stessa siamo grati a Guareschi: per il sogno che ci ha donato.
ISPIDO E TENERO E «FATTO IN CASA»
di Giorgio Torelli
Se penso a Giovannino Guareschi col tabarro grigio e i polacchi tirati a lucido, lo vedo lontanissimo, in piccolo e
controluce, come le figure d’uomini della Bassa oltre la successione delle colture quando il paesaggio di pioppi e
granoturco finisce nella spalliera di un argine e, dopo, si intuisce il corso del fiume. Guareschi cammina adagio su
quell’argine remoto.
Sono passati tanti anni dalla sua ultima firma sotto qualcosa che lo facesse soffrire e andasse dunque tradotto in
ironia, cresciuto in satira o buttato in invettiva civile; ed è trascorso un tempo gonfio e indeterminato —certo incommensurabile per l’intricato volgersi delle cose — dal suo ultimo disegnò a tratto robusto, fatto proprio con le
mani capaci, la matita bella grassa, la democrazia cristiana che ha sempre le dovizie di petto della mezza età alla
parmigiana, il compagno datato, l’agrario con la catena dell’orologio nel gilet.
Noi che amammo quel giornalismo umorale, gonfio di linfe padane, abbiamo fatti i capelli bianchi. Adesso don
Camillo sarebbe in un pensionato per il clero povero (fu un galantuomo) e Peppone, dentro il buio della campagna rigato dai grilli, potrebbe sospirare perché la dissidenza sovietica è un magone. Chissà come sarebbe anche il
signor Guareschi, coltivatore di pianura e nonno di molti nipoti cresciuti. Darebbe ancora battaglia e innescherebbe vignette-Molotov per un Paese che gli procurò lager, sospiri, carcere e tasse? E se non ristesse in un silenzio
cupo da seminatore che ha visto scrosciare troppa grandine, che cosa direbbe del vertiginoso film di avvenimenti
che ci è passato davanti nel tumulto del cuore e ancora scorre?
Non lo so, forse non si hanno infinite stagioni nella vita, forse c’è il momento del ritorno sotto la tenda, il 1948 è
lontano a perdita d’occhio dal 1978. Forse Guareschi, a un tavolo di quercia, racconterebbe le sue prigioni e le sue
battaglie. E chi gli riconobbe il coraggio e il talento andrebbe in pellegrinaggio dal reduce. Il cane Amleto è sicuramente morto, ci sarebbe un altro cane da pagliaio che tiene lontani gli importuni e i convertiti alla persuasione
che è meglio compromettersi che battersi con immaginazione e carattere. Sarebbe un vecchio terribile, Guareschi,
i baffi bianchi. Forse si andrebbe da lui a Roncole come si va da Prezzolini a Lugano, per sentirsi dire che non c’è
peggio. Immagino alto e sanguigno, come se lo sentissi, il suo quaresimale laico in parmigiano. Avremmo un Savonarola sotto Po, e che non ci sia più da tanti anni — sdegnato, ingovernabile, ribadito e con la matita in canna
— è un’assenza proficua peri flagellati e inguaribilmente triste per i compagni di strada che ebbe a moltitudini,
nessuno quanto lui, pensatore in proprio.
Fu il più dovizioso bastian contrario prodotto nell’area di frumento e pomodori che si dilata fra un fiume del
Sud Europa e l’incombere celeste delle colline. Il mondo se ne accorse. I Moravia sono tuttora nessuno rispetto a
quanto l’aratore Guareschi ebbe da dire a uomini lontanissimi, perfino a quelli che vedono il sole 24 ore prima del
campanile di Roncole. I guelfi e i ghibellini, un bel momento, passano. E di Guareschi, ispido e tenero, resteranno
le parole fatte in casa.
Fossi della tribù di Parma — e anche da Milano lo resto — me lo terrei caro. Parlò in buonafede, pagò di tasca
propria, forse morì di crepacuore. Certe sementi si trapiantano, da noi vengono benissimo.
Giorgio Torelli
Lettera a Margherita
I VIVI E I MORTI SIAMO TUTTI QUI
di Beppe Gualazzini
Signora Ennia,
ieri ho fatto sosta accanto alla tomba di Suo marito a Roncole Verdi. Era poco prima delle 2, l’ora più pigra della Bassa, solo il canto dei passeri e un sole appena un po’ obliquo a tirare ombre lunghe come solchi di lacrime sul
volto di Guareschi scolpito al centro della lapide. Così come Froni la vide quando la scolpì, la faccia di Giovannino,
ancora una volta mi è parsa riccia, sagrinata attorno a pieghe e pieghe a partire dai baffi irti come la criniera di un
cinghiale infuriato. Che baffi! I miei al confronto sono virgole ed anche quelli di Giorgio Torelli, che pure lui scrive su Giovannino in qualche altro luogo sparso su questa stessa pagina di Gazzetta, pur essendo rispettabili ne
hanno ancora tanta di biada da mangiare per diventare come quelli di Guareschi.
