62° CONGRESSO INTERNAZIONALE MULTISALA SCIVAC 29

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62° CONGRESSO INTERNAZIONALE MULTISALA SCIVAC 29
°
5
2
anniversario
62° CONGRESSO INTERNAZIONALE MULTISALA SCIVAC
29-31 MAGGIO 2009
Rimini - Palacongressi della Riviera di Rimini
ESTRATTI RELAZIONI • WORKSHOP SPECIALISTICI
COMUNICAZIONI BREVI • POSTER
°
5
2
anniversario
62° CONGRESSO INTERNAZIONALE MULTISALA SCIVAC
29-31 MAGGIO 2009
Rimini - Palacongressi della Riviera di Rimini
ESTRATTI RELAZIONI
WORKSHOP SPECIALISTICI
COMUNICAZIONI BREVI
POSTER
Questo volume di atti congressuali riporta fedelmente quanto fornito dagli autori che si assumono la responsabilità
dei contenuti dei propri scritti.
Traduzione dei testi inglesi: Dr. Maurizio Garetto e Dott.ssa Tiziana Binelli
Gli estratti sono elencati in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore presentatore.
organizzato da
certificata ISO 9001:2000
La SCIVAC ringrazia le Aziende sponsor per il sostegno e il contributo
prestati alla realizzazione del 62° Congresso Internazionale.
LABORATORIO PER MEDICI VETERINARI
®
CONSIGLIO DIRETTIVO SCIVAC
DEA BONELLO Presidente
MASSIMO BARONI Presidente Senior
FEDERICA ROSSI Vice Presidente
GUIDO PISANI Tesoriere
MARCO BERNARDINI Segretario
ALBERTO CROTTI Consigliere
BRUNO PEIRONE Consigliere
COMMISSIONE SCIENTIFICA
Massimo Baroni - Davide De Lorenzi
Giorgio Romanelli - Fulvio Stanga
COORDINATORE SCIENTIFICO
CONGRESSUALE
FULVIO STANGA - Med Vet, Cremona
RESPONSABILE SEGRETERIA
SCIENTIFICA
MONICA VILLA
Segreteria scientifica e organizzativa
Tel: +39 0372 403504
E mail: [email protected]
RESPONSABILE UFFICIO MARKETING
FRANCESCA MANFREDI
Tel: +39 0372 403538
E mail: [email protected]
RESPONSABILE SEGRETERIA
ISCRIZIONI
PAOLA GAMBAROTTI
Tel: +39 0372 403508
Fax: +39 0372 403512
E mail: [email protected]
ORGANIZZAZIONE CONGRESSUALE
EV - Eventi Veterinari - Via Trecchi 20
26100 CREMONA (I)
COMITATO SCIENTIFICO
Alimentazione e Nutrizione - PierPaolo Mussa
Anestesia - Federico Corletto
Animali Esotici - Giuseppe Visigalli
Cardiologia - David Chiavegato
Chirurgia - Luca Formaggini
Citologia - Walter Bertazzolo
Dermatologia - Fabia Scarampella
Diagnostica per Immagini - Federica Rossi
Fisioterapia - Ludovica Dragone
Gastroenterologia - Paola Gianella
Medicina Comportamentale - Sabrina Giussani
Medicina Felina - Silvia Rossi
Medicina Interna - Tommaso Furlanello
Medicina Non Convenzionale - Marina Serafina Nuovo
Medicina d’Urgenza - Fabio Viganò
Nefrologia - Paola Scarpa
Neurologia - MariaTeresa Mandara
Odontostomatologia - Dea Bonello
Oftalmologia - Alberto Crotti
Oncologia - Laura Marconato
Ortopedia - Aldo Vezzoni
Practice Management - Marco Viotti
Riproduzione - Manuela Farabolini
CHAIRMEN
Alimentazione e Nutrizione - PierPaolo Mussa, Liviana Prola
Anestesia - Emilio Feltri, Adriano Lachin
Animali Esotici - Paolo Selleri, Giuseppe Visigalli
Cardiologia - Marco Poggi, Roberto Santilli
Chirurgia - Luca Formaggini
Citologia - Walter Bertazzolo, Ugo Bonfanti
Dermatologia - Alessandra Fondati, Federico Leone
Diagnostica per Immagini - Massimo Vignoli, Federica Rossi, Giliola Spattini
Fisioterapia - Francesca Cazzola, Ludovica Dragone
Gastroenterologia - Massimo Gualtieri, Ugo Lotti
Medicina Comportamentale - Raimondo Colangeli, Sabrina Giussani
Medicina Felina - Stefano Bo, Saverio Paltrinieri
Medicina Interna - Tommaso Furlanello
Medicina Non Convenzionale - Marina Serafina Nuovo, Roberto Orsi
Medicina d’Urgenza - Marco Bertoli, Fabio Viganò
Nefrologia - Monica Cherubini, Paola Scarpa
Neurologia - Marco Bernardini, MariaTeresa Mandara
Odontostomatologia - Dea Bonello, Mirko Radice
Oftalmologia - Alberto Crotti, Maurizio Mazzucchelli
Oncologia - Paolo Buracco, Laura Marconato
Ortopedia - Filippo Maria Martini, Massimo Petazzoni, Aldo Vezzoni
Practice Management - Walter Crotti, Marco Viotti
Riproduzione - Manuela Farabolini
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
CURRICULA VITAE DEI RELATORI
KAREN ALLENSPACH
DrMedVet, PhD, FVH, DipECVIM-CA
(Internal Medicine), Hatfield, UK
La Dr.ssa Karin Allenspach si è laureata presso
l’Università di Zurigo, in Svizzera, nel 1993 e nel 1995,
presso la stessa Università, ha conseguito il Dottorato in riconoscimento delle sue ricerche sul virus dell’immunodeficienza felina. Ha svolto un periodo di internato in medicina
di emergenza e terapia intensiva dei piccoli animali alla
Tufts University dal 1996 al 1997 ed uno di residenza in medicina interna dei piccoli animali alla University of Pennsylvania dal 1997 al 1999. Nel 2001, ha ottenuto la Board Certification of the European College of Veterinary Internal Medicine. Nel 2005 la Dr.ssa Allenspach ha conseguito un PhD
presso l’Università di Berna, in Svizzera, per il suo lavoro
sulle enteropatie croniche del cane. Attualmente, è Assistant
Professor presso il Department of Veterinary Clinical Sciences del Royal Veterinary College, London. La Dr. Allenspach divide il proprio tempo fra la visita di casi clinici e la
supervisione del servizio di medicina dei piccoli animali.
l’insegnamento ai laureandi e laureati e la ricerca clinica. I
suoi principali settori di indagine sono rappresentati dalla
gastroenterologia canina.
me in Neurologia presso l’Istituto di Neurologia, Università
di Berna. Nel 1995 ha ottenuto il Diploma del College Europeo di Neurologia a Liegi (Belgio). Dal 1995 al 1999 ha
lavorato a Genova, svolgendo attività di referenza in campo
neurologico ed ortopedico. Attualmente svolge la propria attività specialistica presso la Clinica Veterinaria “Val di Nievole”, Monsummano Terme, Pistoia. È stato membro dell’Education Commitee del College Europeo di Neurologia
(ECVN) dal 1996 al 1999 ed è attualmente Segretario della
Società Europea di Neurologia Veterinaria (ESVN). È inoltre componente del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Neurologia Veterinaria (SINVET) e direttore del Corso di Neurologia SCIVAC. È autore di pubblicazioni riguardanti l’ortopedia e la neurologia e ha presentato oltre 80 relazioni ad incontri a carattere nazionale ed internazionale, in
Italia ed all’estero.
Attuali aree di interesse: Neurodiagnostica per immagini,
neurochirurgia intracranica.
CLAUDE BEATÀ
DVM, Dipl ECVBM-Ca, Toulon, F
Il Dr. Beatà (DVM) è un medico veterinario specializzato in medicina comportamentale. Oltre a
esercitare la professione nel settore della medicina comportamentale, che lo impegna molto, effettua numerosi seminari per studenti e veterinari ed interviene come relatore a numerosi congressi nazionali ed internazionali. Il Dr. Beatà è
un membro di primo piano di molte organizzazioni del settore come “Zoopsy” (della quale è cofondatore ed, al momento attuale, presidente) e dell’European College of Veterinary Behavior Medicine. Inoltre è consulente per aziende
farmacologiche che lavorano nel settore comportamentale
attraverso la società Cetace.
CAROLINE BACK
Bvet Med, MRCVS, Stoccolma, S
Nel 1983 si è laureata in Medicina Veterinaria
presso il Royal Veterinary College di Londra e da
allora ha sempre lavorato in clinica, nel campo della ricerca
e dell’industria nel Regno Unito, in Kenia e in Svezia. È stata titolare di un ufficio di consulenza e gestione aziendale
veterinaria, la Nordic Connection Consulting e ha tenuto numerosi incontri e conferenze sulla gestione del business veterinario in tutta Europa, Stati Uniti e Australia, sia nelle cliniche veterinarie che nei maggiori congressi di medicina veterinaria. Caroline ha anche pubblicato numerosi articoli sulla gestione del business veterinario, incluso diversi libri: Managing a Veterinary Practice, 2nd Edn (2006) Elsevier Ltd;
Healthcare for the well pet (Saunders, 1997) (with Tom Catanzaro); e ‘Communication, Compliance and Leadership:
making healthcare work in veterinary practice’ (Elsevier
Ltd). Dopo un periodo passato ancora in clinica come veterinario internista, Caroline è stata Direttrice di due dei più
grandi ospedali svedesi per animali da compagnia a Stoccolma con uno staff di circa 120 persone e con un fatturato annuo che supera i 7 milioni di Euro. Attualmente ricopre l’incarico di Nordic Vet Affair Manager in Hill’s Pet Nutrition
con la responsabilità di sviluppare l’insegnamento e la gestione del business veterinario in Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia.
MASSIMO BECCATI
Med Vet, Capriate S.G. (BG)
Laureato in medicina veterinaria presso l’Istituto
di chirurgia della Facoltà di Milano nel 1994, si
avvicina alla dermatologia nello stesso anno, seguendo come
tirocinante la D.ssa Chiara Tieghi fino al 2004. Dal 1999 al
2001 frequenta e conclude la scuola europea di dermatologia
(E.S.AV.S.).
Nel 2003 consegue la Specializzazione in patologia dei piccoli animali ad indirizzo dermatologico presso la Facoltà di
Veterinaria di Milano. Dal 2003 è full member dell E.S.V.D.
(European Society of Veterinary Dermatology). Nel 2004 è
docente a contratto presso la Facoltà di medicina veterinaria
di Torino presso il Dipartimento di produzione, ecologia sez.
parassitologia/micologia.
Dal 2005 nella stessa Facoltà consegue un Dottorando di ricerca di tre anni con argomentazione micologica. Nel 2006
effettua un soggiorno studio all’Animal Medical Center
(New York).
È relatore a congressi nazionali e autore di articoli e case report in ambito nazionale ed internazionale. Lavora come libero professionista presso le proprie strutture e come consu-
MASSIMO BARONI
Med Vet, Dipl ECVN, Monsummano Terme (PT)
Laureato in Medicina Veterinaria con Lode nel
1987 presso l’Università di Pisa. Dal 1992 al
1995 ha compiuto un Non Conforming Residency Program5
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lente dermatologico in Lombardia. Hobby, solo Uno: F.C.
Internazionale 1908.
di Reumatologia Comparata. Nel 1996, rientra all’Università di Glasgow per la cattedra e la direzione del “Small Animal Clinical Studies”. Nel 1986, ottiene il diploma RCVS in
Ortopedia dei piccoli animali. Nel 1988, viene premiato con
il “BSAVA Simon Award” per l’importante contributo nel
settore della Chirurgia veterinaria. Nel 1994, ottiene il premio “BEVA Silver Jubilee” e, nel 1999, viene insignito del
prestigioso “BSAVA Silver Jubilee Award”. Nel 2004, gli
viene consegnato il “Petplan Scientific Award” per l’eccellente contributo fornito alla ricerca veterinaria. Nel 2006,
come riconoscimento del suo impegno in Ortopedia veterinaria, viene nominato membro onorario a vita della BVOA.
Nel 2008, riceve il premio “WSAVA Hill’s mobility”, motivato dal suo “straordinario impegno nel settore della mobilità e qualità di vita dei piccoli animali, al fine di migliorarne
il benessere ed il rapporto uomo/animale”. È membro della
“Higher Education Academy”. Attualmente, dirige il gruppo
di ricerca di Medicina Molecolare Comparata e Terapia
presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di
Glasgow. Oltre agli interessi clinici, è coinvolto in ricerche
sul ruolo delle citochine nell’artrosi e in altre condizioni infiammatorie, sull’invecchiamento dei condrociti, sulla genetica dell’artrosi e sull’applicazione della terapia genica e delle cellule staminali al trattamento dell’artrosi. È Autore di
oltre 300 pubblicazioni. Fa parte del Board editoriale di prestigiose riviste internazionali, come il V.C.O.T. (Veterinary
and Comparative Orthopaedics and Traumatology) ed il
Journal of Feline Medicine and Surgery.
MARCO BEDIN
Med Vet, Monselice (PD)
Laureato presso l’Università degli Studi di Camerino nell’ultima sessione dell’AA. 2000-2001, da
subito svolge la propria professione con particolare interesse verso gli Animali Non Convenzionali e Animali Selvatici
in un Ambulatorio Veterinario Associato di Fabriano (AN).
Dal 2001 al 2005 è stato Veterinario Responsabile del Progetto di conservazione e riproduzione in cattività del Gufo
Reale (Bubo bubo). Dal 2001 è il Responsabile Sanitario e
Veterinario Ufficiale del Progetto di Reintroduzione e Restocking del Capovaccaio (Neophron percnopterus). È medico veterinario del Progetto life natura “biarmicus” per la tutela delle specie di rapaci minacciate e dal 2001 ad oggi è
medico veterinario ufficiale del progetto Nibbio Reale (Milvus milvus). Ha collaborato con parchi nazionali e regionali
italiani. Fino a Settembre 2005 è stato il Veterinario Ufficiale del CRASE (Centro di Recupero Animali Selvatici ed
Esotici) del WWF Marche, dei cui animali era anche responsabile della gestione e della riabilitazione con tecniche
di Falconeria dal 1999.
È Professore a Contratto presso l’Università degli studi di
Padova nel CIP “Clinica degli Animali Selvatici e Non Convenzionali” per il corso di “Traumatologia dei volatili” e per
il corso di “Chirurgia dei Rettili” presso la stessa Facoltà. È
stato Professore a Contratto anche per il Corso di “Ortopedia e traumatologia dei piccoli mammiferi”. Sempre a Padova, nel 2007, ha iniziato un dottorato di ricerca in Scienze
Cliniche Veterinarie sulla chirurgia degli animali esotici. È
autore di pubblicazioni sulla medicina e chirurgia dei rettili,
piccoli mammiferi e volatili selvatici e da compagnia in riviste scientifiche italiane ed internazionali, coautore di lavori scientifici presentati a congressi italiani ed esteri sugli
Animali Esotici e Selvatici.
Libero professionista presso la Clinica Veterinaria Euganea
di Monselice (PD) dove si occupa prevalentemente di Animali Esoticie presso l’Ospedale Veterinario “I Portoni Rossi” dove si occupa esclusivamente di Medicina e Chirurgia
degli Animali Esotici. Attualmente Vice Presidente della
SIVAE.
DAVID BETTIO
Med Vet, Parma
Laureato a Parma nell’anno ’97-’98 con una tesi
in dermatologia, ha seguito vari periodi di formazione in ematologia e diagnostica per immagini.
Diplomato alla Scuola di Medicina Omeopatica di Verona
nel 1999, ora ne è parte del Consiglio Direttivo e Docente effettivo di medicina Omeopatica Veterinaria. È autore di vari
articoli pubblicati su riviste italiane di casi clinici trattati con
l’omeopatia unicista.
Membro della FIAMO e dell’UMNCV, esercita la professione sugli animali da compagnia nel suo ambulatorio, occupandosi di medicina interna e anestesiologia.
ANDREA BOARI
Med Vet, Teramo
Ha conseguito la laurea con lode in Medicina Veterinaria nel 1983 presso l’Università degli Studi
di Bologna. Funzionario tecnico dal 1986 al 1998 presso il
Dipartimento Clinico Veterinario della stessa Università. Dal
1998 è in servizio presso la Facoltà di Medicina Veterinaria
dell’Università di Teramo, dapprima come professore associato e poi, dal 2000, come professore ordinario di Clinica
Medica Veterinaria. Dal 2002 ad oggi, riveste l’incarico di
Direttore del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie.
È docente di Semeiotica Medica Veterinaria e di Clinica Medica Veterinaria. Ha trascorso lunghi periodi di aggiornamento presso il Department of Veterinary Clinical Sciences
della Purdue University nell’Indiana (USA) e il Department
of Small Animal Medicine and Surgery della Texas A&M
University (USA). È coautore di più di 120 lavori originali
DAVID BENNETT
B.Sc.(Hons), B.Vet.Med.(Hons), PhD, DSAO,
FHEA, MRCVS Glasgow, UK
Laureato in Medicina Veterinaria al Royal Veterinary College dove compie anche il proprio internato, nel
1974 si trasferisce alla Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Glasgow in qualità di lettore in chirurgia. Nel
1980, consegue il Ph.D con una tesi sulle artriti infiammatorie del cane, dal titolo “Naturally Occurring Inflammatory
Arthropathies of the Dog”. Dopo un paio di anni di pratica
clinica, ricopre l’incarico di lettore senior all’Università di
Liverpool, dove fonda il “Connective Tissue Research
Group”, e, poco dopo, dà vita ad un ulteriore gruppo di ricerca di immunogenetica dei mammiferi, in collaborazione
con il Centro di Ricerca integrata Medico-Genomica di
Manchester. Nel 1990, viene nominato assistente del corso
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pubblicati su riviste o su atti di congressi nazionali e internazionali. È coautore del nuovo testo di Small Animal Gastroenterology, ed. Jorg M. Steiner, Schlutersche (2008). È
socio fondatore della Società Italiana di Medicina Felina
(SIMEF) e della Società Italiana di Gastroenterologia e Endoscopia Digestiva Veterinaria (SIGEDV). È socio della Società Italiana di Scienze Veterinarie, Società Italiana di Buiatria, Società Culturale Italiana Veterinari Animali da Compagnia, European Society of Comparative Gastroenterology,
European Society of Veterinary Endocrinology, American
Society of Camparative Gastroenterology. La principale area
di studio e di ricerca è la medicina interna dei piccoli animali
con particolare riferimento all’endocrinologia e alla gastroenterologia.
dontopatie nel cane. Esperienze professionali presso numerosi ambulatori e cliniche nell’ambito della clinica dei piccoli animali. Relatore dal 2003 al corso Scivac di citologia.
Istruttore e relatore a corsi di endoscopia flessibile nel 2004
e nel 2005.
Istruttore e relatore a corsi di gastroenterologia nel 2006. Relatore al congresso nazionale Scivac del 2006. È autore e coautore di articoli su riviste nazionali ed internazionali. Attualmente lavora come libero professionista nell’ambito dell’endoscopia flessibile presso numerosi ambulatori e cliniche in Piemonte, Liguria e Lombardia.
JULIA BUCHHOLZ
Med Vet, Dipl ACVR-Radiation Oncology,
Colorado, USA
La dottoressa Buchholz studia medicina Veterinaria a Giessen, in Germania e a Nantes, in Francia. Si laurea
a Giessen nel 2002.
Dopo aver praticato in una clinica privata in Germania si trasferisce a Zurigo dove lavora presso il Dipartimento di Radioterapia Oncologica e Diagnostica per Immagini (20032005), qui completa la sua tesi in Terapia fotodinamica.
Su questo argomento pubblica su riviste nazionali ed internazionali e ne relaziona in diversi eventi nazionali ed internazionali.
Nel 2005 inizia il Residency in Radioterapia oncologia presso l’Università di Zurigo e nel 2006 lo completa presso la
Colorado State University. Si diploma all’American College
of Veterinary Radiology (ACVR) nella specialità di Radioterapia Oncologica.
UGO BONFANTI
Med Vet, Dipl ECVCP, Milano
Laureato con lode presso l’Università di Milano
nel 1992. Attualmente lavora presso l’Istituto di
Ricerca “Accelera-NERVIANO MEDICAL SCIENCES”
occupandosi di Patologia Clinica in ambito di sviluppo preclinico, dopo aver esercitato la libera professione occupandosi di Medicina Interna, Oncologia, Patologia Clinica.
Ha effettuato stages presso università europee ed americane.
Nel 2005 ha conseguito il Diploma del College Europeo di
Patologia Clinica Veterinaria (ECVCP).
Ha presentato relazioni di citologia, oncologia, medicina interna in occasione di incontri, seminari e congressi nazionali SCIVAC.
È istruttore e relatore al corso di citologia della SCIVAC ed
è Past President della Società Italiana di Citologia Veterinaria (SICIV).
Autore e coautore di numerose pubblicazioni su riviste italiane e straniere e di presentazioni in occasione dei congressi annuali di ESVIM ed ESVCP.
ANTONELLO BUFALARI
Med Vet, PhD, Perugia
Laureato in Medicina Veterinaria (1989). Professore Associato dal 2006 presso l’Università di Perugia, con incarichi di insegnamento in Anestesiologia e Clinica Chirurgica. Visiting Fellowship e Post-doctoral Associate presso la Cornell University, per 2 anni. Titolo di PhD
presso Faculty of Veterinary Medicine, Helsinki. Co-investigator di una ricerca sperimentale su analgesici presso la Cornell. Dal 1991 è membro SISVet e SCIVAC, dal 1993 è
membro AVA, dal 1994 è membro SICV. Dal 2003, docente
ai corsi SCIVAC di anestesiologia e dal 2004 è membro del
consiglio direttivo SIARMUV. Autore/co-autore di 100 pubblicazioni di cui una decina su riviste internazionali. Relatore a numerosi congressi e seminari nazionali e internazionali. Co-autore di un capitolo su Veterinary Clinics of North
America. Autore del manuale: “Concetti di base per l’artroscopia diagnostica e operativa nel cane”.
MICHELE BORGARELLI
Med Vet, Dott Ric, Dipl ECVIM-CA
(Cardiology), Arkansas, USA
Laureato presso l’Università di Torino nel 1989
con una tesi di fisiologia. Dal 1990 si occupa di cardiologia
e di medicina interna nei piccoli animali.
Nel 1999 si è diplomato al College Europeo di Medicina Interna Cardiologia, (ECVIM-CA cardiology). Nel 2005 ha
conseguito il titolo di Dottore di Ricerca, con una tesi sull’insufficienza mitralica. Dal 1996 al 2007 è professore a
contratto prima e ricercatore poi presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino. Segretario e tesoriere della Società Europea di Cardiologia Veterinaria (ESVC) dal 1991 al
2004, ed è membro del consiglio direttivo della società stessa. Presidente della Società Italiana di Cardiologia Veterinaria (SICARV) dal 2004 al 2007. Dal 2006 vicepresidente
dell’ECVIM-CA. Attualmente Associate Professor in Cardiology presso la Kansas State University. È autore di circa
80 pubblicazioni e abstracts.
CLAUDIO MARIA BUSSADORI
Med Vet, Dipl ECVIM-CA, Med Kir, Milano
Laureato in Medicina Veterinaria, il 23/3/82 con
108/110. Diplomato in Cardiologia dell’European
College of Internal Medicine ECVIM il 21/3/93.
Laureato in Medicina e Chirurgia, il 29/10/2001, con 110 e
Lode. Dottore di Ricerca in Fisiopatologia Cardiovascolare
14/12/2007. Direttore sanitario della Clinica Veterinaria G.
Sasso a Milano, dove si occupa di cardiologia.
Direttore del residency program dell’ECVIM-CA European
ENRICO BOTTERO
Med Vet, Cuneo
Si laurea in Medicina veterinaria presso l’università di Torino nel 1997 con una tesi sulle perio-
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
college of Internal Medicine in cardiologia. Coordinatore
della ricerca del centro cardiologia pediatrica & Cardiopatie
Congenite dell’Adulto dell’Istituto policlinico IRCCS di
San Donato Milanese.
Membro onorario permanente del board dell’ESVC. Autore
di 210 pubblicazioni includendo: articoli originali su riviste
Veterinarie e Mediche, atti di congressi e libri. I campi di interesse attuali riguardano l’ecocardiografia, la diagnosi e il
trattamento interventistico delle cardiopatie congenite nell’uomo e negli animali.
sione, occupandosi fin da subito esclusivamente di Medicina
Interna e Citologia. Ha seguito periodi di formazione presso
diverse strutture di valore internazionale (Animal Medical
Center, NY, Utrecht University, Histovet, Barcellona). Oggi
è il direttore sanitario della Clinica Napolivet a Napoli. È
stata relatore a diversi corsi di Citologia e a diversi Convegni nazionali ed internazionali con argomenti di Medicina
interna e Citologia. Ha collaborato con DRN per uno studio
sull’efficacia di un epatoprotettore per il supporto terapeutico delle epatopatie secondarie da farmaci antiepilettici.
MARIA CHIARA CATALANI
Med Vet, Senigallia (AN)
Si laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Perugia, nell’Anno Accademico 1998/99, e, nel 2001, riceve, dallo stesso Ateneo, l’Attestazione di Perfezionamento in “Educazione Sanitaria”.
Attualmente svolge il “Master di medicina comportamentale degli animali d’affezione” dell’Università degli Studi di
Pisa presso la quale ha conseguito l’Attestato di Perfezionamento in “Scienze Comportamentali Applicate” nel giungo
del 2003.
Membro della SISCA (Società Italiana Scienze Comportamentali Applicate) dall’anno 2000, dal 2002 è referee della
SIUA (Scuola di Interazione Uomo-Animale) per la zooantropologia didattica.
È stata autrice di alcuni articoli scientifici pubblicati su riviste italiane e di un saggio per una monografia sulla pet therapy, edita dalla SCIVAC.
Svolge la sua attività professionale esclusivamente nell’ambito della medicina comportamentale e della zooantropologia applicata, sviluppando progetti di zooantropologia didattica e corsi privati di pet-ownership. Inoltre, è consulente per
la prevenzione e la terapia comportamentale del cane e del
gatto presso alcune strutture veterinarie.
RAIMONDO COLANGELI
Med Vet, Dipl Comportamentalista ENVF, Roma
Si laurea nel 1982 a Perugia in medicina veterinaria. Dal 1995 si occupa di patologia comportamentale. Presidente SISCA dal 2008.
Ha seguito corsi di base ed avanzati di patologia comportamentale sia in Italia che in Francia.
Diplomato Medico Veterinario Comportamentalista nelle
ENV francesi nel 2002.
È stato relatore a seminari e corsi di patologia comportamentale in Italia e Francia.
È direttore del corso base ed avanzato di medicina comportamentale della Scivac dal 2002.
È professore a contratto alla facoltà di Medicina Veterinaria
di Teramo.
Ha pubblicato articoli di med. comportamentale su riviste
veterinarie.
Autore insieme alla Dr. Sabrina Giussani del libro “La
medicina comportamentale del cane e del gatto” edizione
Poletto.
Coautore del libro “Il canile come presidio zooantropologico” di Roberto Marchesini, Ed. Medico-Scientifiche 2007. È
membro di Zoopsy e ESVCE
SILVIA COLOMBO
Med Vet, Dipl ECVD, MRCVS, Milano
Laureata all’Università di Milano nel 1992, ha
conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Medicina Interna Veterinaria presso la stessa facoltà nel 1997 ed
ha percepito una borsa di studio Post-Dottorato presso la
stessa sede dal 1998 al 2000. Dal 2000 al 2003 ha frequentato un periodo di specializzazione di tre anni in dermatologia veterinaria presso il Department of Clinical Veterinary
Studies, The University of Edinburgh. È stata docente a contratto presso il Department of Clinical Veterinary Science,
University of Bristol, tra il novembre 2003 ed il giugno
2004. Nel luglio del 2004 ha conseguito il Diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (DipECVD). Dal
2004 lavora nel Nord Italia, presso diverse strutture, eseguendo esclusivamente consulenze dermatologiche. È membro della SIDEV dal 1997 e dell’ESVD (European Society
of Veterinary Dermatology) dal 1994. Dal 2007 è membro
del consiglio direttivo SIDEV. La Dr.ssa Colombo è autrice
di numerosi articoli su riviste italiane e straniere
LOUISE CLARK
DVM, Dipl ECVAA, London, UK
La Dr.ssa Clark si è laureata nel 1997 alla University of Glasgow. Dopo aver esercitato per tre
anni la libera professione generica, ha iniziato un periodo di
residenza in anestesia alla University of Edinburgh, dove ha
ottenuto sia il Certificate in Veterinary Anaesthesia che il Diploma of the European College of Veterinary Anaesthesia
and Analgesia. Dal 2003 al 2007 è stata anestesista clinica
all’Animal Health Trust, facendo parte di un team impegnato a garantire anestesia e terapie ai pazienti in condizioni critiche. Attualmente è Head of Anaesthesia at Davies Veterinary Specialists, il più grande ospedale specialistico privato
in Europa.
TIZIANA COCCA
Med Vet, Napoli
Tiziana Cocca è nata a Napoli, dove si è laureata
in Medicina Veterinaria nel 1988. Nel 1991 ha conseguito il
Dottorato di Ricerca in Morfologia Comparata degli Animali Domestici, durante il quale si è occupata principalmente di
studi immunoistochimici sul sistema neuroendocrino degli
animali domestici, pubblicando circa 40 lavori su riviste nazionali ed internazionali. Si è poi avviata alla libera profes-
STEFANO COMAZZI
Med Vet, Dott Ric, Dipl ECVCP, Milano
Ricercatore confermato presso il Dipartimento di
Patologia Animale, Igiene e
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Sanità Pubblica Veterinaria dell’Università degli Studi di
Milano. È stato per tre anni direttore sanitario di un laboratorio privato di analisi veterinarie di Milano, a prevalente attività in ematologia, chimica clinica e citologia.
Attualmente è ricercatore confermato presso il Dipartimento
di Patologia Animale, Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria,
dell’Università di Milano.
Nel 1999 consegue il dottorato di ricerca in Patologia Comparata degli Animali Domestici e Selvatici e dal 2002 è diplomato all’European College of Veterinary Clinical Pathology (ECVCP). La sua attività scientifica verte prevalentemente su aspetti di Patologia Clinica con particolare riferimento alle malattie linfomieloproliferative e alla funzionalità eritrocitaria dei piccoli animali. È autore di più di 40 pubblicazioni su riviste internazionali con impact factor, di più
di 100 pubblicazioni su riviste nazionali o atti di congressi e
di diversi capitoli di libri sia nazionali che internazionali
Dall’anno accademico 2004-2005 è docente dei moduli di
Neoplasie ematologiche e di Disordini emopoietici nell’ambito dei corsi di Laurea in Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano.
È membro dell’Editorial Board della rivista internazionale
Veterinary Clinical Pathology e revisore per numerose riviste internazionali su argomenti di patologia clinica. Riveste
differenti incarichi nella Società e nel College Europeo di
Patologia Clinica Veterinaria (ESVCP-ECVCP).
Il Dr. DiBartola si è laureato in medicina veterinaria (DVM)
presso la University of California, Davis nel 1976. Nel giugno 1977 ha portato a termine un periodo di internato in
Small Animal Medicine and Surgery alla Cornell University
di Ithaca, New York. Da luglio 1977 a luglio 1979 è stato resident in Small Animal Medicine all’Ohio State University
College of Veterinary Medicine. Da luglio 1979 ad agosto
1981 è stato Assistant Professor of Medicine al College of
Veterinary Medicine della University of Illinois. Nell’agosto
del 1981, il Dr. DiBartola è tornato al Department of Veterinary Clinical Sciences della Ohio State University come Assistant Professor of Medicine. È stato promosso Associate
Professor nel 1985 e Professor nel 1990. Nel 1988 ha ricevuto il Norden Distinguished Teaching Award ed ha completato la stesura di un trattato dal titolo Fluid Therapy in
Small Animal Practice pubblicato per la prima volta da W.B.
Saunders Co. nel 1992. Nel 2006 è uscita la terza edizione di
questo libro. Attualmente, il Dr. DiBartola è co-editor-inchief del Journal of Veterinary Internal Medicine. Le sue
aree di interesse clinico sono rappresentate dalle malattie renali e dagli squilibri idrici, acidobasici ed elettrolitici. Nel
campo della ricerca, si occupa dall’amiloidosi sistemica
reattiva e di due nefropatie famigliari del gatto: l’amiloidosi
famigliare dei gatti abissini e la nefropatia policistica autosomica dominante di quelli persiani.
ANTONIO DI SOMMA
Med Vet, SMPA, Dubai, UAE
Antonio Di Somma si è laureato all’Università di
Napoli “Federico II” nel 1978.
Nel 1982 ha conseguito il diploma di specializzazione in
“Malattie dei piccoli animali” all’Università di Pisa.
Dal 1995 al 1998 è stato presidente regionale della SCIVAC
Campania.
Dal 1991 al 2000 direttore sanitario della Clinica Veterinaria
“Villa Felice” ad Arco Felice (Na).
Sin dal periodo post laurea ha sviluppato particolare interesse per la Medicina Aviare ed ha collaborato con centri per la
riabilitazione in natura di falchi feriti.
Autore e coautore di diverse pubblicazioni scientifiche è stato relatore in eventi a livello nazionale e internazionale.
Nel 2001 è stato chiamato a dirigere il Dubai Falcon Hospital in Dubai (Emirati Arabi Uniti) che ha una casistica di circa 1800 falchi visitati in un anno ed è il più antico ospedale
per falchi del mondo.
È falconiere dall’età di 16 anni e ha volato molti tipi di falchi per la pratica della falconeria, per la reintroduzione in
natura e per il pest/control.
Antonio Di Somma è anche maratoneta e recentemente ultramaratoneta, avendo esordito nella specialità dei 100 km
dove ha ottenuto il titolo italiano di categoria.
Da 7 anni vive e lavora negli Emirati Arabi con lunghi periodi di soggiorno invernale in Pakistan.
FEDERICO CORLETTO
DVM, CertVA, Dipl ECVA, MRCVS,
Cambridge, UK
Nato a Castelfranco Veneto, ha conseguito la Laurea in Medicina Veterinaria presso la Facoltà di Medicina
Veterinaria dell’Università degli Studi di Padova nel 1997,
con il massimo dei voti e la lode. Ha prestato servizio come
ricercatore presso la medesima Facoltà, occupandosi di anestesiologia. Nel 2002 ha conseguito il Certificate in Veterinary Anaesthesia rilasciato dal Royal College of Veterinary
Surgeons e nel 2003 il Diploma di Specializzazione in Anestesiologia Veterinaria rilasciato dal College Europeo (ECVA). Dal giugno 2003 lavora all’Animal Health Trust (Newmarket), in qualità di Anestesista Veterinario.
LUISA CORNEGLIANI
Med Vet, Dipl ECVD, Milano
Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di Milano nel 1991, lavora come libero professionista nel settore dei piccoli animali dove si occupa di
dermatologia dal 1995. Ha frequentato periodi d’aggiornamento all’estero ad indirizzo dermatologico presso strutture
private ed universitarie. È diplomata al College Europeo di
Dermatologia Veterinaria. È inoltre autore di numerosi articoli su riviste nazionali ed internazionali, nonché traduttore
di testi di dermatologia veterinaria e co-autore di un cd multimediale dedicato alla dermatologia. Attualmente lavora
eseguendo visite dermatologiche di referenza a Milano, Torino, Novara.
ROBERTO ELICES
Med Vet, PhD, Madrid, E
Roberto Elices Mínguez, Laureato in Medicina
Veterinaria e PhD in Veterinary Science alla Universidad Complutense de Madrid (UCM). Diplomato in Chirurgia Ortopedica presso la stessa Università. Ha iniziato a
STEPHEN P. DIBARTOLA
DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine),
Ohio, USA
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lavorare nella facoltà nel 1990 ed attualmente è Professore di
Nutrizione Animale alla Facoltà di Veterinaria di Madrid.
Membro del Servizio di Endocrinologia ed Obesità dell’Ospedale Didattico Veterinario della stessa Facoltà. Sin dalla
laurea, ha lavorato come veterinario presso cliniche private
esterne. Membro del Weight Advisory Group (WAG). Nel
tempo libero, fa del suo meglio per occuparsi dei sui cinque
animali da compagnia ed ama le immersioni in mare.
autore di relazioni e pubblicazioni nazionali ed internazionali, riguardanti la neurologia veterinaria. Dal 2004 è membro della Società Europea di Neurologia Veterinaria (ESVN)
e della Società Italiana di Neurologia Veterinaria (SINVet),
della quale è consigliere dal 2007.
Attualmente, svolge attività neurologica specialistica presso
la Clinica Veterinaria Valdinievole con particolare interesse
per la Risonanza Magnetica (RMI) applicata alla neurologia.
JONATHAN ELLIOTT
MA, Vet MB, PhD, Cert SAC, Dipl ECVPT,
MRCVS, London, UK
Il Dr. Jonathan Elliott si è laureato alla Cambridge University Veterinary School nel 1985. Attualmente è
Professor in Veterinary Clinical Pharmacology e Vice Principal for Research al Royal Veterinary College. È Diplomate of the European College of Veterinary Pharmacology and
Toxicology e membro del Veterinary Products Committee,
un comitato che fornisce indicazioni al Governo del Regno
Unito sull’autorizzazione dei prodotti medicinali veterinari.
I suoi interessi nel campo della ricerca riguardano la fisiopatologia delle malattie renali, cardiache e vascolari degli
animali da compagnia.
FRANCO FASSOLA
Med Vet Comportamentalista, Asti
Si laurea nel 1989 a Torino. Dal 1995 si occupa di
patologia comportamentale.
Segretario-tesoriere SISCA dal ’99.
Ha seguito corsi di base ed avanzati di medicina comportamentale in Italia e in Francia. Ha partecipato al corso per la
formazione del diploma “Vetérinaire Comportementaliste des
ENV Francaises”. Direttore Scientifico della rivista di medicina comportamentale Sisca Observer. Ha pubblicato articoli
di patologia comportamentale su riviste veterinarie e di divulgazione. Autore di un libro sull’educazione del cane, “Educare o Ri-educare il cane”; ha collaborato alla stesura di un capitolo del libro “La medicina comportamentale del cane e del
gatto”. È stato membro dello staff del Progetto Ex-combattenti dell’ENPA. Fa parte del comitato scientifico del Master
di secondo Livello dell’Univ. di Torino. È membro dell’Ass.
dei comportamentalisti francesi Zoopsy e dell’ESVCE.
GARY W. ELLISON
DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA
Il Dr. Ellison si è laureato in medicina veterinaria
(DVM) presso la University of Illinois nel 1975.
Nel 1976 ha portato a termine un periodo di internato sui
piccoli animali al South Shore Veterinary Associates di Weymouth, Massachusetts. In seguito, ha esercitato la libera professione generica sui piccoli animali a San Francisco, California. Nel 1981 ha completato un periodo di residenza in
Chirurgia dei Piccoli Animali ed ottenuto il titolo di MS in
chirurgia sperimentale presso la Colorado State University.
Ha esercitato la professione come specialista in chirurgia a
San Diego, California, prima di diventare Diplomate of the
American College of Veterinary Surgeons ed entrare a far
parte della facoltà della University of Florida nel 1983. È autore o coautore di 70 pubblicazioni referee e PI (principal investigator, ricercatore principale) o Col (collaboratore) di 25
progetti di ricerca sovvenzionati. I suoi campi di interesse
sono rappresentati dalla chirurgia gastroenterica e toracica
endoscopica e dal trapianto di rene nel gatto. Attualmente è
Professor and Chief of Small Animal Surgery presso la University of Florida.
GIUSEPPE FEBBRAIO
Med Vet, Bari
Laureato nel 1992, ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in “Parassitologia, Malattie Parassitarie negli Animali Domestici” nel 1999, presso l’università di Bari.
Nel 2006 ha conseguito il Diploma di Master Internazionale
di II Livello in Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva
presso l’Università di Teramo. Consulente nutrizionale, ha
partecipato a numerosi congressi nazionali e seminari. Svolge attività di libero professionista nella propria clinica (Centro Veterinario Einaudi) a Bari dove si occupa di medicina
interna e principalmente di gastroenterologia ed endoscopia.
EDWARD C. FELDMAN
DVM, Dipl ACVIM (Internal medicine),
California, USA
RICERCA: malattie endocrine di surreni, pancreas, paratiroidi e tiroidi del cane e del gatto.
DIDATTICA: Endocrinologia e riproduzione clinica dei piccoli animali.
SERVIZIO ALLA PROFESSIONE: Reviewer, JAVMA. CoFounder e Past-President della Society for Comparative Endocrinology.
Relatore a convegni nazionali ed internazionali di Endocrinologia. Servizio per SVM committees: Student Affairs,
Executive, School Personnel.
CRISTIAN FALZONE
Med Vet, Dipl ECVN, Monsummano Terme (PT)
Nel 2001 consegue la laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università di Perugia. Fino al 2003
conduce attività di libero professionista nella provincia di
Perugia ed Arezzo e collabora con la facoltà di medicina veterinaria di Perugia, dipartimento di chirurgia. Dal 2004 al
2007 svolge un Residency in Neurologia presso la Clinica
Veterinaria Valdinievole, Monsummano Terme (PT), sotto
diretta supervisione del dr. Massimo Baroni. Nel 2006 svolge brevi periodi di continuing education all’estero. Nel settembre 2007, dopo aver sostenuto l’esame tenutosi a Berna,
si diploma al College Europeo di Neurologia Veterinaria. È
EMILIO FELTRI
Med Vet, Tortona (AL)
Laureato presso l’Università degli Studi di Parma
nel 1996. Dal 1999 segue un programma di ag-
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giornamento continuo in anestesiologia presso l’Unviersità
di Gent e l’Università di Berna sotto la supervisione del
Prof. Yves Moens. È membro della Società Scivac di Anestesiologia, della Società europea di Anestesia Veterinaria
(AVA), della Società di Anestesia a Bassi Flussi (ALFA). È,
inoltre, docente e istruttore ai Corsi Professionali Scivac di
anestesia e ai Seminari professionali di livello base e avanzato in collaborazione con lo staff dell’Università di Berna.
Nel triennio 2003-2005 ricopre l’incarico della Siamurv (Società di Anestesia e Medicina di Urgenza Scivac). Direttore
dell’itinerario in anestesia Scivac. Autore di un capitolo sui
monitoraggi del testo Medicina di Urgenza e Terapia Intensiva nel cane e nel gatto. Dal 2005 segue un corso di terapia
del dolore in continua educazione presso l’asl 20 sotto la supervisione del prof. Guido Orlandini (primario del centro di
terapia del dolore Ospedale di Tortona). Marzo 2007 viene
eletto Consigliere dell’AVA (Association Veterinary Anaesthesia) per il triennio 2007-2009. I suoi principali ambiti di
interesse riguardano le tecniche avanzate di basso flusso nell’anestesia gassosa, il monitoraggio degli scambi gassosi e
sopratutto il controllo del dolore.
mesi presso la Colorado State University e presso la Texas
A&M University approcciandosi all’oncologia, alla medicina interna e alla gastroenterologia. Nel 2000 inizia un dottorato di ricerca sull’oncologia veterinaria e comparata presso
la Facoltà di Medicina Veterinaria di Torino e frequenta il reparto di gastroenterologia dell’Azienda Ospedaliera “San
Giovanni Bosco” di Torino. Nel 2004 si trasferisce all’estero e inizia un programma di Residency in Medicina Interna
della durata di 3 anni presso le Università di Berna (Svizzera) e di Baton Rouge (USA), superando l’esame di specializzazione ACVIM nel giugno 2007. Collabora attualmente
come internista presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di
Torino e presso la Clinica Veterinaria Malpensa di Samarate, e come gastroenterologa presso l’Ospedale Anubi di
Moncalieri.
STEFANIA GIANNI
Med Vet, Milano
Laureata nel Luglio 1991 a pieni voti all’Università
di Milano.
Dal 1992 lavora presso la Clinica S. Siro piccoli animali di
Milano occupandosi di chirurgia d’urgenza ed ortopedia e
dal 1997 con attività specialistica in neurologia clinica e
neurochirurgia.
Dal 1996 al 1998 ha effettuato un periodo di tirocinio presso il dott. Massimo Baroni a Genova e successivamente numerosi corsi e periodi di aggiornamento in neurologia clinica e neurochirurgia in particolare presso l’Università di Berna e quella di Madison.
Dal Novembre 2004 lavora anche presso la Clinica Veterinaria Tibaldi di Milano come responsabile del settore neurologico. Collabora con diverse strutture veterinarie dell’area
lombarda come referente per la neurologia e la neurochirurgia. Relatrice a diversi corsi, congressi e seminari nazionali.
Dal 1997 membro della SINVet e dell’ESVN, dal Novembre
2004 membro del consiglio direttivo SINVet.
LUCA FORMAGGINI
Med Vet, Dormelletto (NO)
Si laurea a Milano nel Febbraio 1991. Dopo vari
periodi di tirocinio in Italia e all’estero, dal 1996
lavora presso la Clinica Veterinaria “Lago Maggiore” di cui
è socio fondatore. È relatore in diversi corsi SCIVAC di chirurgia, ortopedia e medicina/chirurgia d’urgenza. È stato relatore a diversi congressi e seminari a livello nazionale.
Membro SCIVAC, BSAVA, VECCS e EVECCS, è Resident
in training per accedere all’esame dello European College of
Veterinary Surgery (ECVS). Dal 2004 è vice-Presidente della Società di Chirurgia Veterinaria Italiana (SCVI). I principali campi di interesse sono rivolti a tutti gli aspetti della
traumatologia e alla chirurgia mini-invasiva.
GIOVANNI GHIBAUDO
Med Vet, Samarate (VA)
Laureato presso l’Università di Milano nel 1994,
dal 1996 si occupa di dermatologia veterinaria e
citopatologia. Lavora come referente per la dermatologia
presso diverse strutture veterinarie In Lombardia, Emilia
Romagna e Marche. Full member dell’ESVD (European Society of Veterinary Dermatology). È stato istruttore al Corso
base di Dermatologia della SCIVAC (Società Culturale Italiana Veterinari Animali da Compagnia) (2001-2003). È stato relatore al Congresso Nazionale della SCIVAC nel 1999,
2002, 2004, 2007 e 2008 e dell’AIVPA (Associazione Italiana Veterinari dei Piccoli Animali) nel 2004, 2007, 2008.
Traduttore del libro “Dermatologia del cane e del gatto” di
Medleau e Hnilica 2° Ed. 2007. Autore di oltre 50 articoli su
riviste veterinarie nazionali ed estere. I suoi settori d’interesse sono la citologia cutanea, le otiti e la dermatite allergica nel cane e nel gatto.
SABRINA GIUSSANI
Med Vet, Dipl Comportamentalista ENVF,
Busto Arsizio (VA)
Si laurea cum laude presso la facoltà di Medicina
Veterinaria di Milano. Dal 1998 si occupa di Medicina Comportamentale. È consigliere SISCA (Società Italiana di
Scienze Comportamentali Applicate) dal febbraio 2002. Ha
partecipato a seminari, corsi di base, corsi avanzati di Medicina Comportamentale sia in Italia sia in Francia. Si è diplomato Medico Veterinario Comportamentalista presso l’Ecole Nationale Française nel novembre 2002. È stata relatore a
giornate regionali, seminari, corsi di base e avanzati in Italia.
Ha pubblicato articoli inerenti la Medicina Comportamentale su riviste del settore scientifico ed è autore, insieme al
Dott. Colangeli, del libro”Medicina comportamentale del
cane e del gatto” edito da Poletto nel 2004. Consegue nel dicembre 2004 il Master di specializzazione di 2° livello organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria di Padova in
“Etologia applicata al benessere animale”. È professore a
contratto nel 2005 nel Master inerente alla Medicina Comportamentale organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria di Torino.
È socio di Zoopsy e di ESVCE.
PAOLA GIANELLA
DVM, PhD, Torino (I)
Si laurea con lode nel 1999 presso la Facoltà di
Medicina Veterinaria a Torino. Trascorre alcuni
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CECILIA GORREL
BSc, MA, Vet MB, DDS, MRCVS, Hon FAVD,
Dipl EVDC, RCVS-recognised Specialist in
Veterinary Dentistry, Londra, UK
La Dr.ssa Cecilia Gorrel è Doctor of Dental Surgery, Oral
Pathologist e Veterinary Surgeon. È European ed RCVS-recognised Specialist in Veterinary Dentistry. È partner di una
struttura specialistica del Regno Unito dedicata all’Odontoiatria Veterinaria ed alla Chirurgia Orale (Petdent Ltd). È
anche Independent Research Consultant e si occupa dello
studio delle malattie orali del cane e del gatto. È Diplomate
dell’European Veterinary Dental College (EVDC), del quale
è stata Inaugural President. La Dr.ssa Gorrel è anche Honorary Fellow of the Academy of Veterinary Dentistry ed Honorary Lifetime Member of the British Veterinary Dental Association. Opera attivamente come relatrice internazionale
ed è autrice e coautrice di numerose pubblicazioni scientifiche, come i libri ‘Veterinary Dentistry for the General Practitioner’, ‘Veterinary Dentistry for the Nurse and Technician’
e ‘Solutions in Veterinary Practice: Small Animal Dentistry’.
ANN K. JEGLUM
DVM, Dipl ACVIM Oncology, Pennsylvania,
USA
Ann Jeglum si è laureata alla Pennsylvania
School of Veterinary Medicine nel 1977. Già prima di laurearsi ha lavorato nella ricerca oncologica presso la Harvard
University School of Medicine. Dopo la laurea ha contribuito ad avviare il servizio di oncologia clinica presso la
Pennsylvania School of Veterinary Medicine dove è rimasta
per 14 anni. Durante questo periodo ha collaborato anche
con il National Cancer Institute e il Fox Chase Cancer Center. Nel 2001 ha fondato il Veterinary Oncology Services’
Radiation Center. Attualmente è Adjunct Associate presso il
Wistar Institute di Philadelphia dove ha sviluppato gli anticorpi monoclonali per la terapia del linfoma canino. Attualmente è impegnata in una ricerca sovvenzionata dall’American Kennel Club’s Canine Health Foundation sulla genetica
dei tumori ereditari nei Golden Retrievers.
JOLLE KIRPENSTEIJN
DVM, PhD, Dipl ACVS, Dipl ECVS,
Utrecht (NL)
Jolle Kirpensteijn si è laureato alla Utrecht University Faculty of Veterinary Medicine, in Olanda, nel 1988
ed ha portato a termine un periodo di internato in medicina
dei piccoli animali e chirurgia alla University of Georgia negli Stati Uniti d’America nel 1989. Dopo il suo internato, ha
completato un periodo di residenza in chirurgia dei piccoli
animali e conseguito un Master presso la Kansas State University, USA. La residenza è stata seguita da un fellowship
in oncologia chirurgica presso la Colorado State University
Comparative Oncology Unit, USA. Nel 1993, Jolle è tornato in Europa per accettare un Associate-professorship in oncologia chirurgica e chirurgia dei tessuti molli presso la University of Utrecht. Nel febbraio del 2005 è stato nominato
Professore di Chirurgia presso la University of Copenhagen.
È Diplomate of the American and European College of Veterinary Surgeons ed è stato membro attivo del board of Regents di questo College. Dall’ottobre 2006 è membro dell’executive board della World Small Animal Veterinary Association, attualmente come vicepresidente. I suoi principali
interessi clinici e di ricerca sono l’oncologia chirurgica e la
chirurgia ricostruttiva e traumatologica. Nel 1999 ha conseguito il PhD sull’osteosarcoma ed attualmente svolge un
ruolo attivo nella ricerca sulla patogenesi di questa neoplasia
nel cane e nel gatto, sulla chirurgia endoscopica e sulla traumatologia. Ha pubblicato più di 50 articoli su riviste referee
e tenuto più di 200 lezioni in tutto il mondo ed ha ricevuto il
prestigioso BSAVA Simon Award nel 2007.
STEVE HASKINS
DVM, MVS, Dipl ACVA Dipl ACVECC,
California, USA
Il Dr. Steve Haskins si è laureato presso la Washington State University. Ha portato a termine un periodo di
internato all’Animal Medical Center di New York City ed
uno di residenza in anestesia alla University of Minnesota.
In seguito ha lasciato le nevi del Minnesota ed è entrato a far
parte del corpo docente di anestesia della University of California, Davis e nel 1976 ha ottenuto il titolo di Diplomate
of the American College of Veterinary Anaesthesiologists. In
seguito è stato membro fondatore dell’American College of
Veterinary Emergency and Critical Care ed ha avviato l’unità di terapia intensiva della University of California. Il Dr.
Haskins continua a sviluppare e far progredire questa struttura dalla sua attuale posizione di Director of the Small Animal Intensive Care Unit e Professor in the Department of
Surgery and Radiology. Ha pubblicato numerosi lavori di ricerca su argomenti come la ventilazione meccanica, la rianimazione cardiopolmonare, lo shock e la sepsi.
KARIN HOLLER
Med Vet, Austria
Si è dedicata allo studio della medicina veterinaria a Vienna, laureandosi nel 1981. Dopo un periodo di formazione negli Stati Uniti e vari ospedali per piccoli animali, è diventata Direttore del servizio di medicina
dell’ospedale per piccoli animali di Leonding / Austria. Si è
specializzata in oftalmologia ed ha ottenuto la certificazione
come veterinario per piccoli animali. Nel 2000 ha conseguito il diploma in agopuntura dell’IVAS e poi un master in medicina cinese all’Università di Krems/Austria.
Nel 2004 ha conseguito la certificazione della International
Veterinary Chiropractic Society. Dopo un periodo di formazione negli Stati Uniti ha ottenuto la certificazione in Canine Rehabilitation. Nel 2005 è diventata direttrice dell’unità
di fisioterapia dell’ospedale per piccoli animali di Leonding.
È relatrice a convegni locali ed internazionali. È sposata ed
ha 2 figli. Il suo hobby principale è giocare a golf.
MICHAEL P. KOWALESKI
DVM, Dipl ACVS, Massachusetts, USA
Il Dr. Michael Kowaleski si è laureato presso la
Tufts University School of Veterinary Medicine
nel 1993. Dopo aver esercitato per diversi anni la libera professione generica, nel 2002 ha portato a termine un periodo
di residenza in chirurgia dei piccoli animali presso la Tufts
University in un programma congiunto con l’Angell Memorial Animal Hospital. Nel 2003 ha ottenuto la board certification dell’American College of Veterinary Surgeons.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Dal 2002 al 2007 è stato Assistant Professor of Small Animal Orthopaedic Surgery alla The Ohio State University e
nel 2007 è stato promosso Associate Professor di ruolo. Attualmente è Associate Professor of Small Animal Orthopaedic Surgery alla Tufts Cumming School of Veterinary Medicine. Le sue aree di interesse clinico e di ricerca sono rappresentate da artroscopia, promozione della guarigione delle fratture, fissazione scheletrica esterna, riparazione delle
fratture e impianti ortopedici, sostituzione totale delle articolazioni, valutazione clinica e radiologica dell’allineamento degli arti, osteoartrite, gestione del dolore perioperatorio
e di quello cronico e ruolo dell’osteotomia nel trattamento
dell’artropatia.
LAURA MARCONATO
Med Vet, Dipl ECVIM Oncology,
Hünenberg (ZUG), CH
Laureata a Milano in Medicina Veterinaria
(1999). Nel 2000-2003 frequenta il Veterinary Oncology
Service and Research Center (Philadelphia), centro di referenza per l’oncologia, occupandosi di oncologia. Nel 20012003 è fellow visitor a UPenn (Dip di Patologia Vet). Nel
2003-2009 lavora a Napoli, occupandosi solo di oncologia di
cane e gatto. Nel 2003-2004 è professore a contratto presso
la scuola di specializzazione di fisiopatologia della riproduzione, Uni NA Federico II. Nel 2007-2009 è docente al Master di Oncologia (Facoltà di Med Vet, Uni PI). Nel 20072009 è professore a contratto presso la facoltà di Med Vet,
Uni BO. Nel 2008 consegue il diploma del College Europeo
di Medicina Interna-Oncologia (DECVIM-CA [Oncology]).
È autrice del testo di oncologia clinica del cane e del gatto
per Poletto editore e di articoli su riviste nazionali ed internazionali. È vice-presidente SIONCOV.
LAURA HELEN KRAMER
DVM, Phd, Dipl EVPC, Parma
La Dott.ssa Laura Kramer nasce a New York dove consegue “Bachelor of Science”.
Nell’84 si iscrive alla Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma dove consegue la laurea. Dal ’90 al
’93 esercitata la libera professione presso il Centro Diagnostico Veterinario di Reggio Emilia. Viene ammessa a
frequentare il dottorato di ricerca in “Discipline Anatomoistopatologiche Veterinarie presso l’Università degli Studi
di Bologna espletando la sua attività di ricerca scientifica
presso l’Istituto di Anatomia Patologica Veterinaria della
Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma.
Durante il periodo di dottorato ha trascorso un lungo stage
di studio e di ricerca in Inghilterra presso il Laboratorio di
Istopatologia della Dott.ssa Joan Rest, Professore presso
l’Università di Cambridge, allo scopo di approfondire lo
studio della dermopatologia, soprattutto infettiva ed infestiva, negli animali domestici. Nel 97 diventa “Dottore di
Ricerca”. Quale vincitore di concorso pubblico per posti di
Ricercatore per il S.S.D. V36B - Parassitologia e Malattie
Parassitarie degli Animali, il 16 Dicembre 1998 la dott.ssa
Laura Helen Kramer è stata nominata a ricoprire un posto
di ricercatrice messo a concorso presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma. Con Decreto
Rettorale n. 952 del 29/03/2001 è stata successivamente
reinquadrata nel Settore Scientifico Disciplinare VET/06
Parassitologia e malattie parassitarie degli animali e nel
2002 la Commissione Giudicatrice ha espresso parere favorevole per la conferma in Ruolo dei Ricercatori Universitari per il S.S.D. VET/06.
Nel 2003 si è diplomata all’European Veterinary Parasitology College.
ROSANNA MARSELLA
DVM, Dipl ACVD, Florida, USA
La Dr.ssa Rosanna Marsella è Diplomate of the
American College of Veterinary Dermatology e
laureata all’Università di Milano, Italia (1991). Negli ultimi
10 anni è stata Service Chief of the Dermatology Service at
the University of Florida ed attualmente è Associate Professor. La sua area di ricerca è rappresentata dalla patogenesi
della dermatite atopica del cane e dall’identificazione di
nuovi trattamenti. La Dr.ssa Marsella è membro dell’International Task Force on canine atopic dermatitis e co-editor
di Veterinary Dermatology. È autrice di oltre 60 articoli su riviste referee, la maggior parte dei quali focalizzati sulle malattie allergiche della cute e sulla dermatite atopica. La
Dr.ssa Marsella vive in una fattoria dove, nel tempo libero,
si dedica alla sua passione per l’equitazione.
ANDREA MARTINOLI
Med Vet, Milano
Dal 1983 al 1990 trascorre un periodo di internato presso l’Istituto di Clinica Chirurgica Veterinaria della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano. Durante tale periodo partecipa a numerosi progetti di ricerca, alla stesura di numerosi articoli e tesi di laurea tra le quali in particolare “Osservazioni generali
sull’applicazione della Fisioterapia nella riabilitazione al
movimento del cane e nel gatto”. Si Laurea nel 1990 presso
il medesimo Istituto. Dal 1991 è Direttore Sanitario di una
struttura Veterinaria nell’ambito della quale si occupa prevalentemente del settore chirurgico ed ortopedico. Dal 1992 al
1995 riveste il ruolo di Direttore Sanitario dell’Ambulatorio
Veterinario del “Centro di Recupero Fauna Selvatica” del
Parco Lombardo della Valle del Ticino. Dal 1993 si occupa
attivamente della gestione di animali d’affezione affetti da
disabilità motorie. Dal 1995 si occupa della gestione sanitaria del Centro Cinofilo, Addestramento, Pensione ed Allevamento, nell’ambito del quale nel 1998 viene attivato un centro che si occupa esclusivamente di fisioterapia e riabilitazione dei piccoli animali. Nel 1997 partecipa in qualità di relatore al Congresso S.I.N.Vet con una relazione riguardante
GIAN LUIGI MANARA
Med Vet, Torino
Laureato a Bologna discutendo una tesi in patologia chirurgica dal titolo “ Urolitiasi nel cane”.
Soggiorno all’estero presso numerosi Centri specialistici,
quali Animal Medical Center di New York, Facoltà di Medicina Veterinaria Università di Berna. Svolge libera professione a Trento occupandosi principalmente di ortopedia. Autore di numerosi articoli inerenti l’ortopedia dei piccoli animali, membro del Board Nazionale sullo studio dell’obesità
nel cane e le sue conseguenze. Ricopre attualmente la carica
di pastpresident della SITOV.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
l’uso dei carrelli ortopedici. Nell’anno 2004 - 2005 frequenta la prima edizione della Scuola Italiana di Fisioterapia Veterinaria per Piccoli Animali presso il Centro Allevamento e
Addestramento della Guardia di Finanza di Castiglione del
Lago (PG). Nel 2007 ha partecipato in qualità di relatore al
Congresso annuale Scivac e ad incontri del Gruppo di Studio di Fisioterapia Veterinaria presentando alcune relazioni
riguardanti la fisioterapia e l’uso dei carrelli ortopedici nei
piccoli animali.
Collabora tuttora con numerose strutture veterinarie offrendo la propria consulenza in campo chirurgico, ortopedico e
fisioterapico.
Diplomato presso l’European College of Veterinary and
comparative nutrition, è autore di oltre 180 pubblicazioni
scientifiche che riguardano prevalentemente l’alimentazione
animale, in particolare quella dei carnivori domestici e di 13
libri di tipo scientifico e scientifico-divulgativo.
CHIARA NOLI
Med vet, Dipl ECVD, Milano
Laureata all’Università di Milano nel 1990, è specialista in Malattie dei Piccoli Animali dal 1995.
Ha frequentato un periodo di specializzazione di tre anni in
dermatologia veterinaria presso l’Università di Utrecht, Paesi Bassi, e nel 1996 ha conseguito il Diploma del College
Europeo di Dermatologia Veterinaria (Dip ECVD). Dal 1996
lavora in Italia eseguendo esclusivamente consulenze dermatologiche e letture dermatopatologiche. È stata Presidente della Società Italiana di Dermatologia Veterinaria (SIDEV), membro del Consiglio Direttivo della Società Internazionale di Dermatopatologia Veterinaria (ISVD) e Presidente della ESVD (Società Europea di Dermatologia Veterinaria). La Dr.ssa Noli è relatrice in congressi italiani ed internazionali, autrice di numerosi (quasi 100) articoli su riviste italiane e straniere e di otto capitoli di libri. Con la Dr.ssa
Fabia Scarampella è co-autrice del volume “Dermatologia
del Cane e del Gatto”, Poletto Editore, 2002, tradotto anche
in tedesco.
CARLO MASSERDOTTI
Med Vet, Dipl ECVCP, Brescia
Si è laureato col massimo dei voti presso l’Università di Milano nel 1990.
Dal 1993 si occupa di patologia clinica con particolare riferimento alla citopatologia diagnostica, curando l’aggiornamento permanente in Italia ed all’estero. È autore di pubblicazioni inerenti la citopatologia e l’ematologia ed è relatore
a meeting nazionali ed internazionali.
Dal 1998 è istruttore e relatore al corso di Citologia organizzato dalla SCIVAC.
Dal 2001 al 2004 ha ricoperto la carica di presidente della
SICIV (Società Italiana di Citologia Veterinaria).
Nel 2005 ha conseguito il diploma presso l’European College of Veterinary Clinical Pathology.
Dal 2003 al 2006 ha ricoperto la carica di vice-presidente dell’ESVCP (European Society of Veterinary Clinical
Pathology).
Nel 2008 ha conseguito il diploma di specializzazione in Biochimica Clinica, presso l’Università degli Studi di Brescia.
MARIA SERAFINA NUOVO
Med Vet, Torino
Si laurea in Medicina Veterinaria a Torino nel
1985 con una tesi sperimentale sull’impiego dell’Omeopatia nella clinica degli animali d’affezione (prima
tesi in Italia) e in questo stesso periodo frequenta e conclude il corso base del CISDO (Centro Italiano Studi e Documentazione Omeopatica -Boiron-)
Allieva del Dr. Franco Del Francia dal 1986 al 1989 (Corso
Aivo-Roma-), è stata poi membro del Consiglio Direttivo
dell’AIVO (Associazione Italiana di Veterinaria Omeopatica) dal 1989 al 1991 e docente presso la Scuola Superiore
Internazionale di Veterinaria di Cortona (Arezzo) negli anni
1990 e 1991.
Dal ’94 è a tutt’oggi docente nella Scuola Medica Omeopatica Hahnemanniana di Torino, affiliata alla FIAMO (Federazione Italiana delle Associazioni e dei Medici Omeopatici). Ha fatto parte del corpo docenti del primo corso di perfezionamento in Medicine Energetiche istituito nell’anno
2000/2001 presso l’ASSL di Tolmezzo (Udine) e patrocinato dall’Università di Medicina Veterinaria di Udine.
Membro, fin dalla sua costituzione, del Gruppo di studio di
medicina non convenzionale nato in seno alla SCIVAC, successivamente convertito in SIMVeNCo (Società di Medicina
Veterinaria Non Convenzionale).
Ha conseguito nel gennaio 2007 il diploma del Master di II
livello in clinica delle malattie comportamentali del cane e
del gatto istituito dalla Facoltà di Veterinaria di Torino.
DAVID MORGAN
BSc, MA, VetMB, CertVR, MRCVS, Ginevra, CH
La prima laurea, in Biochimica, conseguita da
David Morgan presso l’Università di Cardiff, è
stata seguita nel 1986 da quella rilasciata dalla Facoltà di
Medicina Veterinaria dell’Università di Cambridge. Dopo
brevi esperienze di lavoro con diversi ruoli, ha operato per
sette anni nel settore degli animali da compagnia, indirizzando i propri interessi principalmente sulla chirurgia e
sulla radiologia. Nel 1990 ha ottenuto il Certificato in Radiologia Veterinaria. Nel 1993 ha iniziato a lavorare in una
società privata, fornendo consulenze tecniche nel Regno
Unito, nei Paesi Scandinavi ed in Sud Africa. È frequentemente coinvolto in attività di informazione ed aggiornamento rivolta alla classe medico veterinaria, docenti universitari e studenti. Ha tenuto conferenze in tutta l’Europa
ed in Sud Africa, in occasione di congressi sia nazionali
che internazionali.
PIER PAOLO MUSSA
Med Vet, Dipl ECVCN, Torino
Nasce a Camerano Casasco (AT) nel 1946 e si
laurea in Medicina Veterinaria nel 1970.
Dal 1994 è Professore ordinario di “Nutrizione ed Alimentazione Animale” ed è Vice-preside della Facoltà di Medicina
Veterinaria di Torino.
NATASHA OLBY
Vet MB, PhD, Dipl ACVIM, North Carolina, USA
La Dr.ssa Natasha Olby si è laureata in medicina
veterinaria presso la Cambridge University nel
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
1991 e, dopo un breve periodo trascorso esercitando la libera professione su grandi e piccoli animali, è tornata a Cambridge per portare a termine un PhD sulle lesioni del midollo spinale e completare la sua formazione chirurgica. Dopo
aver conseguito il PhD e completato la ricerca post-dottorato, si è trasferita alla North Carolina State University per effettuare un periodo di residenza in neurologia/neurochirurgia e vi è rimasta come membro del corpo docente. Attualmente è associate professor di neurologia/neurochirurgia e
Presidente dell’American College of Veterinary Internal
Medicine, Neurology specialty. I settori di ricerca che la interessano sono le lesioni del midollo spinale e le malattie
neurodegenerative.
Membro del SACcVet dell AO International dal 2007.
Membro del CD SCIVAC dal 2008.
Membro dell’ESVOT Board dal 2008.
Coordinatore del percorso di Ortopedia in collaborazione
con Scivac.
Direttore del corso Scivac “Vie d’accesso allo scheletro appendicolare e tecniche di riduzione”.
Direttore del Corso Italiano AO-VET di base.
GRAZIANO LORENZO PENGO
Med Vet, Cremona
Si laurea nel 1989 in Medicina Veterinaria presso
l’Università degli studi di Milano.
Consulente presso diversi Studi Veterinari e Cliniche Veterinarie come Endoscopista Gastroenterologo.
Titolare di ambulatorio veterinario per piccoli animali (Clinica e chirurgia dei piccoli animali).
Investigatore di molteplici trial clinici sia orientati alla
conferma delle dosi sia alla valutazione sugli animali con
proprietari.
I campi di lavoro dei trial sono stati:
- Parassitologia: (zecche, pulci, vermi intestinali, filaria, acari della rogna) sia nel cane che nel gatto
- Medicina interna: antinfiammatori, otalgici, antimicotici,
antiacidi
- Attività di ricerca
- Ricerca sulla presenza e tipizzazione di Helicobacter a livello gastrico nel cane e nel gatto in accordo con l’Universita di Medicina Veterinaria di Pisa. Sviluppo della tecnica
per dilatazioni esofagee nel cane e nel gatto con l’impiego
dei palloni.
Autore di diverse pubblicazioni e relatore a numerosi congressi Nazionali ed Internazionali.
FRANCESCO ORIGGI
DVM, PhD, dipl ACVM, Florida, USA
Si laurea in Medicina Veterinaria a Milano nel
1994. Dopo aver cominciato la libera professione,
nella primavera del 1996 viene invitato a passare 3 mesi come visiting veterinarian presso il Wildlife and Zoological medicine service della University of Florida. Nel 1998, dopo
aver vinto la borsa di studio Fullbright, viene ammesso alla
graduate school della University of Florida, dove completa
(2001) un PhD in malattie infettive e patologia sperimentale
sotto la guida del professor Elliott Jacobson (Titolo: Development of serological and molecular diagnostic tests for the
detection of tortoise herpesvirus exposure in Mediterranean
tortoises). A fine 2001 rientra in Italia per cominciare un
post-doctoral training presso la Human virology unit dell’Ospedale S. Raffaele di Milano dove lavora sotto la guida del
professor Paolo Lusso allo sviluppo di vettori virali da utilizzare come potenziali vaccini per HIV. Durante il post doc,
completa la scuola di specialità in scienza e medicina degli
animali da laboratorio presso la facoltà di Medicina veterinaria di Milano. Nel 2006 viene ammesso al programma di residency in Anatomic Pathology presso la facoltà di medicina
veterinaria della University of Florida che completa nel luglio 2008. Da fine luglio 2008 è Clinical instructor presso
l’Università della Florida e patologo per il Disney’s Animal
Kingdom, ad Orlando, Florida. Dal 2007 e diplomato presso
l’American College of Veterinary Microbiologists. Francesco
Origgi è stato invited speaker ad innumerevoli conferenze nazionali ed internazionali; è autore di molteplici articoli pubblicati su riviste nazionali ed internazionali, capitoli di libri,
ed è reviewer per il Journal of zoo and wildlife medicine,
Journal or reptile medicine and surgery e per il Journal of the
American Veterinary Medical Association.
MASSIMO PETAZZONI
Med Vet, Milano
Massimo Petazzoni si è laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli
Studi di Milano nel 1997. Dal 1998 al 2004 è stato responsabile del Reparto di Ortopedia e Traumatologia della Clinica Veterinaria Nord Milano e della Clinica Veterinaria Papiniano di Milano. Da ottobre 2004 a marzo 2006 è stato responsabile del reparto di Ortopedia e Traumatologia della
Clinica Veterinaria Città di Monza. Da marzo 2006 è responsabile del reparto di Ortopedia e Traumatologia della
Clinica Veterinaria Milano Sud di cui è Direttore Sanitario.
È membro di AO-Vet International, SCIVAC, ESVOT,
IEWG, VIN e AVORE. È relatore ai seguenti corsi SCIVAC
di Ortopedia: “Vie d’accesso”, “Estremità distali” e “Fissazione esterna”. Dal 1998 è consulente Hill’s per le patologie scheletriche del periodo dell’accrescimento e per il controllo del peso nel cane. Ha presentato 125 relazioni a corsi, congressi e seminari nazionali e internazionali su argomenti di Ortopedia e Traumatologia. È autore di 8 pubblicazioni scientifiche nazionali e di una pubblicazione internazionale. Coautore del Testo Atlante BOA (Breed-Oriented Orthopaedic Approach) ed autore dell’Atlante di Goniometria Clinica e Radiografica dell’arto pelvico del cane.
Nell’anno 2000 ha ricevuto l’abilitazione per l’esecuzione
della TPLO dalla Slocum Enterprises per il trattamento del-
BRUNO PEIRONE
Med Vet, PhD, Torino
Professore Associato presso il Dipartimento di
Patologia Animale dell’Università di Torino ed è
titolare dei corsi di “Patologia Chirurgica”, “Metodologie
Chirurgiche” e “Clinica Ortopedica e Traumatologica”.
Campi di ricerca sono: tecniche di chirurgia ricostruttiva ossea mini-invasiva, chirurgia protesica dell’anca, chirurgia
del ginocchio e delle deformità.
Past President della SIOVET (Società Italiana Ortopedia Veterinaria). Chair dell’Educational Committee della AO VET
International dal 2006.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
la rottura del legamento crociato craniale nel cane e nel
2004 l’abilitazione dalla Biomedtrix per l’applicazione della protesi non cementata BFX. Nel gennaio del 2005 ha presentato i suoi lavori sull’allineamento dell’arto pelvico nel
cane all’AVORE (Association of Veterinary Orthopaedic
and Research) e nel settembre 2006 al Congresso Europeo
di Ortopedia e Traumatologia ESVOT. Da Novembre 2007
è segretario della Società Italiana di Ortopedia Veterinaria
(SIOVET). Fra il 2005 ed il 2008 ha sviluppato la linea veterinaria del fissatore interno a stabilità angolare FIXIN. I
suoi interessi particolari sono le patologie scheletriche del
periodo dell’accrescimento del cane, gli allineamenti dell’arto anteriore e posteriore, la chirurgia del ginocchio, la
fissazione esterna, la fissazione interna a stabilità angolare,
la tecnica di Ilizarov, la protesi d’anca e l’artroscopia.
È stato prima istruttore poi relatore al Corso di Cardiologia
SCIVAC dall’anno 1996 al 2005 è attualmente segretario
della Società italiana di Cardiologia (SICARV).
Autore e coautore di pubblicazioni scientifiche e ha partecipato come relatore a seminari nazionali e congressi riguardanti la Leishmaniosi canina, e sull’Ipertensione sistemica,
suoi principali campi di interesse.
Esercita la libera professione presso il Centro Veterinario
Imperiose dove in qualità di Direttore Sanitario si occupa di
Cardiologia e Medicina Interna.
FRANCESCO PORCIELLO
Med Vet, Perugia
Il Prof. Francesco Porciello si è laureato in Medicina Veterinaria nel 1989 presso l’Università degli
Studi di Perugia. Dal 1993 presta servizio presso il dipartimento di Patologia, Diagnostica e Clinica Veterinaria della
Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Perugia
dove insegna Semeiotica Medica Veterinaria, Terapia Medica Veterinaria e Cardiologia Clinica.
Fin dall’inizio della sua carriera si è dedicato al settore della diagnostica ecografia e della cardiologia sia dei piccoli
animali che del cavallo sportivo, approfondendone diversi
aspetti connessi alla ricerca scientifica ed alla clinica pratica
ed intessendo rapporti di collaborazione con la sezione di
cardiologia della Cornell University-Ithaca, NY. È Relatore
in corsi, convegni e seminari scientifici organizzati in ambito locale e nazionale. È Past President della Associazione
Veterinari Italiani Patologia Felina (AIVPaFe) per il triennio
2009-2011. È socio fondatore della Società Italiana di Cardiologi ed Ecografisti Clinici Veterinari (CARDIEC). Fa
parte del board dei Revisori della rivista Ippologia e dell’Editorial Board del Journal of Veterinary Cardiology. È Autore di un manuale di Elettrocardiografia, uno di Ecocardiografia (in corso di traduzione in lingua Inglese per un portale di informazione scientifica veterinaria statunitense) e di
oltre 90 pubblicazioni su riviste Nazionali ed Internazionali
e in Atti di Convegni a cui ha partecipato.
STEFANO PIZZIRANI
Med Vet, Dipl ECVS, Dipl ACVO,
Massachusetts (USA)
Si laurea presso l’Università di Pisa nel 1979 e nel
1984 è tra i Soci Fondatori della SCIVAC e tre anni più tardi della SOVI. È stato presidente SCIVAC dall’87 all’89,
Presidente SINVET dal ’95 al ’98 e membro del Consiglio
Direttivo SOVI dal ’91 al 2001. Nel 1993 si diploma all’European College of Veterinary Surgeons con ricertificazione
nel 2005 e nel 1999 è Research Scholar presso la North Carolina State University.
Tra il 1996 e il 1999 è Dottore di Ricerca in Oftalmologia
Veterinaria presso l’Università degli Studi di Messina. Nel
2004 si diploma all’American College of Veterinary Ophthalmologists. Esercita come libero professionista presso la
Clinica Veterinaria Europa a Firenze sino al 2001 poi si trasferisce negli Sati Uniti dove lavora come Clinical Assistant Professor presso la North Carolina State University.
Dal 2004 ad oggi è Assistant Professor (Ophthalmology)
presso la Cummings School of Veterinary Medicine
TUFTS University.
Autore e co-autore di 70 pubblicazioni scientifiche fra abstracts, articoli su giornali scientifici e capitoli di libri. Relatore a congressi scientifici nazionali ed internazionali. Assomma 14 presentazioni (7 come primo autore) e 4 (1) posters all’ACVO.
LIVIANA PROLA
Med Vet, Torino
Laureata in Medicina Veterinaria nel luglio del
2001 presso l’Università di Torino.
Da settembre 2001 ha iniziato un Dottorato di Ricerca
presso il Dipartimento di Produzioni Animali dell’Università di Torino - settore Nutrizione - lavorando in modo specifico sull’alimentazione dei piccoli animali e degli animali selvatici.
Dal marzo 2002 svolge attività come Assegnista di Ricerca
presso lo stesso Dipartimento occupandosi della consulenza
nutrizionistica. Dal giugno 2002 esercita la libera professione in strutture private nell’ambito della clinica dei piccoli
animali.
Da maggio 2003 a novembre 2003 ha svolto attività di ricerca presso l’Istituto di Nutrizione della Ludwig Maximilians
Universität - München (Germania) occupandosi di alimentazione del gatto.
È coautrice di lavori su riviste nazionali ed internazionali.
Dal 2003 è membro dell’ESVCN (European Society of Veterinary and Comparative Nutrition.
MARCO POGGI
Med Vet, Imperia
Laureato in Medicina Veterinaria nel 1989 presso
l’Università di Torino (110/110). Dopo la laurea
ha frequentato i laboratori dell’I.Z.S. del Piemonte Liguria e
Valle d’Aosta prima in qualità di volontario poi borsista e incarico come Veterinario Collaboratore, approfondendo conoscenze pratiche di laboratorio, in particolare batteriologia
e diagnostica sulla Leishmaniosi, e collaborando alla realizzazione di indagini siero epidemiologiche sulla diffusione di
questa malattia nella provincia di Imperia, continuando questa collaborazione è stato coautore di pubblicazioni nazionali e internazionali. Ha conseguito la Specializzazione in Sanità Animale presso la Facoltà di Torino nel Giugno 1994
(70/70) con lode, discutendo una tesi dal titolo “La Leishmaniosi canina in Liguria, contributo epidemiologico della
città di Imperia”.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
la cardiologia. È stato professore a contratto in cardiologia
per l’anno 1997-1998 presso la Scuola di Specializzazione
in Patologia e Clinica degli animali d’affezione dell’Università degli Studi di Milano e per l’anno 2003-2004 e 20052007 presso l’Università degli Studi di Torino per il Master
di II livello in Malattie cardiovascolari. Negli anni 20042006 ha seguito il Master in elettrofisiologia ed elettrostimolazione presso la facoltà di medicina dell’Università dell’Insubria. Al momento sta svolgendo il dottorato di ricerca
sulla diagnosi e la terapia delle tachicardie sopraventricolari
nel cane presso la facoltà di medicina veterinaria di Torino.
È stato presidente della Società Italiana di Cardiologia Veterinaria per il periodo 2001-2004. È autore di numerose pubblicazioni di cardiologia su riviste nazionali ed internazionali. Il suo principale settore di ricerca sono la diagnosi e la terapia delle aritmie nel cane.
GIORGIO ROMANELLI
Med Vet, Dipl ECVS, Milano
Laureato in Medicina Veterinaria nel 1981 presso
l’Istituto di Clinica Chirurgica della Facoltà di
Medicina Veterinaria dell’Università di Milano, relatore il
Prof. Renato Cheli. Subito dopo la laurea partecipa ad un
programma di chirurgia sperimentale sul trapianto di cuore e
di pancreas. Libero professionista lavora in provincia di Milano occupandosi totalmente di casi di riferimento di oncologia e chirurgia dei tessuti molli.
Charter Member e, dal luglio 1993, diplomato all’European
College of Veterinary Surgeons. Presidente SCIVAC nel periodo 1993-1995. Presidente SCVI nel periodo 1998-2004.
Segretario SIONCOV. Ha presentato relazioni ad oltre 85
congressi e meeting nazionali ed internazionali. Editor e coautore del testo “Oncologia del cane e del gatto” edito da Elsevier-Masson. Ha soggiornato per periodi di studio presso
le università di Cambridge (UK), North Carolina (USA) e
Purdue-Indiana (USA). I suoi hobbies sono la pesca a mosca
e la coltivazione di alberi bonsai.
PAOLA SCARPA
Med Vet, PhD, SCMPA, Milano
Si è laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Milano (110/110), dove ha
conseguito il Dottorato di Ricerca. Nel 1995 si diploma presso la Scuola di Spezializzazione in malattie dei Piccoli Animali. Dal 1998 al 2000 è Professore a contratto presso la Facoltà di Padova. Nel 2001 diventa Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie di Milano. Attualmente è Professore Associato presso lo stesso Dipartimento ed è incaricata dell’insegnamento di Diagnostica di
Laboratorio. La sua attività è testimoniata da numerose pubblicazioni nazionali ed internazionali nel campo della medicina interna e della diagnostica di laboratorio. È socia ESVNU, SINUV, SCIVAC, SISVet. Attualmente riveste la carica
di Presidente della SINUV.
FEDERICA ROSSI
Med Vet, Dipl ECVDI, Sasso Marconi (BO)
La dott.ssa Federica Rossi si è laureata nel novembre 1993.
Ha ricevuto dall’Istituto Rotary International il “Premio Rotary Corsi di Laurea” per il miglior Curriculum di Laurea in
Medicina Veterinaria nell’Anno Accademico 1992/1993.
Dal 1993 lavora come Libero Professionista, svolgendo attività di referenza in Diagnostica per Immagini nella propria
struttura a Sasso Marconi (BO) ed in altre Cliniche in Emilia-Romagna.
Dal 1995 al 1997 ha frequentato la Scuola di Specializzazione in Radiologia Veterinaria presso l’Università degli
Studio di Torino.
Dal 1997 al 1999 ha trascorso diversi periodi di formazione
all’estero.
Ha curato la traduzione in lingua italiana del testo-atlante di
ecografia del cane e del gatto “Atlas und Lehrbuch der Ultraschalldiagnostik bei Hund und Katze”, C.P. Nautrup, R.
Tobias, Edizioni UTET, Torino 2000.
È autrice di numerose pubblicazioni nazionali ed internazionali.
Ha presentato posters e lavori scientifici a Congressi nazionali ed internazionali.
Collabora attivamente ed è relatrice agli incontri del Gruppo
di Studio in Diagnostica per Immagini SCIVAC.
Ha svolto il programma di training per il College Europeo di
Diagnostica per Immagini presso l’Università di Torino e
Berna (Svizzera).
Ha conseguito il Diploma ECVDI nel settembre 2003.
MARGIE SCHERK
DVM, Dipl ABVP (feline practice),
Vancouver, CND
La Dr.ssa Margie Scherk è un libero professionista
che ha fondato la Cats Only Veterinary Clinic, a Vancouver,
BC nel 1986. Si è laureata alla University of Guelph nel 1982
ottenendo un DVM dall’Ontario Veterinary College. Nel
1995 ha ottenuto la Board Certification nella specialità di Feline Practice dall’American Board of Veterinary Practitioners
(ABVP). Una delle cose di cui è più orgogliosa è di essere
stata un pioniere nell’impiego del Transdermal Fentanyl
Patch (cerotto transdermico al fentanyl) per alleviare il dolore negli animali da compagnia. Ha collaborato ed è coautrice
di diversi altri lavori; ha scritto un capitolo per l’edizione del
2005 dell’Ettinger and Feldman’s Textbook of Veterinary Internal Medicine e parecchi altri capitoli in altri testi.
Ha servito presso il Board of the American Association of
Feline Practitioners e nel 2007 è stata Presidente dell’organizzazione. Ha il privilegio di far parte del AAFP/AFM Feline Vaccine Recommendations Panel dal 1995. Ha anche
operato come volontaria nell’ABVP exam committee e nel
CE committee ed ha servito nel scientific advisory committee for the World Small Animal Veterinary Congress ed è stata editor dei WSAVA Proceedings del convegno di Vancouver nel 2001. Come partecipante al North American Veterinary Licensing Exam Committee (NAVLE), collabora con i
ROBERTO SANTILLI
Med Vet, DIpl ECVIM (Cardiology),
Samarate (VA)
Laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano nel 1990. Si è diplomato all’European College
of Veterinary Internal Medicine - Companion Animals (Specialty of Cardiology) nel 1999. Lavora presso la Clinica Veterinaria Malpensa in Samarate (Varese) come referente per
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
massimi docenti e professionisti per mettere a punto un buon
modo di valutare la competenza dei nuovi laureati. È fondatrice e coeditrice di Feline Internal Medicine folder on Veterinary Information Network (VIN), ed attraverso le numerose opportunità offerte dal medium online ha amato sempre
più i docenti, gli studenti ed i clinici dell’ambito veterinario,
sia online che nel mondo reale. È North American editor di
Journal of Feline Medicine and Surgery.
conseguito il Diploma in Ofatalmologia (CES) nel 1989
presso l’ENV de Toulouse (F) e il Diploma in Dermatologia
presso l’ENV de Nantes e Lyon (F). Lavora dal 1985, come
libero professionista, presso l’ambulatorio associato di Torino, dove si occupa prevalentemente di dermatologia, oftalmologia e istologia nel settore dei piccoli animali. È membro fondatore della SIDEV (Società Italiana di Dermatologia) di cui è, nell’attuale Consiglio, Vice-Presidente. È Presidente della SOVI (Società Italiana di Oftalmologia). È full
member dell’ESVD (European Society of Veterinary Dermatology) dove svolge il ruolo di Segretaria nell’attuale
Board. È autore di varie pubblicazioni ed ha partecipato come relatore ad alcuni Corsi e Congressi di Dermatologia ed
Oculistica.
LAIA SOLANO-GALLEGO
DVM, PhD, Dipl ECVCP, Londra (UK)
Laureata in medicina veterinaria nel 1996 all’Università Autonoma di Barcellona, dal 1997 al
2001, ha conseguito un PhD (dottorato di ricerca) presso la
stessa università sulla diagnosi e immunologia della leishmaniosi canina. Dal 2002 al 2003, ha lavorato nella facoltà
di Veterinaria della North Carolina State University (USA)
svolgendo ricerca clinica in malattie trasmesse da vettori nel
cane e nel gatto. Dal 2003 al 2004, ha seguito il programma
di small animal internship presso il Veterinary Teaching Hospital della Purdue University (USA). Dal 2004 al 2007, ha
lavorato nella Clinica e laboratorio privato San Marco dove
ha sviluppato clinica, diagnosi e ricerca clinica in patologia
clinica e medicina interna con prevalente interesse nelle malattie infettive trasmesse da vettori del cane e del gatto. È diplomata in patologia clinica veterinaria dal 2006. Attualmente lavora come Lecturer in Patologia Clinica Veterinaria
nel Royal Veterinary College della University of London. È
autrice di articoli scientifici pubblicati su riviste internazionali sulla leishmaniosi, malattie trasmesse da artropodi e patologia clinica veterinaria ed è stata relatrice a congressi nazionali e internazionali sugli stessi argomenti.
ALDO VEZZONI
Med Vet, SCMPA, Dipl ECVS,Cremona
Laureato a Milano nel 1975, Specializzato in Clinica delle Malattie dei Piccoli Animali nella stessa università nel 1978, ha conseguito il Diploma di specializzazione del College europeo di chirurgia veterinaria
(ECVS) a Cambridge nel 1993. Segretario ESVOT (European Society of Veterinary Orthopaedics and Traumatology) dal 1995 e Presidente dal 2006. Presidente della Fondazione Salute Animale dal 1996 e Chairman della relativa
Commissione di lettura per la displasia dell’anca e del gomito, accreditata dall’ENCI nel 2002. Vice-Presidente della
SIOVET (Società Italiana di Ortopediaa Veterinaria). Membro della Commissione Tecnica Centrale dell’ENCI dal
2000. Dal 1976 opera come libero professionista a Cremona, svolgendo dal 1998 attività di riferimento dei Colleghi
nell’ambito della diagnostica e della chirurgia ortopedica
dei piccoli animali.
Socialmente impegnato per la categoria è stato Socio Fondatore e Presidente della SCIVAC, Socio Fondatore e Consigliere dell’ANMVI; dal 1996 al 2006 ha rivestito le cariche
di segretario FNOVI e di Presidente dell’Ordine dei Veterinari di Cremona.
ERIC VANDEN EYNDE
Dr Med Vet, Belgio
Nasce nel 1952, in Africa (Congo).
Studi: Scienze e Latino.
Veterinaria: RUG = Gent University, diploma: 1976.
12 mesi di lavoro con veterinari tedeschi (in Mönchengladbach - Erkelenz- Wanlo) presso una grossa struttura per
grandi e piccoli animali.
Studio dell’Omeopatia dal 1980: VSU (Vlaamse Studievereniging voor Unicistische Homœopathy) ed EBH: Ecole Belge d’Homœopathie e: Centre Hahnemann (France) - dal
1981: segue Alfonso Masi Elisalde - molti seminari con Vithoulkas- Sankaran - Scholten - Farouk Master - Luc De
Schepper - Member IIHAI - AFADH - ecc…
Anche in Italia, alcuni seminari presso differenti scuole.
Docente: VSU - EBH - IIHAI - AFADH - SRBH.