Signora Ennia, ieri davanti al Suo Guareschi ancora così corrucciato, arrabbiato, con quella espressione da «sparatemi, dài, forza, picia ancòra, picchia ancora che tanto mica cedo», quel dolore che mi insegue dal 22 luglio 1968
quando seppi della morte di Giovannino a Cervia, si è trovato in groppa tutta la rabbia che mi prende quando
penso a come anche in punto di morte picchiarono e picchiarono. E certi scalzacani che dalla destra tentarono di
impossessarsi dell’opera e della figura di Giovannino, e l’Unità che scrisse testualmente: «È morto lo scrittore che non
è mai nato», e tutti quei cortigiani di centrosinistra, destra, dritta, manca, a spendere frettolose parole di commiato
giusto perché tacere non si poteva sulla scomparsa dell’uomo che allora, come oggi, è stato lo scrittore italiano più
letto e tradotto nel mondo.
Ma poi, signora Ennia, ho visto nell’anfora di ferraccio antico posato sulla spalletta della tomba un grande puff
di dalie luccicanti ancora dell’acquazzone della notte prima, a spargere vapori e profumo nell’aria ferma delle due
e mi sono detto: queste le ha tagliate e disposte la signora Ennia. Così d’un tratto non mi è più importato gran che
di quelle quattro zucche vuote che tanto temevano Guareschi. C’è sempre la signora Ennia che veglia, mi sono
detto. C’è Margherita, come Giovannino la chiamava nei suoi racconti aggiungendo tra il serio e il faceto brevi note come: «La dolce fanciulla che il cielo sparse a profusione sul mio liceo, che conosciutomi disoccupato e felice tende a fare di
me un infelice stipendiato, la dolce creatura che divide fraternamente le gioie del mio mezzo pacchetto di Giuba, la dolce compagna dei miei giorni e delle mie mezzenotti».
Signora Ennia, in questi ultimi dieci anni ci siamo visti tre volte, non tante, no, e sempre con qualche fardello in
più nel cuore. La prima fu verso la fine di quello stesso 1968 quando con suo figlio Alberto salii sino alla soffitta in
cui Guareschi grugniva, ruggiva e lavorava. Né Lei, né Alberto, tanto meno io, toccammo qualcosa aggirandosi
nella soffitta. Passammo come aria, ricordo, accanto al tavolo di lavoro di Giovannino, fra gli scaffali del suo archivio, al bugliolo che per 400 giorni gli fu compagno nel carcere di San Francesco dove, accettò di essere rinchiuso a
partire dal 1954.
Rammento su un tavolino una agenda aperta e sul foglio la sua ultima vignetta, un grande albero dai cui rami
spogli dondolavano tanti impiccati e sotto la nota «Primavera di Praga», una delle sue intuizioni poiché la repressione in Cecoslovacchia avvenne soltanto un mese dopo la sua morte. Poi ci siamo incontrati cinque anni dopo. La venni a trovare, signora Ennia, nella casa di Roncole e, seduti su una panca in corte, a guardare nei garage
verso la «Bianchina», la lillipuziana utilitaria che Giovannino, camiciona a scacchi e giubba di vellutaccio usava
scapottata a girare le campagne, abbiamo contato chi se n’era già andato in quei cinque anni: Fernandel e la sua
«ghigna» da don Camillo; Gino Cervi coni barbisoni alla Peppone; Carlo d’Angelo, la voce del Cristo. Altri cinque
anni, e poche settimane fa l’ho incontrata nel ristorante di suo figlio Alberto. Lei, signora, era seduta a un tavolo
circondata da un grappolo di nipotine in età assortita, io a un altro tavolo con tanta moglie e tanto figlio che cinque anni fa non avevo. Era ineluttabile, reincontrandoci dopo tanto tempo, contare ancora altri amici scomparsi:
Carletto Manzoni il vecchio e caro Fil di ferro che fu accanto a Guareschi fino ai tempi del Bertoldo e fu il suo più
integro amico; poi Pietrino Bianchi, il cugino che qui a Milano mugugnava a volte critiche su Guareschi ma alla
fine annegava in sé stesso e non poteva nascondere la sua fierezza di essere diretto consanguineo di Giovannino.
«Sa?» mi ha detto Lei, signora «penso tante volte che nell’Italia di oggi mio marito lo ammazzerebbero come un cane». Ho risposto sì, ma poi ci ho ripensato e mi sono corretto. «Chissà» ho detto «certo a uno come Guareschi una sparacchiata alle
gambe fa poco. O al cuore o niente. Però, ricorda, quando nel 1951 a Reggio Emilia al Teatro municipale affrontò in dibattito
aperto i comunisti e ne usci applaudito e vincitore?».
Signora Ennia, non le scrivo per riesumare ricordi dolorosi, ma per proporle e proporre a chi ci legge qualche
pensiero fuori moda. Ma poi c’importa molto delle mode? Ecco: pensiamo che tutti gli amici, da Giovannino in
poi, compaiano d’un tratto attorno ad un immaginario tavolo in uno dei nostri prati della Bassa. Sediamoci con
loro. Ecco, ci guardi signora Ennia, siamo tutti qui, vivi e morti, quali gli uni e quali gli altri? Siamo tutti qui per il
22 luglio 1978, dieci anni dopo.
Giuseppe Gualazzini
Milano, 21 luglio 1978
Bibliografia essenziale di Giovannino Guareschi - Archivio Guareschi - «Club dei Ventitré»
Via Processione, 160 - I - 43011 Roncole Verdi (PR) - Tel. (39) 0524 92495 - fax (39) 0524 91642