Conoscenze: in educazione degli animali, biopsicologia, psicobiologia, comportamento alimentare naturale dei piccoli e
grandi animali domestici, ecc…
Amministratore: Ecole Belge d’Homœopathie con il Dr Daniel Saelens. Capo-Redattore di Revue Belge d’Homœopathie
e autore di molti articoli in numerose riviste di omeopatia.
MARCO VIOTTI
Med Vet, Torino
Laureato a Torino nel 1994 a pieni voti con una
tesi sperimentale presso il dipartimento di morfofisiologia veterinaria sull’embriogenesi del tubo cardiaco,
approfondisce lo studio della dermatologia e dell’oculistica
nell’anno successivo presso il dipartimento di clinica medica come laureato frequentatore.
Esercita la professione sui piccoli animali da 13 anni nella
propria struttura, a Torino, insieme ad una socia e altri 4 collaboratori occupandosi esclusivamente di medicina interna e
practice management.
Frequenta dal 1994 i principali congressi nazionali inerenti la medicina interna, i corsi di chemioerapia ed ecografia presso palazzo Trecchi a Cremona, nonché i principali seminari di practice management con relatori stranieri in Italia.
Dal 2003 è fondatore e coordinatore del gruppo di studio scivac di Practice management insieme ad altri 2 colleghi, frequenta nel 2005 il corso avanzato di practice management
organizzato da Hill’s con relatori stranieri.
ANTONELLA VERCELLI
Med vet, CES Derm, Torino
Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di Torino nel 1985 con 110/110 e lode, ha
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Autore di 3 relazioni originali a tema all’interno del gruppo
stesso e di 2 articoli inerenti il practice management pubblicati sulla rivista “Zootecnia”, è chiamato come relatore per
il practice management ai congressi nazionali scivac 2004,
2005 e 2006 con lavori originali su argomenti architettonici
ed economici; relatore all’interno di un seminario di practice management per l’Università di Pisa nel novembre 2006,
organizzatore e relatore insieme ad altro collega di un corso
di practice management per l’Ordine dei Veterinari di Genova e relatore in dicembre 2006 presso l’Ordine dei Veterinari di Venezia sempre per il practice management.
nali, attualmente occupa posizioni amministrative come Associate Hospital Director for Imaging Services e Director of
the Center for Imaging Sciences, una struttura di ricerca sulla diagnostica per immagini multimodale del campus della
UC Davis.
MAXEY WELLMAN
DVM, MS, PhD, Dipl ACVP, Ohio USA
La Dr.ssa Wellman si è laureata in medicina veterinaria (DVM) presso la Ohio State University
nel 1978. Nel 1979 ha portato a termine un periodo di internato in Small Animal Medicine and Surgery alla Cornell
University di Ithaca, New York e nel 1981 ha ottenuto il titolo di MS dalla University of Illinois. Dal 1981 al 1987 è
stata residente in patologia clinica e studente laureato presso il Department of Veterinary Pathobiology. Nel 1987, la
Dr.ssa Wellman ha conseguito il PhD degree presso la Ohio
State University, ha ottenuto lo status di Diplomate dall’ACVP ed è diventata Assistant Professor al Department of
Pathobiology della Ohio State University. Attualmente, è
Associate Professor presso il Department of Veterinary Biosciences della Ohio State University, dove svolge il ruolo di
Director of the Clinical Laboratories e di coordinatore della formazione per il programma di residenza in patologia
clinica. Nel 2005 ha ricevuto il Carl Norden-Pfizer Distinguished Teacher Award. È past president dell’American Society for Veterinary Clinical Pathology, ha operato presso
l’ACVP board certification committee ed attualmente è
Consigliere dell’ACVP.
ANDREA ZATELLI
Med Vet, Reggio Emilia
Laureato con lode presso la Facoltà di Medicina
Veterinaria di Parma nel 1990. Dal 1991 al 1998
trascorre periodi di aggiornamento in Europa e negli Stati
Uniti finalizzandoli all’esclusivo approfondimento di argomenti di medicina interna e diagnostica per immagini del cane e del gatto.
Professore a contratto presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Torino dall’A.A. 20002001 all’A.A. 2003-2004.
È socio SCIVAC dal 1991, relatore SCIVAC dal 1998 e consulente scientifico della stessa società dal 2001. Relatore a
congressi nazionali ed internazionali, ha tenuto numerosi seminari scientifici e corsi di perfezionamento su argomenti riguardanti la nefrologia, la ecografia addominale e la terapia
intensiva/medicina d’urgenza. È autore di numerose pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali inerenti la nefrologia, l’ecografia addominale e l’ecografia interventistica.
Nel 2005 ha ricevuto l’IRIS (International Renal Interest Society) AWARD “in recognition of outstanding fundamental
and clinical research performed by an individual in the field
of nephrology”.
I suoi principali settori di interesse sono lo studio qualitativo della proteinuria nel paziente nefropatico, i biomarkers di
nefropatia e le tecniche innovative nel settore dell’ecografia
interventistica e dell’ecocontrastografia. Attualmente svolge
la libera professione a Reggio Emilia dove dal 2002 è Direttore Sanitario di una referral practice.
ERK WISNER
DVM, Dipl ACVR, California, USA
Il Dr. Wisner si è laureato in medicina veterinaria
(DVM) presso la UC Davis nel 1983. Dopo aver
esercitato per 5 anni la professione su grandi e piccoli animali, è tornato alla UC Davis dove nel 1991 ha portato a termine un periodo di residenza in radiologia. Dal 1992 al 1997
ha operato come joint faculty appointment alla UC Davis
Schools of Veterinary Medicine and Medicine. Dal 1997 fino al 2000 è stato Head of Radiology all’Ohio State College
of Veterinary Medicine, dopodiché è tornato alla UC Davis.
Attualmente, il Dr. Wisner è professore di diagnostica per
immagini e Vice-Chair of the Department of Surgical and
Radiological Sciences alla UC Davis School of Veterinary
Medicine. I suoi settori di interesse clinici sono la tomografia computerizzata e la risonanza magnetica. È autore di oltre 100 articoli pubblicati su riviste referee e di oltre 25 capitoli di libri. Oltre ai compiti clinici, di ricerca ed istituzio-
STEFANO ZIGIOTTO
Med Vet, Milano
Nel Febbraio 1997 si laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università di Milano. Sino al ’99
pratica la libera Professione presso una struttura privata a
Cologno Monzese (MI).
Nel 1999 diventa Consulente per Hills Pet Nutrition in qualit di informatore.
Nel 2001 diventa Consulente per Hills Pet Nutrition in qualità di responsabile e coordinatore degli informatori nonché
gestione dei grossisti del canale vendita / pet corner. Dal
2004 ad oggi Consulente per Hills Pet Nutrition in qualità
Vet Business Advisor con incarichi di gestione delle attività
in Università, attività congressuali, training tecnico attività e
consulenze di Practice Management. Svolge incontri di
Practice Management presso cliniche private, Facoltà di Medicina Veterinaria e Ordine dei medici veterinari. Iscritto al
gruppo studio Scivac di Practice Management.
19
ESTRATTI
DELLE RELAZIONI
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Patogenesi dell’IBD nel cane
Karin Allenspach
Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK
Ogni giorno la mucosa intestinale viene sollecitata da
un’enorme gamma di antigeni, provenienti dagli alimenti o
dalla flora microbica del lume intestinale. Per evitare un’infiammazione indesiderata e dannosa o malattie autoimmuni,
il sistema immunitario gastroenterico deve mantenersi iporeattivo nei loro confronti. Tuttavia, deve anche essere in
grado di rispondere rapidamente alla presenza di batteri
patogeni nel lume dell’intestino e suscitare una risposta
immune per eradicare l’agente patogeno. In che modo l’epitelio intestinale si adatta a queste difficoltà?
L’epitelio intestinale rileva la presenza di batteri commensali e patogeni attraverso i Pattern Recognition Receptors
(PRR)1. Questo gruppo contiene recettori Toll-simili (TLR,
tool-like receptors) e recettori NOD-simili (NOD, Nucleotide
Binding Oligomerisation Domain-like receptor)2.
Questi recettori riconoscono molecole specifiche chiamate PAMP (Pathogen-Associated Molecular Pattern) che sono
molecole riscontrate in batteri o altri agenti infettivi e conservate. Il riconoscimento delle PAMP attraverso i TLR è
una parte cruciale della risposta immunitaria innata contro i
batteri invasori nell’intestino ed avvia un complesso percorso di segnalazione intracellulare che culmina nell’attivazione del fattore di trascrizione NF-κB3. Questo esita nella trascrizione e secrezione di una varietà di chemochine e citochine pro- ed antinfiammatorie dalla cellula che porta il
TLR. Se ha successo, le cellule immunitarie attivate da questa risposta eliminano gli agenti patogeni responsabili. Nonostante il fatto che i batteri commensali ed i patogeni condividano gli stessi PAMP, in condizioni normali il sistema
immunitario resta non reattivo nei confronti dei microrganismi commensali presenti nel lume intestinale4.
La risposta infiammatoria che normalmente si riscontra
soltanto come reazione ai batteri patogeni che superano la
barriera intestinale è simile a quella riscontrata nella mucosa dei cani colpiti da IBD. Tuttavia, la risposta nell’IBD
compare in assenza di patogeni. Si ritiene che il sistema
immunitario innato reagisca ai commensali normali nel lume
intestinale come se fossero dei patogeni. Le differenze funzionali TLR-correlate senza dubbio giocano un ruolo nella
patogenesi dell’IBD nell’uomo5. È ancor più interessante il
fatto che nell’uomo siano state dimostrate ed associate ad
IBD delle variazioni genetiche nei TLR: un polimorfismo
Asp299Gly nel TLR4 umano è associato ad una compromissione della trasmissione dei segnali da parte dei LPS ed
un aumento della suscettibilità alle infezioni Gram-negative6. Ciò suggerisce che questo polimorfismo abbia un ruolo
nel provocare l’IBD: la funzione normale di questo recetto-
re viene alterata, portando ad uno stato di infiammazione
cronica che non è controllabile da parte dell’ospite7.
Analogamente al sistema umano, l’IBD nel cane può
anche essere associata a risposte immunitarie innate aberranti verso i batteri enterici commensali. Si ritiene che questa sia la ragione principale per la quale alcuni cani con IBD
rispondono al trattamento con antibiotici (cosiddetta malattia che risponde agli antibiotici o ARD)8,9. In aggiunta a questo, si è anche riscontrato che l’IBD nel cane sembra avere
una componente genetica.
Alcune razze di cani, come il cane Pastore tedesco (PT),
sono predisposte alla IBD. In uno studio clinico recentemente condotto presso il Royal Veterinary College, siamo
stati in grado di dimostrare che i cani di qualsiasi razza con
IBD attiva clinicamente grave esprimono livelli più elevati di
recettori TLR2 e TLR4 nel duodeno, a confronto con cani
sani.10 Nel PT in particolare, l’espressione dri TLR2 si dimostrò essere 60 volte più elevata in confronto ai campioni di
cani sani. Abbiamo anche recentemente scoperto un’alterazione della regolazione della comunità microbica caratterizzata da diversità ristrette accanto all’arricchimento delle specie all’interno della famiglia delle Enterobacteriaceae in
cani con IBD e, in particolare, nei PT con IBD. Inoltre,
abbiamo messo a punto un’analisi di mutazione del TLR2,
TLR4 e TLR5 in 10 PT con IBD. Uno dei tre polimorfismi
che abbiamo identificato nel gene TLR5 del PT è stato ulteriormente valutato in uno studio caso-controllo e si è riscontrato che era associato significativamente ad IBD in questa
razza.
Cosa dedurre da questo?
Siamo ancora lontani dal nostro obiettivo di cercare e trovare dei modi migliori per diagnosticare e trattare le enteropatie croniche nel cane. Il passo successivo coinvolgerà le
indagini sull’aspetto funzionale dei TLR in questa specie
animale. Per ottenere questo, studi attuali presso il RVC
stanno indagando sulla trasmissione dei segnali attraverso i
TLR del cane a livello cellulare. Queste indagini consentono
di fare luce sulle conseguenze funzionali del polimorfismo
del TLR2 osservato nei PT e potranno aiutare a chiarire la
possibile patogenesi di ARD e IBD.
La conoscenza acquisita in queste indagini molto probabilmente identificherà nuove potenziali strategie di trattamento per l’IBD canina.
Se vengono identificati batteri o prodotti batterici che stimolano l’appropriata risposta TLR o inibiscono un’attivazione aberrante dei NF-κB TLR-dipendenti, allora questa
21
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
4.
conoscenza può essere utilizzata in studi sul trattamento dei
cani con enteropatie croniche. Analogamente al sistema dell’uomo, è possibile che alcuni cocktail probiotici siano utilizzabili come trattamenti profilattici nei cani geneticamente
predisposti a sviluppare IBD, allergia alimentare o ARD.
L’identificazione di un prodotto batterico specifico che riduca l’infiammazione nell’intestino potrebbe servire come
integrazione della terapia o anche come adiuvante per potenziali vaccini contro l’IBD nel cane.
5.
6.
7.
Bibliografia
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K., Differential expression of Toll like receptor 2 and 4 in duodenal
biopsies from dogs with inflammatory bowel disease predicts severity
of disease Abstract, ECVIM Congress, Budapest, 2007, 2007.
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Pathogenesis of canine IBD What innate immunity can teach us
Karin Allenspach
Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK
Each day the intestinal mucosa is challenged with a huge
array of antigens, either from food or the microbial flora in
the intestinal lumen. The gastrointestinal immune system
must maintain hypo-responsiveness to these, in order to
avoid unwanted and damaging inflammation or autoimmune diseases. However, it must also be able to respond
rapidly to the presence of pathogenic bacteria in the gut
lumen and to mount an immune response to eradicate the
pathogen. How does the intestinal epithelium cope with
such challenges?
The gut epithelium detects the presence of both commensal and pathogenic bacteria via Pattern Recognition Receptors (PRRs)1. This group contains Toll-like receptors (TLRs)
and Nucleotide Binding Oligomerisation Domain-like
receptors (NODs)2.
These receptors recognize specific molecules termed
Pathogen-Associated Molecular Patterns (PAMPs), which
are conserved molecules found on bacteria and other infectious agents. Recognition of PAMPs by TLRs is a crucial
part of the innate immune response to invading bacteria in
the gut and initiates a complex intracellular signalling pathway culminating in the activation of the transcription factor
NF-κ B3. This results in the transcription and secretion of a
variety of pro- and anti-inflammatory cytokines and
chemokines from the cell bearing the TLR. If successful,
immune cells activated by this response clear offending
pathogens. Despite the fact that commensal and pathogenic
bacteria share PAMP, the immune system remains unresponsive towards commensal organisms present in the intestinal
lumen in the normal case scenario4.
The inflammatory response which is normally only seen
as a reaction towards pathogenic bacteria breaching the
intestinal barrier is similar to the response seen in the
mucosa of dogs affected with IBD. However, the response in
IBD occurs in the absence of pathogens. It is believed that
the innate immune system reacts to normal commensals in
the intestinal lumen as if they were pathogens. TLR-related
functional differences definitely play a role in the pathogenesis of IBD in human beings5. Of even bigger interest is that
genetic variations in TLRs have been demonstrated and
associated with IBD in humans: An Asp299Gly polymorphism in human TLR4 is associated with impaired LPS signalling and an increased susceptibility to gram-negative
infections6. This suggests a role for this polymorphism in
triggering IBD: The normal function of this receptor is
altered, leading to a chronic inflammatory state which is
uncontrollable by the host7.
Similarly to the human system, IBD in dogs may also be
associated with aberrant innate immune responses towards
commensal enteric bacteria. This is thought to be the major
reason why some dogs with IBD respond to treatment with
antibiotics (so called antibiotic responsive disease or
ARD)8,9. In addition to this, IBD in dogs also seems to have
a genetic component.
Certain breeds of dog are predisposed to IBD, such as German Shepherd Dogs (GSDs). In a recent clinical study at the
Royal Veterinary College, we were able to show that dogs of
any breed with clinically severe, active IBD express higher levels of TLR2 and TLR4 receptors in the duodenum compared
to healthy dogs10. In GSDs in particular, TLR2 expression was
found to be 60-fold higher compared to samples from healthy
dogs. We also recently discovered a dysregulated microbial
community characterised by restricted diversity alongside the
enrichment of species within the family Enterobacteriaceae in
dogs with IBD and particularly, in GSDs with IBD. Furthermore, we performed a mutational analysis of TLR2, TLR4 and
TLR5 in 10 GSDs with IBD. One of the three polymorphisms
that we identified in the TLR5 gene of GSDs was evaluated
further in a case-control study and was found to be significantly associated with IBD in this breed.
Where to go from here?
We are still a long way from our goal to try and find better
ways of diagnosing and treating chronic enteropathies in
dogs. The next step will involve investigations into the functional aspects of canine TLRs. In order to achieve this, current
studies at the RVC are investigating signalling through canine
TLRs on a cellular level. These investigations will allow
insights into the functional consequences of TLR2 polymorphisms observed in German Shepherd Dogs, and will help
elucidating the possible pathogenesis of ARD and IBD.
The knowledge gained in these investigations will very likely identify potential new treatment strategies for canine IBD.
If bacteria or bacterial products are identified which either
stimulate the appropriate TLR response or inhibit an aberrant
TLR-dependent NF-κ B activation, then this knowledge can be
used in prospective treatment studies in dogs with chronic
enteropathies. Similar to the human system, it is possible that
certain probiotic cocktails could be used as prophylactic treatments in dogs which are genetically predisposed to developing
IBD, food allergy or ARD. The identification of a specific bacterial product that reduces inflammation in the gut could serve
as a treatment supplement or even as an adjuvant for potential
vaccines against IBD in dogs.
23
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
References
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biopsies from dogs with inflammatory bowel disease predicts severity
of disease Abstract, ECVIM Congress, Budapest, 2007, 2007.
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IBD nel cane: nuove possibilità diagnostiche
Karin Allenspach
Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK
INTRODUZIONE
to/attività, appetito, vomito, consistenza delle feci, frequenza della defecazione e perdita di peso) sono stati valutati
assegnando loro un valore da 1 a 3 e sommati per ottenere un
punteggio composito che risulta pari a 0-3 per una malattia
non significativa, 4-5 per una IBD lieve, 6-9 per una IBD
moderata e 9 o più per una forma grave. Nello studio di Jergens et al.5, 58 cani con un valore mediano di CIBDAI pari
a 5,5 vennero rivalutati dopo 2-3 settimane di trattamento,
riscontrando che avevano un CIBDAI significativamente
ridotto alla mediana di 1,6. Questi esiti risultarono riproducibili in uno studio messo a punto dall’autore a Berna, Svizzera4. In 42 cani con una malattia che rispondeva alla dieta,
il CIBDAI mediano si ridusse significativamente da 6,3 prima ad una mediana di 1,2 dopo il trattamento. In 23 cani con
malattia che rispondeva agli steroidi, il CIBDAI mediano
risulto più elevato prima che iniziasse il trattamento (CIBDAI 9,2) e dopo il trattamento diminuì passando soltanto
nell’intervallo di una attività di malattia moderata (CIBDAI
5,5).
Abbiamo anche valutato il CIBDAI insieme a parametri
aggiuntivi come le misurazioni dell’albumina, la valutazione
del grado di edema periferico e ascite e la gravità del prurito per stabilirne il valore prognostico in relazione all’esito.
Su 70 cani, 13 (18%) vennero sottoposti ad eutanasia a causa di una malattia intrattabile. L’analisi univariata identificò
come fattori di rischio per un esito negativo l’elevato indice
di attività clinica, l’alto punteggio endoscopico nel duodeno,
l’ipocobalaminemia (< 200 ng/l) e l’ipoalbuminemia (< 20
g/l). Sulla base di questi fattori, fu definito un nuovo indice
clinico di punteggio (Indice di Attività dell’Enteropatia Cronica Canina, CCECAI) con il quale prognosticare un esito
negativo nei cani che soffrivano di enteropatie croniche con
sensibilità e specificità molto buone (0,95%). Furono definite quattro categorie di gravità per il CCECAI: malattia non
significativa: 0-3, malattia lieve: 4-5, malattia moderata: 6-8,
malattia grave: 9-11, malattia molto grave: 12. Se un cane ha
un punteggio al di sopra di 12 con questo indice di attività
clinica, il suo rischio di essere sottoposto ad eutanasia per
una malattia refrattaria alle cure aumenta di 64 volte4.
Fra le cause di enterite cronica del cane, sono comuni le
reazioni avverse al cibo, le infiammazioni intestinali (IBD,
idiopathic inflammatory bowel diseases) idiopatiche e la
diarrea che risponde agli antibiotici (ARD). Questi disordini
sono diagnosticati retrospettivamente in base alla loro risposta al trattamento.
Lo specialista, di fronte ad un caso inviatogli, di solito
effettua un’estesa indagine diagnostica per escludere le cause extra-gastroenteriche ed i disordini facilmente trattabili
come le malattie pancreatiche, le parassitosi croniche o le
infezioni batteriche e i tumori. Dopo aver effettuato delle
biopsie intestinali e raggiunto una diagnosi, l’approccio
usuale al trattamento è una terapia di prova con una elimination diet, un trattamento antibiotico per diverse settimane e
infine un trattamento immunosoppressore con corticosteroidi1-3. In un recente studio prognostico ad ampio spettro comprendente 65 cani con enteropatia cronica, abbiamo analizzato nuovi marker diagnostici, prognostici e terapeutici di
malattia. In 45 cani è stato attuato un ttrattamento con la sola
elimination diet per 14 settimane, al termine delle quali i
segni clinici scomparvero. In altri 23 cani, è stato somministrato un trattamento aggiuntivo immunosoppressore con
steroidi per 10 settimane, al fine di ridurre i segni clinici.
Tutti i cani dello studio furono sottoposti ad un’estesa indagine diagnostica che comprendeva biopsie intestinali prima
e dopo il trattamento. Nell’ambito di questa valutazione
generale, abbiamo anche preso in esame i test standard effettuati in questi casi per stabilirne l’utilità in relazione a prognosi e terapia.4
STRUMENTI DIAGNOSTICI
Indici di attività clinica per la IBD nel cane
In medicina umana, gli indici per l’attività clinica di
malattia sono calcolati per i pazienti prima, durante e dopo
la terapia, e quindi consentono il confronto della gravità clinica nel tempo e fra pazienti diversi. Questi indici vengono
determinati sulla base dei segni clinici (frequenza della diarrea, sangue nelle feci, crampi addominali, manifestazioni
sistemiche associate ad IBD) e marker sierici come la proteina C-reattiva (CRP) e le misurazioni dell’albumina. Uno
studio recente descrive l’applicabilità di un indice clinico
della malattia per i casi nel cane (indice di attività IBD nel
cane o CIBDAI). Sei parametri gastroenterici (atteggiamen-
Istologia e colorazione delle cellule T
Il prelievo di campioni bioptici intestinali è considerato un
passo essenziale per escludere le cause neoplastiche e confermare la presenza di infiammazione intestinale. Tuttavia,
l’interpretazione delle biopsie intestinali è difficile e soggetta a controversie. Nel nostro studio, non abbiamo riscontrato alcuna correlazione dell’attività clinica con la classifica25
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
zione istologica sia prima che dopo la terapia4. Inoltre, il
conteggio linfocitario totale ed anche il numero di cellule
CD3 infiltranti nella lamina propria non risultarono differenti prima e dopo il trattamento6. Questo è un riscontro nuovo
ed inatteso, che suggerisce che il tipo ed il grado di infiltrati istologici nell’IBD del cane possa non essere utile come in
medicina umana, in cui i conteggi clinici si correlano molto
bene con la classificazione istologica.
Un nuovo schema di classificazione per l’interpretazione
istologica delle biopsie ottenute endoscopicamente da cani e
gatti con IBD è stato recentemente pubblicato dal gruppo di
lavoro WSAVA7. I riscontri di questo studio suggeriscono
che le alterazioni della microarchitettura sembrino essere
molto più importanti degli infiltrati cellulari quando si valuta la gravità istologica della malattia. Tuttavia, questo sistema di classificazione necessita ancora di essere valutato in
concomitanza con i riscontri clinici e l’esito in cani ed in
gatti affetti da IBD; questi studi dimostreranno quanto sia
utile il nuovo sistema di classificazione proposto.
potenzialmente in grado di ridurre i tassi di mortalità nei
cani gravemente malati.
Cobalamina
La concentrazione di cobalamina sierica è da tempo nota
come un importante fattore prognostico negativo nei gatti
con enteropatie croniche.8 Abbiamo recentemente dimostrato che questo parametro è anche molto importante per la prognosi dei cani con enteropatie croniche. Se la concentrazione di cobalamina sierica è al di sotto dell’intervallo di riferimento, il rischio di una successiva eutanasia aumenta di 10
volte.4 Quindi, è importante attuare un’integrazione della
dieta dei cani con ipocobalaminemia mentre sono sottoposti
al trattamento per l’IBD.
Bibliografia
1.
Albumina
2.
In un recente studio retrospettivo sulla IBD del cane, il
riscontro di livelli di albumina ridotti è stato descritto come
un indicatore prognostico negativo.3 L’enteropatia proteinodisperdente giustifica la perdita di albumina attraverso la
mucosa dello stomaco nei cani con IBD colpiti in modo grave. Uno studio su 80 cani ha descritto 12 casi (16%) con
ipoalbuminemia e 4 (5%) con panipoproteinemia.3 Dei 12
soggetti citati, 7 vennero successivamente sottoposti ad eutanasia per IBD intrattabile.
Nei cani del nostro studio, 12 casi su 58 (21%) furono inizialmente portati alla visita con ipoalbuminemia. Di questi
12 cani, 7 risultarono panipoproteinemici con ipoalbuminemia grave (livello medio di albumina 11 g/l) e 3 di questi
dovettero infine essere sottoposti ad eutanasia. Su 12 cani
derivanti dal nostro studio, 8 vennero trattati con successo
con ciclosporina dopo che non si era ottenuta una risposta
alla terapia con steroidi. Ciò suggerisce che un trattamento
precocemente aggressivo nei cani ipoalbuminemici sia
3.
4.
5.
6.
7.
8.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Canine IBD: tools for diagnosis,
prognosis and therapeutic monitoring
Karin Allenspach
Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK
INTRODUCTION
clinical IBD. In the study of Jergens et al5, 58 dogs with a
median CIBDAI of 5.5 were re-evaluated after 2-3 weeks of
treatment, and were found to have a significantly decreased
CIBDAI to a median of 1.6. These findings were reproducible in a study performed by the author in Bern, Switzerland4. In 42 dogs with diet responsive disease, median CIBDAI decreased significantly from 6.3 before to a median of
1.2 after treatment. In the 23 dogs with steroid-responsive
disease, median CIBDAI was higher before starting treatment (CIBDAI 9.2) and decreased only into the range of
moderate disease activity after treatment (CIBDAI 5.5).
We also evaluated the CIBDAI and additional parameters
such as albumin measurements, assessment of the degree of
peripheral oedema and ascites as well as severity of pruritus
for their prognostic value regarding outcome. 13/70 (18%)
dogs were euthanized due to intractable disease. Univariate
analysis identified a high clinical activity index, high endoscopic score in the duodenum, hypocobalaminaemia (<200
ng/L) and hypoalbuminaemia (<20 g/L) as risk factors for
negative outcome. Based on these factors, a new clinical
scoring index (Canine Chronic Enteropathy Activity Index,
CCECAI) was defined which predicts negative outcome in
dogs suffering from chronic enteropathies with very good
sensitivity and specificity (0.95%). Four categories of severity were defined for the CCECAI: insignificant disease: 0-3,
mild disease: 4-5, moderate disease: 6-8, severe disease: 911, very severe disease: 12. If a dog scores over 12 with this
clinical activity index, its risk for being euthanized due to
refractory disease is increased 64 fold4.
Among the causes for CE in dogs, adverse reactions to
food, idiopathic inflammatory bowel diseases (IBD) and
antibiotic responsive diarrhea (ARD) are common. These
disorders are retrospectively diagnosed by their response to
treatment.
The clinician faced with a referral case usually performs
an extensive workup to exclude extra-gastrointestinal causes
as well as easily treatable disorders such as pancreatic diseases, chronic parasitic or bacterial infections and tumors.
After taking intestinal biopsies and reaching a diagnosis, the
usual approach to treatment is a trial therapy with elimination diet, antibiotic treatment for several weeks and finally,
immunosuppressive treatment with corticosteroids1-3. In a
recent large prospective study including 65 dogs with chronic enteropathy, we investigated new diagnostic, prognostic
and therapeutic markers of disease. Forty-two dogs were
treated with an elimination diet alone for 14 weeks after
which the symptoms disappeared. In the other 23 dogs,
immunosuppressive treatment with steroids over 10 weeks
was additionally given in order to reduce the symptoms. All
of the study dogs had an extensive workup performed
including intestinal biopsies before and after treatment. We
also evaluated standard tests performed during the general
workup of such cases for their usefulness regarding prognosis and therapy4.
DIAGNOSTIC TOOLS
Histology and T cell staining
Clinical activity indices for canine IBD
Sampling of intestinal biopsies is considered to be an
essential step to exclude neoplastic causes and confirm the
presence of intestinal inflammation. However, the interpretation of intestinal biopsies is difficult and subject to controversy. In our study, we found no correlation of clinical activity with histological grading either before or after therapy4.
In addition, total lymphocyte counts as well as the number
of infiltrating CD3 cells in the lamina propria were not different before and after treatment[6]. This is a new and unexpected finding which suggests that the type and degree of
histological infiltrates in canine IBD may not be as helpful
as in human medicine, where the clinical scores correlate
very well with the histological grading.
A new grading scheme for the histological interpretation
of endoscopically obtained biopsies form dogs and cats with
IBD has recently been published by the WSAVA working
In human medicine, indices for clinical activity of disease
are calculated for patients before, during and after therapy,
therefore enabling the comparison of clinical severity over
time and between different patients. These indices are calculated based on clinical symptoms (frequency of diarrhea,
blood in the feces, abdominal cramping, systemic symptoms
associated with IBD) and serum markers such as c-reactive
protein (CRP) and albumin measurement. A recent study
describes the applicability of a clinical index of disease for
canine cases (canine IBD activity of disease index or CIBDAI). Six gastrointestinal parameters (attitude/activity,
appetite, vomiting, stool consistency, stool frequency, and
weight loss) are evaluated and scored from 1-3 and added up
to a composite score of 0-3 for insignificant disease, 4-5 for
mild IBD, 6-8 for moderate IBD and 9 or greater for severe
27
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
group7. The findings in this study suggest that microarchitectural changes seem to be much more important than cellular infiltrates when assessing histological severity of disease. However, so far, this grading system still needs to be
assessed in conjuction with clinical findings and outcome in
dogs and cats with IBD, and such studies will show how useful the newly proposed grading system actually is.
cobalamin is also very important for the prognosis of dogs
with chronic enteropathies. If cobalamin serum concentration is below the reference range, the risk for later euthanasia increases 10 times4. It is therefore important to supplement dogs with hypocobalaminaemia while they undergo
treatment for IBD.
References
Albumin
Decreased albumin levels have been described as a negative prognostic indicator in a recent retrospective study of
canine IBD3. Protein-losing enteropathy accounts for the
loss of albumin through the gut mucosa in severely affected
dogs with IBD. One study described 12/80 (16%) dogs with
hypoalbuminemia and 4/80 (5%) dogs with panhypoproteinemia3. Seven of these 12 dogs subsequently had to be
euthanized for intractable IBD.
In the dogs of our study, 12/58 (21%) cases initially presented with hypoalbuminemia. Of these 12 dogs, 7 were
panhypoproteinemic with severe hypoalbuminemia (mean
albumin level 11g/l) and 3 of those eventually had to be
euthanized. Eight of 12 dogs from our study were successfully treated with cyclosporine after failing to respond to
steroid treatment. This suggests that early aggressive treatment in hypoalbuminemic dogs may potentially decrease
mortality rates in severely ill animals.
1.
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Cobalamin
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Uso della ciclosporina nel cane con IBD
Karin Allenspach
Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK
TERAPIA DELLA IBD DEL CANE
tedeschi con diarrea cronica intermittente.2 La condizione
viene diagnosticata sulla base di segnalamento, anamnesi e
segni clinici ed anche sulla risposta ad un ricorso empirico
agli antibiotici per os (ad es., ossitetraciclina 10-20 mg/kg
TID o metronidazolo 10-20 mg BID o tilosina 20 mg/kg
BID o TID).
L’approccio tradizionale al trattamento della IBD del cane
si fonda su tre componenti che possono essere utilizzate singolarmente o, più spesso, in modo combinato: modificazioni della dieta, trattamento antibiotico e specifici farmaci
antinfiammatori ed immunosoppressori. Anche se la maggior parte degli specialisti concorda nel ritenere che la terapia della dieta sia una componente centrale, l’impiego di
routine di antibiotici nel trattamento dei cani con sospetto
diagnostico di IBD è controverso. In molti casi, sono state
somministrate per vari periodi di tempo dosi immunodepressive di corticosteroidi.
In uno studio su 57 cani con infiammazione intestinale
cronica di durata superiore a tre settimane, 36 casi risposero
completamente o in modo significativo ad una settimana di
una dieta di prova con salmone e riso basata soltanto su una
elimination diet commerciale (formulazione secca).1 L’elevata percentuale di malati che risposero alla dieta (63%) era
sorprendente, considerando che molti di questi animali erano stati inviati alla visita specialistica da veterinari che in
precedenza avevano tentato un trattamento medico e dietetico senza un esito soddisfacente. Questa osservazione è
anche stata fatta in lavori di gastroenterologia condotti presso altre strutture specialistiche. Al momento della presentazione alla visita, i nostri pazienti che rispondevano alla dieta erano significativamente più giovani di quelli in cui le
modificazioni dell’alimentazione erano inefficaci e richiedevano una terapia medica (età mediana 2 anni contro 6 anni).
Attualmente, in commercio si trova un’ampia varietà di diete da raccomandare per le prove di eliminazione: un’alternativa recente alle formulazioni classiche è rappresentata dalle
diete idrolizzate, che offrono una nuova fonte proteica.
È improbabile che le infezioni da batteri enteropatogeni
come Campylobacter spp. vengano erroneamente diagnosticate come IBD, se si applica un approccio diagnostico sistematico.
Tuttavia, in molti casi resta poco chiaro se i batteri siano
la causa della malattia o si accrescano semplicemente in
modo opportunistico nei cani con enteropatie sottostanti.
L’esistenza di una forma primaria ed idiopatica di proliferazione batterica del tenue (SIBO, small intestinal bacterial overgrowth) è soggetta a controversie. Viene attualmente preferita la denominazione più generica di “diarrea
idiopatica che risponde agli antibiotici” (ARD). Nella maggior parte dei casi, questa si riconosce nei giovani pastori
TRATTAMENTO ANTINFIAMMATORIO
E IMMUNOSOPPRESSORE
Gli attuali protocolli di trattamento per la IBD del cane in
genere implicano l’impiego di dosi immunosoppressive di
corticosteroidi per diverse settimane, seguiti da una graduale diminuzione per ridurre l’infiammazione della mucosa
intestinale ed ottenere la remissione clinica. I protocolli di
routine per l’impiego del prednisolone raccomandano
dosaggi di 1-2 mg/kg BID per circa 2-4 settimane, seguiti
da una lenta diminuzione nel corso di un periodo compreso
fra settimane e mesi. Tuttavia, un certo numero di cani trattati con dosi immunosoppressive di corticosteroidi non
mostrerà alcuna risposta al farmaco o presenterà una ricaduta dopo settimane o mesi dalla terapia. Un recente studio
retrospettivo su 80 cani con IBD rivelò 13 casi (16%) di
malattia intrattabile.3 Nell’uomo, si può osservare una mancata risposta al trattamento medico con steroidi nel 20-30%
dei pazienti con IBD.
A dosaggi elevati, i corticosteroidi presentano numerosi
effetti collaterali, come la poliuria/polidipsia, che possono
diventare insopportabili per i proprietari, specialmente nei
cani di grossa taglia. Nei casi difficili che richiedono una
prolungata terapia con corticosteroidi, ma sono sensibili agli
effetti collaterali, è stato utilizzato con qualche successo
aneddotico un farmaco più costoso, il budesonide (3,0
mg/m2, rispettivamente 0,5-3,0 mg per cane, in relazione al
peso corporeo, una volta al giorno o a giorni alterni). Nell’uomo, il budesonide va incontro ad un’estrazione epatica
di primo passaggio dell’80-90% circa. Quindi, soltanto una
frazione del composto assorbito raggiunge la circolazione
sistemica, teoricamente riducendo gli effetti collaterali. È
stato documentato che il budesonide sopprime l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene nel cane con IBD. È necessario uno studio prospettico ben progettato che confronti il prednisone ed
il budesonide nel trattamento del cane con IBD. Altri agenti
immunosoppressori come l’azatioprina, il clorambucil, la
ciclofosfamide ai dosaggi di routine vengono utilizzati da
29
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
soli o in associazione con corticosteroidi. Quando sono usati in combinazione, possono (a) diminuire il dosaggio richiesto dei corticosteroidi e gli effetti collaterali associati, o (b)
permettere di disabituare i cani ai corticosteroidi nel più breve tempo possibile. Inoltre, questi farmaci sono anche utilizzati nei casi di IBD del cane refrattaria agli steroidi. Possono avere un’insorgenza d’azione ritardata (settimane o mesi
fino all’effetto massimo). Ad oggi, non esistono delle pubblicazioni che confrontino oggettivamente l’efficacia di questi diversi agenti.
Se la malattia è limitata al grosso intestino, composti
molecolari contenenti mesalamina (5-ASA) come la sulfasalazina (inizialmente 10-25 mg/kg PO TID per 6 settimane,
poi ridurre progressivamente) o l’olsalazina (inizialmente 510 mg/kg PO TID, poi ridurre gradualmente) hanno dimostrato effetti benefici sulla mucosa del colon. La cheratocongiuntivite secca è una complicanza ben nota nei cani trattati
con ognuno di questi due farmaci.
moderata ed un punteggio > 9 indicava una IBD clinicamente grave. Dopo il primo esame endoscopico, tutti i cani
ricevettero un trattamento con CyA di 5 mg/kg per os una
volta al giorno per un totale di 10 settimane e vennero valutati i punteggi di CIBDAI ogni due settimane dopo l’inizio
del trattamento, nel corso dell’intero periodo di studio. In
9 cani, dopo 10 settimane di terapia è stato condotto un
nuovo esame endoscopico di controllo. Inoltre, in 8 cani è
stata misurata la concentrazione sierica di cyA mediante
FPLI, durante le 24 ore successive alla somministrazione
della prima dose di cyA, per valutare le farmacocinetiche
del farmaco.
La gravità clinica stabilita in base al punteggio CIBDAI
risultò molto elevata (oltre 9) nella maggioranza dei casi
all’inizio del trattamento con cyA, indicando una malattia
clinica grave. Dopo 10 settimane di trattamento con cyA, il
CIBDAI mediano risultò significativamente ridotto. In 8
cani si osservò una risposta completa entro 4 settimane di
trattamento (riduzione di CIBDAI ad un punteggio di 0-2).
Altri 2 cani non risposero al trattamento con cyA nel corso
delle prime 10 settimane dello studio e furono sottoposti ad
eutanasia rispettivamente 6 e 10 settimane dopo l’inizio del
trattamento con cyA. Un cane rispose bene alla cyA per 14
settimane, ma in seguito andò incontro ad una ricaduta con
segni clinici di vomito intrattabile e fu sottoposto ad eutanasia in quella fase. Gli effetti collaterali attribuiti alla cyA
durante lo studio comparvero transitoriamente nelle prime
due settimane del trattamento.Gli effetti collaterali riportati
furono vomito ed anoressia parziale in 4 cani su 14, ulcerazione gengivale in un cane ed alopecia seguita da ipertricosi
in un altro.
Le farmacocinetiche della cyA nella grave IBD canina
sono paragonabili a quelle osservate nei cani normali ed in
quelli atopici, il che indica che ci si può attendere che la cyA
sia efficace in casi di IBD gravemente colpiti dal primo giorno di trattamento.
In questo studio pilota la cyA è risultata efficace nel ridurre i segni clinici di IBD grave nella maggioranza dei cani e
può quindi essere ritenuta un’opzione valida per i cani con
IBD resistenti agli steroidi.
LA CICLOSPORINA NELL’IBD:
ESPERIENZE CON PAZIENTI UMANI
E NEL CANE
La ciclosporina A (cyA) si è dimostrata efficace negli
attacchi refrattari agli steroidi di pazienti umani affetti da
IBD e può rappresentare una valida alternativa nella IBD
canina.4
L’infiltrato cellulare nelle enteropatie idiopatiche croniche del cane è dato principalmente da linfociti e plasmacellule nella lamina propria.5 Si ritiene che l’effetto
antinfiammatorio della cyA nell’IBD sia dovuto alla sua
azione sulle cellule T che infiltrano la mucosa. La cyA si
lega intracellularmente alla calmodulina, che riduce il
rilascio di calcio dal reticolo endoplasmatico, inibendo
così ulteriormente la trasmissione dei segnali downstream
ed, in ultimo, inibendo l’espressione dell’IL-2. Dato che
quest’ultima è necessaria per la sopravvivenza delle cellule T per un periodo superiore a 24-48 ore, si è ipotizzato che la cyA riduca il numero delle cellule T infiltranti
nella mucosa dei cani, diminuendo così la quantità di
citochine proinfiammatorie ed, infine, i segni clinici della malattia. Per i cani, la cyA attualmente è approvata soltanto nella formulazione per uso orale. Ciò costituisce un
motivo di preoccupazione, perché è possibile che i cani
gravemente malati con infiltrati duodenali infiammatori
non assorbano una quota di farmaco sufficiente a determinare un effetto clinico.
Abbiamo condotto uno studio pilota per valutare l’efficacia farmacocinetica e clinica della cyA nei cani con grave IBD clinica refrattaria agli steroidi.4 Un totale di 14 cani
venne incluso in uno studio sull’efficacia clinica. Tutti questi soggetti erano stati trattati con 2 mg/kg/die di prednisolone PO per un periodo che variava da un minimo di 6 settimane, ottenendo soltanto effetti clinici minimi prima che
fosse gradualmente sospeso. La gravità della malattia era
stata valutata utilizzando il CIBDAI descritto da Jersen et
al., in base al quale un punteggio di 0-3 indicava una malattia senza significato clinico, un punteggio di 4-5 indicava
una IBD lieve, un punteggio di 6-8 indicava una IBD
CONCLUSIONE
La nostra conoscenza della IBD canina è considerevolmente migliorata in quest’ultimo decennio, tuttavia numerose domande restando ancora senza risposta. Sono disponibili molte opzioni per trattare la malattia. Sulla base della
varietà di casi riscontrati da ogni singolo veterinario, sono
raccomandati differenti protocolli di trattamento di routine.
Il nostro studio originale che descriveva l’uso della ciclosporina nel cane con IBD documenta chiaramente l’efficacia
di questo farmaco. Sul mercato si possono trovare molti
“nuovi” farmaci aggiuntivi. Tuttavia, mancano ancora indagini obiettive e scientificamente valide per supportarne l’impiego nelle situazioni cliniche. Quindi, come guida nell’elaborazione di un piano terapeutico i veterinari spesso devono
fare affidamento solo sui dati aneddotici riferiti dai colleghi
e sulla propria esperienza personale accumulata nell’esercizio della professione.
30
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
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Treatment of canine IBD with cyclosporine
Karin Allenspach
Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK
THERAPY OF CANINE IBD
ANTI-INFLAMMATORY AND IMMUNESUPPRESSIVE TREATMENT
The traditional approach to the treatment of canine IBD
relies on 3 components that can be used individually or
most often combined: dietary modifications, antibiotic
treatment, and specific anti-inflammatory and immunesuppressive drugs.
Although most specialists agree that dietary therapy is
a central component, the routine use of antibiotics in the
treatment of dogs tentatively diagnosed with IBD is subject to controversy. In many instances, immune suppressive doses of corticosteroids are administered for various
lengths of time.
In a prospective study of 57 dogs with chronic intestinal disease of more than 3 weeks’ duration, 36 dogs
responded totally or significantly to one week a food trial with a salmon and rice based commercial elimination
diet alone (dry formulation) 1. The high proportion of
food responsive disease (63%) was surprising considering
that many of these dogs had been referred to from veterinarians who had previously attempted dietary and medical treatment without satisfactory outcome.
This observation has also been made by gastroenterologists working in other referral centers. Upon presentation, our food responders were significantly younger than
the dogs that did not respond to dietary therapy and
required medical therapy (median age 2 years vs. 6
years). There is currently a wide variety of commercially
available diets to recommend for elimination trials:
hydrolyzed diets are a recent alternative to classical diets
offering a novel protein source
Infections with enteropathogenic bacteria such as
Campylobacter sp. are unlikely to be misdiagnosed as
IBD if a systematic diagnostic approach is applied. However, it remains unclear in many instances whether the
bacteria are the cause of the disease or merely grow
opportunistically in dogs with underlying enteropathies.
The existence of primary idiopathic small intestinal
bacterial overgrowth (SIBO) is subject to controversy.
The more generic denomination “idiopathic antibioticresponsive diarrhea” (ARD) is currently preferred. ARD
is most commonly recognized in young German shepherds with chronic intermittent diarrhea 2.
It is diagnosed based on signalment, history, and clinical
signs, as well as on response to an empiric course of oral
antibiotics (e.g. oxytetracycline 10-20 mg/kg TID, or metronidazole 10-20 mg BID, or tylosin 20 mg/kg BID to TID).
Current treatment protocols for canine IBD most often
involve the use of immunosuppressive doses of corticosteroids for several weeks followed by slow tapering to reduce
the intestinal mucosal inflammation and achieve clinical
remission. The usual protocols for prednisolone usage recommend dosages of 1-2 mg/kg BID for approximately 2-4
weeks, followed by a slow tapering period over weeks to
months. However, a number of dogs treated with immune suppressive doses of corticosteroids will show either no response
at all to the drug or will relapse after weeks to months of treatment. A recent retrospective study including 80 dogs with
IBD revealed 13/80 or 16% of cases with intractable disease
3
. In people, failure to respond to medical treatment with
steroids can be observed in 20 to 30% of patients with IBD.
At high dosages, corticosteroids have numerous sideeffects such as PU-PD which may become unbearable for
the owners, especially in large breed dogs. In difficult cases
that require prolonged corticosteroid therapy but are sensitive to its side-effects, the more expensive drug budesonide
has been used with some anecdotal success (3.0 mg/m2, resp.
0.5-3.0 mg per dog, depending on body weight, once daily
or every other day). In humans, budesonide undergoes a first
pass hepatic extraction of approximately 80-90%. Therefore,
only a fraction of the absorbed compound reaches the systemic circulation, theoretically decreasing the side-effects. It
has been documented that budesonide suppresses the hypothalamic-pituitary-adrenal axis in dogs with IBD. A well
designed prospective study comparing prednisone and
budesonide in the treatment of canine IBD is needed.
Other immunosuppressive agents such as azathioprine,
chlorambucil, cyclophosphamide at the usual dosages are
used alone or in combination with corticosteroids. When
used in combination, they may (a) decrease the required
dosage of corticosteroids and the associated side-effects, or
(b) allow the dogs to be weaned off CS as soon as possible.
Moreover, these drugs are also used cases of steroid-refractory canine IBD. They may have a delayed onset of action
(weeks to months until maximal effect). To date, there are no
publications objectively comparing the efficacy of these different drugs.
If the disease is limited to the large bowel, compound
molecules containing meselamine (5-ASA) such as sulfasalazine (initially 10-25 mg/kg p.o. TID for 6 weeks, then
taper down) or olsalazine (initially 5-10 mg/kg p.o. TID,
32
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
within 4 weeks of treatment (reduction in CIBDAI to a score
of 0-2). Two dogs did not respond to treatment with cyA during the first 10 weeks of the study and were euthanized 6 and
10 weeks respectively after starting treatment with cyA. One
dog responded well to cyA for 14 weeks but then experienced a relapse with clinical signs of intractable vomiting
and was euthanized at that time. Side effects attributed to
cyA during the study transiently occurred over the first two
weeks of treatment. Reported side effects were vomiting and
partial anorexia in 4/14 dogs, gingival ulceration in one dog
and alopecia followed by hypertrichosis in one dog.
Pharmacokinetics of cyA in severe canine IBD were comparable to values in normal dogs and atopic dogs, indicating
that cyA can be expected to be effective in severely ill IBD
cases from the first day of treatment.
CyA was effective in reducing clinical signs of severe
IBD in a majority of dogs in this pilot study and may therefore be a valid option for steroid-resistant dogs with IBD.
then reduce gradually) have proven beneficial effects on the
colonic mucosa. Keratoconjunctivitis sicca is a well known
complications in dogs treated with either of these two drugs.
CYCLOSPORINE IN IBD: EXPERIENCE
WITH HUMAN AND CANINE PATIENTS
Cyclosporin A (cyA) has been shown to be effective in
steroid refractory attacks of human IBD and may also be a
valid alternative for canine IBD 4.
The cellular infiltrate in canine chronic idiopathic
enteropathies mainly consists of lymphocytes and plasma
cells in the lamina propria 5. The anti-inflammatory effect of
cyA in IBD is thought to be due to its action on T-cells that
infiltrate the mucosa. CyA binds intracellularly to calmodulin, which reduces the release of calcium from the endoplasmic reticulum, thereby inhibiting further down-stream
signalling and, finally, inhibiting the expression of IL-2.
Since IL-2 is necessary for the survival of T cells for longer
than 24-48 hours, it is hypothesized that cyA decreases the
number of infiltrating T-cells in the mucosa of the dogs,
thereby reducing the amount of pro-inflammatory cytokines
and, finally, the clinical signs of the disease. For dogs, cyA
is currently only approved as an oral formulation. This raises the concern that severely ill dogs with inflammatory duodenal infiltrates will not absorb enough drug to produce a
clinical effect.
We performed a pilot study to evaluate the pharmacokinetics and clinical efficacy of cyA in dogs with severe
steroid-refractory clinical IBD 4. A total of 14 dogs were
included into the clinical efficacy study. All of these dogs
had been treated with 2mg/kg per day of prednisolone p.o.
for a period ranging from a minimum of 6 weeks with only
minimal clinical effect before being tapered off. The severity of disease was assessed using the CIBDAI described by
Jergens et al., with a score of 0-3 indicating clinically
insignificant disease, a score of 4-5 indicating mild IBD, a
score of 6-8 indicating moderate IBD and a score of >9 indicating severe clinical IBD. After the first endoscopical
examination, all dogs received treatment with cyA 5mg/kg
p.o. once daily for a total of 10 weeks and CIBDAI scores
were assessed every second week after starting treatment
during the entire study period. A recheck endoscopical
examination was performed in 9 dogs after 10 weeks of
treatment. In addition, serum concentration of cyA was
measured in 8 dogs by FPLI during 24hrs after giving the
first dose of cyA to assess the drug pharmacokinetics.
Clinical severity as scored by CIBDAI was very high
(over 9) in the majority of cases at the beginning of treatment with CyA, indicating severe clinical disease. After 10
weeks of treatment with cyA, the median CIBDAI was significantly reduced. Eight dogs showed a complete response
CONCLUSION
Our understanding of canine IBD has considerably
improved in the last decade, however numerous questions
still need to be answered. Many options for treating the disease are available. Based on the variety of cases seen by a
particular veterinarian, different routine treatment protocols
are recommendable. Our original study describing the use of
cyclosporine in dogs with IBD clearly documents the efficacy of this substance. Many additional “new” drugs can be
found on the market. However, objective and scientifically
sound investigations are still lacking to support their use in
clinical situations. Therefore, veterinarians often have to rely
solely on anecdotal evidence from colleagues and accrued
personal experience to guide them while they elaborate a
treatment plan.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Pancreatite cronica ed IBD livello avanzato
Karin Allenspach
Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK
INTRODUZIONE
risultati di queste analisi, i cani vennero distinti retrospettivamente in due gruppi; quelli che superavano l’intervallo di
riferimento del laboratorio di 200 µg/l vennero definiti come
affetti da IBD con pancreatite cronica (IBD-CP) e quelli con
risultati inferiori a 200 µg/dl come affetti da IBD senza pancreatite cronica associata (IBD-NCP). Venne quindi valutata
retrospettivamente l’indagine diagnostica della IBD in tutti i
casi e si effettuò un confronto dei seguenti parametri tra i
due gruppi: segni clinici, età, attività di lipasi ed amilasi sierica, concentrazioni di albumina e cobalamina sierica,
riscontri ecografici addominali e riscontri istopatologici alle
biopsie intestinali, trattamenti della IBD ed esito clinico.
La pancreatite cronica associata a infiammazione intestinale (IBD-CP) è ben nota come entità clinica nell’uomo,
perché episodi di pancreatite compaiono in molti pazienti
umani nel corso della malattia infiammatoria. Anche se l’eziologia della pancreatite cronica nell’uomo con IBD è sconosciuta, i riscontri clinici, morfologici ed istologici richiamano una pancreatite autoimmune.1 In genere, quest’ultima
è subclinica ed è la sola forma di pancreatite cronica nell’uomo che risponda totalmente agli steroidi. I segni clinici
della IBD-CP si rilevano in circa il 2% dei pazienti umani,
ma la frequenza effettiva della malattia può essere molto più
elevata, perché secondo numerosi studi l’iperamilasemia e
l’insufficienza pancreatica esocrina sono presenti, rispettivamente, nel 6-16% e nel 21-80% dei pazienti, mentre le alterazioni istologiche sono state osservate nel 38-53% degli
esami patologici post-mortem. Quindi, sembra che la IBDCP possa principalmente essere una malattia clinicamente
silente.
La IBD-CP finora non è stata riportata nel cane. La pancreatite cronica come entità patologia separata in questa specie animale è stata sottostimata, ma numerosi studi hanno
dimostrato che può essere più comune di quanto non si creda. Diagnosticare la pancreatite, specialmente quella cronica
del cane, è molto impegnativo. I segni clinici sono aspecifici e possono essere facilmente confusi con quelli della IBD
stessa. L’innalzamento di amilasi e lipasi può essere influenzato da altre condizioni non pancreatiche e presenta livelli
relativamente bassi di specificità e sensibilità per la pancreatite.2 Le radiografie addominali sono soggettive e si basano
sulla qualità dell’immagine e sull’esperienza del professionista che la interpreta e sono aspecifiche per la pancreatite
del cane. La sensibilità dell’ecografia addominale per la diagnosi di pancreatite è altamente operatore-dipendente e,
secondo quanto riportato in letteratura, arriva fino al 68% nel
cane. Anche se la biopsia pancreatica una volta era considerata lo standard aureo, sappiamo da vari studi che le sede
dell’infiammazione può sfuggire.
RISULTATI
Non si riscontrò alcuna significativa differenza relativa a
punteggio di attività clinica (p = 0,67), attività dell’amilasi
sierica (p = 0,058), concentrazione di cobalamina sierica (p
= 0,61), concentrazione dell’albumina sierica (p = 0,052),
punteggi di ecografia addominale (p = 0,23) e punteggi istopatologici per l’IBD (p = 0,74). Non si rilevò neppure alcuna differenza significativa nella frequenza del trattamento
con steroidi tra i due gruppi (p = 0,13). I cani con IBD-CP
risultarono essere significativamente più anziani e presentarono una concentrazione della lipasi sierica più elevata di
quelli con IBD-NCP (p = 0,001, p = 0,001, rispettivamente).
Inoltre, i cani con IBD-CP avevano un rischio più elevato di
un punteggio di follow-up scarso (p = 0,02) e risultò significativamente più probabile che dovessero essere sottoposti ad
eutanasia al follow-up (p = 0,02).
IMPORTANZA CLINICA
In questo studio, 15 cani su 41 con diagnosi confermata di
malattia infiammatoria intestinale presentarono risultati della cPLI sierica elevati, supportando una diagnosi di IBD-CP.
Nell’uomo, il dolore addominale è il segno cardine della
pancreatite e, quando è presente, viene diagnosticata una
forma clinicamente manifesta della malattia. Se si prende il
dolore addominale come criterio per diagnosticare la pancreatite clinica, allora questa era clinica nel 2% della popolazione del nostro studio e subclinica nel 33%, sulla base
dell’assenza di segni clinici attribuibili a pancreatite. Questo
riflette i riscontri clinici di IBD-CP e pancreatite autoimmune nell’uomo.
MATERIALI E METODI
Nello studio sono stati inseriti 47 cani affetti da IBD confermata sulla base di riscontri istopatologici. Il siero prelevato da questi cani venne destinato alle valutazioni cPLI
(effettuate presso i laboratori Texas GI). In funzione dei
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intestinale. Nella maggior parte dei casi la IBD-CP canina è
subclinica e sfugge facilmente ai test diagnostici di routine
utilizzati nei cani con sospetta IBD. È importante diagnosticare la pancreatite concomitante nei cani affetti da IBD,
dato che la sua presenza è associata ad un esito peggiore.
L’eziologia della IBD-CP canina non è nota e saranno
necessari ulteriori studi per stabilire la causa ed il trattamento appropriato.
Nei cani con IBD-CP il punteggio relativo all’esito era
significativamente più scarso e le probabilità che venissero
sottoposti ad eutanasia al follow-up erano significativamente maggiori. Ciò era probabilmente dovuto al fatto che la
seconda diagnosi di pancreatite cronica era sfuggita nei
pazienti con IBD perché la cPLI risultò determinata soltanto
retrospettivamente, per lo scopo di questo studio. Non era
stato effettuato un trattamento appropriato per la pancreatite
cronica, come una dieta a basso tenore di grassi o la somministrazione di enzimi pancreatici, e può darsi che ciò abbia
infine peggiorato il decorso di questi casi.
Gli steroidi sono impiegati frequentemente come metodo
principale per l’induzione o la remissione dell’IBD attiva
moderata o grave dell’uomo.5 Attualmente, non è noto con
esattezza quali effetti gli steroidi abbiano sul pancreas, dato
che la diagnosi di pancreatite indotta da steroidi è oggetto di
controversie. Nella nostra popolazione di studio, non riscontrammo alcuna differenza significativa nella frequenza di
trattamento con steroidi tra i due gruppi (p = 0,13), il che
comporta che il trattamento con steroidi non aveva alcun
effetto sul pancreas di questi cani. Tuttavia, sarebbe necessario uno studio prospettivo per determinare se il trattamento steroideo dei pazienti con IBD sia un fattore di rischio per
lo sviluppo della pancreatite.
In conclusione, questa ricerca suggerisce l’esistenza nel
cane di un’infiammazione pancreatica associata a quella
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Domenech E. Inflammatory bowel disease: current therapeutic
options. Digestion 2006; 73 Suppl 1:67-76.
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Chronic pancreatitis in canine IBD
Karin Allenspach
Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK
INTRODUCTION
Serum was stored from these dogs and sent away for cPLI
measurement (performed at the Texas GI laboratory). According to their cPLI results the dogs were retrospectively separated into two groups; those above the laboratory reference range
of 200ug/L were designated as IBD with chronic pancreatitis
(IBD-CP) and those with results less than 200ug/L as IBDwithout associated chronic pancreatitis (IBD-NCP).
The IBD work-up in all cases was retrospectively evaluated
and comparisons were made of the following parameters
between the two groups: clinical signs, age, serum lipase and
amylase activities, serum albumin and cobalamin concentrations, abdominal ultrasound findings, histopathological findings on intestinal biopsies, management of IBD and clinical
outcome.
Inflammatory bowel disease-associated chronic pancreatitis (IBD-CP) is well known as a clinical entity in people, as
episodes of pancreatitis occur in many human patients during
the course of inflammatory bowel disease. Although the aetiology of chronic pancreatitis in people with IBD is unknown,
the clinical, morphological and histological features are reminiscent of autoimmune pancreatitis 1. Auto-immune pancreatitis is commonly subclinical and is the only form of chronic
pancreatitis in people that is completely responsive to
steroids. Clinical symptoms of IBD-CP are found in approximately 2% of human patients but the actual frequency of the
disease could be much higher since according to several studies hyperamylasemia and exocrine pancreatic insufficiency
are found in 6-16 and 21-80% of patients respectively whereas histological changes are observed in 38-53% of postmortem pathological examination. Therefore, it appears that
IBD-CP could mainly be a clinically silent disease.
IBD-CP has so far not been reported in dogs. Chronic pancreatitis as a separate disease entity has been under-recognised
in dogs, but several studies have shown that it may be more
common than perceived. Diagnosing pancreatitis, especially
chronic pancreatitis in dogs is very challenging. Clinical signs
are non-specific and can easily be confused with those of the
IBD itself. Elevated amylase and lipase can be affected by
other non-pancreatic conditions and have relatively low specificity and sensitivity for pancreatitis 2. Abdominal radiographs
are subjective and rely on the quality of the radiograph and the
experience of the reader and are non-specific for canine pancreatitis. The sensitivity of abdominal ultrasound for diagnosing pancreatitis is highly operator dependent and reported to
be up to 68% in dogs. Although pancreatic biopsy was once
considered to be the gold standard, we know from various
studies that the site of inflammation can be missed. So far,
cPLI it is considered to be the best test for the diagnosis of
canine pancreatitis3. We recently performed a retrospective
study at the University of London looking at canine IBD cases with elevated cPLI values 4. The aims of the study were to
determine whether IBD-CP exists in dogs and if so to determine the prevalence and characteristics of canine IBD-CP.
RESULTS
No significant differences were found in clinical activity
score (p=0.67), serum amylase activity (p=0.058), serum
cobalamin concentration (p=0.61), serum albumin concentration (p=0.052), abdominal ultrasound scores (p=0.23) and
histopathology scores for IBD (p=0.74). There was also no
significant difference in the frequency of steroid treatment
between the two groups (p=0.13). Dogs with IBD-CP were
found to be significantly older and had a higher serum lipase
concentration than dogs with IBD-NCP (p=0.001, p=0.001
respectively). Moreover, dogs with IBD-CP had a higher risk
of a poor follow-up score (p=0.02) and were significantly
more likely to be euthanased at follow-up (p=0.02).
CLINICAL SIGNIFICANCE
In this study 15 out of 41 dogs with confirmed inflammatory bowel disease had elevated serum cPLI results supporting a diagnosis of IBD-CP. In people, abdominal pain is the
cardinal sign for pancreatitis and when present clinical pancreatitis is diagnosed. If taking abdominal pain as a criterion
to diagnose clinical pancreatitis, then 2% of our study population were clinical for pancreatitis and 33% had subclinical
pancreatitis based on the absence of clinical signs attributable to pancreatitis. This mirrors the findings in IBD-CP and
auto-immune pancreatitis in people.
Dogs with IBD-CP had a significantly poorer outcome
score and were significantly more likely to be euthanased at
follow-up. This was probably because the second diagnosis
MATERIALS AND METHODS
Forty-seven canine patients with confirmed IBD on
histopathology were prospectively enrolled into the study.
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creatitis in dogs with IBD as concurrent pancreatitis is associated with a worse outcome. The etiology of canine IBDCP is unknown and further studies are needed to establish
the cause and appropriate treatment.
of chronic pancreatitis was missed in the IBD patients as
cPLI was only determined retrospectively for the purpose of
this study. Appropriate treatment for chronic pancreatitis
such as low fat diet or pancreatic enzyme replacement was
not attempted and may have ultimately worsened the outcome for these cases.
Steroids are used frequently as the mainstay for induction
of remission in moderate to severe active IBD in people 5.
Currently it is not known exactly what effect steroids have
on the pancreas as controversy surrounds the diagnosis of
steroid-induced pancreatitis. In our study population, we did
not find any significant difference in the frequency of steroid
treatment between the two groups (p=0.13), implicating that
steroid treatment had no effect on the pancreas in these dogs.
However, a prospective study would be needed to investigate
if steroid treatment in IBD patients is a risk factor for the
development of pancreatitis.
In conclusion, this study suggests that inflammatory bowel disease-associated pancreatic inflammation does exist in
dogs. Canine IBD-CP is most commonly subclinical and is
easily missed by routine diagnostic tests used in dogs suspected of IBD. It is important to diagnose concurrent pan-
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Colite istiocitaria ulcerativa
Karin Allenspach
Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK
CARATTERISTICHE CLINICHE
ED ISTOPATOLOGICHE DELLA COLITE
ISTIOCITARIA ULCERATIVA DEL CANE
specifiche elimination diet), e somministrazione di farmaci
antinfiammatori o immunosoppressori come la sulfasalazina, il prednisolone e l’azatioprina. Tuttavia, queste strategie
di solito non sono riuscite a migliorare i segni clinici degli
animali colpiti, e la maggior parte dei casi è stata sottoposta
ad eutanasia perché risultava refrattaria al trattamento. Due
ricerche recenti hanno oggi suscitato speranza nel trattamento della malattia, con un totale di 12 casi riportati che avevano dimostrato un netto aumento della risposta alla somministrazione di enrofloxacin (5 mg/kg una volta al giorno) o ad
protocollo di combinazione con enrofloxacin, amossicillina
(20 mg/kg PO due volte al giorno) e metronidazolo (10-15
mg/kg PO due volte al giorno).16 La risposta al trattamento
con enrofloxacin nei lavori più recenti è risultata spettacolare, con tutti i cani che rispondevano entro 3-12 giorni dall’inizio delle somministrazioni. È particolarmente incoraggiante che parecchi cani, secondo quanto riportato in letteratura, siano risultati liberi da malattia quando il farmaco è stato interrotto al termine di un ciclo di 4-6 settimane di trattamento antibiotico con enrofloxacin.4 Questo implica la possibilità di ottenere la guarigione in alcuni casi, anche se finora non sono stati riferiti periodi di follow-up superiori a 21
mesi ed è possibile che alcuni cani necessitino di trattamento con enrofloxacin per un periodo molto più lungo di 6 settimane o eventualmente anche per tutta la vita. In 5 casi
riportati, le biopsie furono ripetute dopo il termine del ciclo
antibiotico, in un momento in cui i cani mostravano una
remissione clinica. In tutti questi 5 cani, vennero dimostrato
un drastico miglioramento delle lesioni istologiche, con
scomparsa dei macrofagi PAS-positivi in 3 casi e marcata
riduzione del numero dei macrofagi negli altri due.4
La colite ulcerativa istiocitaria (HUC) è una forma di
infiammazione intestinale che compare più frequentemente
nei cani Boxer giovani. Venne descritta per la prima volta 30
anni fa1 e da allora in poi è stata rilevata in molti Paesi, come
gli USA,2,3,4 l’Australia,5,6 il Giappone e l’Europa,7,8 in particolare nel Regno Unito.9 Oltre al Boxer, è stata descritta con
scarsa frequenza in altre razze, come il Mastiff, l’Alaskan
Malamute,10 il Bulldog francese,11 il Bulldog inglese4 ed
anche in un gatto.12 La malattia insorge principalmente nei
cani giovani con meno di 2 anni di età. I segni clinici sono
quelli di una grave infiammazione cronica del grosso intestino e comprendono diarrea, ematochezia, aumento della frequenza della defecazione, tenesmo e muco eccessivo nelle
feci. Nei casi gravi, possono anche comparire perdita di peso
ed inappetenza. I riscontri endoscopici mostrano sedi di una
grave emorragia del colon ed ulcerazioni sparse, con strie di
mucosa di aspetto normale. Istologicamente, le lesioni iniziali possono presentarsi con un infiltrato infiammatorio misto
nella lamina propria, che è sottostante all’epitelio degenerato.1,3,13,14 Con lesioni più estese e malattia cronica, le ulcerazioni diventano più visibili al rilievo istologico, con una grave infiltrazione della lamina propria e delle regioni della sottomucosa con neutrofili, macrofagi, linfociti, plasmacellule e
mast cell. Di solito, si riscontra anche un’imponente perdita
della superficie epiteliale nelle biopsie derivanti da lesioni e
una perdita di cellule caliciformi nell’intero colon. La lesione istologica patognomonica, tuttavia, è l’accumulo di grandi macrofagi che mostrano una intensa positività alla colorazione con l’Acido Periodico di Schiff (PAS) nel loro citoplasma.2,13,15 Questo è ancora il modo migliore per diagnosticare la HUC con certezza. Gli studi immunoistochimici hanno
dimostrato che le lesioni da HUC sono caratterizzate da un
aumento del numero delle cellule L1-positive, nonché delle
cellule positive al MHC di classe II, delle cellule positive
CD3 e delle plasmacellule positive per IgG.9
RICERCHE SULLA PATOGENESI DELL’HUC
I meccanismi coinvolti nella patogenesi della HUC del
cane sono stati oggetto di dibattito per decenni.
Il recente successo del trattamento antibiotico nella HUC
canina ovviamente solleva la domanda se la malattia possa
essere causata da un microrganismo infettante. Tuttavia, non
è la prima volta che questa ipotesti è stata oggetto di studio.
Il ruolo giocato dai macrofagi PAS-positivi è stimolante,
dato che questa tecnica determina la colorazione intracellulare del materiale fagocitato dai macrofagi e gli studi iniziali condotti con il microscopio elettronico hanno dimostrato i
cosiddetti “corpi residuali”, che sembrano dei microrganismi simili a batteri, nei macrofagi che si colorano positiva-
TRATTAMENTO DELLA HUC
Sfortunatamente, sino a non molto tempo fa la prognosi
per l’HUC variava da riservata ad infausta. Il suo trattamento consiste in varie combinazioni di terapia dietetica (cioè
aumento del contenuto di fibra nella formulazione e uso di
38
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
mente con il metodo PAS.18 In una recente pubblicazione
che ha preso in esame la possibilità di una causa infettiva
della HUC canina, mediante ibridazione in situ a fluorescenza della mucosa del colon di Boxer colpiti dalla malattia è stato rilevato un ampio numero di coccobacilli, al contrario di quanto avviene nei tessuti istologicamente normali
e nella mucosa di cani con altri tipi di colite.19 Ulteriori studi mediante coltura, clonazione e sequenziazione della flora
del colon di Boxer con HUC identificarono i batteri come E.
coli. I microrganismi possono essere rilevati mediante
microscopia elettronica e localizzati nel comparto intracellulare in macrofagi PAS-positivi nelle lesioni HUC. Questo
riscontro è eccitante, in particolare perché un’ulteriore classificazione dei geni della virulenza e del comportamento
biologico di questi batteri in co-coltura con cellule epiteliali
e macrofagi rivelò proprietà invasive ed adesive specifiche.
Le colorazioni di E. coli associate ad HUC dimostrarono un
fenotipo simile ed un comportamento adesivo ed invasivo
che somigliava a quello di isolati di E. coli che sono stati
recentemente associati nell’uomo al morbo di Crohn. In
parecchi studi, un ceppo particolare di E. coli, sottonominato E. coli LF82, ha potuto essere dimostrato in biopsie del
20-35% delle lesioni dell’ileo nel morbo di Crohn, ma mai
nei casi controllo sani o altre malattie da colite.20
In pazienti umani con IBD sono stati identificati dei difetti genetici in alcuni recettori dell’immunità innata. La risposta infiammatoria che viene normalmente osservata come
reazione ai batteri patogeni che attraversano la barriera intestinale è simile a quella riscontrata nella mucosa di soggetti
colpiti da morbo di Chron e cani affetti da HUC. È quindi
possibile che anche nei cani con HUC si possano trovare
difetti dei pattern recognition receptors simili a quelli riscontrati nei pazienti umani con IBD. La predisposizione genetica sembra essere uno dei meccanismi evidenti coinvolti, dato
che la maggior parte dei casi descritti è costituita da cani
Boxer giovani, e nella prima segnalazione della malattia, nel
1965, fu possibile far risalire ad un singolo progenitore la
maggior parte dei cani colpiti.1 Resta da stabilire se i Boxer
con HUC portino mutazioni nei pattern recognition receptors
come i TLR o i NOD, tuttavia sembra probabile che un difetto dell’immunità innata renda i cani con HUC più suscettibili ad infezioni specifiche, come quelle sostenute da ceppi di
E. coli che non causano malattia negli animali normali.
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Histiocytic ulcerative colitis - What’s new?
Karin Allenspach
Dr Med Vet, FVH, Dipl ECVIM-CA, PhD, FHEA, Hatfield, UK
CLINICAL AND HISTOPATHOLOGICAL
FEATURES OF CANINE HISTIOCYTIC
ULCERATIVE COLITIS
strategies usually failed to improve the clinical signs in affected animals, and most cases had to be euthanased because of
refractoriness to treatment. Two recent reports have now
sparked hope in treating the disease, as a total of 12 cases have
been reported which have shown dramatic response to treatment with enrofloxacin (5mg/kg po once daily for), or a combination protocol with enrofloxacin, amoxicillin (20mg/kg po
twice daily) and metronidazole (10-15 mg/kg po twice daily)16. The response to treatment with enrofloxacin in the more
recent reports was dramatic, with all dogs responding within
3-12 days of starting treatment. It is particularly encouraging
that several dogs were reportedly disease-free when the drug
had been discontinued after finishing a course of 4-6 weeks of
antibiotic treatment with enrofloxacin4. This implies a possibility of curing the disease in certain cases, even though follow-up times of more than 21 months have not been reported
so far and it is possible that some dogs need treatment with
enrofloxacin for much longer than 6 weeks or possibly even
life-long. In 5 of the reported cases, biopsies were repeated
after finishing the course of antibiotic treatment at the time
when the dogs were in clinical remission. In all of these 5
dogs, a dramatic improvement in the histological lesions was
demonstrated, with disappearance of PAS-positive
macrophages in 3 cases and a marked reduction in the number
of macrophages in the other 2 cases 4.
Histiocytic Ulcerative Colitis (HUC) is a form of inflammatory bowel disease which occurs most frequently in young
Boxer dogs. It was first described 30 years ago 1 and has since
then been reported to occur in many countries, such as the
USA 2 3 4, Australia 5 6, Japan and Europe 7 8, particularly in
the UK 9. Besides Boxers, HUC has also been reported to
occur infrequently in other breeds, such as Mastiffs, Alaskan
Malamutes 10, French Bulldogs 11, English Bulldogs 4 and
even in one cat 12. The onset of disease is predominantly in
dogs younger than 2 years of age. The clinical signs are those
of severe chronic large intestinal inflammation and comprise
diarrhea, hematochezia, increased frequency of defecation,
tenesmus and excessive mucus in the feces. Weight loss and
inappetence can also be seen in severe cases. Endoscopic
findings demonstrate sites of severe colonic hemorrhage and
ulcerations interspersed with stretches of normal appearing
mucosa. Histologically, early lesions can present with a
mixed inflammatory infiltrate in the lamina propria, which
are subjacent to degenerative epithelium 1,3,13,14. With more
extensive lesions and chronic disease, the ulcerations become
more visible on histology with severe infiltration of the lamina propria and the submucosal regions with neutrophils,
macrophages, lymphocytes, plasma cells and mast cells.
There is also usually massive loss of the epithelial surface in
biopsies from lesions and loss of goblet cells in the entire
colon. The pathognomonic histologic lesion however is the
accumulation of large macrophages which stain strongly positive with Periodic Acid Schiff (PAS) in their cytoplasm 2,13,15.
This is still the best way to diagnose HUC with certainty.
Immunohistochemical studies have shown that HUC lesions
are characterized by an increased number of L1 positive cells,
as well as MHC class II positive cells, CD3 positive cells and
IgG positive plasma cells 9.
INVESTIGATIONS INTO
THE PATHOGENESIS OF HUC
The mechanisms involved in the pathogenesis of HUC in
dogs have been debated for decades.
The recent success with antibiotic treatment in canine HUC
obviously raises the question if HUC could be caused by an
infectious organism. It is however not for the first time that
this hypothesis has been investigated. The role played by the
PAS positive macrophages is intriguing, as PAS stains intracellular phagocytosed material in the macrophages, and early
electron microscopic studies have demonstrated so-called
“residual bodies”, which resemble bacteria-like organisms in
PAS- positive staining macrophages 18. In a recent publication
investigating the possibility of an infectious cause for canine
HUC, large numbers of coccobacilli were found by fluorescent in-situ hybridization in the colonic mucosa of Boxers
affected with HUC, as opposed to histologically normal tissues and in the mucosa of dogs with other types of colitis19.
Further studies by culture, cloning and sequencing of the flo-
TREATMENT OF HUC
Unfortunately, the prognosis for HUC has been guarded to
poor until just recently. Management of HUC consisted of
various combinations of dietary management (i.e. increasing
fiber content in the diet and specific elimination diets), and
anti-inflammatory or immune-suppressive treatment with sulfasalazine, prednisolone and azathioprine. However, these
40
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
2.
ra in the colon of Boxers with HUC identified the bacteria to
be E.coli. The bacteria could be identified by electron
microscopy and localized to the intracellular compartment in
PAS positive macrophages in HUC lesions. This finding is
exciting, particularly because further classification of the virulence genes and biological behavior of these bacteria in coculture with epithelial cells and macrophages revealed specific adhesive and invasive properties. The E.coli strains associated with HUC were shown to have a similar phenotype and
adhesive and invasive behavior resembling E.coli isolates
which have recently been associated with Crohn’s disease in
people. In several studies, a particular strain of E.coli, socalled E.coli LF82, could be demonstrated in biopsies of 2035% of ileal lesions in Crohn’s disease, but never in healthy
controls or other colitic diseases 20.
Genetic defects in certain receptors of the innate immunity have been identified in people with IBD. The inflammatory response which is normally only seen as a reaction
towards pathogenic bacteria breaching the intestinal barrier
is similar to what is seen in the mucosa of people affected
with Crohn’s disease and dogs affected with HUC. It is
therefore possible that similar defects in pattern-recognition
receptors as found in people with IBD could be found in
dogs with HUC. A genetic predisposition seems to be one of
the obvious mechanisms involved, as most cases described
are young Boxer dogs, and in the first report of the disease
in 1965, most of the affected dogs could be traced back to a
single ancestor 1. Whether Boxers with HUC carry mutations
in pattern-recognition receptors such as TLRs or NODs
remains to be determined, however, it seems likely that a
defect in the innate immunity renders dogs with HUC more
susceptible to specific infections, such as E.coli strains
which do dot cause disease in normal animals.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
La sfida è fornire prestazioni sanitarie di qualità
Caroline Jevring-Bäck
BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S
La compliance – o, piuttosto, la sua mancanza – è un
problema di vecchia data e ben documentato in ambito
medico umano. Nonostante i potenziali mezzi offerti dalla medicina moderna per prevenire, alleviare e curare
molte forme di cattiva salute, le persone spesso non ne
fanno uso nel modo prescritto. Gli studi condotti hanno
dimostrato che la mancata compliance costituisca un problema molto complesso, con aspetti sociali, economici,
psicologici e comportamentali. Spesso è una decisione
meditata presa da persone che fanno da sole le proprie
scelte sui vantaggi e svantaggi delle medicine. Coinvolgere i pazienti nella gestione delle loro condizioni patologiche, fornendo loro maggiori informazioni sulla
malattia e sui trattamenti ed instaurando un dialogo
migliore con gli operatori sanitari è la chiave per un uso
più efficace dei trattamenti farmacologici.
I veterinari che hanno collaborato all’indagine ed ai
quali è stato chiesto di indicare il livello di compliance
dimostrato dai loro clienti hanno invariabilmente sovrastimato questo dato.
Altri risultati erano ugualmente inquietanti. Ad esempio, a meno di un quinto dei pazienti che avevano bisogno
di diete terapeutiche per problemi di nefropatia, obesità,
calcoli vescicali, allergie alimentari, affezioni gastroenteriche acute e croniche o FLUTD sono state impartite davvero le relative raccomandazioni. Solo un terzo dei potenziali pazienti anziani è stato sottoposto ad una qualche
sorta di “screening geriatrico”. Benché i veterinari odontoiatri raccomandino un trattamento di profilassi per gli
animali con patologie di Grado 1 o superiore, solo il 15%
dei soggetti che aveva bisogno di cure le ha effettivamente ricevute.
Ciò significa che milioni di animali da compagnia che
trarrebbero beneficio da certe terapie mediche non ricevono i trattamenti di cui avrebbero bisogno e che si meriterebbero.
E questo, cosa ha a che fare con
la professione veterinaria?
Nel 2003, l’American Animal Hospital Association
(AAHA), con il generoso sostegno della Hill’s Pet Nutrition
Ltd., ha pubblicato i risultati di una pionieristica indagine ad
ampio raggio sull’importanza della compliance per la professione veterinaria. Questo studio è stato ripetuto in Spagna
nel 2007 ed altre ricerche minori sono state pubblicate in
questi ultimi anni. Ciò che rivelano tutte è una shockante
discrepanza fra il numero degli animali da compagnia
che hanno bisogno di un trattamento e il totale di quelli
che lo ricevono effettivamente. E la causa primaria di tale
discrepanza è la mancanza di una chiara raccomandazione
da parte del veterinario e del suo team.
Lavorare con la compliance
Il raggiungimento di buoni livelli di compliance coinvolge numerosi fattori. Se uno qualsiasi di questi elementi viene meno, non si otterrà la compliance. Questi fattori
vengono utilmente riassunti dalla cosiddetta “equazione
CRAFT”:
C = R x A x FT
Dove C= Compliance
R= Raccomandazione del veterinario e rinforzo da parte del suo team (infermieri veterinari)
A= Accettazione della raccomandazione da parte del
proprietario dell’animale e sua capacità di attuazione
FT= Follow through da parte del team, per garantire
risultati ottimali
Che cos’è la compliance?
La compliance (o osservanza) in medicina veterinaria viene definita come l’evento che si verifica quando gli animali
nella vostra struttura ricevono le cure che voi ritenete migliori per loro. Nello studio dell’AAHA sono state quantificate
sei aree della compliance (vedi riquadro sotto).
Compliance misurata nelle seguenti aree:
1.Test e profilassi della filariosi cardiopolmonare
2.Profilassi dentale
3.Diete terapeutiche
4.Screening degli anziani
5.Vaccinazioni di base del cane e del gatto (DHLPP e FVRCP)
6. Esami pre-anestesia
Relativi solo ad animali visti da un veterinario negli ultimi 12 mesi
42
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
ai clienti le necessarie informazioni di supporto in modo
che possano comprenderle ed accettarle. Gli scopi importanti per la gestione della compliance nella pratica professionale sono ridurre il gap di raccomandazioni, fornire
informazioni ai clienti nel modo più chiaro ed utile ed
instaurare dei sistemi di follow-up gestiti dallo staff che
garantiscano che ogni singolo paziente riceva le migliori
cure possibili.
E i risultati? Animali più sani, proprietari più soddisfatti, personale più sereno e gratificato e maggiori profitti per la struttura.
Probabilmente, il fattore più importante è la raccomandazione iniziale da parte del veterinario. Perché?
Per tre ragioni:
È il primo stadio dell’offerta di cure di buona qualità
Il cliente se lo aspetta: vuole essere informato su ciò
che è meglio per il suo animale (preferibilmente, sia a
parole che per scritto)
Il cliente non conosce i servizi e prodotti disponibili ed
è raro che il costo sia uno dei fattori che influiscono sulla sua scelta
Cosa significa migliorare la compliance
per la professione veterinaria?
CJB, 2009
La compliance è un problema sia morale che di qualità
delle cure: ci sono milioni di animali che non ricevono
prestazioni di livello ottimale perché il team veterinario
non impartisce le raccomandazioni iniziali e poi non offre
Indirizzo per la corrispondenza.
Caroline Back
Nordic Veterinary Affairs Manager - Hill’s Pet Nutrition
43
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Understanding compliance
Caroline Jevring-Bäck
BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S
Compliance – or, rather, lack of compliance – is an ageold problem in the human medical world.
Despite the ability of medicines to prevent, relieve and
even cure many forms of ill health, people often do not take
them as prescribed. Studies show that non-compliance is a
very complex issue involving social, economic, psychological and behavioural aspects. It is often a considered decision by people making their own choices about the benefits
and disadvantages of medicines.
Involving patients in managing their own condition,
through providing more information about the illnesses and
treatments and through better dialogue with health professionals, is key to more effective use of medicines.
one fifth of patients needing therapeutic diets to manage kidney disease, obesity, bladder stones, food allergies, acute and
chronic GI disease or FLUTD actually received a recommendation. Only one third of potential senior patients
received any sort of ‘Senior screening’. Although veterinary
dental specialists recommend prophylactic treatments for
pets with Grade 1 disease or higher, only 15% of pets needing care actually received it. What this means is that millions
of pets that would benefit from medical care are not receiving the treatment they need and deserve.
Working with compliance
Achieving good levels of compliance involves a number
of different factors. If any one of these elements is missing
then compliance will not be achieved. These factors are usefully summarised in ‘the CRAFT equation’:
So, what has this to do with the
veterinary profession?
In 2003, the American Animal Hospital Association,
using a generous grant from Hill’s Pet Nutrition Ltd.,
published the results of a comprehensive and groundbreaking survey into the importance of compliance for the veterinary profession. This study was repeated in Spain in
2007, and further minor studies have been published as
well in the last few years.
What they all reveal is the shocking discrepancy
between the number of pets requiring treatment and the
number actually getting that treatment. And the primary
cause of this discrepancy is lack of a clear recommendation
from the vet and practice team.
C = R x A x FT
Where C= Compliance
R= Recommendation by vet and reinforcement by healthcare team (vet nurses)
A= Acceptance of recommendation by pet owner and
ability to go into action
FT= Follow through by healthcare team to ensure optimal
outcomes
Probably the most important factor is the initial recommendation from the vet. Why? There are three reasons:
It is the first stage in providing quality of care
Clients expect it: clients want to be informed about what
is best for their pet (preferably both verbally and in writing),
Clients don’t know what services and products are available and cost is seldom an issue affecting their choice
What is compliance?
Compliance is defined as ensuring the pets in your practice receive the care you believe is best for them. In the
AAHA study six areas for compliance were quantified (see
box below).
What does improving compliance mean
for the veterinary profession?
Compliance measured in the following areas:
1.
2.
3.
4.
5.
Heartworm testing and preventive
Dental prophylaxis
Therapeutic diets
Senior screenings
Canine and Feline core vaccines
(DHLPP and FVRCP)
6. Pre-anaesthetic testing
Compliance is both a moral and quality of care issue:
there are millions of pets not receiving optimal levels of care
because the veterinary care team is not making the initial
recommendation, and then not providing the support information clients need in a way they can understand and accept.
Important goals in managing compliance in practice are
reducing the recommendation gap, providing information in
a clearer, more helpful way to clients, and creating staffmanaged follow up systems that ensure every single patient
receives the best possible care. And the outcomes? Healthier pets, more satisfied pet owners, happier, more fulfilled
staff, and greater practice profits.
Relates only to pets seen by a veterinarian in the last
12 months
Contributing veterinarians asked to guess the level of
compliance shown by their clients invariably over-estimated.
Other results were equally disturbing. For example, less than
CJB, 2009
44
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Sei un vero leader nella tua attività?
Caroline Jevring-Bäck
BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S
re la maggior parte della propria soddisfazione dal successo
altrui e non temono di iniziare a fare cose nuove e di mostrare ad altri la strada – sporcandosi letteralmente le mani. Inoltre, riconoscono l’importanza di lasciare spazio alla crescita
ed allo sviluppo di coloro che sostengono – non cercano di
fare tutto da soli.
È la qualità della leadership, più di ogni altro singolo fattore, a determinare il successo o l’insuccesso di un’organizzazione Fred Fiedler & Martin Chemers, Improving Leadership Effectiveness
Le strutture veterinarie hanno bisogno di leader? Dopo tutto, sono popolate da individui intelligenti ed energici sulla cui
capacità di autogestione per arrivare ad ottenere risultati elevati si dovrebbe poter fare affidamento. La risposta è semplice: “Sì”. Sia i professionisti che il personale di supporto di
queste strutture conducono una vita molto impegnata, con
molte esigenze contrastanti che richiedono il loro tempo e la
loro attenzione. Spesso, vengono così coinvolti dalle minuzie
del presente da perdere di vista il punto dove vogliono condurre le proprie vite. I buoni leader all’interno di una struttura offrono la direzione e la spinta necessarie ad aiutare il loro
staff ad arrivare a traguardi più numerosi e più elevati di quelli che raggiungerebbero da soli. Così facendo, costruiscono
simultaneamente un ambiente più sereno e più produttivo.
La sfida del leader “dalle molte facce”
Nella maggior parte delle strutture, i dirigenti devono avere
molte sfaccettature. Bisogna che siano leader, manager, proprietari di impresa e veterinari: i differenti ruoli richiedono abilità diverse e portano a risultati differenti. Per i dirigenti delle
strutture più piccole, spesso non esiste alcuna ragionevole alternativa. Un leader riesce a far sì che altri facciano certe cose perché li ha convinti della loro importanza e li ha spinti a desiderare di ottenerle. Un leader è efficace. Ha bisogno di buone
capacità di comunicazione, negoziazione, delega ed autogestione, abbinate ad una visione a lungo termine.
Un manager realizza l’ambiente in cui gli operatori possano raggiungere la massima efficacia. Un manager è efficiente. Il tempo di un manager è più frammentato di quello
di un leader, con una maggiore diversità di problemi e situazioni da affrontare ogni giorno ed i risultati sono più ambigui e difficili da misurare.
Un proprietario è interessato soprattutto al profitto della
struttura.
Un clinico veterinario si concentra su diagnosi, terapia e
gestione di visite, interventi chirurgici ed appuntamenti. La
sua giornata termina con dei segni visibili dei progressi compiuti, che possono essere misurati in molti modi diversi,
come il numero dei clienti visti e le entrate generate.
Questi sono tutti comportamenti diversi, aspettative diverse e
diverse misurazioni dei progressi e dei risultati: cercare di combinare questi ruoli contrastanti può solo portare ad una soluzione di compromesso per un dirigente dalle molte sfaccettature e,
non infrequentemente, è causa di frustrazione personale, stress
ed aumento del rischio di burnout fisico e mentale.
La decisione che si deve prendere all’interno di una struttura è: per il bene della struttura stessa, in che modo il dirigente risulta più prezioso? In quale ruolo (o in quali ruoli)
rende più di una semplice unità produttiva, per quanto buona? Per i ruoli che il dirigente è meno disposto o capace di
sostenere, si devono trovare delle alternative, come l’assunzione di un manager o di un altro clinico.
In che modo pensate di poter contribuire al meglio come
leader della vostra struttura?
COS’È LA LEADERSHIP?
La funzione della leadership è produrre il cambiamento.
Ciò comporta stabilire la direzione – sviluppando una visione – per il futuro della propria attività, identificando le
necessarie strategie per realizzare la visione, schierando la
gente dietro queste strategie e dando loro la forza di far sì
che la visione si realizzi, nonostante gli ostacoli. Ciò è in
contrasto con il management, che consiste nel mantenere
operativo il sistema in atto attraverso la pianificazione, il
budget, l’organizzazione, il reclutamento del personale, il
controllo e la soluzione dei problemi. Colui che pensa che il
management sia la leadership gestirà il cambiamento, tenendolo quindi sotto controllo, ma non riuscirà ad offrire ciò che
occorre per i progressi più grandi e più difficili.
Le caratteristiche personali che hanno in comune i leader
efficaci sono la volontà di lavorare duro, la capacità di prendere decisioni, l’entusiasmo e, cosa forse più importante di
tutte, la capacità di rispondere rapidamente al cambiamento.
Spesso, questi leader innovativi sono persone che non accettano le regole, le consuetudini e le tradizioni – dette o non
dette – che hanno governato in precedenza la struttura.
L’abilità primaria di un leader (e il banco di prova di tutte
le sue attività) è data dalla sua capacità o meno di far aumentare il livello di impegno, la spinta e la produttività di coloro che influenza. I leader efficaci sono capaci di integrare
elementi di umanità con dure azioni imprenditoriali attraverso la capacità di influenzare positivamente le emozioni, i
sentimenti e gli atteggiamenti di altri e la loro determinazione di manifestare il proprio potenziale. Sono disposti a trar-
CBJ March 2009
Adattato da: ‘Managing a Veterinary Practice’, Elsevier, 2007
45
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Are you an effective leader for your clinic?
Caroline Jevring-Bäck
BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S
making space for the growth and development of the people
they support – they do not try to do everything themselves.
The quality of leadership, more than any other single factor, determines the success or failure of an organization
Fred Fiedler & Martin Chemers, Improving Leadership
Effectiveness
Should practices need leaders? After all, they are peopled
by intelligent, energetic individuals whom it should be possible to rely upon to be self-managing, high achievers. The simple answer is, ‘Yes’. Both professional and support staff in
practices lead busy lives with many conflicting demands on
their time and attention. They often become so involved with
the minutiae of the present that they lose sight of where they
want to go with their lives. Good practice leaders provide the
direction and drive to help their staff accomplish more and
greater things than they would do on their own. This simultaneously builds a happier and more productive practice.
The challenge of the multi-faceted leader
In most practices, principals have to be multi-faceted.
They have to be leaders, managers, practice owners and veterinarians: different roles requiring different skills and producing different results. For the principals of smaller practices, there is often no reasonably viable alternative.
A leader gets things done through people by making
meaning for them and a desire to achieve. A leader is effective. He or she requires good communication, negotiation,
delegation and self-management skills, coupled with longterm perspective.
A manager creates the environment in which people can
be more effective. A manager is efficient. A manager’s time
is more splintered than a leader’s with a greater diversity of
problems and situations to deal with in any one day, and the
results are more ambiguous and difficult to measure.
An owner is most interested in the practice’s profit.
A clinical veterinarian concentrates on the diagnosis,
treatment and management of the consultations, operations
and visits booked. His or her day ends with visible signs of
progress which can be measured in a number of different
ways, such as number of clients seen, and income generated.
These are all different behaviours, different expectations
and different measures of progress and achievement: trying
to combine these contrasting roles can only result in compromise for the multi-faceted principal, and, not infrequently, leads to personal frustration, stress and an increased risk
of physical and mental ‘burn out’.
The decision that has to be made within the practice is: –
for the good of the practice, how is the practice principal
most valuable to the practice? In which role(s) does he or
she become more of an overhead than a valuable production
unit? For the roles that the principal is less willing or able to
take, alternatives must be found, such as hiring a practice
manager, or another clinician.
How do you think that you can contribute best as a leader
to your practice?
WHAT IS LEADERSHIP?
The function of leadership is to produce change. This
involves setting a direction - developing a vision – for the
future of the business, identifying the necessary strategies to
achieve the vision, aligning people behind those strategies,
and empowering them to make the vision happen, despite
obstacles. This is in contrast to management, which involves
keeping the current system operating through planning,
budgeting, organising, staffing, controlling and problem
solving. The person who thinks management is leadership
will manage change, hence keeping it under control, but he
or she will be unable to provide the stuff required to make
larger and more difficult leaps.
Personal characteristics effective leaders have in common are a willingness to work hard, decisiveness, enthusiasm, and, perhaps most important of all, an ability to
respond quickly to change. Often these proactive leaders
are individuals who do not accept the rules, regulations
and traditions – spoken or unspoken - that have governed
the practice earlier.
The primary skill of a leader (and the test of all his or her
activities)is whether or not they are able to raise the level of
commitment, drive and productivity of those they influence.
Effective leaders are able to integrate the soft human elements
with hard business actions through positively influencing other people’s emotions, feelings, attitudes, and their determination to achieve their potential. They are willing to get most of
their fulfilment from the success of others, are not afraid to
start new things and to show others the way forward – literally to get their hands dirty. They also realise the importance of
CBJ March 2009
Adapted from: ‘Managing a Veterinary Practice’, Elsevier,
2007.
Address for correspondence:
Caroline Back
Nordic Veterinary Affairs Manager - Hill’s Pet Nutrition
46
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Gestire il cambiamento con successo
Caroline Jevring-Bäck
BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S
La caratteristica costante dell’ambiente lavorativo odierno è
il cambiamento. Dato che, per sua stessa natura, questo è un
fenomeno continuo, un’attività di successo deve essere flessibile ed adattabile – cioè un’organizzazione in grado di reagire.
Il cambiamento avviene continuamente intorno a noi. I fattori di modificazione che influiscono sulla pratica professionale odierna possono essere suddivisi in tre grandi categorie:
1. i “fattori mondiali”, come la recessione globale, i progressi della tecnica e della medicina, gli sviluppi dell’informatica e di internet ed alcune norme (le abitudini alimentari della popolazione che influiscono sulle produzioni animali, il benessere degli animali durante il
trasporto, la diffusione delle malattie) sui quali la professione ha scarsa influenza.
2. i fattori “esterni” (clienti) come l’aumento delle conoscenze, delle aspettative e delle esigenze della clientela. In questa categoria rientrano anche le modificazioni demografiche,
le diverse modalità di detenzione degli animali da compagnia e persino gli aspetti legati alla salute umana in
relazione al loro possesso. È una delle maggiori aree di
opportunità e di progresso in ambito professionale.
3. i fattori “interni” (alla struttura in cui si opera) che riflettono l’atteggiamento ed i sentimenti all’interno della professione stessa e comprendono le esigenze di cambiamento dei nuovi laureati, alcuni aspetti legislativi (ad esempio,
le norme relative agli infermieri veterinari) e la crescita
dei livelli di conoscenza e lo sviluppo di nuove capacità
tecniche. Gli atteggiamenti e le convinzioni spesso impiegano molto tempo a cambiare e questa categoria può
essere una significativa area di limitazione per lo sviluppo
della professione.
RIQUADRO 1
Gli otto stadi della guida al cambiamento
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Stabilire l’urgenza
Formare una coalizione di guida
Avere una visione
Comunicare la visione
Fornire i mezzi per l’azione
Ottenere vittorie a breve termine
Consolidare
Istituzionalizzare il cambiamento
terà loro, o se ne ha una percezione ambigua, finirà per temere il peggio.
Guidare il cambiamento è impegnativo e difficile. Tuttavia, il guru del management John Kotter (1) ha sviluppato un
potente processo in otto stadi (vedi riquadro 1: gli otto stadi
della guida al cambiamento) che viene ampiamente utilizzata nell’alta finanza e che può essere modificata in modo da
adattarsi altrettanto bene alle piccole imprese e persino alle
cliniche veterinarie.
L’esempio fornito nel corso della relazione descrive il
modo in cui questi otto stadi sono stati messi in atto con successo in una situazione di vita reale per imprimere una svolta ad un grande ospedale veterinario in Svezia che si trovava
in cattive condizioni.
1.Stabilire l’urgenza
La gente si oppone per natura al cambiamento, anche se
sa che è necessario. Per ottenere l’energia indispensabile per
guidare il processo di modificazione è di importanza vitale
suscitare un senso di urgenza. Tuttavia, è facile che l’
“urgenza” venga interpretata come panico, che è un’emozione distruttiva. La chiave è quella di coinvolgere lo staff
mostrando loro chiaramente dove sta il problema, l’effetto
che hanno sull’organizzazione e ciò che insieme possiamo e
dobbiamo fare con loro.
Il cambiamento è una minaccia per i familiari quadri di
comportamento, sicurezza, status e gratificazioni economiche e viene raramente accolto a braccia aperte – anche da
coloro che sanno che è per il meglio. Il cambiamento richiede di fare le cose in modo differente, il che – all’inizio –
comporta un aumento dell’energia e degli sforzi profusi. La
gente ha una naturale preferenza per la stabilità, le abitudini
ed il conformismo (“il modo in cui abbiamo sempre fatto
qui”). Vedono e percepiscono il cambiamento come una
minaccia al proprio comfort ed ai propri interessi e spesso
focalizzano l’attenzione solo sul disagio a breve termine
generato dallo sforzo del cambiamento piuttosto che sui vantaggi a lungo termine. Anche la paura di cambiare è una
ragione molto significativa per opporsi al cambiamento. Se
la gente non comprende i benefici che il cambiamento por-
2.Formare una coalizione guida
In questa fase del cambiamento sono essenziali dei leader
dotati di una forte capacità visionaria che lavorino bene
insieme ed ispirino i loro collaboratori.
3. Avere una visione
Una visione è necessaria per guidare tutte le decisioni e
dare loro forma. Una visione deve essere fonte di ispirazio47
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
ne ed eccitazione – e una vera sfida! Questa visione viene
poi usata per redigere la pianificazione dell’attività per i successivi tre anni.
7. Consolidare
Non esiste un punto di arrivo del cambiamento o del processo di modificazione. Il cambiamento è continuo e quindi
è importante che i mutamenti desiderabili all’interno dell’organizzazione vengano consolidati. Ciò si può fare, ad
esempio, esaminando in maniera critica i cambiamenti e
verificando che stiano funzionando come previsto, assumendo le persone giuste che contribuiranno a motivare e guidare il processo ed incoraggiando e ricompensando le nuove
idee ed i nuovi modi di fare le cose.
4. Comunicare la visione
È essenziale che la visione viva in tutte le decisioni prese
nell’ambito dell’attività e per ottenere questo risultato i leader dell’organizzazione devono costantemente fare “fatti,
non parole”.
5. Fornire i mezzi per l’azione
Un problema che limita la crescita ed il cambiamento in
molte cliniche è che nessuno si prende la responsabilità delle decisioni. Inoltre, quando viene delegata una decisione,
spesso non vengono assegnate anche le risorse appropriate
quali conoscenze, preparazione e tempo, il che provoca frustrazione ed apatia. Attivando un chiaro modello di organizzazione con una linea diretta delle responsabilità, ed imparando a delegare assegnando anche le risorse necessarie, la
creatività e la spontaneità cominceranno ad emergere.
8. Istituzionalizzare il cambiamento
Lo stadio finale del processo del cambiamento è la sua
istituzionalizzazione – facendolo entrare a far parte della
cultura, in modo che l’organizzazione non possa scivolare
indietro al “buon tempo andato”. Ciò si applica sia all’interno che all’esterno, in relazione al modo in cui ci vedono le
altre organizzazioni ed i clienti.
CJB, 2009
6. Ottenere vittorie a breve termine
È importante mostrare che il cambiamento si sta davvero
verificando. Sono esempi di vittorie a breve termine l’arrivo
di nuove uniformi, la sostituzione dei vecchi computer con
altri nuovi, l’attivazione di nuove posizioni funzionali per i
collaboratori migliori e la realizzazione di un locale dove i
proprietari possano visitare gli animali ricoverati. È anche
importante ricompensare visibilmente i successi con premi e
riconoscimenti.
Bibliografia
1.
Leading Change, John Kotter, 1995.
Indirizzo per la corrispondenza.
Caroline Back
Nordic Veterinary Affairs Manager - Hill’s Pet Nutrition
48
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Leading change
Caroline Jevring-Bäck
BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S
The one consistent feature of today’s business environment is change. As change by its very nature is continuous
then the successful business must be flexible and adaptable
– the responsive organisation.
Change is happening around us all the time. Change factors affecting practice today can be divided into three broad
categories
1. ’world factors’ such as global recession, technical and
medical advances, IT and internet advances and some legislation (eating habits of people that affect animal production, humane transport of animals, spread of disease) over
which the profession has little influence.
2. ’external’ (client) factors such as increased client knowledge, expectations and demands. This category also
includes changing demographics, pet ownership patterns,
and even human health in relation to animal ownership. It
is a major area for opportunity and progress in practice.
3. ’internal’(practice) factors which reflect the attitude and
feelings within the profession itself and include the changing needs of new graduates, some legislation ( for example,
regulations for veterinary nurses), and growth in knowledge
and skill development. Attitudes and beliefs often take a
long time to change and this category can be a significant
area of limitation for development of the profession.
BOX 1: The eight stages of leading change
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Establish urgency
Form a guiding coalition
Create vision
Communicate vision
Empower action
Create short-term wins
Consolidate
Institutionalise change
1. Establish urgency
People are naturally resistant to change, even if they know
it is needed. To create the necessary energy to drive the
change process it is vital to establish a sense of urgency.
However, it is easy that ‘urgency’ is interpreted as panic
which is a destructive emotion. The key is to involve staff by
clearly showing them where problems lie, the effect they
have on the organisation, and what we together can and shall
do about them.
2. Form a guiding coalition
Strong visionary leaders who work well together and inspire
to their co-workers are essential to this phase of change.
Change is a threat to familiar patterns of behaviour, security, status and financial rewards and is seldom met with
open arms – even when people know it is for the better.
Change requires doing things differently which – in the
beginning - requires increased energy and effort. People
have a natural preference for stability, habit and conformity
(‘The way we’ve always done things around here’). They see
change as a perceived threat to their own comfort and interests and often only focus on the short-term discomfort a
change effort generates rather than the longer term benefits.
Fear of change is also a very significant reason to resist
change. If people do not understand or feel ambiguous about
the benefits change will bring them, they fear the worst.
Leading change is challenging and difficult. However, management guru john Kotter(1)) has developed a powerful eight
stage process (see box 1: The eight stages of leading change)
used widely in Big Business which can be modified to work
just as well in small companies and even veterinary clinics.
The example given during the presentation describes how
these eight stages were implemented successfully in a real
life situation to turn around a large, failing vet hospital in
Sweden.
3. Create vision
A vision is necessary to guide and shape all decisions. A
vision should be inspiring and exciting – and a real challenge! This vision is then used to write the business plan for
the next three years.
4. Communicate vision
It is essential the vision lives in all decisions made in the
business, and to achieve this the organisation’s leaders must
constantly ‘walk the talk’.
5. Empower action
A problem that limits growth and change in many clinics
is the tradition that no one takes responsibility for decisions.
In addition, if a decision is delegated, often appropriate
resources such as knowledge, training and time are not,
which results in frustration and apathy. By creating a clear
organisation’s model with direct line-responsibility, and
learning to delegate with the necessary resources creativity
and spontaneity began to come forth.
49
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
6. Create short-term wins
8. Institutionalise change
The final stage in the change process is institutionalising
it – making it part of the culture so that the organisation cannot slip back into ‘the good old ways’. This applies both
internally and even externally in how other organisations and
clients see us
It is important to show that change is really happening.
Short term wins such as having new uniforms, exchanging
old for new computers, creating the position of Care Nurse,
and creating a Care room for owners to visit ward patients
are examples. It is also important to visibly reward wins with
public praise and recognition.
CJB, 2009
7. Consolidate
There is no end point with change or with a change
process. Change is continuous so it is important that desirable changes within the organisation are consolidated. This
is done by, for example, critically reviewing changes and
seeing that they function as planned, hiring the right people
who will contribute to motivating and leading the process
forward, and encouraging and rewarding new ideas and new
ways of doing things.
References
1.
Leading Change, John Kotter, 1995.
Address for correspondence:
Caroline Back
Nordic Veterinary Affairs Manager - Hill’s Pet Nutrition
50
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Progettazione/organizzazione:
uno strumento per migliorare la tua professione
Caroline Jevring-Bäck
BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S
Il successo è un parametro misurabile ed implica un
miglioramento rispetto alla situazione precedente. Può
essere misurato in molti modi, come il fatto di avere più
denaro, essere più felici, avere più proprietà ed ottenere
risultati migliori. Si tratta di un fattore fortemente individuale, per cui ciò che può essere successo per uno può
essere solo mediocrità per un altro. Il successo può arrivare all’improvviso o dopo una vita di lotte. Talvolta sembra
essere sfuggente. Spesso è di breve durata – la vittoria di
oggi ha già meno valore il giorno dopo.
In un’attività imprenditoriale, il successo deriva dall’aver soddisfatto gli scopi dell’impresa, cioè averne portato
al massimo il valore nel tempo attraverso la vendita di beni
e servizi. Il successo si ottiene attraverso la pianificazione:
il suo livello è influenzato da una combinazione di impegno, duro lavoro e fortuna.
Nell’attività imprenditoriale, la pianificazione è sia a
breve che a lungo termine. Si tratta di un’attività con il
compito di adattare la struttura ed i sistemi alle idee che
avete al momento – non consiste necessariamente nell’introdurre un mucchio di idee nuove. Una pianificazione è
importante perché consente all’impresa di prevedere e
pianificare gli eventi futuri invece di limitarsi a reagire
alle circostanze esterne e andare alla deriva da una crisi
all’altra.
Il punto di partenza di una pianificazione di impresa
consiste nel rispondere a queste domande fondamentali:
• A che punto siamo?
• Dove ci piacerebbe essere e quando?
• Come possiamo riuscirci?
perdite, i fogli di bilancio ed i dati chiave come le entrate
generate da ogni veterinario, i costi dello staff espressi
come percentuale delle entrate generate e gli onorari
incassati per ciascun caso. Se assimilati correttamente,
questi dati chiave possono essere molto utili nel confronto
con altre strutture simili.
Il passo successivo è considerare dove la struttura vuole andare, ed in quanto tempo. Ciò prevede un approfondito esame della filosofia della struttura stessa e la sua nuova affermazione in un linguaggio chiaro e semplice. Questa “visione” descrive il futuro desiderato per la struttura.
Verranno quindi delineate le strategie per arrivare a questa
visione o scopo, suddividendole ulteriormente in pianificazioni.
Queste ultime indicano delle azioni misurabili con le
quali sarà possibile monitorare i progressi.
Il modo semplice per esprimere un piano è di individuare uno scopo SMART:
• Specific (specifico)
• Measurable (misurabile)
• Actionable (attuabile)
• Realistic (realistico)
• Timed (temporizzato)
Per questa struttura, aggiungerei anche una “R” per
responsabile: colui che è effettivamente responsabile di
vedere che il piano venga seguito e che i risultati vengano
misurati.
La “R” può anche significare risorse, dal momento che
è necessario investire in tutte quelle che occorrono per
soddisfare le pianificazioni.
Esistono tre principali aree, parzialmente sovrapposte,
che richiedono una pianificazione in una struttura:
È importante partire dalla prima domanda, dato che la
mancanza di un’analisi iniziale della situazione in atto può
portare a discordie interne e a prendere decisioni sbagliate. Il modo più semplice per valutare la situazione in atto
è quello di chiedere a tutti i membri della struttura di contribuire ad un’analisi SWOT che determina lo stato della
struttura stessa in relazione a:
• Strengths (forze): gli aspetti positivi della struttura
• Weaknesses (debolezze): i punti deboli
• Opportunities (opportunità): dove è possibile attuare
dei miglioramenti
• Threats (minacce): i rischi, potenziali o reali, dell’impresa.
• Persone: tutte le organizzazioni dipendono dalle persone per il loro successo. Impiegare lo staff giusto,
offrire incentivi appropriati ed ottenere buoni risultati
sono tutti elementi della pianificazione relativa al
personale.
• Aspetti economici: lo scopo del budget è quello di
tradurre i vostri piani in dati reali che fissino dei traguardi per il futuro rendimento dell’impresa. Monitorando il rendimento attuale in confronto al budget
è possibile individuare precocemente problemi e
carenze.
• Marketing: serve ad attirare, mantenere e far crescere
la clientela.
Inoltre è necessario condurre una dettagliata analisi della situazione economica considerando i conti profitti e
51
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Il piano di impresa a questo punto è pronto per l’uso –
ma qui viene il difficile: far sì che coloro che lavorano nella struttura modifichino il loro attuale comportamento in
modo da ottenere i risultati pianificati.
Questi devono essere costantemente e regolarmente
monitorati a sottoposti ad una fine regolazione per giungere ai traguardi stabiliti.
Il successo è il frutto di una accurata pianificazione che
viene rigorosamente monitorata. Tuttavia, senza una chiara visione di dove state andando e senza specifici comportamenti da misurare, è quasi impossibile giungere alla
meta. Stabilire i traguardi da ottenere, fissare le strategie
ed elaborare i piani di azione sono una parte continuamente in atto ed in costante mutamento del processo che
costituisce lo stile di vita necessario per arrivare ad una
struttura di successo.
CJB, March 2009
Indirizzo per la corrispondenza.
Caroline Back
Nordic Veterinary Affairs Manager - Hill’s Pet Nutrition
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Planning for success
Caroline Jevring-Bäck
BVetMed, MRCVS, Stoccolma, S
Success is a measurable parameter and implies an
improvement on what has been before. It can be measured in
many ways including having more money, being happier,
owning more possessions and reaching greater achievements. Success is very individual, so what is success for one
may be only mediocre for another. Success can happen
quickly or after a lifetime of struggle. Sometimes success
seems to be elusive. Achieving success is often short-lived –
success today is already of less value the next.
In business, success results from fulfilling the business’s
purpose, that is maximising the business’s value over time
by selling goods and services. Success is achieved through
planning: the level of success is influenced by a combination
of commitment, hard work and luck.
Planning in business is both short term and long term. It
puts structure and systems to the current ideas you have – it
is not necessarily bringing in lots of new ideas. A business
plan is important because it enables the business to predict
and plan for future events instead of just reacting to outside
circumstances and drifting from one crisis to another.
The starting point of a business plan is to answer these
fundamental questions:
• Where are we now?
• Where would we like to be and when?
• How can we get there?
ple language. This ‘vision’ describes the desirable future of
the practice. Strategies to achieve the vision or goal are then
outlined which are further broken down into plans. Plans
provide measurable actions with which to monitor progress.
The simple way to express a plan is as a SMART goal:
• Specific
• Measurable
• Actionable
• Realistic
• Timed
To this structure I would also add an ‘R’ for responsible:
who is actually responsible for seeing that the plan is followed through and the outcomes measured. ‘R’ can also
include resources as it is also necessary to invest in any
resources that are needed to fulfil the plans.
There are three main overlapping areas that require planning in practice:
• People: all organisations depend for their success on
people. Employing the right staff, offering appropriate
incentives, and producing good results are all part of
people planning.
• Finances: the purpose of budgeting is to turn your plans
into actual figures which set targets for future business
performance. By monitoring actual performance
against the budget early detection of problems and deficiencies are possible.
• Marketing: serves to attract, retain and develop clients.
It is important to start with the first question as failure to
first analyse your current situation can lead to internal discord and bad decision making. The simplest way to look at
your current situation is to ask all practice members to contribute to a SWOT analysis which determines the practice in
relation to its:
• Strengths: the positive aspects of the practice
• Weaknesses: the skill gaps
• Opportunities: where improvements can take place
• Threats: the potential or actual business risks.
The business plan is now ready for use – but here comes
the hardest part: getting people in the practice to change
their current behaviour to achieve the results of the plans.
Results must be constantly and regularly monitored and fine
tuning made to reach the desired goals.
Success is the outcome of careful planning that is rigorously monitored. However, without a clear vision of where you are
going and without specific behaviours to measure, it is almost
impossible to achieve a goal. Goal-setting, strategies, and
action plans are an ongoing, ever-changing part of the process
that is a way of life in creating successful practices.
In addition it is necessary to carry out a detailed financial
analysis including looking at the profit and loss accounts,
balance sheet and key figures such as income generated per
veterinarian, staff costs as a percentage of income generated,
and fees generated per case. If correctly assimilated these
key figures can be very useful in comparisons with other
similar practices.
The next stage is to consider where the practice wants to
be and by when. This includes a thorough examination of the
philosophy of the practice and the restating of it in clear sim-
CJB, March 2009
Address for correspondence:
Caroline Back
Nordic Veterinary Affairs Manager - Hill’s Pet Nutrition
53
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Il comportamento di aggressione:
sintomo o diagnosi?
Claude Beata
Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F
Da un articolo di Colette Arpaillange
Docteur Vétérinaire Comportementaliste DENVF
Non esiste un comportamento aggressivo, ma numerosi
comportamenti diversi per le loro origini e conseguenze.
D 1990). Si ritroveranno anche i termini di aggressione
difensiva (il cane risponde all’approccio della sua vittima o
si difende nei confronti di un pericolo reale o immaginario)
o offensiva (il cane si dirige verso la sua vittima).
La classificazione più utilizzata in Francia è quella proposta da Patrick Pageat (1998) secondo quella di Moyer
(1968). Riporta cinque tipi di aggressioni, che si distinguono essenzialmente per il loro svolgersi: fattore scatenante o
circostanze scatenanti, descrizione della sequenza (fase di
minaccia, consumo o tranquillizzazione).
Altre classificazioni vengono proposte da altri autori (cfr.
schema).
La classificazione di Pageat è riassunta nella Tabella 1.
DEFINIZIONI
L’aggressione corrisponde ad un comportamento che porta a colpire l’integrità fisica o psichica di un altro individuo
o l’integrità dell’ambiente. Per alcuni etologi, ogni comportamento che ha per obiettivo intimidire l’altro e per risultato
mantenerlo a distanza può essere considerato come un’aggressione, anche se non comporta alcun danno. Una minaccia è quindi un’aggressione, ma anche altri comportamenti
che consentono la difesa del territorio, come la marcatura, ne
farebbero quindi parte (McFarland D., 1990). Un cane è detto aggressivo quando si trova in uno stato di motivazione che
scatena una maggiore probabilità di produrre dei comportamenti aggressivi (Dehasse J. 2002). L’aggressività è la condizione di reazione in cui il cane mostra la maggiore aggressione (Mège C 2003).
Ridefiniremo i nostri propositi sulla valutazione dell’aggressività che porta attacco all’integrità delle persone.
È difficile parlare di valutazione di aggressività senza
richiamare le nozioni di rischio e di pericolo.
Il rischio è un “pericolo in cui rientra l’idea di un ruolo
della sorte” (Littré 2006). Il pericolo è una “Situazione, congiuntura, circostanza, che compromette la sicurezza, l’esistenza di una persona o di una cosa” (Littré 2006).
Un rischio valutabile può essere considerato come la probabilità di occorrenza di un pericolo o di una situazione pericolosa. Un cane è considerato come potenzialmente pericoloso quando possiede delle caratteristiche che fanno sì che
un’integrità fisica o psichica possa essere messa in pericolo
dai suoi comportamenti (Dehasse J 2002).
MEZZI DI VALUTAZIONE
La valutazione dei comportamenti aggressivi in clinica
può fare riferimento a diversi strumenti.
Semiologia delle aggressioni
L’andamento clinico seguito nella medicina comportamentale non differisce in nulla da quello che adotta la medicina veterinaria in generale:
- individuare i sintomi presenti
- raggrupparli per determinare una o più ipotesi diagnostiche di cui sarà valutata la pertinenza
L’esame del comportamento aggressivo non fa eccezione
e necessita di uno studio approfondito dell’insieme del comportamento dell’animale, per determinare l’origine dei sintomi osservati ed il disturbo del comportamento in causa.
La valutazione clinica delle condotte aggressive mira a
tipizzare l’aggressione secondo la classificazione riportata
(cfr.§3). Il clinico si sforzerà di analizzare con precisione la
sequenza comportamentale ed il contesto dello scatenamento.
- Fase di minaccia: Dove (dov’era il cane, dov’era la vittima, in quale luogo…)? Quando (in quale momento della giornata, che cosa aveva fatto il cane prima, che cosa
aveva fatto la vittima prima…)? Contesto (situazione
aperta o chiusa, livello di eccitazione del cane prima del
morso, attività del cane al momento del morso, attività
della vittima al momento del morso, spostamento e natura dell’interazione, presenza di testimoni, presenza di
altri cani, di un altro animale)…? Atteggiamento del
cane (mimica facciale, postura, vocalizzi [ringhi, abbaiamenti, grida, gemiti…], segni neurovegetativi, segni di
paura, tentativo di fuga…)?
TIPI DI AGGRESSIONE
Esistono numerose classificazioni possibili di aggressioni
canine.
Queste classificazioni si basano sul contesto, la motivazione, il fattore scatenante e la conseguenza o l’effetto. Le
differenze derivano dall’approccio che viene scelto.
Una prima dicotomia riguarda le aggressioni di autodifesa e quelle il cui scopo è proteggere la proprietà (McFarland
54
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
campione si divideva fra cani campione aggressivi (23 appartenenti ad altre razze) e cani campione non aggressivi.
Nella procedura, le situazioni messe in atto sono molto
variate e si realizzano in assenza o in presenza del proprietario, secondo delle procedure standardizzate. I test appaiono come estremamente faticosi per i cani e del resto la frequenza dei comportamenti aggressivi è elevata (il 97% dei
cani presenta aggressioni!), ivi compresi i cani campione.
D’altra parte, si rilevano delle frequenze significative tra i
cani non morsicatori ed i cani aggressivi nei confronti delle
persone soltanto nella categoria dei cani di razze ritenute
pericolose ed assolutamente non nei soggetti di controllo.
- Fase consumatoria: descrizione precisa del morso, in
particolare: morso trattenuto o no, morso semplice o
multiplo, danni provocati (lesione cutanea, slabbramento, ematoma)…
- Fase di tranquillizzazione: è importante conoscere l’atteggiamento immediato del cane, quello della vittima e degli
eventuali testimoni, in particolare del proprietario, così
come le reazioni di risposta del cane. Soprattutto, si mirerà a rilevare il ritorno ad una postura minacciosa o, al contrario, alla fuga o ad una postura di tranquillizzazione.
Commento: Questa tappa diagnostica si dimostra, in pratica, delicata per numerose ragioni. Molto spesso i testimoni
non hanno potuto descrivere la scena con precisione e l’emozione suscitata nella vittima scatena le modificazioni dei
fatti. Infine, il coraggio sta nel riconoscere che molto spesso
la sequenza descritta non rientra perfettamente in una categoria stabilita. La precisione della diagnosi su questa base
descrittiva esige una certa pratica. Molti veterinari poco
avvezzi all’esercizio della disciplina possono trovarsi impreparati. L’applicazione clinica necessita di un solido corpus
teorico e tecnico, che dipende da una formazione e da una
esperienza specifica sulla patologia del comportamento.
Ottenere una diagnosi è indispensabile per progettare un
trattamento ed è utile per giungere ad una prognosi.
Ci sembra importante sviluppare degli strumenti di valutazione che consentano di affrancarsi da questa tappa delicata in modo da poterne fare a meno per valutare i rischi.
COSA SI VALUTA
Il quadro in cui il veterinario realizza la sua valutazione è
importante da definire. Ci si pone due domande: a chi è
destinata la valutazione, chi ne è l’iniziatore? e cosa si valuta ed a quale scopo?
Per chi
La valutazione può essere richiesta dal proprietario. E
questo non vuol dire sistematicamente che lo faccia di sua
volontà. Può chiedere una visita sotto sollecitazione di un
terzo che faccia parte del suo ambito più o meno prossimo e
che eserciti delle pressioni su di lui. Il suo atteggiamento
varia secondo la situazione: infatti, se chiede un consulto
sotto la richiesta di un terzo, il proprietario può tendere a dissimulare dei fatti o a diminuirne la portata per discolpare il
cane. Il clinico deve poter individuare questa situazione.
La domanda deve essere definita con precisione nel corso
della visita. Alcune famiglie richiedono il consulto ed al
tempo stesso comunicano di voler avviare una terapia. La
decisione di ricorrere ad un trattamento dovrà perlomeno
essere studiata a fine consulto, quanto tutti i parametri saranno conosciuti. Altri vanno dal veterinario per confermare
una decisione di eutanasia. L’idea che ciascuno dei protagonisti si fa del futuro del cane può influenzare la visita ed il
suo svolgimento: il clinico deve prenderne coscienza perché
la raccolta dei dati sia svincolata da ogni influenza. Si consiglia al professionista di adottare un atteggiamento disponibile, ma neutro, per non orientare le risposte. In questo modo
eviterà di rientrare in schemi esplicativi nel corso del suo
esame comportamentale.
Infine, il cane può essere presentato da parte di un’autorità, talvolta anche in assenza del proprietario. Il mandato del
clinico allora è quello del perito, che interviene come esperto debitamente nominato o come consulente.
Le griglie di valutazione
Una scala di valutazione clinica è una formalizzazione
standardizzata di valutazione di una (o più) caratteristiche non misurabili direttamente, per mezzo di indicatori
o voci misurabili direttamente, che consentano di attribuire in funzione di regole logiche uno o più valori numerici alla caratteristica studiata
Le griglie di valutazione sono strumenti di valutazione clinica standardizzati, che hanno per obiettivo stimare la gravità del comportamento aggressivo e di quantificarla (cfr. relazione sulle griglie).
Test di situazione
I test consistono nel sottoporre il cane ad un insieme di
compiti o situazioni e nel valutare le sue reazioni.
I comportamenti osservati nel corso del test sono utilizzati con lo scopo di
- predire altri comportamenti in una situazione “naturale”
- definire le tendenze di reazione, qualificate generalmente in base al temperamento.
Sono stati pubblicati ed ampiamente utilizzati numerosi
test, in particolare nei Paesi tedeschi (Svizzera, Paesi Bassi).
Pochissimi sono formulati specificamente per valutare il
comportamento aggressivo.
L’articolo di Netto et al. (Netto e Planta, 1997) presenta una
batteria di test (43!) destinati ad valutare il comportamento
aggressivo con l’obiettivo di eliminare dalla riproduzione i
cani giudicati aggressivi. A questo titolo la maggior parte di
soggetti testati nello studio iniziale (75/112) apparteneva a
razze “considerate come pericolose” (Fila Brasileiro, Dogo
Argentino ed American Staffordshire Terrier) il 60% dei quali aveva precedenti di morsicature… La popolazione dei cani
Cosa si valuta?
Questa domanda apparentemente molto semplice merita
di essere precisata.
Valutazione del pericolo
Valutazione del rischio
Questi concetti non sono sovrapponibili.
Il pericolo potrà essere assimilato al potenziale aggressivo
del cane nei confronti di un bersaglio definito. Per esempio, un
cane poco socievole con i bambini può presentare un pericolo
importante per i bambini e nessun pericolo per gli adulti.
55
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Il rischio è definito come la probabilità di comparsa dell’aggressione. Questo concetto tiene conto dell’esistenza di
una possibile esposizione del cane al bersaglio potenziale.
Quindi, il cane aggressivo nei confronti dei bambini non
presenta lo stesso rischio se viene regolarmente a contatto
con i bambini nella sua famiglia o se vive in un canile! Un
cane può essere pericoloso per i bambini e non generare che
un rischio praticamente nullo.
Valutazione del cane: la valutazione del cane si sforza di
determinare il carattere patologico della sequenza di aggressione e la presenza di una condizione patologica. Questa tappa permette di emettere un giudizio sullo stato funzionale
dell’animale e sulla presenza di una patologia comportamentale o organica.
Valutazione del contesto famigliare: il contesto nel quale evolve il cane
i proprietari, e, perché no, il veterinario! L’intersezione fra
questi due dati consente di definire quattro gradi di rischio:
- un rischio elevato e non sopportabile, che implica l’eutanasia o delle misure di sicurezza drastiche
- un rischio che non necessita di misure particolari
- due rischi intermedi
• uno debole, per il quale le misure consigliate sono
spesso nell’ordine dell’educazione
• uno critico, in cui si impongono una valutazione più
fine e/o delle misure di prevenzione adeguate. Si possono prendere in considerazione un trattamento e delle restrizioni meccaniche (museruola) se l’ambiente
famigliare sembra adatto a farsene carico. È auspicabile l’intervento di un veterinario comportamentalista
per affinare la diagnosi e, se necessario, mettere a
punto un protocollo terapeutico.
MATRICE DI RISCHIO
CONCLUSIONE
La matrice del rischio è uno strumento di valutazione dei
rischi che tiene conto della probabilità di comparsa e delle
ripercussioni dell’avvenimento. Una matrice di rischio può
essere definita per i vari attori: il cane, le vittime potenziali,
Certamente, un comportamento aggressivo non definisce
una diagnosi. Deve essere tipizzato ed il suo studio rientra
nella valutazione del rischio legato alla gravità delle sequenze combinate alla probabilità del loro verificarsi.
G
R
A
V
I
T
À
Molto
elevata
Livello
3
Livello
4
Livello
4
Livello
4
Elevata
Livello
2
Livello
3
Livello
4
Livello
4
Moderata
Livello
1
Livello
2
Livello
3
Livello
4
Debole
Livello
1
Livello
1
Livello
2
Livello
3
Debole
Moderata
Elevata
Molto
elevata
PROBABILITÀ
56
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
RISCHIO = GRAVITÀ X PROBABILITÀ
Fattori di gravità
Fattori di probabilità di occorrenza
Fattori fisiologici
➢ Struttura fisica del cane: taglia, peso, potenza
➢ Stato di salute
➢ Fattori iatrogeni
Fattori anamnestici
➢ Precedenti di ringhi o minaccia
➢ Cattive condizioni di sviluppo
➢ Presenza di un’affezione comportamentale
Fattori comportamentali
➢ Carenza di controllo nella sindrome HSHA
(iperattività-ipersensibilità)
➢ Paura
➢ Predazione
➢ Malattia psichiatrica
➢ Addestramento, esercizio
Fattori psicologici
➢ Stato sessuale
➢ Struttura fisica
➢ Stato di salute
Fattori clinici
➢ Affezioni comportamentali accompagnate da
un’elevata probabilità di comparsa di aggressioni
➢ Possibilità o impossibilità terapeutica ed attuazione
Vulnerabilità delle vittime
➢ Bambini, persone anziane, persone
immunodepresse, emofilici…
Fattori ambientali
➢ Esposizione alle vittime potenziali
➢ Possibilità di isolamento
➢ Paura dell’ambiente circostante
Fattori legati ai proprietari
➢ Capacità di controllo
➢ Presa di coscienza, realismo:
➢ Motivazione a trattare
➢ Credenze
➢ Immagine del cane (gentile, buon guardiano…)
➢ Capacità di comunicazione
➢ Attaccamento
➢ Stato gerarchico
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Comportement agressif: symptôme ou diagnostic?
Claude Beata
Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F
D’après un article de Colette Arpaillange Docteur Vétérinaire Comportementaliste Dipl ENVF
Il n’existe pas un comportement agressif mais de nombreux comportements différents par leurs origines et leurs
conséquences.
d’agression défensive (le chien répond à l’approche de sa
victime ou se défend vis à vis d’un danger réel ou imaginaire) ou offensive (le chien se dirige vers sa victime).
La classification la plus utilisée en France est celle qui est
proposée par Patrick Pageat (1998) d’après la classification
de Moyer (1968). Elle répertorie cinq types d’agressions qui
se distinguent essentiellement par leur déroulement: déclencheur ou circonstances de déclenchement, description de la
séquence (phase appétitive, consommatoire et d’apaisement).
D’autres classifications sont proposées par d’autres
auteurs (cf. schéma).
La classification de Pageat est résumée dans le tableau 1.
DÉFINITIONS
L’agression correspond à un comportement qui porte
atteinte à l’intégrité physique ou psychique d’un individu
tiers ou à l’intégrité de l’environnement. Pour certains éthologues tout comportement ayant pour objectif d’intimider
l’autre et pour résultat de le maintenir à distance peut être
considéré comme une agression, même s’il n’en résulte
aucun dommage. Une menace est donc une agression, mais
d’autres comportements permettant la défense territoriale,
comme le marquage, en feraient alors partie (McFarland D,
1990). Un chien est dit agressif lorsqu’il se trouve dans un
état de motivation qui entraîne une plus grande probabilité
de produire des comportements agressifs (Dehasse J 2002).
L’agressivité est l’état réactionnel où le chien produit davantage d’agressions (Mège C 2003).
Nous recentrerons nos propos sur l’évaluation de l’agressivité portant atteinte à l’intégrité des personnes.
Difficile de parler d’évaluation d’agressivité sans évoquer
les notions de risque et de danger.
Le risque est un «péril dans lequel entre l’idée de hasard»
(Littré 2006). Le danger est une «Situation, conjoncture, circonstance, qui compromettent la sûreté, l’existence d’une
personne ou d’une chose» (Littré 2006).
Un risque évaluable peut être considéré comme la probabilité de survenue d’un danger ou d’une situation dangereuse. Un chien est considéré comme potentiellement dangereux lorsqu’il possède des caractéristiques qui font que l’intégrité physique et ou psychique peut être mise en péril par
ses comportements (Dehasse J 2002).
OUTILS D’ÉVALUATION
L’évaluation des comportements agressifs en clinique
peut faire appel à différents outils.
Sémiologie des agressions
La démarche clinique suivie en médecine du comportement ne diffère en rien de celle qu’adopte la médecine vétérinaire en général:
- repérer les symptômes présents
- les regrouper afin de déterminer une ou plusieurs hypothèses diagnostiques dont la pertinence sera évaluée
L’exploration du comportement agressif ne fait pas exception et nécessite une étude approfondie de l’ensemble du comportement de l’animal afin de déterminer l’origine des symptômes observés et le trouble du comportement en cause.
L’évaluation clinique des conduites agressives vise à typer
l’agression selon la classification retenue (cf § 3). Le clinicien s’attachera à analyser précisément la séquence comportementale et le contexte de déclenchement
- Phase de menace: Où (où était le chien où était la victime, dans quel lieu …)? Quand (à quel moment de la
journée, qu’avait fait le chien avant, qu’avait fait la victime avant …)? Contexte (situation ouverte ou fermée,
niveau d’excitation du chien avant la morsure, activité
du chien au moment de la morsure, activité de la victime au moment de la morsure, déplacement et nature de
l’interaction, présence de témoins, présence d’autres
chiens, d’un autre animal) …? attitude du chien
(mimique faciale, posture, vocalises [grognements,
aboiements, cris, gémissements …], signes neurovégétatifs, signes de peur, tentative de fuite …)?
- Phase consommatoire: description précise de la morsure en particulier morsure tenue ou non, morsure simple
TYPES D’AGRESSION
Il existe plusieurs classifications possibles des agressions
canines.
Ces classifications reposent sur le contexte, la motivation,
le déclencheur et la conséquence ou l’effet. Les divergences
résultent de l’abord qui est choisi.
Une première dichotomie concerne les agressions d’autodéfense et celles dont le but est de protéger la propriété
(McFarland D 1990). On retrouvera également les termes
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
agressifs (23, appartenant à d’autres races) et chiens témoins
non agressifs.
Dans la procédure, les mises en situation sont très variées
et se réalisent en l’absence ou en présence du propriétaire
selon des procédures standardisées. Les tests apparaissent
comme extrêmement éprouvants pour les chiens et d’ailleurs
la fréquence des comportements agressifs est élevée (97%
des chiens présentent des agressions!) y compris chez les
chiens témoins. Par ailleurs, des différences significatives
apparaissent entre les chiens non mordeurs et les chiens
agressifs envers les personnes seulement dans la catégorie
des chiens de races réputées dangereuses et absolument pas
chez les sujets contrôles.
ou multiple, dégâts provoqués (effraction cutanée, délabrement, hématome) …
- Phase d’apaisement: il est important de connaître l’attitude immédiate du chien, celle de la victime et des
éventuels témoins, notamment du propriétaire, ainsi que
les réactions du chien en retour. En particulier on s’attachera à repérer le retour à une posture menaçante ou au
contraire la fuite ou une posture d’apaisement.
Commentaire: Cette étape diagnostique s’avère en pratique délicate pour plusieurs raisons. Bien souvent les
témoins n’ont pas pu décrire la scène avec précision et
l’émotion suscitée chez la victime entraîne des modifications des faits. Enfin, force est de reconnaître que bien souvent la séquence décrite ne rentre pas parfaitement dans une
catégorie établie. La précision du diagnostic sur cette base
descriptive réclame une certaine pratique. Beaucoup de vétérinaires peu familiarisés avec la pratique de la discipline
peuvent se trouver désemparés. La démarche clinique nécessite un solide corpus théorique et technique qui relève d’une
formation et d’une pratique spécifique à la pathologie du
comportement. L’obtention du diagnostic est indispensable
pour envisager un traitement et est utile pour établir un pronostic.
Il nous semble important de développer des outils d’évaluation qui permettent de s’affranchir de cette étape délicate
et d’évaluer les risques sans passer par cette étape.
QU’EST CE QU’ON ÉVALUE
Le cadre dans lequel le vétérinaire réalise son évaluation
est important à définir. Deux questions se posent: à qui est
destinée l’évaluation, qui en est l’initiateur? et qu’est ce
qu’on évalue et dans quel but?
Pour qui
La demande d’évaluation peut être initiée par le propriétaire. Ce qui ne veut pas dire systématiquement qu’il en est
l’instigateur. Il peut consulter à la demande d’un tiers faisant
partie de son entourage plus ou moins proche et qui fait pression sur lui. Son attitude varie selon la situation; en effet, s’il
consulte à la demande d’un tiers, le propriétaire peut avoir
tendance à dissimuler des faits ou à en diminuer la portée
afin de dédouaner le chien. Le clinicien doit pouvoir repérer
ce cas de figure.
La demande doit être définie précisément au cours de la
consultation. Certaines familles consultent en annonçant
d’emblée une demande de traitement. La décision de traiter
devra néanmoins être étudiée en fin de consultation quand
tous les paramètres seront connus. D’autres viennent chez le
vétérinaire pour confirmer une décision d’euthanasie. L’idée
que chacun des protagonistes se fait du devenir du chien peut
influencer la consultation et son déroulement; le clinicien
doit en prendre conscience afin que le recueil des données
soit épuré de toute influence. Il est conseillé au clinicien
d’adopter une attitude bienveillante mais neutre afin d’éviter
d’orienter les réponses. Il évitera de rentrer dans des schémas explicatifs pendant son examen comportemental.
Enfin, le chien peut être présenté par une autorité, parfois
même en l’absence du propriétaire. Le mandat du clinicien
est alors celui de l’expertise, qu’il intervienne en tant qu’expert dûment nommé ou en tant que sapiteur.
Les grilles d’évaluation
Une échelle d’évaluation clinique est une formalisation
standardisée de l’évaluation d’une (ou plusieurs) caractéristique(s) non mesurable(s) directement, au moyen
d’indicateurs ou item(s) mesurables directement, permettant d’attribuer en fonction de règles logiques une ou
plusieurs valeurs numériques à la caractéristique étudiée
Les grilles d’évaluation sont des outils d’évaluation clinique standardisés ont pour objectif d’apprécier la gravité du
comportement agressif et de la quantifier. (cf articl sur les
griles)
Tests de situation
Les tests consistent à soumettre le chien à un ensemble de
tâches ou de situations et à évaluer ses réactions.
Les comportements observés au cours du test sont utilisés
dans le but de
- prédire d’autres comportements en situation «naturelle»
- définir des tendances réactionnelles qualifiées généralement de tempérament.
De nombreux tests sont publiés et largement utilisés dans
les pays Germaniques notamment (Suisse, Pays Bas). Très
peu sont formulés spécifiquement pour apprécier le comportement agressif.
L’article de Netto et al (Netto and Planta 1997) présente
une batterie de tests (43!) destinés à apprécier le comportement agressif dans l’objectif d’éliminer les chiens jugés
agressifs de la reproduction. A cet effet l’essentiel de l’effectif testé dans l’étude initiale (75 / 112) appartenait à des
races «considérées comme dangereuses» (Fila Brasileiro,
Dogue argentin et American Staffordshire Terriers) 60%
d’entre eux ayant des antécédents de morsure … La population des chiens témoins se divisait entre chiens témoins
Qu’est ce qu’on évalue?
Cette question apparemment très simple mérite d’être précisée.
Evaluation du danger
Evaluation du risque
Ces notions ne sont pas superposables.
Le danger pourrait être assimilé au potentiel agressif du
chien vis à vis d’une cible définie. Par exemple, un chien peu
socialisé aux enfants peut présenter un danger important
pour les enfants et aucun danger pour les adultes.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
L’intersection entre ces deux données permet de définir
quatre degrés de risque:
- un risque élevé et non supportable impliquant l’euthanasie ou des mesures de sécurité drastiques
- un risque ne nécessitant pas de mesures particulières
- deux risques intermédiaires
• Un faible pour lequel les mesures préconisées sont
souvent de l’ordre de l’éducation
• Un critique, où s’imposent une évaluation plus fine
et/ ou des mesures de prévention adéquates. Un traitement et des restrictions mécaniques (muselière)
peuvent être envisagés si le milieu familial apparaît
apte à la prise en charge. L’intervention d’un vétérinaire comportementaliste est souhaitable pour affiner
le diagnostic et mettre en place s’il y a lieu un protocole thérapeutique.
Le risque est défini comme la probabilité de survenue de
l’agression. Cette notion prend en compte l’existence d’une
possible exposition du chien avec la cible potentielle. Ainsi,
le chien agressif vis à vis des enfants ne présente pas le
même risque s’il est régulièrement en contact avec des
enfants dans sa famille ou s’il vit dans un chenil! un chien
peut être dangereux pour les enfants et ne générer qu’un
risque quasiment nul.
Evaluation du chien: l’évaluation du chien s’attache à
déterminer le caractère pathologique de la séquence d’agression et la présence d’un état pathologique. Cette étape permet de statuer sur l’état fonctionnel du chien, la présence
d’une pathologie comportementale ou organique.
Evaluation du contexte familial: le contexte dans lequel
évolue le chien
MATRICE DE RISQUE
CONCLUSION
La matrice de risque est un outil d’évaluation des risques
qui prend en compte la probabilité d’apparition et les répercussions de l’événement. Une matrice de risque peut être
définie pour les différents acteurs: le chien, les victimes
potentielles, les propriétaires, et pourquoi pas le vétérinaire!
De façon certaine, un comportement agressif ne définit
pas un diagnostic. Il doit être typé et son étude rentre dans
l’évaluation du risque lié à la gravité des séquences combiné à la probabilité de leur survenue.
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RISQUE = GRAVITE X PROBABILITE
Facteurs de gravité
Facteurs de probabilité de survenue
Facteurs physiologiques
➢ Format du chien: Taille du chien, poids,
puissance
➢ Etat de santé:
➢ Facteurs iatrogènes
Facteurs historiques
➢ Antécédents de grognements ou de menace
➢ Mauvaises conditions de développement
➢ Présence d’une affection comportementale
Facteurs physiologiques
➢ Statut sexuel
➢ Format
➢ Etat de santé
Facteurs comportementaux
➢ Déficit de contrôle dans le syndrome HSHA
➢ Peur
➢ Prédation
➢ Maladie psychiatrique
➢ Dressage, entraînement
Facteurs cliniques
➢ affections comportementales accompagnées d’une
haute probabilité de survenue des agressions.
➢ possibilité thérapeutique ou non et mise en œuvre
Vulnérabilité des victimes
➢ Enfants, personnes âgées, personnes
immunodéprimées, hémophiles…
Facteurs environnementaux
➢ Exposition aux victimes potentielles
➢ Possibilités d’isolement
➢ Peur de l’entourage
Facteurs liés aux propriétaires
➢ Capacités de contrôle
➢ Prise de conscience, réalisme:
➢ Motivation à traiter
➢ Croyances
➢ Image du chien (gentil, bon gardien…)
➢ Capacité de communication
➢ Attachement
➢ Statut hiérarchique
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Il comportamento di aggressione e la gerarchia
Claude Beata
Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F
Il concetto di gerarchia è stato al centro di numerose
controversie di questi ultimi anni ed illustra perfettamente
la nozione di evoluzione di una idea-faro. Al di là del lavoro intellettuale che ha presieduto alle sue modificazioni, è
sicuramente nell’applicazione pratica e nelle conseguenze
terapeutiche quotidiane che i cambiamenti sono stati i più
numerosi.
squilibrio nelle strutture gerarchiche del gruppo. Talvolta, le
attitudini dell’animale testimoniano una grande attenzione
prestata alle prerogative (nutrimento, luoghi di riposo, iniziativa di contatti), talvolta le sequenze di aggressione sono
caratteristiche ed analoghe a quelle che possono essere visibili negli scontri interspecifici legati al possesso di una risorsa.
Quando la semiologia mette in luce questi elementi e la
loro correzione risolve la situazione, è legittimo considerare
che questo approccio clinico conservi il proprio valore.
RICHIAMI STORICI
Un abuso del modello
Gli studi sui lupi hanno rivelato un’organizzazione sociale molto gerarchica. Questo modello ha ispirato ed ispira
oggi numerose teorie ed applicazioni. Da moltissimi anni,
infatti, viene sostenuta un’analogia fra lupi e cani. Le nozioni conosciute sull’organizzazione sociale dei primi sono
applicate all’organizzazione sociale dei secondi e, al di là, su
quella del gruppo interspecifico costituito dai proprietari e
dai loro cani.
Partendo da Lorenz (“L’anello di re Salomone”), ad
andando fino al concetto di muta-famiglia sviluppato da
Pageat sulle basi care a Scott e Fuller, passando per i libri o
i siti editi da E. Terroni o J. Ortega, le nozioni di dominanza
e di sottomissione, di maschio alfa, di organizzazione spaziale nella muta, delle prerogative legate allo status di dominante sono penetrate a fondo nell’area, conscia ed inconscia,
delle nozioni relative ai cani.
Il concetto stesso di gerarchia di dominanza è ancora più
antico, legato ai lavori di Schjelderup-Ebbe (1922)
sull’”ordine di beccata” dei polli.
Lo sviluppo della medicina comportamentale veterinaria
oltre Atlantico si è appoggiato alla nozione di “dominanza
aggressione”, nozione sfocata che ricopre quasi l’insieme
delle aggressioni perpetrate su un membro del gruppo. La
sociopatia, diagnosi nosografica, sviluppata nel modello
francese ha anche evidenziato il ruolo dell’instabilità gerarchica nello scatenamento di certi aggressioni.
È molto facile trovare, quasi in tutti i cani di famiglia, dei
comportamenti che possono evocare una gerarchia ambigua.
Questo non significa sempre, fuori dal contesto, che bisogna
trovarvi l’eziologia dell’affezione comportamentale incriminata. Ora, numerosi terapeuti si fermano a questi primi elementi e basano il loro intervento su un riequilibrio della
gerarchia. Questo è ancora più vero nel mondo degli addestratori che, eccetto qualche eccezione nella nuova generazione, basano la grande maggioranza dei loro interventi sul
modello gerarchico accompagnato da una colpevolizzazione
dei proprietari e da una denuncia della loro incapacità ad
essere i “capi della muta”.
Inoltre, una cattiva comprensione di questa nozione di
gerarchia ha condotto a numerosi errori nell’effettuazione di
modificazioni comportamentali. Stabilire un quadro gerarchico chiaro non è imporsi con la forza. Ora, in nome della
gerarchia, molti cani sono stati sottoposti a punizioni fisiche
che dovevano avere lo scopo di dominarli, ma la cui conseguenza più classica è stata l’aumento dell’ansietà. Non solo,
questo non provocava il miglioramento atteso ma potevano
sopraggiungere dei peggioramenti impressionanti, in particolare nella gravità delle aggressioni.
Una confusione classica
Infine, la predominanza di questo modello comporta una
confusione ricorrente tra disturbi gerarchici ed aggressione.
Il termine anglosassone già segnalato di “dominance aggression” ha contribuito molto a questa situazione, che comporta quindi due tipi di errori:
Per eccesso: quando tutte le aggressioni all’interno della
famiglia sono considerate come dei sintomi di squilibrio
gerarchico, è evidente che questo è falso e suscita una sopravalutazione di quest’eziologia
Per difetto: i sintomi legati all’ambiguità del quadro
gerarchico non si riducono alle aggressioni. Non pensare
all’eziologia dell’organizzazione gerarchica unicamente che
CONSEGUENZE CLINICHE
Le conseguenze cliniche di questa forte penetrazione di
questi concetti sono di tre ordini
Un modello operatorio
In un certo numero di casi, il modello funziona. L’analisi
clinica consente di reperire degli elementi che indicano uno
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
e/o inutile – quando questo fattore scatenante non esiste. In
un gruppo stabile, senza una motivazione imponente, spesso
è impossibile distinguere una gerarchia all’interno di specie
animali che vengono però ugualmente ritenute sociali, ma
questo si può verificare in caso di necessità. La gerarchia
appare allora come una soluzione economicamente conveniente dal punto di vista energetico per disarmare i conflitti
potenziali all’interno del gruppo o perlomeno ridurne le conseguenze. Secondo certi osservatori, e lontano dalle prime
teorie che mettevano al primo posto un leader che si imponeva con la forza, la figura emergente del gruppo gioca un
ruolo regolatore e rappacificante ed è spesso “designata” dal
resto del gruppo. È in caso di ambiguità, di sfida, che non
soltanto la gerarchia non gioca più un ruolo rappacificante
ma può essere la causa di sequenze aggressive.
in presenza di aggressioni è perdere la maggioranza dei
segni e non comprendere l’importanza di questo fattore nell’equilibrio emozionale del cane.
LE EVOLUZIONI
Una situazione di questo tipo non può restare stabile e
quindi generare delle reazioni, addirittura dei contrasti.
Anche la nozione di gerarchia è rimessa in dubbio. Dal fenomeno del bilanciamento ai nuovi approcci etologici, la prossima evoluzione del concetto dovrà consentire di restituirle
tutta la sua pertinenza clinica.
Da un estremo all’altro
In seguito allo svilimento della nozione di gerarchia da
parte di numerosi autori, si è delineato un movimento di
rifiuto per opporsi, in particolare, all’impiego della violenza.
Questo è stato molto netto nei veterinari comportamentalisti
nord-americani della nuova generazione, che non parlano
più per nulla di dominanza. Talvolta, applicano le stesse
modificazioni comportamentali (controllo dei contatti, dei
luoghi dove coricarsi o dell’organizzazione dei pasti), ma le
presentano come necessarie all’equilibrio emozionale ed
alla buona comunicazione, senza però collegarle alla necessità di un’organizzazione sociale comprensibile per il cane.
In questa tendenza radicale, altri scienziati rimettono in
causa la possibilità stessa che esista una gerarchia tra due
membri di una specie diversa. Questo sembra essere molto
lontano dalla nostra realtà, in cui gli esempi, gli aneddoti ed
il senso clinico convergono per indicare che il concetto è
valido. La rimessa in causa potrebbe essere interessante se si
accompagna a proposte alternative ma, ad oggi, non ne siamo a conoscenza. È quindi necessaria un’evoluzione, basata
su un procedimento scientifico per dare all’approccio clinico le basi numeriche che permetteranno di attestarne la pertinenza.
Nuova attitudine clinica
La nuova attitudine clinica si disegna allora segnando
un’evoluzione molto grande dagli ultimi dieci anni.
Il terapeuta, nel corso della sua raccolta semiologica, deve
prestare attenzione agli elementi ritenuti essere dei buoni
indicatori della gerarchia nel cane, ma soprattutto non si
deve fermare a questo primo livello. È là che si verifica l’evoluzione: bisogna valutare poi se questi elementi sono
significativi per il cane. Bisogna smettere di vedere i disturbi della gerarchia ovunque: non è perché un cane monta sul
divano che è sociopatico! Soprattutto se ne ridiscende alla
minima richiesta e se non mostra nessun segno di ansietà o
di aggressività legata a questa risorsa.
Ma non bisognerebbe soprattutto abbandonare il concetto
talvolta determinante nella comprensione e nel trattamento
dei disturbi del comportamento. Quando si cerca di cambiare il posto della cesta e il cane la riporta al centro del salone,
voler trovare altre spiegazioni può rivelare della cecità.
CONCLUSIONE
Le nuove basi
Il concetto di gerarchia nella sua applicazione clinica nei
disturbi del comportamento del cane si è molto evoluto in
questi ultimi dieci anni. Dopo essere uscita dalla visione
caricaturale secondo cui tutto è gerarchia, la disciplina non
deve oggi correre il rischio di abbandonare un concetto
fecondo.
Le basi teoriche etologiche esistono già. Secondo la scuola di T. Rowell, un nuovo modo di osservare ha consentito di
indicare che la gerarchia doveva essere considerata come un
dato fluido e non statico. La comparsa di risorse molto motivanti fa spuntare una gerarchia che è spesso inapparente –
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Evolution du concept de hiérarchie
et ses applications
Claude Beata
Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F
Le concept de hiérarchie a été au sein de nombreuses
controverses ces dernières années et illustre parfaitement
la notion d’évolution d’une idée-phare. Au-delà du travail
intellectuel qui a présidé à ses changements, c’est bien
dans l’application pratique, dans les conséquences thérapeutiques quotidiennes que les changements ont été les
plus nombreux.
un déséquilibre dans la structure hiérarchique du groupe.
Parfois, les attitudes de l’animal témoignent d’une grande
attention portée sur les prérogatives (nourriture, lieux de
repos, initiative des contacts), parfois les séquences d’agression sont caractéristiques et analogues à celles qui peuvent
être visibles dans des affrontements intraspécifiques liés à la
possession d’une ressource.
Quand la sémiologie met en lumière ces éléments et que
leur correction amende la situation, il est légitime de considérer que cette approche clinique garde une valeur.
RAPPELS HISTORIQUES
Un abus du modèle
Les études sur les loups ont révélé une organisation sociale très hiérarchisée. Ce modèle a inspiré et inspire toujours
de nombreuses théories et applications. Depuis de très nombreuses années, en effet, l’analogie est faite entre loups et
chiens. Les notions connues sur l’organisation sociale des
loups sont plaquées sur l’organisation sociale des chiens et,
au-delà, sur celle du groupe interspécifique constitué par les
maîtres et leurs chiens.
Partant de Lorenz «The Ring of King Solomon», en allant
jusqu’au concept de meute-famille développée par Pageat
sur des bases chères à Scott et Fuller, en passant par les
livres ou les sites édités par E.Terroni ou J. Ortega, les
notions de dominance et de soumission, de mâle alpha, d’organisation spatiale dans la meute, de prérogatives liées au
statut de dominant se sont installées dans l’espace, conscient
et inconscient, du savoir relatif aux chiens
Le concept même de hiérarchie de dominance est encore
plus ancien, relié aux travaux de Schjelderup-Ebbe (1922)
sur le «pecking-order» chez les poules.
Le développement de la médecine comportementale vétérinaire outre-atlantique s’est appuyée sur la notion de «dominance aggression», notion floue qui recouvre quasiment l’ensemble des agressions perpétrées sur un membre du groupe.
La sociopathie, diagnostic nosographique, développé dans le
modèle français a aussi mis en avance l’instabilité hiérarchique dans le déclenchement de certaines agressions.
Il est très facile de trouver, quasiment chez tous les chiens
de famille, des comportements pouvant évoquer une hiérarchie ambiguë. Cela ne signifia pas toujours, loin de là, qu’il
faut y voir l’étiologie de l’affection comportementale incriminée. Or de nombreux thérapeutes s’arrêtent à ces premiers
éléments et basent leur intervention sur un rééquilibrage de
la hiérarchie. Ceci est encore plus vrai dans le monde des
éducateurs qui, hormis quelques exceptions dans la nouvelle génération, basent la grande majorité de leurs interventions sur le modèle hiérarchique accompagné d’une culpabilisation des propriétaires et d’une dénonciation de leur incapacité à être les «chefs de meute».
De plus, une mauvaise compréhension de cette notion de
hiérarchie a conduit à de nombreuses erreurs dans la mise en
place des modifications comportementales. Etablir un cadre
hiérarchique clair, ce n’est pas s’imposer par la force. Or, au
nom de la hiérarchie, beaucoup de chiens ont été soumis à
des punitions physiques dont le but était de dominer mais
dont la conséquence la plus classique était d’augmenter
l’anxiété. Non seulement, cela ne provoquait pas l’amélioration attendue mais de spectaculaires aggravations pouvaient
intervenir, notamment dans la gravité des agressions
Une confusion classique
Enfin, la prédominance de ce modèle entraîne une confusion récurrente entre troubles hiérarchiques et agression. Le
terme anglo-saxon déjà signalé de «dominance aggression»
a beaucoup contribué à cette situation qui entraîne donc
deux types d’erreurs:
Par excès: quand toutes les agressions à l’intérieur de la
famille sont considérées comme des symptômes de déséquilibre hiérarchique, il est évident que cela est faux et entraîne
une surévaluation de cette étiologie
Par défaut: les symptômes reliés à l’ambiguïté du cadre
hiérarchique ne se résument pas aux agressions. Ne penser à
CONSÉQUENCES CLINIQUES
Les conséquences cliniques de cette imprégnation forte
sont de trois ordres
Un modèle opératoire
Dans un certain nombre de cas, le modèle fonctionne.
L’analyse clinique permet de repérer des éléments indiquant
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
très motivantes fait surgir une hiérarchie qui est souvent
inapparente – et/ou inutile – quand ce déclencheur n’existe
pas. Dans un groupe stable, sans motivation majeure, souvent il est impossible de distinguer une hiérarchie dans des
espèces pourtant réputées sociales. mais celle-ci peut apparaître en cas de besoin. La hiérarchie apparaît alors comme
une solution économe en énergie pour désarmer les conflits
potentiels à l’intérieur du groupe ou du moins en réduire les
conséquences. D’après certains observateurs, et loin des premières théories mettant en avance un leader qui s’imposerait
par la force, la figure émergente du groupe joue un rôle régulateur et apaisant et est souvent «désigné» par le reste du
groupe. C’est dans les cas d’ambiguïté, de challenge que non
seulement la hiérarchie ne joue plus de rôle apaisant mais
peut être la cause de séquences agressives.
l’étiologie de l’organisation hiérarchique uniquement qu’en
présence d’agressions c’est rater la majorité des signes et ne
pas comprendre l’importance de ce facteur dans l’équilibre
émotionnel du chien
LES ÉVOLUTIONS
Une telle situation ne pouvait pas rester stable et a donc
généré des réactions, voire des oppositions. La notion même
de hiérarchie est remise en question. Du phénomène de
balancier aux nouvelles approches éthologiques, la prochaine évolution du concept devrait permettre de lui redonner
toute sa pertinence clinique.
D’un extrême à l’autre
La notion de hiérarchie ayant été galvaudée par de nombreux intervenants, un mouvement de refus s’est dessiné
pour s’opposer notamment à l’utilisation de la violence.
Cela a été très net chez les vétérinaires comportementalistes
nord-américains de la nouvelle génération qui ne parlent
plus jamais de dominance. Parfois, ils appliquent les mêmes
modifications comportementales (contrôle des contacts, des
lieux de couchage ou organisation des repas) mais en les présentant comme nécessaires à l’équilibre émotionnel et à la
bonne communication mais sans le relier à la nécessité d’une
organisation sociale compréhensible pour le chien.
Dans cette attitude radicale, d’autres scientifiques remettent en cause la possibilité même qu’il existe une hiérarchie
entre deux membres d’une espèce différente. Ceci semble
très loin de notre réalité, où les exemples, les anecdotes et le
sens clinique convergent pour indiquer que le concept est
valable. La remise en cause pourrait être intéressante si elle
s’accompagnait de propositions de remplacement mais, à ce
jour, celles-ci ne sont pas arrivées à notre connaissance. Une
évolution est donc nécessaire, appuyée sur une démarche
scientifique pour donner à l’approche clinique les bases chiffrées qui permettront d’attester de sa pertinence.
Nouvelle attitude clinique
Les nouvelles bases
Le concept de hiérarchie dans son application clinique en
troubles du comportement du chien a beaucoup évolué ces
dix dernières années. Après être sortie de la caricature du
tout hiérarchique, la discipline ne doit pas aujourd’hui courir le risque d’abandonner un concept fécond.
La nouvelle attitude clinique se dessine alors marquant
une très grande évolution depuis les dix dernières années.
Le thérapeute, au cours de son recueil sémiologique, doit
prêter attention aux éléments réputés être de bons indicateurs de la hiérarchie chez le chien mais il ne doit surtout pas
s’arrêter à ce premier niveau. Et c’est là que se situe l’évolution: Il faut apprécier ensuite si ces éléments sont significatifs pour le chien. Il faut arrêter de voir des troubles de la
hiérarchie partout: ce n’est parce qu’un chien monte sur le
canapé qu’il est sociopathe! Surtout s’il en redescend à la
moindre demande et s’il ne montre aucun signe d’anxiété ou
d’agressivité autour de cette ressource.
Mais il ne faudrait surtout pas abandonner un concept parfois déterminant dans la compréhension et dans le traitement
des troubles du comportement. Quand on essaye de changer
la place du panier et que le chien le ramène au milieu du
salon, vouloir trouver d’autres explications peut relever de
l’aveuglement.
CONCLUSION
Les bases théoriques éthologiques existent déjà. Dans la
lignée de T. Rowell, une nouvelle façon d’observer a permis
de montrer que la hiérarchie devait être considérée comme
une donné fluide et non statique. L’apparition de ressources
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Aggressività o pericolosità: una griglia di valutazione
Raccomandazioni generali
Claude Beata
Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F
Questo strumento è stato messo a punto da Claude Béata
a partire da griglie già esistenti: la scala di valutazione dell’aggressività di Patrick Pageat (Pageat P. Pathologie du
comportament du chien 2ème edition. Edition du Point Vétérinaire, Maison Alfort 1998: 367 p.), la parte aggressività
della griglia 4A di Claude Béata, la griglia di valutazione
semplificata della pericolosità di un cane dopo che ha morso di Joël Dehasse (Dehasse J. Le chien agressif, Publibook
Paris 2002 342 p.).
Queste griglie combinate hanno per obiettivo di aiutare il
veterinario a valutare il livello di pericolosità potenziale di
un cane che ha già morso un uomo. Il confronto, la concordanza o meno dei diversi indici è uno strumento apprezzabile per giudicare la pericolosità ed orientare il valutatore
nelle sue conclusioni sulla pericolosità dell’animale al
momento dell’esame, non è uno strumento predittivo, né
diagnostico.
L’impossibilità di avere accesso a determinati dati può, in
certi casi, rendere inadatto l’impiego delle griglie per la
valutazione della pericolosità.
I proprietari non possono autovalutarsi; non devono
quindi conoscere le voci della griglia, né il punteggio ad
esse attribuito, per compilarle da soli. È il veterinario che
deve, con un atteggiamento neutrale e benevolo, condurre
il colloquio.
La durata della visita deve essere sufficiente a permettere
l’indagine ed assicurare anche una buona percezione del
contesto di vita del cane e dell’insieme dei suoi comportamenti. Una valutazione non può mai ridursi alla sola quantificazione degli indici.
L’indagine è condotta, in particolare, in modo da documentare la griglia, ma non consiste nel porre direttamente
il problema della griglia: la risposta a questa domanda
compete al clinico che ha interrogato il proprietario; quindi la griglia è la formalizzazione di questo colloquio
secondo un canovaccio standardizzato, che consenta i confronti e che limiti le variazioni da un valutatore all’altro. È
indispensabile riferirsi al manuale per conoscere le voci e
i loro punteggi. Le domande indicate nel manuale non
sono che suggerimenti, possono essere modificate o completate se necessario. Ogni voce deve essere esplorata a
sufficienza per permettere al veterinario che effettua la
quantificazione di effettuare una stima valida. Anche l’esame clinico e l’osservazione durante la visita concorrono
a determinare tale quantificazione. Queste informazioni
generali e le risposte alle domande che riguardano direttamente l’aggressività arrivano a confermare o inficiare le
conclusioni della griglia; dubbi o incoerenze implicano
un’analisi approfondita per valutare la validità delle risposte. Se questi dubbi persistono, devono essere citati nel
referto specialistico.
Si deve sempre tenere conto della quantificazione più
favorevole. Alcuni indici necessitano di scegliere di valutare
un morso, una persona aggredita, le reazioni dei proprietari.
Per uno stesso animale si possono riempire più griglie. Se
sono state aggredite varie persone, si deve conservare la
valutazione più sfavorevole.
Numerosi fattori sono suscettibili di modificare i risultati
delle griglie di valutazione: il livello di conoscenza dei proprietari, le condizioni di vita del cane, la varietà delle situazioni con le quali questo si è confrontato …
Naturalmente viene privilegiato lo studio dell’avvenimento che è all’origine della domanda di valutazione.
Benché questo avvenimento possa consistere nell’aggressione di un conspecifico o di un essere umano, familiare o
no, talvolta la richiesta può derivare da un timore fondato
o meno del vicino, o da una prescrizione dell’autorità in
relazione al fenotipo del cane in esame. In ogni caso, è
l’insieme delle manifestazioni aggressive che deve essere
indagato, passando in rassegna i rappresentanti di tutte le
specie animali in contatto con il cane, e dei diversi esponenti della specie umana: età differenti, persone familiari,
persone in contatto regolarmente, estranei, persone e comportamenti non abituali, ecc…
Nell’ambito di una raccolta di dati statistica ed anonima
devono figurare:
• la data, la razza o il tipo razziale, la categoria, l’età
• il motivo della valutazione
• il contesto giuridico
• i risultati di eventuali valutazioni precedenti.
La griglia, in formato elettronico, prevede che ad ogni
voce sia abbinata una quantificazione nella colonna corrispondente, indicata da una freccia. I conti vengono fatti dal
programma, ed il foglio di sintesi riprende automaticamente
i risultati delle tre griglie.
SINTESI DELLE TRE GRIGLIE
All’espressa condizione che ci sia concordanza fra le conclusioni dell’esame clinico ed il comportamento da una parte ed i 4 indici derivati dalle griglie dall’altra, si possono utilizzare le seguenti proposte, adattando la risposta al caso
valutato.
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• Livello 2: Maggioranza di verdi ed arancio:
Cane che attualmente presenta un rischio di minore
entità, si consiglia di occuparsene.
• Livello 3: Maggioranza di arancio e rosso o Indice 3
massimale:
Cane che attualmente presenta un rischio critico, è
obbligatorio occuparsene.
• Livello 4: Se 3 o più indici sono coerenti e rossi:
Cane che presenta un rischio grave. Si raccomanda la
separazione.
I 4 indici sono:
- 1 / Indice di aggressività generale
- 2 / Indice di aggressività sociale
- 3 / Indice di aggressività griglia 4A
- 4 / Indice “dopo morso”
Il livello di pericolosità è indicato da una progressione del
colore: verde arancio, rosso: massimo pericolo.
• Livello 1: Se i 4 indici sono coerenti e verdi:
Cane che attualmente non presenta dei rischi particolari.
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Aide à l’évaluation de la dangerosité d’un chien
par les grilles combinées
Recommandations générales
Claude Beata
Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F
Cet outil a été mis au point par Claude Béata à partir de
grilles déjà existantes: l’échelle d’évaluation de l’agressivité de Patrick Pageat (Pageat P. Pathologie du comportement du chien 2ème édition. Editions du Point Vétérinaire,
Maisons-Alfort 1998: 367 p.), la partie agressivité de la
grille 4A de Claude Béata., la grille d’évaluation simplifiée de la dangerosité d’un chien après qu’il ait mordu de
Joël Dehasse (Dehasse J. le chien agressif, Publibook
Paris 2002 342p)
Ces grilles combinées ont pour objectif d’aider le vétérinaire à évaluer le niveau de dangerosité potentielle d’un
chien ayant déjà mordu un humain. La comparaison, la
concordance ou non des différents indices est un outil
appréciable pour évaluer la dangerosité et orienter l’évaluateur dans ses conclusions sur la dangerosité de l’animal
au moment de l’évaluation, ce n’est pas un outil prédictif,
ni de diagnostic.
L’impossibilité d’avoir accès à certaines données peut,
dans certains cas, rendre inadaptée l’utilisation des grilles
pour l’évaluation de la dangerosité.
Les propriétaires ne peuvent pas s’auto évaluer; ils ne doivent donc pas avoir connaissance des items de la grille ni de
leur cotation, ou la remplir eux-mêmes. C’est le vétérinaire
qui doit, avec neutralité bienveillante, mener l’entretien.
La durée de la consultation doit être suffisante pour permettre le questionnement et également assurer une bonne
perception du contexte de vie du chien et de l’ensemble de
ses comportements. Une évaluation ne peut jamais se réduire à la seule cotation des indices.
Le questionnement est mené de manière, notamment, à
documenter la grille mais ne consiste pas à poser directement la question de la grille: cette question est posée au praticien qui a interrogé le propriétaire; ainsi la grille est la formalisation de cet entretien selon un canevas standardisé, permettant des comparaisons et limitant les variations d’un évaluateur à l’autre.
Il est indispensable de se référer au manuel pour appréhender les items et leurs cotations. Les questions indiquées
dans le manuel ne sont que des suggestions, elles peuvent
être modifiées ou complétées si nécessaire. Chaque item doit
être exploré suffisamment pour permettre au vétérinaire
effectuant la cotation d’avoir une bonne appréciation. L’examen clinique et l’observation durant la consultation interviennent aussi au niveau de la cotation. Ces informations
générales et les réponses aux questions concernant directement l’agressivité viennent confirmer ou infirmer les conclu-
sions de la grille; des doutes ou des incohérences impliquent
une exploration poussée pour évaluer la validité des
réponses. Si ces doutes persistent, ils doivent être mentionnés dans le rapport d’expertise.
La cotation la plus défavorable doit toujours être retenue.
Certains indices nécessitent de choisir d’évaluer une morsure, une personne agressée, les réactions d’un des propriétaires. Plusieurs grilles peuvent être remplies pour un même
animal. Si plusieurs personnes ont été agressées, conserver
l’évaluation la plus défavorable.
De nombreux facteurs sont susceptibles de modifier le
résultat des grilles d’évaluation: le niveau de connaissance
des propriétaires, les conditions de vie du chien, la variété
des situations auxquelles est confrontée le chien…
L’exploration de l’événement à l’origine de la demande
d’évaluation est naturellement privilégiée. Cependant si cet
événement peut consister en l’agression d’un congénère ou
en l’agression d’un être humain, familier ou non, il peut parfois reposer sur la crainte fondée ou pas de voisins, ou de
représentants de l’autorité se basant sur un phénotype. Dans
tous les cas, c’est l’ensemble des manifestations agressives
qui doit être exploré, en passant en revue les représentants de
toutes les espèces en contact avec le chien, et des représentants variés de l’espèce humaine: âges différents, personnes
familières, personnes en contact régulier, étrangers, personnes aux comportements inhabituels, etc.
Dans un but de collecte statistique et anonyme des données doivent figurer:
• la date, la race ou le type racial, la catégorie, l’âge,
• le motif de l’évaluation,
• le contexte juridique,
• les résultats d’évaluations précédentes éventuelles.
La grille en format informatique prévoit que chaque
item soit coté dans la colonne correspondante, indiquée
par une flèche. Les additions se font automatiquement, et
la feuille de synthèse reprend automatiquement les résultats des 3 grilles.
SYNTHÈSE DES 3 GRILLES
A la condition expresse qu’il y ait concordance entre les
conclusions de l’examen clinique et comportemental d’une
part, et les 4 indices issus des grilles d’autre part les propositions suivantes peuvent être utilisées, en adaptant la réponse au cas évalué.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
• Niveau 2: Majorité de verts et oranges:
Chien présentant un risque mineur actuellement. Prise en charge conseillée.
• Niveau 3: Majorité d’oranges et rouges ou Indice 3
maximal:
Chien présentant un risque critique actuellement, prise en charge obligatoire.
• Niveau 4: Si 3 indices ou plus sont cohérents et rouges:
Chien présentant un risque majeur. Séparation
recommandée.
Les 4 indices sont:
- 1 / Indice d’agressivité générale
- 2 / Indice agressivité sociale
- 3 / Indice agressivité grille 4A
- 4 / Indice «après morsure»
Le niveau de dangerosité est indiqué par une progression
de couleur: vert orange, rouge: danger maximum.
• Niveau 1: Si les 4 indices sont cohérents et verts:
Chien ne présentant pas de risque particulier actuellement.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Il comportamento di aggressione:
principi di terapia farmacologica
Claude Beata
Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F
D’après un article de Nathalie Marlois, Docteur Vétérinaire Comportementaliste Dipl ENVF
• Inibendo l’aggressività e quindi rendendo un rischio
accettabile o gestibile
• Favorendo gli apprendimenti…
- Rischio, si tratta:
• Di rischi indotti dal cambiamento di stato dell’animale: destabilizzazione di un animale dominante, sicuro
di sé, e quindi aumento del rischio di aggressione vulnerante.
• Del rischio di non fare nulla e quindi di veder continuare o comparire dei comportamenti patologici o
inquietanti: aggressioni, distruzioni…
Prendersi carico di una situazione a rischio in una consulenza sul comportamento significa adottare una strategia che
dipenderà dalle osservazioni effettuate, dalle informazioni
acquisite fino a quel momento e dalla valutazione dell’importanza dei rischi da parte del proprietario e del medico che
prescrive gli interventi da effettuare. Per quanto riguarda i
farmaci, il prescrittore gioca sullo stato del sistema e tenta di
restringere il campo di quelli possibili.
Il farmaco, se viene teoricamente presentato come una
stampella, un supporto, in pratica è spesso pensato in termini di protesi quale che sia per i proprietari o il prescrittore.
Ma più che il farmaco da solo ed al di là delle ricette che non
si possono dare, è il quadro nel quale si inserisce la prescrizione farmacologica che è interessante da esplorare ed analizzare ed è quello che noi cercheremo di fare qui.
I/2 Misura del rischio
Ogni trattamento di un animale a rischio o di una situazione a rischio, in riferimento a due domande fondamentali
che sono affrontate nelle altre relazioni:
- Cos’è un rischio accettabile?
- Come quantificare, misurare i rischi?
Nei due casi, dobbiamo contemporaneamente utilizzare la
nozione di grandi numeri e quindi del suo corollario, l’idea
di una certa unità degli individui che formano una collettività, ma anche riconoscere i parametri individuali di ciascuno
e del sistema terapeutico. Di fronte al rischio, la razionalità
degli individui e del gruppo dipende dal suo sistema di valori. Non è sempre possibile quantificare il rischio assegnando
un prezzo a cose che non ne hanno (la vita, il comfort, il piacere…)
In questo quadro le griglie di valutazione costituiscono
uno strumento di cui bisogna conoscere i limiti.
1/ASSUMERSI IL RISCHIO DI TRATTARE
Decidere di trattare un animale è di per sé assumersi un
rischio: rischio di riuscire o di fallire, rischio di effetto
secondario, rischio intrinseco ad ogni cambiamento. La
particolarità della chemioterapia, in relazione alla terapia
comportamentale, è la presenza di un agente esterno, di un
mediatore: il farmaco. Questo può essere l’oggetto di tutte le speranze, ma anche accusato di tutti i fallimenti;
richiede meno investimenti o meno coinvolgimento in prima persona, eccezion fatta per il costo e per quanto concerne l’osservanza.
I/1 Calcolare il rapporto
beneficio atteso/rischi
I/3 Trattare o meno
Assumersi il rischio di trattare significa stimare che l’uquilibrio beneficio atteso/rischio sia a favore del trattamento
che si va ad instaurare. In certi casi, si può rivelare più prudente non trattare un cane pericoloso i cui proprietari gestiscono in modo abbastanza efficace il rischio, piuttosto che
destabilizzare il sistema attraverso la somministrazione di un
farmaco ed una terapia comportamentale.
Quando viene presa la decisione di non trattare, esistono
numerose soluzioni, e non saranno sviluppate in questa sede:
- l’eutanasia
- il ricollocamento
- lo “statu quo”, che non è mai veramente una soluzione
accettabile al termine della consulenza e di ciò che si è
detto.
Nessuna di queste soluzioni è senza rischio, che riguardi
l’animale, il gruppo famigliare, il veterinario o la società.
Non esistono dei trattamenti senza rischio e lo scopo di
ognuno di essi è ottenere un beneficio per il malato o il sistema. Si tratta quindi di massimizzare l’utilità sperata del farmaco per ottenere un rapporto beneficio/rischio il più favorevole possibile. Quest’utilità non si può valutare che nel
quadro di una diagnosi e di un contesto particolare.
- Beneficio atteso: il cambiamento di stato dell’animale
che segue l’assunzione del farmaco può consentire la
realizzazione di una terapia comportamentale, o diminuire il rischio di aggressioni:
• giocando sulle condizioni emotive: stati ansiosi che
favoriscono le aggressioni da irritazione, paura nelle
fobie sociali,
• Inibendo l’impulsività, rinforzando gli autocontrolli
• Stabilizzando l’umore
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
• Via tubero-infundibolare: i neuroni situati nell’ipotalamo inviano delle proiezioni nell’ipofisi anteriore. In
condizione normale, inibiscono la liberazione di prolattina.
- GABA: presente in tutte le zone del cervello, la sua
comparsa è rapida ed ha un ruolo inibitore (d),
- Altri: esistono numerosi altri neurotrasmettitori che
sono suscettibili di giocare un ruolo, (glutammato, peptidi, prolattina, ormoni tiroidei, sessuali…), allo stato
attuale il loro apporto in farmacoterapia è molto ridotto.
I trattamenti utilizzati per diminuire l’aggressività, quindi,
giocano su questi differenti sistemi di neuromediatori.
Sembra evidente che secondo il tipo di aggressione entrino in azione differenti zone del cervello e differenti sistemi
di neuromediatori. Studi condotti nel gatto (s) hanno mostrato che l’ipotalamo mediano e il “grigio periacqueduttale del
mesencefalo” sono le strutture principali che intervengono
nelle aggressioni difensive, come l’ipotalamo laterale “perifornicale” interviene nella predazione ed esistono dei sistemi di regolazione di intensità. Dei mediatori facilitano le
aggressioni difensive: glutammato, sostanza P, colecistochinina; i peptidi oppiacei sarebbero soppressori. L’azione del
sistema GABA sarebbe una spiegazione dell’inibizione reciproca osservata tra questi due tipi di aggressione. È possibile che queste ricerche, che sono di competenza delle neuroscienze, offrano in futuro delle nuove prospettive di trattamento adattate al tipo di aggressione in causa.
II/QUADRO “TEORICO” DI PRESCRIZIONE
La scelta di un trattamento farmacologico dipende sicuramente dal caso clinico da trattare ma è fortemente influenzata dalla “cultura” del prescrittore ed, in particolare, dai
suoi modelli.
II/1 Modello psicofarmacologico
In questo modello, una grande importanza viene data ai
neuromediatori, da quello meno conosciuto a quello più
noto. Recettori ed enzimi sono contemporaneamente sede di
azione dei farmaci e mediatori dell’azione delle malattie.
Numerosi disturbi comportamentali possono essere considerati in relazione alle modificazioni della neurotrasmissione
sinaptica.
II/1-1 Neuromediatori
Le aggressioni costituiscono il rischio più grande da gestire nella terapia comportamentale. Anche se sono state selezionate delle linee di discendenza di ratti poco o molto
aggressivi sulla base di un genotipo particolare, evidenziando il ruolo dei recettori dopaminici D2(O), non esiste né un
gene, né un neuromediatore dell’aggressività. Tutti i grandi
sistemi di neuromediatori sono in grado di intervenire in un
comportamento aggressivo:
- Noradrenalina: i corpi cellulari dei neuroni noradrenergici sono situati nel locus coeruleus. Quest’ultimo gioca un ruolo importante nel processo di attenzione: stabilire la priorità, fissazione dell’attenzione. Il sistema
noradrenergico interviene così nella percezione e nella
reazione ad una minaccia che proviene dall’ambiente o
dai segnali interni del dolore (d). Il modo in cui l’attenzione è diretta partecipa all’apprendimento ed alla creazione delle memorie, elementi che intervengono nelle
reazioni future. Il sistema noradrenergico gioca un ruolo anche per la conoscenza, l’umore, le emozioni, la
motricità.
- Serotonina: i corpi cellulari dei neuroni serotoninergici
sono situati nel nucleo del rafe e si proiettano in differenti zone cerebrali: la cortex, con un ruolo sull’umore;
i gangli della base: controllo della motricità, ossessioni,
compulsioni; aree limbiche: ansietà, panico.
- Dopamina: si risconoscono quattro vie dopaminergiche
maggiori
• Via mesolimbica: stabilisce delle proiezioni dei corpi
cellulari dei neuroni dopaminergici dal tegmento ventrale verso le terminazioni assonali delle aree limbiche come il nucleo accumbems. Questa via giocherebbe un ruolo nella produzione delle allucinazioni
uditive, del delirio e dei disturbi del pensiero nell’uomo. Gioca anche un ruolo sull’aggressività e sul
controllo delle vie serotoninergiche. Ed anche nei circuiti del rafforzamento e della ricompensa, quindi
dell’apprendimento.
• Via mesocorticale: del tegmento ventrale alla cortex
limbica, è legata alla precedente. Gioca un ruolo nella cognizione.
• Via nigro-striata: i corpi cellulari sono nella sostanza
nera del tronco cerebrale e si proiettano verso i gangli della base e il corpo striato. Controlla la motricità.
II/1-2 Limiti del modello
È molto importante, quando si prescrive un farmaco, avere bene in testa che ci si riferisce ad un modello: “I farmaci
non sono che dei muletti che caricano dei meccanismi sulla
loro schiena” (d). Resta ancora parecchio ignoto ciò che
riguarda i meccanismi farmacologici di certi principi attivi,
anche a livello dei meccanismi patologici.
Inoltre, gli effetti clinici sono talvolta differenti da quelli
teorici (i neurolettici atipici, che dovrebbero comportare una
diminuzione della secrezione della prolattina; non è il caso
di tutti, in particolare il risperidone che può provocare delle
montate lattee.)
Sono molto importanti delle variazioni individuali (citocromo, vulnerabilità..) ma si hanno pochi studi, che riguardano unicamente gli animali da compagnia.
II/2 Mono-polichemioterapia
Sono esistite varie “correnti” nella nostra disciplina; dopo
un periodo in cui venivano citate frequentemente alcune
associazioni (ad es., anafranil-dipiperon) è seguito un periodo unicista. Cosa si può ragionevolmente prendere in considerazione ai nostri giorni? È più rischioso prescrivere un’associazione di farmaci e/o quest’ultima consente di gestire
meglio i rischi, di attuare una terapia migliore?
Nell’uomo, l’evoluzione dei farmaci verso una più grande
specificità d’azione facilita le associazioni. Queste, in particolare in caso di resistenza al trattamento o di insuccesso
sono molto frequenti (associazioni di antidepressivi, risperidone + ISRS, carbamazepina + ISRS …).
Il principio è utilizzare delle associazioni di farmaci sicuri e razionali, sfruttando delle sinergie molecolari e farmacologiche (quindi del meccanismo) che si suppone consen71
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
tano, se possibile, una tolleranza migliore (D).
In medicina veterinaria le pubblicazioni sull’interesse delle associazioni fanno difetto. In pratica, in un’associazione:
- si ricerca:
• Una sinergia
• Una complementarietà: 1+1 = 10
• Una diminuzione degli effetti secondari: 1+1 = 0
- si rischia:
• Un aumento degli effetti secondari, una tossicità
• Un’inefficacia
Il sistema enzimatico citocromo P450 (CYP450) ha un
ruolo chiave nella farmacocinetica degli psicotropi a livello
di fegato e di intestino (D). Nell’uomo, è stato osservato un
polimorfismo di questo sistema: è molto probabile che accada lo stesso nell’animale. Malgrado numerosi dati ignoti,
sembra interessante tener conto della teoria. Gli psicotropi
possono essere substrato, inibitori o induttori degli enzimi
del CYP450, esempi:
- CYP450 1A2: bloccato dagli ISRS (inibitori selettivi
della ricaptazione della serotonina), in particolare la
fluvaxamina: riducono l’efficacia dei farmaci metabolizzati dalla 1A2 in caso di somministrazione congiunta
(teofillina, caffeina, certi neurolettici atipici) con il
rischio di tossicità.
- CYP450 2D6: gli antidepressivi triciclici (ATC) sono
substrati della 2D6, gli ISRS sono degli inibitori (in particolare, la paroxetina e la fluoxetina). Quindi, la loro
somministrazione concomitante o in caso di cambiamento di un ATC con un ISRS aumenta i tassi di ATC,
eventualmente fino ad un livello tossico.
- CYP450 3A4: la somministrazione di un substrato (benzodiazepina) con un inibitore 3A4 (fluoxetina, fluvoxamina) aumenta il tasso del substrato.
- La carbamazepina è un substrato ed un induttore
(aumenta l’attività dell’enzima al di là della sua attività
fisiologica inducendo numerose copie dell’enzima)
3A4; in caso di trattamento cronico, si verifica induzione enzimatica e caduta dei tassi plasmatici, con conseguente aumento della dose.
In pratica, le associazioni devono essere pianificate secondo dei criteri farmacologici, ma l’esperienza clinica è di
importanza primaria per giudicare la loro utilità ed i loro
rischi. Bisogna quindi stare attenti e non cercare di nascondere le nostre carenze in termini di terapia mediante una
escalation farmacologica.
Le associazioni praticate più frequentemente (E, H) sono:
- acetato di ciproterone associato sistematicamente alla
carbamazepina
- pipamperone, associato sistematicamente alla clomipramina o alla fluvoxamina
J. Dehasse (H) utilizza con soddisfazione delle associazioni in linea di massima non raccomandate, come la selegilina con la fluvoxamina o la carbamazepina. Sarebbero utili
degli studi su grandi numeri per giudicarne l’innocuità.
Aggressione difensiva: clomipramina, fluoxetina, fluvoxamina, selegilina
Aggressione da dolore: alprazolam, amitriptilina
Aggressione gerarchica: carbamazepina, fluoxetina, fluvoxamina
Iperaggressione primaria: fluoxetina, fluvoxamina
Aggressione offensiva: carbamazepina, fluoxetina, fluvoxamina
Aggressione sessuale: ciproterone
Questa presentazione è abbastanza semplice da utilizzare,
e, coscientemente o no, la impieghiamo tutti più o meno.
Usarla come modello mi parrebbe più azzardato.
Ogni psicotropo corrisponde a numerosi sintomi e viceversa. Nell’uomo, fino ad oggi, la ricerca dei sottotipi patologici in relazione alla risposta da trattamenti è stata per lo
più infruttuosa. È stata condotta una prova con il cane nella
HS/HA (sindrome comportamentale da ipersensibilità/iperattività) (E): il tipo 1 rispondeva meglio alla selegilina, il
tipo 2 agli ISRS; non appare evidente la realtà clinica di queste suddivisioni e della loro risposta al trattamento.
L’estrema semplificazione di questo modello non ci permette di acquisire i fattori che sottendono alla scelta di uno
psicotropo, di un’associazione, come delle modalità d’azione dello psicotropo. Di fatto, questo limita le possibilità di
ricerca, di comprensione dei meccanismi e di progresso della disciplina.
Senza dubbio è clinicamente efficace, ma la parte dell’esperienza dei capi fila che propongono la tabella diventa preponderante nelle scelte.
III/INFLUENZA DELL’ESPERIENZA
CLINICA
Si può concepire a diversi livelli:
III/1 Bibliografia
Gli studi pubblicati sugli psicotropi, in particolare come
placebo e nell’aggressività nel cane e nel gatto, sono rari.
Sono da tenere in considerazione i fattori etici, di rischio per
la salute umana in caso di aggressione; inoltre, il numero
degli animali compresi negli studi spesso è ridotto. Infine, i
farmaci per uso veterinario sono poco numerosi e le AMM
(autorizzazioni alla commercializzazione) non coprono tutte
le indicazioni.
In uno studio riguardante 9 cani (un numero molto ridotto), la fluoxetina somministrata alla dose di 1 mg/kg contro
un placebo ha mostrato una riduzione significativa delle
aggressioni di dominanza dirette contro i proprietari (I).
Uno studio di G. Muller (J) dimostra l’efficacia dell’azaperone in confronto ad un placebo nella gestione degli animali ospedalizzati, in particolare per quello che riguarda le
aggressioni, diminuendo così i rischi in caso di manipolazione da parte del personale della clinica.
C. Béata (K) ha presentato a Salsbourg uno studio sulla
clomipramina nel comportamento di marcatura nel gatto.
Negli effetti collaterali di tipo comportamentale si è notata
una diminuzione dei comportamenti di aggressione sui
conspecifici.
II/3 Modello sintomatologico
Joël Dehasse (H) ha sviluppato un modello sintomatologico che associa a determinati sintomi dei possibili psicotropi. Ecco qualche esempio che può essere utile in caso di
aggressività:
72
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
In pratica, la maggior parte dei clinici stabilisce la propria
prescrizione in funzione di ciò che viene trasmesso dai capi
fila (E,F,H) della scuola alla quale si appartiene. È evidente
che in termini di responsabilità, di assunzione di rischio è
essenziale riferirsi all’esperienza di specialisti riconosciuti.
Uno studio condotto per confrontare un placebo con la
clomipramina somministrata alla dose di 1,5 mg/kg due volte al giorno in 28 cani sterilizzati non ha mostrato un’efficacia superiore al placebo su aggressioni di dominanza su
membri della famiglia (q). Un altro studio (r) ha indicato
l’assenza di una differenza significativa tra pazienti che presentavano delle condotte aggressive trattate unicamente
mediante una terapia comportamentale e quelli che ricevevano, in aggiunta, amitriptilina (antidepressivo triciclico)
alla dose di 2 mg/kg due volte al giorno.
La gestione di questi studi pone il problema delle definizioni di aggressioni e della loro classificazione nosografica.
Numerosi farmaci umani sono impiegati negli animali,
spesso con approssimazione e pochi dati sono presentati nell’animale. Per altro gli studi si effettuano su animali da laboratorio, come la ricerca di Rilke (p) che mostra l’inefficacia
del citalopram nel ratto nelle aggressioni contro intrusi.
Per quanto riguarda i farmaci veterinari, i dossier delle
AMM presentano studi condotti su indicazioni precise (clomicalm® e ansietà da separazione), cui segue l’impiego che farà
sì che il trattamento sia utilizzato in varie altre indicazioni (altri
disturbi ansiosi, disturbi cognitivi, marcatura urinaria…)
I confronti tra i due farmaci sono scarsi (es.: L) ed in
generale non riguardano delle situazioni a rischio.
III/2 Esperienza personale
Nonostante le tracce indicate dai più esperti tra noi, ognuno è indotto a forgiare la propria esperienza.
Tra i promotori di varie tendenze esistono gli esploratori,
avidi di provare nuovi trattamenti, nuove associazioni o dosi,
ed i prudenti, che si attengono a trattamenti ampiamente diffusi. Ogni atteggiamento presenta vantaggi ed inconvenienti, anche dei rischi.
- L’esperienza permette di acquisire l’abitudine per certi
farmaci, il che consente di presentarli meglio ai proprietari: effetti secondari, effetti attesi, impiego, regolazione delle dosi, tutti questi elementi facilitano gli
abbinamenti terapeutici e danno un certo comfort al
prescrittore.
- Il prescrittore può provare delle novità:
• Con riferimento a ciò che si fa nell’uomo, perché ha
dei campioni a sua disposizione…
• Perché le risposte ai trattamenti classici sono “insoddisfacenti”
• Per gusto del rischio o noia della routine.
Pochi tra noi vedono casi a sufficienza per avere delle conclusioni interpretabili, quindi occorre essere prudenti e non:
- trarre delle conclusioni generali di casi particolari in termini
• di efficacia
• di effetti secondari
_ un effetto secondario descritto, ma mai incontrato,
finisce per essere “dimenticato” e i proprietari non
ricevono più l’informazione
_ un effetto secondario raro che arriva dopo il primo
impiego può far abbandonare un trattamento peraltro interessante
- impegnarsi in trattamenti difficili da giustificare in caso
di problemi.
IV/2 Fattori esterni al farmaco
È importante ricordare che la prescrizione di un farmaco
viene effettuata nel quadro di una diagnosi. Questa parte non
verrà sviluppata in questa sede, ma è difficile parlare di
rischio, di aggressività senza fare un’astrazione del contesto.
Numerosi fattori influenzeranno l’efficacia del farmaco e
la valutazione dei risultati:
- l’animale: la sua fisiologia, la sua genetica, la sua vulnerabilità sono dei fattori di cui occorrerà poter tener
conto, ma che sono difficili da apprendere.
- Il proprietario: l’osservanza del trattamento è un primo
fattore, le sorprese sono frequenti (l’animale che
migliora, ma che non ha ricevuto il trattamento); soggettività delle valutazioni: animale percepito come
migliorato, ma se il veterinario analizza la situazione
non ci sono variazioni, effetti secondari dei placebo….
- Il veterinario: soggettività della valutazione: osservazione degli effetti in un quadro predefinito che influenza la
visione delle cose. Le griglie, malgrado il loro difetto,
possono costituire un fattore di equilibrio per questa
soggettività
- Altre prescrizioni: la terapia comportamentale, con rare
eccezioni (distimia, sindrome dissociativa) è un elemento fondamentale del trattamento. Nelle prove in
generale è presente, ma è difficile tenerne conto. L’associazione oculata della chemioterapia alla terapia comportamentale è un elemento importante di riuscita.
Le prove sono indispensabili per far progredire i trattamenti, gli psicotropi umani sono in costante evoluzione e
sarebbe un peccato che la nostra disciplina non ne approfittasse. La creazione di un osservatorio di chemioterapia
sarebbe sicuramente un plus per la nostra professione,
riunendo dati oggi troppo sparsi.
IV/EFFICACIA DEI TRATTAMENTI
La mancanza di studi clinici veterinari costituisce un handicap reale, l’abbiamo già sottolineato.
IV/1 Studi
IV/3 È possibile attuare negli animali
un trattamento con psicofarmaci?
Gli studi contro i placebo sono rari (I), in particolare
quando si deve prendere in considerazione la pericolosità. È
importante non dimenticare mai che nessun farmaco ha
un’efficacia del 100% in tutti gli individui e che l’effetto placebo è una realtà.
È una domanda alla quale è molto difficile rispondere.
I farmaci utilizzati per praticare l’eutanasia rappresentano
certamente un tranquillante efficace e definitivo.
P. Pageat (E) presenta l’associazione tiapride + dipiperon
come in grado di “sopprimere i morsi” nei sociopatici stru73
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mentalizzati, l’associazione sultopride + pipamperone che
permette una “soppressione immediata di tutte le aggressioni”. L’impiego dei neurolettici ad alte dosi consente senza
dubbio di rendere l’animale meno reattivo, addirittura stuporoso, ma si ritiene che gli apprendimenti siano difficili o
impossibili con questo tipo di trattamento: cosa si può dire
sull’evoluzione a lungo termine dei cani trattati così? Si può
parlare realmente di soppressioni delle aggressioni?
Ad oggi i farmaci più utilizzati nella pratica corrente e
presentati qui sotto consentono, quando sono impiegati alla
dose adeguata, una riduzione del rischio aggressivo, ma non
possono essere considerati come psicofarmaci.
Queste considerazioni devono invitarci alla prudenza, il
farmaco è uno degli elementi importanti che consentono di
ridurre i rischi, ma non è il solo. La terapia comportamentale, il riconoscimento e la prevenzione delle situazioni a
rischio non devono mai essere dimenticati.
dosi minime, barbiturici a dosi minime (fenobarbital),
trioxazina.
- Le sostanze che aumentano la vigilanza, la sensibilità,
la reattività e l’attività; mianserina, buspirone, ormoni.
- Le sostanze che inducono una confusione mentale e
riducono la regolazione comportamentale: dosi sedative
dei neurolettici, sostanze ad azione anticolinergica nel
cane anziano (clomipramina), barbiturici a forte dose.
L’impiego di questi trattamenti nelle situazioni a rischio
potrebbe coinvolgere la responsabilità del clinico. Di conseguenza, la realtà di alcune di queste controindicazioni non è
del tutto stabilita. Nello studio sulla clomipramina (k) non è
stata notata alcuna modificazione del comportamento dell’aggressione nei confronti dei proprietari, anche a dosi
deboli. Lo studio di coorti importanti sarà una necessità per
valutare questi rischi.
V/3 Effetti secondari
Mancano i dati statistici e i consigli dati ai proprietari
derivano spesso dai dati estrapolati da quelli umani, associati all’esperienza dei prescrittori.
È quindi necessario precisare su grandi numeri gli effetti
secondari, quello potrebbe essere il ruolo di un osservatorio
farmacologico. Gli effetti secondari non sembrano sempre
essere dose-dipendenti: esempio della fluoxetina i cui effetti secondari nei cani di grossa taglia sembrano comparire
con dosi minori rispetto al peso.
Altri effetti meriterebbero di essere documentati come i
disturbi epatici indotti dai trattamenti a lungo termine alla
carbamazepina.
Lo studio di questi effetti permetterà senza dubbio di prescrivere meglio, di adattare meglio le dosi, di costruire una
migliore alleanza terapeutica con i proprietari.
V/I FARMACI NELLA PRATICA CORRENTE
V/1 I farmaci più utilizzati per diminuire
un rischio aggressivo
- Propanolo beta-bloccante, azione noradrenergica
- Antidepressivo triciclico: clomipramina azione noradrenergica e serotoninergica
- ISRS: 5 “classici” della stessa famiglia, che tuttavia non
hanno affatto le stesse attività (d). Una differenza di
azione sembra descritta da numerosi utilizzatori, la
fluoxetina sembra avere l’azione più rapida e più
costante sull’impulsività. La fluvoxamina avrebbe un’azione sulle aggressioni ma può essere più lenta (2 mesi
nel caso di HS/HA: Dehasse 1999), il suo dosaggio
deve essere aggiustato frequentemente e può arrivare a
20 mg/kg (G).
- Carbamazepina: interferendo con gli ioni Na e K, sembra aumentare l’azione inibitrice del GABA. Si tratta di
un timoregolatore.
- Litio: la sua azione è ancora poco conosciuta, potrebbe
agire oltre il recettore, a livello dei secondi messaggeri;
è un timoregolatore. Dato che ha un indice terapeutico
debole, è necessario un monitoraggio mediante esami
ematologici e sono possibili le intossicazioni. Di conseguenza il suo impiego è delicato.
- Neurolettici a dose antiproduttiva: azione antagonista
D2, sono attivi su tutte le vie dopaminergiche, la loro
azione anticolinergica ed antistaminica li rende poco
utilizzabili nella pratica corrente.
- Neurolettici atipici, il più utilizzato oggi in medicina
veterinaria è il risperidone; sono degli antagonisti serotoninergici e dopaminergici che hanno azioni diverse a
seconda delle regioni cerebrali. Questi trattamenti presentano molti meno effetti negativi dei neurolettici classici e sono quindi affascinanti, anche se molto più cari.
CONCLUSIONE
La riflessione condotta al riguardo della chemioterapia del
rischio deve consentirci di interrogarci sulle nostre pratiche
di prescrizione. Fare una scelta “ragionata” del trattamento
farmacologico (anche se i criteri di scelta sono il caso o il
costo) consente al prescrittore di inquadrarsi, di informare i
proprietari, di gestire gli effetti del trattamento e di prevedere la sua evoluzione (dose, cambiamento, interruzione…).
In qualche disturbo realmente “zoopsichiatrico” raro (distimia, sindrome dissociativa), il farmaco rappresenta il solo
trattamento e non sembra che gli psicotropi impiegati possano rappresentare uno psicofarmaco efficace a lungo termine.
In praticamente tutti gli altri disturbi, il farmaco è uno degli
elementi costitutivi di una terapia e la gestione come la
assunzione dei rischi sono ripartiti fra i diversi elementi.
Bisogna quindi diffidare della ricerca del farmaco “miracolo” anche se talvolta il veterinario ed i proprietari si lasciano
trascinare nel gioco.
V/2 Farmaci sconsigliati
Alcuni farmaci sono sconsigliati nelle situazioni a rischio
(H):
- Le sostanze che riducono le inibizioni sociali e gli autocontrolli (benzodiazepina, neurolettici a dosi ridotte,
alcuni antidepressivi triciclici (clomipramina) o ISRS a
Bibliografia
(D) Stahl S M. Psychopharmacologie essentielle Ed Médecine Sciences
Flammarion 4 rue Casimir- Delavigne 75006 Paris première édition
française 2002: 601 p.
74
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
(E) Pageat, P., 1995. Pathologie du comportement du chien Editions du
Point Vétérinaire, Maisons-Alfort, 368 p.
(E) Pageat, P., 1998. Pathologie du comportement du chien Editions du
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Med assoc 2000; 216:1571-1575.
75
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Comportement agressif:
éléments de pharmacothérapie
Claude Beata
Dr Vet, Comportementaliste, Dipl ENVF, Dipl ECVBM-CA, Toulon, F
D’après un article de Nathalie Marlois, Docteur Vétérinaire Comportementaliste Dipl ENVF
• Stabilisant l’humeur
• Inhibant l’agressivité et donc rendre un risque acceptable ou gérable
• Favorisant les apprentissages…
- Risque, il s’agit:
• Des risques induits par le changement d’état de
l’animal: déstabilisation d’un animal dominant, sûr
de lui, et donc augmentation du risque d’agression
vulnérante.
• Du risque de ne rien faire et donc de voir continuer ou
apparaître des comportements pathologiques ou
dérangeants: agressions, destructions….
Prendre en charge une situation à risque en consultation
de comportement, c’est adopter une stratégie qui dépendra
des observations effectuées, des informations acquises
jusque-là et de l’évaluation de l’importance des risques par
le propriétaire et par le prescripteur. Par le médicament, le
prescripteur joue sur l’état du système et tente de restreindre
le champ des possibles.
Le médicament, s’il est théoriquement présenté comme
une béquille, un support, est en pratique souvent pensé en
terme de prothèse que ce soit par les propriétaires ou le prescripteur. Mais plus que le médicament lui-même et au delà
des recettes qu’on ne peut donner, c’est le cadre dans lequel
s’inscrit la prescription pharmacologique qu’il est intéressant d’explorer et d’analyser et c’est ce que nous allons tenter de faire ici.
I/2 Mesure du risque
Tout traitement d’un animal à risque ou d’une situation à
risque en réfère à 2 questions fondamentales qui sont abordées dans les autres conférences:
- Qu’est-ce qu’un risque acceptable?
- Comment quantifier, mesurer les risques?
Dans les 2 cas, nous devons à la fois utiliser la notion de
grand nombre et donc son corollaire, l’idée d’une certaine
unité des individus formant la collectivité, mais aussi
reconnaître les paramètres individuels de chacun et du système thérapeutique. Face au risque, la rationalité des individus et du groupe dépend de son système de valeur. Il
n’est pas toujours possible de mathématiser le risque en
donnant un prix à des choses qui n’en ont pas (la vie, le
confort, le plaisir…)
Dans ce cadre les grilles d’évaluation constituent un outil
dont il faut connaître les limites.
I/PRENDRE LE RISQUE DE TRAITER
Décider de traiter un animal, c’est en soi prendre un
risque: risque de réussir ou d’échec, risque d’effet secondaire, risque inhérent à tout changement.. La particularité
de la chimiothérapie, par rapport à la thérapie comportementale, c’est la présence d’un agent externe, d’un médiateur: le médicament.
Celui-ci peut être l’objet de tous les espoirs mais aussi
accusé de tous les échecs; il demande moins d’investissement ou de remise en cause personnelle hormis en terme de
coût et en ce qui concerne l’observance.
I/1 Calculer le rapport bénéfice escompté
/risques
I/3 Traiter ou non
Il n’existe pas de traitement sans risque et le but de tout
traitement est d’obtenir un bénéfice pour le malade ou le système. Il s’agit donc de maximiser l’utilité espérée du médicament pour obtenir un rapport bénéfice sur risque le plus
favorable possible.
Cette utilité ne peut s’évaluer que dans le cadre d’un diagnostic et d’un contexte particulier.
- Bénéfice escompté: le changement d’état de l’animal
suite à la prise du médicament peut permettre la mise
en place d’une thérapie comportementale, ou diminuer
le risque d’agressions en:
• jouant sur les états émotionnels: état anxieux favorisant les agressions par irritation, peur dans les phobies sociales,
• Inhibant l’impulsivité, renforçant les autocontrôles
Prendre le risque de traiter, s’est estimer que la balance:
bénéfice escompté/risque est en faveur du traitement que
l’on va instaurer. Dans certains cas, il peut s’avérer plus prudent de ne pas traiter un chien dangereux dont les propriétaires gèrent de façon assez efficace le risque plutôt que de
déstabiliser le système par l’administration d’un médicament et une thérapie comportementale.
Lorsque la décision de ne pas traiter est prise, plusieurs
solutions existent, elles ne seront pas développées ici:
- l’euthanasie
- le replacement
- le «statu quo», qui n’en est jamais vraiment du fait de la
consultation et de ce qui s’y est dit.
Aucune des ces solutions n’est sans risque, que ce soit pour
l’animal, le groupe familial, le vétérinaire ou la société.
76
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• Voie tubéro-infundibulaire: les neurones situés dans
l’hypothalamus envient des projections dans l’hypophyse antérieure. A l’état normal, ils inhibent la libération de prolactine.
- GABA: présent dans toutes les zones du cerveau, son
apparition est rapide et il a un rôle inhibiteur (d).
- Autres: de nombreux autres neurotransmetteurs existent
et sont susceptibles de jouer un rôle, (glutamate, peptides, prolactine, hormones thyroïdiennes, sexuelles…)
leur apport en pharmacothérapie est faible à l’heure
actuelle.
Les traitements utilisés pour diminuer l’agressivité vont
donc jouer sur ces différents systèmes de neuromédiateurs.
Il semble évident que selon le type d’agression différentes
zones du cerveau et différents systèmes de neuromédiateurs
vont entrer en action. Des études chez le chat (s) ont montrées que l’hypothalamus médian et «midbrain periacqueductal gray» sont les structures principales intervenant dans
les agressions défensives, alors que l’hypothalamus latéral
«perifornical» intervient dans la prédation, des systèmes de
régulation d’intensité existent.
Des médiateurs facilitent les agressions défensives: glutamate, substance P, cholecystokinine, les peptides opïoides
seraient suppresseurs. L’action du système GABA serait une
explication à l’inhibition réciproque observée entre ces deux
types d’agression. Ces recherches, qui sont du domaine des
neurosciences offriront peut être dans l’avenir de nouvelles
perspectives de traitement adaptées au type d’agression en
cause.
II/CADRE «THÉORIQUE» DE PRESCRIPTION
Le choix d’un traitement pharmacologique dépend bien
sûr du cas clinique à traiter mais il est grandement influencé
par la «culture» du prescripteur et en particulier, ses modèles.
II / 1 Modèle psychopharmacologique
Dans ce modèle, une grande importance est donnée aux
neuromédiateurs, du moins aux plus connus. Récepteurs et
enzymes sont à la fois siège de l’action des médicaments et
médiateurs de l’action des maladies.
De nombreux troubles comportementaux peuvent être
considérés en lien avec des modifications de la neurotransmission synaptique.
II/1-1 Neuromédiateurs
Les agressions constituent le plus grand risque à gérer en
thérapie comportementale.
Même si des lignées de rat peu ou très agressifs ont été
sélectionnées sur la base d’un génotype particulier, mettant en
avant le rôle des récepteurs dopamine D2 (O), il n’existe ni
gène, ni neuromédiateur de l’agressivité. Tous les grands systèmes de neuromédiateurs sont susceptibles d’intervenir dans
un comportement agressif:
- Noradrénaline: les corps cellulaires des neurones nordadrénergiques sont situés dans le locus ceruleus. Ce dernier joue un rôle important dans le processus d’attention: établissement de priorité, fixation de l’attention.
Le système noradrénergique intervient ainsi dans la perception et la réaction à une menace venant de l’environnement ou aux signaux internes de la douleur (d). La
manière dont l’attention est dirigée participe à l’apprentissage et à la création des mémoires, éléments intervenants dans les réactions futures. Le système noradrénergique joue un rôle aussi dans la cognition, l’humeur, les
émotions la motricité.
- Sérotonine: les corps cellulaires des neurones sérotoninergiques sont situés dans le noyau du raphé et se projettent dans différentes zones cérébrales: le cortex, avec
un rôle sur l’humeur; les ganglions de la base: contrôle
de la motricité, obsessions, compulsions; aires limbiques: anxiété panique.
- Dopamine: quatre voies dopaminergiques majeures sont
reconnues
• Voie mésolimbique: elle établit des projections des
corps cellulaires des neurones dopaminergiques du
tegmentum ventral vers les terminaisons axonales des
aires limbiques comme le noyau accubems. Cette
voie jouerait un rôle dans la production d’hallucinations auditives, du délire et des troubles de la pensée
chez l’homme. Elle joue aussi un rôle sur l’agressivité et sur le contrôle des vois sérotoninergiques. Elle
joue aussi un rôle dans les circuits du renforcement et
de la récompense, donc de l’apprentissage
• Voie mésocorticale: du tegmentum ventral au cortex
limbique, elle est liée à la précédente. Elle joue un
rôle dans les cognition
• Voie nigro-striée: les corps cellulaires sont dans la
substance noire du tronc cérébral et se projette vers
les ganglions de la base et le striatum. Elle contrôle la
motricité.
II/1-2 Limites du modèle
Il est très important, lorsqu’on prescrit un médicament, de
bien avoir en tête que l’on se réfère à un modèle:: «les médicaments ne sont que des mulets qui charrient des mécanismes sur leur dos» (d). Il reste encore beaucoup d’inconnues quant aux mécanismes pharmacologiques de certains
médicaments de même qu’au niveau des mécanismes pathologiques.
De plus les effets cliniques sont parfois différents des
effets théoriques (les neuroleptiques atypiques, devraient
entraîner une diminution de la sécrétion de la prolactine, ce
qui n’est pas le cas de tous, en particulier la risperidone qui
peut provoquer des montées de lait.)
Des variations individuelles sont très importantes (cytochrome, vulnérabilité…), de plus peu d’études concernent
uniquement l’animal de compagnie.
II/2 Mono-poly chimiothérapie
Différents «courants» ont existé dans notre discipline;
après une période ou certaines associations étaient fréquemment évoquées (ex: anafranil-dipiperon), a suivi une période
uniciste. Que peut on raisonnablement envisager à l’heure
actuelle? Est-il plus risqué de prescrire une association de
médicaments et/ou cela permet-il de mieux gérer les risques,
de mieux traiter?
Chez l’homme, l’évolution des médicaments vers une
plus grande spécificité d’action facilite les associations.
Celles-ci, notamment en cas de résistance au traitement ou
d’échec sont très fréquentes (association d’antidépresseurs,
risperidone+ISRS, carbamazépine+ISRS…).
77
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Le principe est d’utiliser des associations de médicaments
sûres et rationnelles, exploitant des synergies moléculaires et
pharmacologiques (donc de mécanisme) supposées tout en
permettant, si possible, une meilleure tolérance (D).
En médecine vétérinaire les publications sur l’intérêt des
associations font défaut. En pratique, dans une association:
- on recherche:
• Une synergie
• Une complémentarité: 1+1=10
• Une diminution des effets secondaires1+1 = 0
- on risque:
• Une augmentation des effets secondaires, une toxicité
• Une inefficacité
Le système enzymatique cytochrome P450 (CYP450) a
un rôle clef dans la pharmacocinétique des psychotropes eu
niveau du foie et de l’intestin(D). Chez l’homme, un polymorphisme de ce système a été observé, il est très probable
en soit de même chez l’animal. Malgré de nombreuses
inconnues, il semble intéressant de tenir compte de la théorie. Les psychotropes peuvent être substrat, inhibiteurs ou
inducteurs des enzymes du CYP450, exemples:
- CYP450 1A2: bloquée par les ISRS, en particulier fluvaxamine: ils réduisent l’efficacité de médicaments
métabolisés par la 1A2 lors l’administration conjointe
(théophylline, caféine, certains neuroleptiques atypiques) avec risque de toxicité.
- CYP450 2D6: les antidepresseurs tricycliques sont des
substrats de la 2D6, les ISRS des inhibiteurs (en particulier la paroxétine et la fluoxétine). Leur administration concomitante ou lors de changement d’un ATC
pour un ISRS va donc augmenter les taux d’ATC éventuellement jusqu’au niveau toxique.
- CYP450 3A4: l’administration d’un substrat (benzodiazépine) avec un inhibiteur 3A4 (fluoxétine, fluvoxamine) va augmenter le taux du substrat.
- La carbamazépine est substrat et inducteur (augmente
l’activité de l’enzyme au-delà de son activité physiologique en induisant de nombreuses copies de l’enzyme)
3A4; lors d’un traitement chronique, il y a induction
enzymatique et chute des taux plasmatiques nécessitant
d’augmenter la dose.
En pratique, les associations doivent être envisagées selon
des critères pharmacologiques, mais l’expérience clinique est
primordiale pour juger de leur utilité et de leurs risques. Il faut
cependant veiller à ne pas essayer de cacher nos insuffisances
en terme de thérapie par une surenchère pharmacologique.
Les associations les plus couramment pratiquées (E,H)
sont:
- acétate de cyproterone systématiquement associé à la
carbamazépine
- pipamperone, systématiquement associée à la clomipramine ou à la fluvoxamine
J. Dehasse (H) utilise avec satisfaction des association en
principe non recommandées, comme sélégiline avec fluvoxamine ou carbamazépine. Des études sur des grands
nombres seraient utiles pour juger de l’innocuité.
sibles. Voici quelques exemples qui peuvent être utiles en
cas d’agressivité:
Agression défensive: clomipramine, fluoxétine, fluvoxamine, selegiline
Agression par douleur: alprazolam, amitryptiline
Agression hiérarchiques: carbamazépine, fluoxétine, fluvoxamine
Hyperagression primaire: fluoxétine, fluvoxamine
Agression offensive: carbamazépine, fluoxétine, fluvoxamine
Agression sexuelle: cyproterone
Cette présentation est assez simple à utiliser, et, consciemment ou non, nous l’utilisons tous plus ou moins. L’utiliser
comme modèle, me paraît plus risqué.
Chaque psychotrope correspond à plusieurs symptômes et
inversement. Chez l’homme, jusqu’à présent, la recherche
de sous-types pathologiques en relation avec la réponse à des
traitements a été le plus souvent infructueuse. Un essai a été
fait avec le chien dans le HS/HA (E): type 1 répondant
mieux à la sélégiline, type 2 aux ISRS, la réalité clinique de
ces subdivisions et de leur réponse au traitement ne semble
pas évidente.
La simplification extrême de ce modèle, ne nous permet
pas d’appréhender les facteurs qui sous tendent le choix d’un
psychotrope, d’une association, ainsi que les modalités d’action du psychotrope. De ce fait, cela limite les possibilités de
recherche, de compréhension des mécanismes et d’avancement de la discipline.
C’est sans doute cliniquement efficient mais la part de
l’expérience des chefs de file proposant le tableau devient
prépondérante dans les choix.
III/INFLUENCE DE L’EXPÉRIENCE
CLINIQUE
Elle peut se concevoir à différents niveaux:
III/1 Bibliographie
Les études publiées sur les psychotropes, en particulier
contre placebo et dans l’agressivité chez le chien et le chat
sont rares. Les facteurs éthiques, de risque pour la santé
humaine en cas d’agression sont à prendre en compte, de
plus, le nombre des animaux inclus dans les études est souvent faible. Enfin, les médicaments à usage vétérinaire sont
peu nombreux et les AMM ne couvrent pas toutes les indications.
Dans une étude concernant 9 chiens (ce qui est très
faible), la fluoxétine administrée à 1mg/Kg contre placebo a
montré une réduction significative des agressions de dominance dirigées contre les propriétaires (I).
Une étude de G Muller (J) montre l’efficacité de l’azaperone contre placebo dans la gestion des animaux hospitalisés, en particulier en ce qui concerne les agressions, diminuant ainsi les risques lors de manipulation par le personnel
de la clinique.
C. Béata (K) a présenté à Salsbourg une étude sur la clomipramine dans le marquage chez le chat. Dans les effets
annexes sur le comportement sont noté une diminution des
II/3 Modèle symptomatologique
Joël Dehasse (H) a développé un modèle symptomatologique qui associe, à des symptômes des psychotropes pos78
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comportements d’agression sur les congénères. En pratique,
la plupart des praticiens établissent leur prescription en fonction de ce qui est transmis par les chefs de file (E,F,H) de
l’école à laquelle ils appartiennent. Il est évident qu’en terme de responsabilité, de prise de risque il est essentiel de
pouvoir se référer à l’expérience de spécialistes reconnus.
efficace à 100% chez tous les individus et que l’effet placebo est une réalité.
Une étude contre placebo sur la clomipramine administrée
à la dose de 1,5mg/kg 2 fois par jour chez 28 chiens stérilisés, n’a pas montré une efficacité supérieure au placebo sur
des agressions de dominance sur des membres de la famille
(q). Une autre étude ® a montré l’absence de différence
significative entre des patients présentant des conduites
agressives traités par une thérapie comportementale uniquement et ceux recevant, en plus, de l’amiptriptyline (antidépresseur tricyclique) à 2mg/kg 2 f/j.
L’exploitation de ces études pose le problème des définitions des agressions et de leur classification nosographique.
De nombreux médicaments humains sont utilisés chez
l’animal, souvent par approximation et peu de données sont
présentées chez l’animal. Pour d’autres les études ont lieu
sur des animaux de laboratoire, comme l’étude de Rilke (p)
montrant l’inefficacité du citalopram chez le rat dans des
agressions contre intrus.
En ce qui concerne les médicaments vétérinaires, les dossiers d’AMM présentent des études sur des indications précises (clomicalm® et anxiété de séparation), puis c’est l’usage qui fera que le traitement sera utilisé dans de nombreuses
autres indications (autres troubles anxieux, troubles cognitifs, marquage urinaire…). Les comparaisons entre deux
médicaments sont peu nombreuses (ex: L) et ne concernent
en général pas des situations à risque.
III/2 Expérience personnelle
Malgré les pistes données par les plus expérimentés
d’entre nous, chacun est amené à se forger sa propre expérience. Parmi les prescripteurs de nombreuses attitudes existent: les explorateurs, avides de s’essayer à de nouveau traitements, nouvelles associations ou doses, les prudents qui
s’en tiennent aux traitements largement répandus. Chaque
attitude présente des avantages et des inconvénients, des
risques aussi.
- l’expérience permet d’acquérir l’habitude de certains
médicaments, cela permet de mieux les présenter aux
propriétaires: effets secondaires, effets attendus, utilisation, réglage des doses, tous ces éléments facilitent l’alliance thérapeutique et donnent un certain confort au
prescripteur.
- Le prescripteur peut s’essayer à des nouveautés:
• Par référence à ce qui se fait chez l’homme, parce
qu’il a, à sa disposition, des échantillons…
• Parce que les réponses aux traitements classiques
sont «insatisfaisantes»
• Par goût du risque ou lassitude de la routine
Peu d’entre nous voient suffisamment de cas pour avoir des
conclusions interprétables, il faut donc être prudent et ne pas:
- tirer des conclusions générales de cas particuliers en
terme
• d’efficacité
• d’effets secondaires:
_ un effet secondaire décrit mais jamais rencontré
finit par être «oublié» et les propriétaires ne reçoivent plus l’information
_ un effet secondaire rare qui arrive dès la première
utilisation peut faire abandonner un traitement par
ailleurs intéressant
- engager sa responsabilité dans des traitements difficiles
à justifier en cas de problème.
IV/2 Facteurs externes au médicament
Il est important de rappeler que la prescription d’un médicament se fait dans le cadre d’un diagnostic. Cette partie
n’est pas développée ici, mais il est difficile de parler de
risque, d’agressivité sans faire abstraction du contexte.
De nombreux facteurs vont influencer l’efficacité du
médicament et l’appréciation des résultats:
- l’animal: sa physiologie, sa génétique, sa vulnérabilité
sont des facteurs dont il faudrait pouvoir tenir compte
mais qui sont difficiles à appréhender.
- Le propriétaire: l’observance du traitement est un premier facteur, les surprises sont fréquentes (animal amélioré mais qui n’a pas reçu le traitement), subjectivité
des appréciations: animal perçu comme amélioré mais
si le vétérinaire analyse la situation: pas de modification, effets secondaires des placebos…
- Le vétérinaire: subjectivité de l’appréciation: observation des effets dans un cadre prédéfini qui influence la
vision des choses. Les grilles, malgré leur défaut peuvent constituer une balance à cette subjectivité
- Autres prescriptions: la thérapie comportementale, à de
rares exceptions près (dysthymie, syndrome dissociatif)
est un élément fondamental du traitement. Dans les
essais elle est en général présente mais il est difficile
d’en tenir compte. L’association judicieuse de la chimiothérapie à la thérapie comportementale est un élément important de réussite.
Les essais sont indispensables pour faire avancer les traitements, les psychotropes humains sont en constante évolution et il serait dommage que notre discipline n’en profite
pas. La création d’un observatoire de chimiothérapie serait
certainement un plus pour notre profession en réunissant les
données trop disséminées à l’heure actuelle.
IV/EFFICACITÉ DES TRAITEMENTS
Le manque d’études cliniques vétérinaire constitue un réel
handicap, nous l’avons déjà évoqué.
IV/1 Etudes
IV/3 Existe-t-il une camisole chimique possible chez l’animal?
Les études contre placebo sont rares (I), en particulier
quand une dangerosité doit être prise en compte. Il est
important de ne jamais oublié qu’aucun médicament n’est
C’est une question à laquelle il est très difficile de
répondre.
79
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Les médicaments utilisés pour pratiquer l’euthanasie
constituent certainement une camisole efficace et définitive.
P Pageat (E) présente l’association tiapride + dipiperon
comme susceptible de «supprimer les morsures» chez des
sociopathes instrumentalisés, l’association sultopride +
pipamperone permettant une «suppression immédiate de
toutes les agressions». L’utilisation de neuroleptiques à haute dose permet sans doute de rendre l’animal moins réactif,
voir stuporeux, mais les apprentissages sont réputés difficiles voir impossibles sous ce type de traitement: que peuton dire sur l’évolution à long terme des chiens ainsi traités?
Peut-on parler réellement de suppressions des agressions?
A l’heure actuelle les médicaments les plus utilisés en
pratique courante et présentés ci-dessous permettent, lorsque
utilisés à dose adéquate une réduction du risque agressif, ils
ne peuvent pas être considérés comme des camisoles chimiques.
Ces considérations doivent nous inciter à la prudence, le
médicament est un des éléments important qui permettent de
réduire les risques mais il n’est pas le seul. La thérapie comportementale, la reconnaissance et la prévention des situations à risques ne doivent jamais être oubliées.
V/2 Médicaments déconseillés
V/LES MÉDICAMENTS EN PRATIQUE
COURANTE
V/3 Effets secondaires
Certains médicaments sont déconseillés dans des situations à risque (H):
- Les substances qui réduisent les inhibitions sociales et
autocontrôles (benzodiazépine, neuroleptiques à faible
dose, certains antidépresseurs tricycliques (clomipramine)ou ISRS à faible dose, barbituriques à faible dose
(phenobarbital), trioxazine
- Les substances qui augmentent la vigilance, la sensibilité, la réactivité et l’activité: la miansérine, buspirone,
hormones
- Les substances induisant une confusion mentale et
réduisant la régulation comportementale: doses sédatives de neuroleptiques, substances à action anticholinergique chez le chien âgé (clomipramine), barbituriques à forte dose.
L’utilisation de ces traitements dans des situations à risque
pourrait engager la responsabilité du praticien. Pourtant, la
réalité de certaines des ces contre indications n’est pas tout
à fait établie. Dans l’étude sur la clomipramine (k) aucune
modification du comportement d’agression vis à vis des
maîtres n’a été noté, même à faible dose. L’étude de cohortes
importantes serait une nécessité pour évaluer ces risques.
Les données statistiques font aussi défaut et les conseils
donnés aux propriétaires découlent souvent de données
extrapolées des données humaines, associées à l’expérience
des prescripteurs.
Il est donc nécessaire de préciser sur des grands effectifs
les effets secondaires, cela pourrait être le rôle d’un observatoire pharmacologique. Les effets secondaires ne semblent
pas toujours doses dépendants: exemple de la fluoxétine
dont les effets secondaires chez les grands chiens semblent
apparaître avec des doses moindres rapportées au poids).
D’autres effets mériteraient d’être documentés comme les
troubles hépatiques induits par des traitements longue durée
à la carbamazépine.
L’étude de ces effets permettrait sans doute de mieux
prescrire, de mieux adapter les doses, de construire une
meilleure alliance thérapeutique avec les propriétaires.
V/1 Médicaments les plus utilisés pour
diminuer un risque agressif
- Propanolol bêta bloquant, action noradrénergique
- A tricyclique: clomipramine action noradrénergique et
sérotoninergique
- ISRS: 5 «classiques» de la même famille, n’ayant
cependant pas tout à fait les mêmes activités (d). Une
différence d’action semble décrite par de nombreux utilisateurs, la fluoxétine semble avoir l’action la plus rapide et la plus constante sur l’impulsivité. La fluvoxamine aurait une action sur les agressions mais peut être
plus lente (2 mois dans des cas de HS/HA: Dehasse
1999), son dosage doit être ajusté fréquemment et peut
atteindre 20 mg/kg (G)
- Carbamazépine: en interférant avec les ion Na et K, elle
semble augmenter l’action inhibitrice du GABA. Il
s’agit d’un thymorégulateur
- Lithium: son action est encore mal connue, il pourrait
agir au delà du récepteur, au niveau des seconds messagers; c’est un thymorégulateur. Son index thérapeutique
faible nécessite une surveillance sanguine et les intoxications sont possibles. Son emploi est donc délicat.
- Neuroleptiques à dose antiproductive: action antagoniste D2, ils sont actifs sur toutes les voies dopaminergiques, leur action anticholinergique et antihistaminique les rendent peu utilisables en pratique courante.
- Neuroleptiques atypiques, le plus utilisé à l’heure
actuelle en médecine vétérinaire est la risperidone: ce
sont des antagonistes sérotoninergique et dopaminergiques qui ont des actions différentes selon les régions
cérébrales. Ces traitements présentent beaucoup moins
d’effets néfastes que les neuroleptiques classiques et
sont donc séduisants bien que beaucoup plus chers.
CONCLUSION
La réflexion menée autour de la chimiothérapie du risque
doit nous permettre de nous interroger sur nos pratiques de
prescription. Faire un choix «raisonné» du traitement pharmacologique (même si les critères de choix sont le hasard ou
le coût) permet au prescripteur de se situer, d’informer les
propriétaires, de gérer les effets du traitement et d’envisager
son évolution (dose, changement, arrêt…).
Dans quelques troubles réellement «zoopsychiatriques»
rares (dysthymie, syndrome dissociatif), le médicament
constitue le seul traitement et il ne semble pas que les psychotropes employés puissent constituer une camisole chimique efficace à long terme. Dans pratiquement tous les
autres troubles, le médicament est un des éléments constitutifs d’une thérapie et la gestion ainsi que la prise de risques
sont réparties entre les différents éléments. Il faut donc se
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
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méfier de la recherche du médicament «miracle» même si
parfois le vétérinaire et les propriétaires se laissent prendre
au jeu.
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81
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Efficacia di Amitraz in una formulazione spot-on
nel trattamento delle diverse forme cliniche
di demodicosi canina
Massimo Beccati
Med Vet, PhD, Torino
Laura H. Kramer
Med Vet, PhD, Dipl EVPC, Parma
INTRODUZIONE
ri hanno riportato l’efficacia di Amitraz spot-on per il trattamento di cani infetti con Demodex canis e Sarcoptes scabiei.
Nel caso della demodicosi generalizzata, gli autori riportano
che la somministrazione ogni 15 giorni risulta nella rapida
riduzione del numero di acari e la guarigione clinica/parassitologia del 63% dei cani dopo tre mesi. La somministrazione mensile, invece, risulta nella guarigione del 43% dei
cani. Qui, gli autori valutano, in due distinte esperienze in
vivo, l’utilizzo e la risposta a due protocolli terapeutici, della formulazione spot-on di amitraz plus Metaflumizone
(ProMeris Duo® ) in cani affetti da demodicosi.
La demodicosi canina è causata dalla proliferazione di
acari commensali del Genere Demodex (D. canis, D. injai,
D. non classificato “corto”)?. Clinicamente, la demodicosi
del cane è caratterizzata da alopecia focale o multifocale non
pruriginosa spesso aggravata da papule follicolari, eritema,
pustole e croste, iperpigmentazione, comedoni. Le lesioni
possono essere focali, soprattutto al muso nella forma localizzata mentre colpire zone più diffuse del corpo, della forma di demodicosi generalizzata (DG). È noto da tempo che
alcune linee famigliari di cane sono predisposte alla demodicosi generalizzata ad insorgenza giovanile, e la stragrande
maggioranza dei cani affetti sono di razza pura. Tuttavia,
nonostante siano passati 30 anni, non si conosce ancora il
meccanismo immuno-patogenetico che porta alla generalizzazione dell’infezione.
La diagnosi viene formulata mediante raschiati profondi o
tricogramma. Secondo molti, la demodicosi localizzata giovanile si risolve spontaneamente nel 90% dei pazienti e di
solito la terapia acaricida non è necessaria, tuttavia va ricordato che circa il 10-20% dei casi recidiva o evolve nella forma generalizzata. Quest’ultima per contro, richiede un trattamento prolungato nel tempo, con il rischio di recidive.
Diversi farmaci e protocolli terapeutici sono stati proposti
per il trattamento della demodicosi nel cane. L’applicazione
topica di Amitraz sotto forma di spugnature, una volta ogni
7-15 giorni (soluzione dallo 0,025-0,06%), l’Ivermectina a
300-600 µg/kg die PO, la Milbemicina a 1-3 mg/kg die PO,
o la Moxidectina a 400 µg/kg die PO sono stati tutti dimostrati efficaci nel trattamento della DG. Solo l’Amitraz e la
Milbemicima ossima sono registrati per l’uso specifico,
mentre l’utilizzo delle altre molecole permane “off-label”.
Recentemente la moxidectina in formulazione spot-on è stata registrata per la terapia della DG (Advocate® ).
Una nuova formulazione spot-on di Amitraz (associato al
Metaflumizone, entrambi a 20 mg/kg, ProMeris Duo®) è
attualmente registrata per la prevenzione/trattamento delle
infestazioni da pulci e da zecche nei cani. Il prodotto è anche
indicato come parte della strategia di trattamento per la dermatite allergica da pulci (DAP). Recentemente, alcuni auto-
MATERIALI E METODI
A. Protocollo con applicazione bi – mensile
24 cuccioli suddivisibili in 16 femmine e 8 maschi con un
range di età di 3-10 mesi, comprendente diverse razze (tuttavia segnaliamo che 10/24 erano di Razza Carlino ) sono
stati trattati per demodicosi . 18/24 affetti dalla forma multifocale generalizzata mentre 6/24 con distribuzione localizzata ma in fase evolutiva.
In nessuno dei pazienti abbiamo ritenuto necessaria la
terapia antibiotica di supporto.
Per escludere l’influenza di una compliance negativa relativa all’applicazione del prodotto da parte del proprietario,
abbiamo applicato Noi il prodotto ogni 15 giorni metodica
che ci ha permesso di seguire l’evolversi della patologia
costantemente .
Il prodotto è stato applicato partendo dalle aree lesionate
e non dal routinario spazio interscapolare. I cani sono stati
statisticamente valutati dopo 4 somministrazioni (2 mesi di
terapia), evidenziando un netto miglioramento clinico/parassitologico (lesioni / numero e vitalità parassitaria).
In nessun caso si sono avute sovra crescite batteriche o da
Malassezia spp.
In 12/24 (50%) dei casi, abbiamo considerato guariti dopo
due mesi di terapia (6/6 della forma localizzata). In tutti i
cani considerati guariti (22/24 in un range di trattamento di
2-4 mesi), abbiamo continuato il trattamento per altri due
mesi oltre la guarigione clinico/parassitaria.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
principio attivo permane fino a 54 giorni dalla somministrazione. Il limite di questo studio, tuttavia, è la mancanza di
dati per quanto riguarda la concentrazione del principio attivo a livello podale, zona spesso implicata nella cronicizzazione dell’infezione.
In conclusione, la somministrazione mensile/bi-mensile
della formulazione spot-on di amitraz plus Metaflumizone
(ProMeris Duo®) risulta sicura ed efficacia per il trattamento di cani affetti da demodicosi.
In 16/24 si sono avuti effetti secondari transitori come:
depressione del sensorio, letargia, inappetenza. 2/24 hanno
dovuto sospendere il trattamento per intolleranza al farmaco
.
B. Protocollo con applicazione mensile
32 cani affetti da DG (di insorgenza giovanile/adulta) hanno partecipato in uno studio doppio cieco randomizzato controllato con Advocate®. Il farmaco (22 cani = amitraz; 10
cani = moxidectina) è stato somministrato una volta ogni
28±3 giorni per un massimo di 6 mesi. I cani sono stati
osservati clinicamente una volta al mese per la valutazione
di lesioni associate a Demodex e per la conta degli acari. I
cani trattati con amitraz spot-on hanno dimostrato una riduzione del numero di acari pari al 90% al giorno 56 (dopo due
sole somministrazioni) e al 98,6% a fine studio (giorno 168).
Lo score delle lesioni cutanee è diminuito significativamente nei cani trattati con amitraz spot-on a partire dal giorno
54. Nella valutazione finale della guarigione, miglioramento
o non-risposta al trattamento, 94,4% dei cani trattati con
amitraz spot-on sono guariti e 5,6 sono migliorati (vs. rispettivamente il 62,5% e il 12,5% dei cani trattati con moxidectina). Il trattamento è stato ben tollerato da tutti i cani.
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DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
L’amitraz è una insetticida/acaricida del gruppo dei formamidine, inibitori della monoaminossidasi ed agonisti 〈2adrenergici. Quando applicato sotto forma di spugnature,
una volta ogni 7-15 giorni, è efficace contro la demodicosi
generalizzata in circa 70% dei casi (guarigione parassitologia/clinica, comprese le forme ad insorgenza in età adulta.
L’amitraz è fra i prinicipi di prima scelta per la demodicosi
canina.
Nonostante la recente registrazione di una formulazione
spot-on contenente moxidectina, i dati sull’efficacia sono
ancora pochi. Tuttavia, l’interesse nelle formulazioni spoton per la terapia delle demodicosi canina è sicuramente forte. Da un lato, lo spot-on è meno difficile da somministrare
delle spugnature tradizionali, aumentando l’owner-compliance. Dall’altro, potrebbe rappresentare un’alternativa
valida all’uso improprio dei lattoni macrociclici.
Recentemente, è stata valutata la farmaco-cinetica della
formulazione spot-on utilizzato nel presente studio. Gli
autori riportano che i livelli plasmatici di amitraz rimangono
molti bassi, mentre il farmaco si diffonde rapidamente su
tutta la superficie corporea e raggiunge i massimi livelli sul
pelo/sulla cute dopo circa 7 giorni dalla somministrazione. Il
Indirizzo per la corrispondenza:
Massimo Beccati
C.M.V “Adda”, Capriate San Gervasio (Bg)
Dipt. Produzioni animali, Epidemiologia, Ecologia.
Sez. Parassitologia, Università degli Studi di Torino,
Via L. da Vinci 44 Grugliasco, 10095 Torino
Laura H. Kramer
Dipt. di Salute Animale, Università degli Studi di Parma,
Via del Taglio 10, 43100 Parma, Italy
Tel: +39 0521 032715, E-mail: [email protected]
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Lo stato dell’arte della Chlamydosi aviare:
alcuni come e perchè
Marco Bedin
Med Vet, PhD student, Monselice (PD)
CENNI DI BIOLOGIA DI CHLAMYDOPHILA
uccelli infetti e la manipolazione di colture deve essere effettuato sotto cappa a flusso laminare o con materiale protettivo idoneo. Il periodo di incubazione è di 5-14 giorni anche
se è possibile un periodo di incubazione maggiore. Le infezioni nell’uomo variano da in apparenti a patologie sistemiche con polmonite interstiziale ed encefalite. La malattia è
raramente fatale nei pazienti adeguatamente trattati anche se
la prevenzione e la terapia precoce sono molto importanti
per ridurre i rischi. Le persone infettate manifestano tipicamente
• mal di testa
• tremori (brividi)
• malessere
• mialgia con o senza segni respiratori
Il coinvolgimento polmonare è comune anche se i reperti
auscultatori possono sembrare normali portando a sottostimare l’entità del problema. La diagnosi può essere difficile
e si basa sulla comparazione di due differenti determinazioni del titolo anticorpale per Chlamydia mediante il test di fissazione del complemento. Negli umani la terapia d’elezione
consiste nella somministrazione di tetraciclina, doxiciclina e
azitromicina. La durata del trattamento varia a seconda del
farmaco impiegato, ma deve essere continuata per almeno 14
giorni per le tetracicline. Tradizionalmente la terapia in corso di Clamydiosi aviare, anche nelle specie da compagnia, si
protrae per 42 giorni con somministrazione del farmaco PO
o IM. Le terapie nell’acqua da bere, se non per allevamenti
e collezioni di grosse dimensioni, dovrebbero essere per lo
più evitate per l’impossibilità di garantire adeguati livelli
terapeutici del farmaco. Recentemente alcuni ricercatori Statunitensi hanno pubblicato uno studio secondo il quale è sufficiente una terapia per soli 21 giorni.
Chlamydophila è un batterio intracellulare obbligato che
possiede un envelope simile a quello dei batteri gram negativi. Possiede sia DNA che RNA, ma non é in grado di produrre energia necessaria alla replicazione cellulare per cui il
suo metabolismo dipende dalla cellula ospite. Chlamydophila ha un ciclo vitale bifasico ed esiste in due forme:
• I Corpi elementari (CE) sono particelle in grado di vivere in
ambiente extracellulare, infettanti ma non in grado di moltiplicarsi. Sono eliminati con le feci, secrezioni oculo-nasali e
con le urine degli animali infetti. Questi vengono ingeriti o
inalati da un nuovo ospite, penetrano così nelle cellule epiteliali dove formano un endosoma citoplasmatico.
• I Corpi reticolari (CR) si formano all’interno delle cellule e diventano metabolicamente attivi e sono in grado di
moltiplicarsi per fissione binaria. Non sono però in grado
di vivere al di fuori della cellula ne di infettare altre cellule e tanto meno altri individui.
La famiglia delle Chlamydiaceae è stata recentemente
riclassificata in due generi e nove specie in base all’analisi
sequenziale dei geni del loro RNA 16S e 23S. I due “nuovi”
(dal 2000) generi sono Chlamydia e Chlamydophila.
• Il genere Chlamydia include C. trachomatis (uomo), C.
suis (suino) e C. muridarum (topo, criceto).
• Il genere Chlamydophila include C. psittaci (uccelli), C.
felis (gatto), C. abortus (pecora, capra e bovini), C. caviae
(Cavia), C. pecorum (pecora e bestiame) e C. pneumonia
(uomo).
I ceppi aviari appartengono tutti alla specie Chlamydophila psittaci. Questa specie comprende 6 sierovarianti aviarie note e 2 sierovarianti dei mammiferi M56 e WC ogni una
isolata in una singola epidemia. Le sierovarianti aviarie
prendono il nome da A sino ad F e ogni una mostra specificità d’ospite. Gli ospiti associati alle varie sierovarianti
sono:
• A (psittaciformi)
• B (piccioni)
• C (anatre e oche)
• D (tacchini)
• E (piccioni e ratiti)
• F (psittaciformi)
Quello che non è dato sapere è quale tra questi uccelli e
mammiferi è l’ospite naturale delle differenti sierovarianti.
I ceppi di Chlamydia aviari che possono infettare l’uomo
devono essere maneggiati con cautela. Molte infezioni
avvengono per via inalatoria. L’esame post mortem degli
LA CHLAMYDIOSI NELLE DIVERSE
SPECIE AVIARIE
La Chlamydiosi Aviare (AC) è causata da un batterio
Chlamydophila psittaci, che colpisce gli uomini e gli uccelli e venne originariamente chiamata Psittacosi. Successivamente fu introdotto il termine Ornitosi per identificare la
malattia contratta anatre selvatiche e domestiche. Le due sindromi sono oggi giorno considerate la stessa patologia. La
loro precedente separazione fu basata sul fatto che l’ornitosi
era una patologie più lieve rispetto alla psittacosi. In ogni
caso bisogna tenere ben presente che la malattia negli uomini contratta da tacchini e anatre è spesso più grave di quella
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
sono manifestare una diarrea giallo verdastra. Nei tacchini
sono state descritte anche delle patologie articolari (artriti)
legate all’infezione da Chlamydia psittaci. Le lesioni caratteristiche evidenti alla necroscopia negli uccelli infettati dal
ceppo virulento includono epato e splenomegalia e la presenza di un essudato fibrinoso o fibrinopurulento sulle
superfici respiratorie, peritoneali e pericardiche. Le lesioni
possono includere sinusiti, tracheiti, aerosacculiti, polmoniti ed enteriti. La polmonite si evidenzia solo in soggetti che
muoiono per l’infezione. Le lesioni negli uccelli infetti con
il ceppo a bassa virulenza sono simili, ma non sono così
estese o gravi.
La Chlamydiosi nella anatre è importante sia dal punto di
vista economico che dal punto di vista della salute pubblica
in alcune regioni del mondo, specialmente nel Sud Est Asiatico. La malattia è solitamente grave con morbilità dell’80%
a una mortalità che oscilla tra 0-40% a seconda dell’età delle anatre e dalla presenza di patologie concomitanti. I segni
clinici includono
• tremori della testa
• instabilità
• congiuntiviti
• secrezioni nasali siero purulente
• depressione e morte
contratta da psittaciformi.
Chlamydophila psittaci determina una malattia sistemica
e occasionalmente fatale negli uccelli. I segni clinici variano
altamente per gravità e dipendono dalla specie considerata,
dall’età dell’animale e dal ceppo di chlamydia considerata.
AC può determinare:
• letargia,
• ipertermia,
• aumento delle secrezioni,
• scolo nasale e
• oculare e
• diminuzione nella produzione delle uova.
Il tasso di mortalità può variare altamente. Negli uccelli
da compagnia i segni clinici più comuni sono
• anoressia e perdita di peso
• diarrea
• urati giallastri
• sinusiti
• congiuntiviti
• biliverdinuria
• scolo nasale
• sternuti
• lacrimazione
• distress respiratorio
•
•
•
•
Molti uccelli, specialmente gli psittaciformi più anziani,
possono non manifestare alcun segno clinico anche se possono comunque eliminare l’agente per lunghi periodi di tempo. Le necroscopie degli uccelli deceduti in seguito a
Chlamydiosi spesso mostrano:
• aumento di volume di milza e fegato
• aerosacculite fibrinosa
• pericardite
• peritonite
Alla necroscopia sono reperti comuni:
splenomegalia
necrosi focale del fegato
polisierosite fibrinosa
polmoniti
Negli ultimi anni, è stata scoperta una forma di media entità in cui i segni clinici sono minimi o assenti e la mortalità è
associata solo allo stress per la manipolazione o ad altre malattie. L’infezione nell’uomo avviene per manipolazione di soggetti clinicamente sani e in apparentemente infetti.
La chlamydiosi negli struzzi e nei ratiti è stata descritta in
molte parti del mondo. L’unico sierotipo che è stato isolato
in queste specie è il serovar E, che è stato isolato anche dai
piccioni, anatre e uomo. Il suo reservoir sembrano essere i
piccioni selvatici e gli altri uccelli selvatici. I ratiti infatti
sono solitamente stabulati all’esterno dove è più facile venire a contatto con uccelli selvatici. La chlamydiosi colpisce
solitamente i giovani soggetti, ma può colpire anche gli
adulti. Si manifesta solitamente in forma molto acuta e con
un elevato tasso di mortalità; Data quindi la possibilità di
contagio all’uomo questi uccelli e gli uccelli selvatici devono essere manipolati con attenzione e accortezza.
Le lesioni istologiche non sono patognomoniche a meno
che non sia identificabile la presenza di chlamydia.
La gravità dell’infezione nei tacchini, come in altre specie, dipende dai ceppi di chlamydia e dalla concomitante
presenza di altre malattie. I ceppi del serovar D sono solitamente i più gravi e potenzialmente pericolosi per i tecnici
che lavorano con il pollame. Al culmine di una epidemia, in
un allevamento infetto con il serovar D, il 50-80% degli
uccelli possono mostrare segni clinici di malattia e il tasso di
mortalità si attesta su livelli del 10-30%. Nei tacchini da carne, la mortalità può superare l’80%. I ceppi di altri serovar
come i serovar B ed E hanno un tasso di morbilità del 5-20%
e di mortalità inferiore al 5%. I segni clinici e le lesioni
necroscopiche variano fortemente. I tacchini infetti con il
ceppo altamente virulento mostrano cachessia, anoressia e
temperatura elevata. Gli uccelli eliminano deiezioni giallo
verdastre. Nelle femmine in ovideposizione, l’ovideposizione si riduce drasticamente e rimane bassa fino a quando non
si ha guarigione completa. Nei tacchini da carne, è stata
descritta una sindrome respiratoria con le caratteristiche di
una rinotracheite. I segni incudono congiuntivite, gonfiore
dei seni infraorbitali e sternuti. Nei tacchini infetti con ceppi a basa virulenza i segni clinici sono meno gravi e includono prevalentemente anoressia ed alcuni soggetti che pos-
TECNICHE DIAGNOSTICHE
Il metodo migliore per l’identificazione della Chlamydiosi aviare è l’isolamento e l’identificazione dell’organismo.
Per il tempo necessario, l’elevata qualità di campioni necessari e i pericoli per il personale di laboratorio, sono spesso
usate altre tecniche. Queste includono le colorazioni istochimiche di essudati e feci, e vetrini per impressione dai tessuti, colorazioni istochimiche di citologici ed istologici, ricerche antigeniche ELISA (enzyme-linked immunosorbent
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disponibili sono la fissazione del complemento, l’agglutinazione dei corpi elementari e l’IFA. I test per determinare la
presenza degli organismi negli uccelli in vita comprendono
la coltura, l’ELISA e la PCR.
I test che individuano la presenza dell’organismo in una
delle porte di uscita (coana o cloaca) sono molto utili in
uccelli con segni clinici che possono fare sospettare l’eliminazione di chlamydia. La sierologia è migliore per determinare se l’uccello è stato precedentemente infettato, per confermare una infezione attiva quando vengono esaminati una
coppia di campioni o per supportare la probabilità di una
infezione quando una determinazione per la ricerca di
chlamydia è risultata positiva. Negli uccelli clinicamente
ammalati, i risultati dei test sierologici ed antigenici risultati devono essere interpretati con le debite considerazioni dell’aumento dei globuli bianchi e degli enzimi epatici. Un singolo test sierologico positivo indica che è stato infettato da
clamidia psittaci nel recente passato immunologico, ma non
indica che l’uccello sia infetto in modo attivo. Una infezione attiva può essere diagnosticata solo in caso di aumento
del titolo anticorpale di almeno 4 volte rispetto alla determinazione precedente e in caso di risultato positivo del test
antigenico e del test anticorpale. La sierologia è di limitato
valore durante le prime fasi di una infezione quando un
uccello potrebbe essere ammalato ed eliminare l’organismo
ma sierologicamente negativo. Il trattamento può ridurre la
risposta anticorpale. In alcuni casi, la chlamydiosi può essere diagnosticata mediante la colorazione con macchiavello o
giemsa delle cellule congiuntivali o nasali. Attualmente, non
ci sono test che possono essere usati per confermare che un
uccello non ha una infezione da chlamydia. La sierologia
negativa accoppiata ad una incapacità a individuare l’organismo in una via di ingresso o di uscita fornisce le informazioni più complete.
I tessuti da cui è possibile isolare chlamydia includono
milza, fegato, sacchi aerei, cuore o intestino. In alcuni casi è
possibile coltivare l’organismo dalla cloaca o dalle coane. I
campioni per la coltura devono essere refrigerati ma non
congelati. Perché la quantità di chlamydia eliminata da un
uccello con infezione attiva sembra che possa variare di
giorno in giorno, la raccolta di campioni fecali per almeno 35 giorni può migliorare la sensibilità del test. Durante il
periodo di raccolta il campione deve essere tenuto in un contenitore sigillato in frigorifero.
assays), PCR (polymerase chain reaction) e PCR-RFLP
(Restriction fragment lenght polymorphism).
La diagnosi clinica di Chlamydiosi rappresenta una sfida
diagnostica per il medico veterinario. Per la sua prevalenza
negli uccelli da compagnia e la sua potenzialità nel determinare patologie nell’uomo, la chlamydophilosi deve essere
una patologia da escludere sempre in caso di infezioni respiratorie e digerenti che includono
• dispnea
• anoressia
• depressione
• perdita di peso
• diarrea
• riniti
• congiuntiviti
• urati giallastri o verdastri indicativi della presenza di una
patologia epatica
Frequentemente gli uccelli che presentano segni clinici
compatibili con chlamydiosi sono stati appena acquistati o
sono stati in contatto con gruppi numerosi di altri uccelli. In
alcuni casi gli uccelli positivi a chlamydia, muoiono in modo
acuto, mentre altri rimangono pressoché normali ed eliminano l’organismo per un lungo periodo di tempo. La progressione di una infezione può varare in relazione alla specie di
uccelli considerata, il ceppo di chlamydia, la dose infettante,
l’età e le condizioni dei salute dell’uccello al momento dell’infezione.
Diagnosi
Oltre alla visita clinica e all’anamnesi assume una certa
importanza la radiologia. Le alterazioni radiografiche, in
particolare negli uccelli con segni clinici gravi e cronici
includono epatomegalia, splenomegalia o aerosacculite. Di
estrema utilità diagnostica alla diagnosi clinica risulta l’ematologia e al biochimica clinica. Eterofilia, spesso con una
conta superiore a 30.000, monocitosi e aumento dell’attività
degli enzimi epatici sono suggestivi di una infezione attiva
da chlamydia. Può essere presente anemia in corso di infezioni croniche. L’elettroforesi delle sieroproteine, seppur
molto utile a raffinare la diagnosi non è mai patognomonica.
Storicamente la diagnosi di clamidiosi negli uccelli da
compagnia si avvale di varie determinazioni sierologiche sia
per gli studi epidemiologici che per la diagnosi indiretta di
infezione in un singolo soggetto. Comunque, la sierologia
usata per la determinazione degli anticorpi anti clamidia usata negli uccelli da compagnia è sempre meno specifica di
quella usata in medicina umana e non differenzia tra i vari
ceppi delle Chlamydiaceae.
Una combinazione di test sierologici e tentativi di isolare
o individuare l’organismo in campioni raccolti da cloaca o
coana fornisce la diagnosi più accurata in uccelli clinicamente ammalati. Attualmente le determinazioni anticorpali
Bibliografia
Disponibile su richiesta presso l’autore
Indirizzo per la corrispondenza:
Marco Bedin
Clinica Veterinaria Euganea, Animali da Compagnia
ed Animali Esotici - Monselice (PD) - Italy
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Le malattie infettive negli psittaciformi:
cosa c’è di nuovo
Marco Bedin
Med Vet, PhD student, Monselice (PD)
Molti uccelli infettati con PsCV 1 sviluppano una infezione transitoria che può essere individuata dimostrando i segmenti bersaglio dell’acido nucleico nel sangue. La risposta
immunitaria può avere la meglio sul virus negli uccelli con
infezione subclinica, senza determinare malattia o la comparsa di cintomi clinici nell’ospite. I segni clinici che caratterizzano gli uccelli il cui sistema immunitario non è stato in
grado di rispondere in modo adeguato nei confronti di PsCV
1 possono essere peracuti, acuti o cronici.
In generale le patologie associate a infezioni da PsCV1 nei
pappagalli del vecchio mondo, sono considerate progressive e
fatali. Di contro, alcuni pappagalli del nuovo mondo con patologie determinate da PsCV 1 è stato dimostrato che possano
guarire. La differenziazione con PsCV 2 è prettamente accademica in quanto le lesioni microscopiche non sono differenti da quelle evidenziate in corso di infezione da PsCV 1 e alcuni sembra che possano apparentemente guarire.
Poiché PsCV 2 sembra comportarsi in modo differente da
PsCV 1 in alcuni uccelli, il clinico deve essere accorto nello
stabilire se il test basato su sonda a DNA sta indicando PsCV
1, PsCV 2 o altre sequenze bersaglio che hanno reazioni crociate con la sequenza di circovirus. L’uso di primer poco
specifici (studiati per amplificare delle sequenze bersaglio
che possono non essere specifiche a PsCV 1) per eseguire un
screening del DNA virale possono portare a conclusioni
affrettate e non corrette sia dal punto di vista scientifico che
gestionale.
Se un uccello infettato con PsCV 2 ha una maggiore possibilità di guarigione quando comparato ad uno infettato con
PsCV 1, l’eutanasia di una uccello con anomalie del piumaggio associato a PsCV 2 può essere un errore grave sia
per il singolo individuo a per la sua specie. Deve essere molto chiaro, che la gestione del singolo paziente è differente da
quella dell’intero allevamento o gruppo di animali e gli
uccelli ammalati devono essere completamente separati
dagli altri. Gli uccelli che sono in grado di guarire dalle patologie associate a PsCV 2, possono trasferire il fattore responsabile della loro guarigione alla F1, il che può essere decisamente un vantaggio genetico e un miglioramento del corredo genetico delle popolazioni future.
Sono molte le malattie infettive che possono colpire gli
psittaciformi sia di origine batterica e micotica, che virale.
La visita clinica post acquisto rappresenta un momento
importante non solo per valutare lo stato generale di salute
del singolo animale, ma anche per individuare eventuali animali che una volta introdotti in allevamento possono essere
fonte di trasmissione di importanti malattie virali al resto
dell’allevamento.
Assumono quindi grande importanza i test sierologici o
antigenici per l’individuazione di alcune malattie infettive
come Chlamydia, la Malattia del becco e delle piume
(PBFD) e il Polyomavirus (APV). Nonostante i recenti passi in avanti nella diagnostica di laboratorio per l’identificazione degli agenti causali di malattia, alcune malattie, come
la PDD, rimangono difficilmente identificabili per la mancanza di test necessari alla loro individuazione.
1. CIRCOVIRUS DEGLI PSITTACIFORMI:
(MALATTIA DEL BECCO E DELLE PIUME
DEGLI PSITTACIFORMI - PBFD)
Il circovirus degli psittaciformi è stato descritto per la prima volta nei primi anni ’70. La malattia era caratterizzata da
distrofia e perdita del piumaggio in modo simmetrico, sviluppo di deformità del becco e morte dei soggetti colpiti.
A metà degli anni ’80 fu dimostrato che PBFD era causato da un virus non ancora descritto e che rappresenta uno dei
prototipi virali della famiglia delle circoviridae.
I dati raccolti dalle ricerche compiute nei 12 anni successivi hanno suggerito che la struttura proteica e il genoma del
circovirus che colpisce gli psittaciformi (un virus che noi
adesso chiamiamo PsCV 1) era relativamente stabile. In ogni
modo, una variante del circovirus degli psittaciformi (un
virus che chiamiamo PsCV 2) è stato provato essere la causa della distrofia delle piume in un gruppo di lori. L’analisi
sequenziale confermò che PsCV 2 ha sufficienti differenze
nell’acido nucleico che non viene individuato con i primer
per l’individuazione del PsCV 1 sviluppato dai laboratori di
ricerca per le malattie infettive. Questa variante è stata individuata quando sono stati esaminati 9 campioni ematici e di
piume provenienti da lori con distrofia dei follicoli. L’ibridazione in situ del DNA con una sonda virus specifica dimostrò che le cellule associate con le piume colpite di tutti questi lori contenevano l’acido nucleico del circovirus. Usando
primers specifici per il PsCV 1, quest’ultimo non fu identificato nel sangue di questi lori.
Uccelli con piumaggio normale
Testare il sangue per l’identificazione degli acidi nucleici
del PsCV mediante sonda a DNA
• Un test positivo in uccelli senza anomalie del piumaggio,
indica che il pappagallo è stato esposto a PsCV e che
l’acido nucleico vitale è presente nel sangue. Questo
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
uccello deve essere ritestato dopo 90 giorni, questo indica
che l’uccello è infetto in modo subclinico o che l’uccello
è stato ripetutamente esposto al virus. Gli uccelli infettati
in modo subclinico potranno sviluppare in un secondo
momento delle alterazioni del piumaggio. Se l’uccello è
negativo quando ritestato, questo indica che l’uccello era
infetto in modo transitorio e che il S.I. dell’ospite è stato
in grado di eliminare l’acido nucleico virale dal sangue.
Gli uccelli con piumaggio normale e positivi al secondo
test possono essere considerati come resistenti al PBFD.
Molti uccelli che sono esposti al PsCV potranno avere
l’acido nucleico del virus nel loro sangue per un periodo
breve.
• Un test negativo indica che il segmento bersaglio dell’acido nucleico del PsCV non è stato individuato nel sangue.
Medici Veterinari i quali, fino al 1995, non avevano a disposizione nessuna arma efficace per limitare la diffusione
del virus.
I dati epidemiologici suggeriscono che il APV sia la principale causa di morte nei piccoli psittaciformi (< 150 gg d’età) con un tasso di mortalità del 10% al 93% nei neonati a
rischio.
Le infezioni acute sono caratterizzate da morte conseguente ad un periodo di 12-48 h di sintomi clinici che possono comprendere:
• depressione
• anoressia
• perdita di peso
• ritardato svuotamento del gozzo
• rigurgito
• diarrea
• emorragie sottocutanee
Oltre ai piccoli, anche gli psittaciformi adulti possono
essere suscettibili all’infezione, possono ammalarsi e alcuni
possono morire.
L’esposizione al virus tramite contatto diretto con uccelli
infettati in modo clinico o subclinico, o mediante contatto
con un ambiente contaminato dal virus è considerato importante per la trasmissione dell’APV.
Negli allevamenti le infezioni da APV sono dovute a:
1. Procedure di quarantena inadeguate
2. Scatole nido contaminate dal virus
3. Incubatrici contaminate dal virus
4. Spedizioni di animali non vaccinati o non completamente
vaccinati ad importatori e rivenditori al dettaglio di uccelli
5. Assembramento di uccelli non vaccinati provenienti da
diversi luoghi
6. Esposizione di uccelli non vaccinati o neonati ad uccelli
infetti o ad un ambiente contaminato e l’inserimento in
allevamento senza un periodo di quarantena adeguato
Uccelli con anomalie del piumaggio
Inviare le piume colpite per un esame istologico e del sangue per la determinazione dell’acido nucleico virale nel
sangue mediante sonda sul DNA.
• Un test positivo alla sonda di DNA sul sangue di un uccello con caratteristici corpi inclusi nelle cellule delle piume
colpite suggerisce che l’uccello ha una infezione attiva da
PsCV 1
• Se la biopsia del follicolo evidenzia la presenza dei caratteristici corpi inclusi, ma il test basato su sonda per il
DNA sul sangue è negativo per PsCV 1, il campione di
sangue deve essere ritestato usando una meno specifica
determinazione del DNA del circovirus. Un uccello che
risulta positivo ad una variante del PsCV differente da
PsCV 1, deve essere isolato e non sottoposto ad eutanasia,
e monitorato per la comparsa di piumaggio normale che
sta ad indicare la guarigione dalla malattia. Un uccello che
sta guarendo da PBFD sarà positivo per diversi mesi al test
ematico per ricerca dell’acido nucleico prima che tutte le
piume infette (le cellule dove viene ritenuto PsCV fino
alla muta) siano rimpiazzate durante la muta. Quando le
piume distrofiche o la loro cenere associata sono presenti
l’uccello deve essere considerato infetto
• Deve essere tenuto presente che alcuni psittaciformi infetti con PsCV di origine sudamericana sono guariti spontaneamente dalla malattia
Fino a quando il vaccino per l’APV non è stato registrato
negli States, il controllo delle infezioni da Polyomavirus si
basava solo sulla messa a punto e il rispetto di buone pratiche di allevamento. Il virus infatti é particolarmente stabile
nell’ambiente per cui l’unico modo efficace di controllo dell’infezione è di mantenere una allevamento a ciclo chiuso,
praticando una igiene straordinaria e tentando di isolare i
soggetti con infezioni transitorie.
Le tecniche sviluppate all’University of Georgia per facilitare questo procedimento, consistono nella messa a punto
di metodiche in grado di identificare il DNA del Polyomavirus e di determinare i livelli anticorpali anti polyomavirus.
Entrambi i tipi di determinazione hanno alcune limitazioni.
La determinazione degli anticorpi anti polyomavirus in un
singolo campione di siero indica solamente una precedente e
transitoria infezione. Sonde a DNA specifico per polyomavirus possono essere usate per individuare l’acido nucleico
virale in tamponi cloacali, tessuti freschi (sangue, fegato,
milza, ecc..) o campioni ambientali (raccolti da ospedali,
nursery, incubatrici, ecc..) che possono essere stati contaminati dal virus.
Gli uccelli che sono sierologicamente negativi alla ricerca
dell’agente eziologico mediante PCR possono essere suscettibili all’infezione.
Gestione degli uccelli positivi
Se in un allevamento un uccello con anomalie del piumaggio viene trovato positivo a PsCV1, 2 o qualsiasi variante del circo virus questo deve essere rimosso dall’allevamento il prima possibile. Gli uccelli infettati dal virus con
anomalie del piumaggio eliminano grandi quantità di virus
nella loro cenere delle piume e possono trasmetterla agli altri
uccelli mediante il vento, i vestiti degli operatori, la loro pelle e i capelli. Tutte le aree, i vestiti e le attrezzature di allevamento che possono essere contaminate dalla cenere delle
piume devono essere accuratamente lavate e disinfettate.
2. POLYOMAVIRUS AVIARE (APV)
Dalla sua prima descrizione nei primi anni ’80, il polyomavirus aviare ha causato frustrazione in allevatori e
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Gli uccelli che sono sierologicamente positivi e negativi
per la presenza di acidi nucleici virali mediante sonde a
DNA usando un accurato test basato sulla PCR possono
essere considerati come “naturalmente vaccinati”.
I pazienti in cui viene individuato l’acido nucleico virale
mediante un accurato test basato sulla PCR devono essere
isolati e ritestati sia mediante PCR che sierologicamente.
Le strategie per l’utilizzo del vaccino per l’APV sono
simili a quelle usate per controllare le malattie infettive di
altri animali da compagnia. Vaccinando gli adulti si diminuisce anche la popolazione di soggetti a rischio di infezione, e la probabilità di trasmissione tra gli adulti è ridotta.
Questo di conseguenza diminuisce le possibilità che gli
adulti possano fungere da fonte di esposizione al virus per i
neonati. Se l’attività del virus è ridotta nella popolazione
mediante la vaccinazione, allora gli allevatori “incauti” (es.
che non rispettano le quarantene, portano uccelli da altri
allevamenti direttamente nelle nursery, permettono l’accesso
alle nursery ai visitatori che hanno contatto diretto indiretto
con altre nursery) diventano le uniche vie di accesso del
virus agli allevamenti.
I riproduttori devono essere vaccinati 2 volte con un
intervallo di 2 settimane tra i due interventi vaccinali. È
meglio vaccinare i riproduttori nel periodo di risposo riproduttivo. Le raccomandazioni per la vaccinazione dei piccoli si basano sul fatto che più “vecchio” è il pulcino quando
viene vaccinato maggiori sono le probabilità di una migliore risposta del suo sistema immunitario. È bene aspettare
che un pullo abbia almeno 35 giorni d’età quando si intende eseguire la vaccinazione e questa deve prevedere un
richiamo a 2-3 settimane di distanza. In corso di epidemia
si può iniziare a vaccinare i piccoli con sicurezza tra i 1020 giorni di vita. Questi uccelli devono ricevere due richiami supplementari con un intervallo di 2-3 settimane tra le
somministrazioni. In ogni caso un uccello deve essere sottoposto all’ultimo intervento vaccinale 2 settimane prima
di lasciare l’allevamento.
I dati ottenuti da prove sperimentali e sul campo suggeriscono che il vaccino inattivato per il polyomavirus aviare
è sicuro ed efficace nei pappagalli di diverse età, specie e
con differente stato immunitario. È stato provato che la
vaccinazione sia efficace e utile per il controllo delle epidemie di polyomavirus e il suo impiego non è stato associato a reazioni avverse nemmeno quando viene usato in
corso di epidemia.
L’efficacia sul campo è stata stabilita vaccinando gruppi
di pappagalli durante una epidemia e comparando i livelli di
malattia pre e post somministrazione del vaccino. In 9 gruppi diversi il tasso di mortalità nei piccoli a rischio prima della vaccinazione e durante la stessa è stato del 29%. Dopo la
vaccinazione invece il tasso complessivo è sceso all’1%.
Mentre non è consigliato di vaccinare un allevamento
durante la stagione riproduttiva, la vaccinazione può essere
usata anche per arrestare una epidemia durante la stagione
riproduttiva. Quando si vaccina durante una epidemia, è
importante che lo staff veterinario e il personale dell’allevamento eseguano delle procedure straordinarie di pulizia e
igiene per far si che le procedure di manipolazione e iniezione del vaccino non rappresentino un rischio aggiuntivo
per la diffusione del virus da soggetto a soggetto.
3.PDD
Introduzione
Fu Scoperto per la prima volta in delle Ara importate negli
USA e in Germania nei primi anni ’70 (Macaw wasting disease). Conosciuta con nomi diversi nel corso del tempo: ganglio neurite neuropatica, ganglioneurite linfoplasmocitaria,
neuropatia splancnica infiltrativa e encefalomielite degli
psittaciformi. È stato descritto in tutti i continenti e in oltre
50 specie di uccelli, non solo psittaciformi. La malattia si
manifesta in forma sporadica, in alcuni casi colpisce un singolo soggetto di una coppia senza comparsa di segni clinici
nel partner. L’incubazione si presume (dal momento che non
si conosce ancora con certezza l’agente eziologico) possa
essere di 10 anni o meno, ma dall’epidemiologia della
malattia in alcune epidemie negli allevamento si presume
che l’incubazione possa essere anche di soli 10 giorni. Sono
state eseguite diagnosi di PDD in soggetti di età inferiore a
10 giorni e superiore a 49 anni. Dal momento che non si
conosce l’agente eziologico è veramente improbabile pensare a quale sia la reale via di trasmissione della malattia.
La PDD è una patologia cronica progressiva in grado di
colpire diverse specie di psittaciformi. Nonostante la reale
eziologia sia sconosciuta, molti autori ritengono possa essere di origine virale. I soggetti malati sviluppano segni clinici a carico dell’apparato gastrointestinale e del SNC sia singolarmente che in associazione tra loro, anche nello stesso
animale. I segni clinici sono compatibili con una encefalomielite non suppurativa progressiva caratterizzata da un
infiltrato di linfociti, plasmacellule e macrofagi. Ad oggi
non è disponibile un test sierologico per testare gli animali
asintomatici. In Medicina umana esiste una patologia che
determina la comparsa di lesioni e segni Clinici simili e
prende il nome di Sindrome di Guillaine Barrè (GBS) ed è
una patologia autoimmune. La malattia è caratterizzata dalla comparsa di anticorpi antigangliosidi, la cui individuazione aiuta a confermarne la diagnosi. Sulla base di ciò è
possibile che il meccanismo patogenetico della PDD sia un
meccanismo autoimmune. Tentando di identificare gli anticorpi con il metodo ELISA e Dot Blot, si è scoperto che il
15% dei soggetti testati è positivo e che il 98% dei soggetti
sintomatici e istologicamente positivi mostrano elevati
livelli di anticorpi.
Sintomi clinici
La sintomatologia della PDD deriva dalla progressiva
distruzione dei nervi che innervano il sistema digerente
(gozzo, pro ventricolo, ventricolo e primo tratto dell’intestino tenue) e del sistema nervoso centrale e periferico. Ciò che
è evidente in corso di PDD è una risposta infiammatoria
caratterizzata dalla presenza di linfociti e plasmacellule.
Come risultato del danno, gli uccelli non sono in grado di
svuotare il loro tratto GI e di assimilare l’alimento con conseguente stasi del gozzo, perdita di peso, dilatazione del gozzo, proventricolo, ventricolo ed intestino, rigurgito e malassorbimento. Sono state riportate anche depressione, diarrea,
presenza di alimento in digerito nelle feci, poliuria, anomalie cardiache ed ipotensione. Alcuni studi hanno evidenziato
come l’autodeplumazione possa essere un primo segno clinico di PDD. I segni clinici associati a danno del SNC com89
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
appartenenti alla famiglia delle Bornaviridae in pappagalli
con sintomi clinici di PDD. Un gruppo dell’università della
California, San Francisco ha individuato Borna virus
mediante un pannello di screening virologico (pan viral
microarray) in 5 di 8 soggetti positivi e in nessun soggetto
senza segni clinici. Un Altro gruppo, della Columbia University ha testato 3 soggetti positivi per PDD con altre metodiche ottenendo la positività di tutti i soggetti con lesioni
riconducibili a PDD e la negatività per i 4 soggetti negativi
testati. Il bornavirus identificato sembra appartenere ad una
nuova specie di bornavirus: Avian bornavirus del quale,
mediante sequenziamento del genoma ne sono stati identificati due ceppi diversi.
Il Bornavirus è un virus a RNA, altamente neurotropico in grado di infettare il SNC, periferico ed autonomo
che è in grado di causare patologie neurologiche note con
il nome di Borna disease caratterizzate da meningoencefaliti in cavalli e pecore in Europa. Sulla base di ciò, delle lesioni istologiche e della sintomatologia negli uccelli,
è più che plausibile che l’agente eziologico di PDD possa essere una bornavirus.
Alcuni ricercatori statunitensi hanno trovato alcune proteine antigene nei preparati ottenuti dal cervello di pappagalli deceduti per PDD mentre non ne sono hanno riscontrato al presenza in soggetti deceduti per altre cause. Avvalendosi di questi antigeni, stanno mettendo a punto una metodica in grado di individuare gli anticorpi nei confronti dell’agente eziologico di PDD nel siero. Se veramente Avian bornavirus è l’agente causale di PDD, allora la PCR eseguita su
tessuti degli animali infetti sarà la metodica definitiva e più
accurata per eseguire la diagnosi.
prendono atassia, incoordinazione, tremori, deficit propriocettivi e movimenti anomali della testa. I segni clinici neurologici possono essere associati o meno a segni GI e l’evoluzione della malattia può essere lenta e progressiva o acuta.
Diagnosi
La diagnosi presuntiva si basa sull’anamnesi, la sintomatologia clinica e l’evidenza radiografica di una dilatazione o
di ridotta motilità del tratto GI, evidenziabile con Rx in
bianco e mdc, o con fluoroscopia. La diagnosi definitiva si
esegue mediante esame istologico di un campione prelevato mediante biopsia del gozzo che includa un vaso e un nervo. L’evidenza istologica di una ganglioneurite linfoplasmocitaria conferma la diagnosi. All’esame post mortem
possono essere prelevati per essere sottoposti ad istopatologia diversi tessuti come SNC, tratto GI, cervello, midollo
spinale, cuore.
Terapia
Attualmente non esistono della terapie che possano avere
un effetto risolutivo della patologia ma solo terapie sintomatiche che si basano sul trattamento delle lesioni riscontrate
all’istologia del campione del gozzo prelevato mediante
biopsia. Queste si basano sulla somministrazione di FANS,
come il meloxicam e altri coxib per uso umano. Questi farmaci però, sono solo in grado di prolungare la vita del
paziente. Nonostante l’epidemiologia della malattia e le
modalità di trasmissione della stessa siano ancora non completamente chiarite si consiglia di isolare gli animali con sintomi clinici dagli altri soggetti dell’allevamento per almeno
3 anni. L’allevamento può essere considerato esente da PDD
quando nell’arco di 3 anni non si sono verificati decessi
imputabili a PDD e si soggetti deceduti per altre causa siano
stati sottoposti ad esame istologico post mortem senza evidenziare lesioni compatibili con la patologia.
Bibliografia
Disponibile su richiesta presso l’autore
Recenti avanzamenti nella ricerca
Lo sviluppo di nuovi metodi molecolari ha permesso ai
virologi di eseguire degli screening per identificare la presenza di moltissimi virus negli psittaciformi. Due differenti
gruppi di ricerca indipendenti hanno identificato virus
Indirizzo per la corrispondenza:
Marco Bedin
Clinica Veterinaria Euganea
Animali da Compagnia ed Animali Esotici - Monselice (PD)
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Il gatto con l’artrosi: consigli pratici
per il veterinario generalista
David Bennett
BSc, BVetMed., PhD, DSAO, FHEA, MRCVS, Glasgow, GB
È una credenza diffusa che il gatto, a differenza del cane,
soffra raramente di artrosi. Questa errata convinzione nasce
soprattutto dalla difficoltà nel rendersi conto che, nel gatto,
il dolore cronico da artrosi si manifesta in modo molto diverso rispetto al cane, soprattutto perché la zoppia non è il
segno clinico più comune. Sono i cambiamenti comportamentali e/o dello stile di vita a fornire la chiave per diagnosticare l’artrosi del gatto.
L’artrosi è una malattia molto rilevante e frequente nel
gatto anziano. Colpisce prevalentemente il gomito e l’anca,
sebbene qualsiasi articolazione possa venirne coinvolta.
Generalmente è una malattia bilaterale e non è raro che colpisca più articolazioni contemporaneamente. A differenza di
quanto accade nel cane, nel gatto l’artrosi è in prevalenza
idiopatica o primaria, senza un’apparente causa sottostante.
Oltre all’artrosi a carico degli arti (appendicolare), il gatto
anziano può manifestare anche una degenerazione a carico
della colonna vertebrale (assiale), che, anche in questo caso,
provoca dolore cronico. È essenziale che l’artrosi del gatto
venga tempestivamente riconosciuta e, conseguentemente,
trattata, al fine di ridurre il prima possibile il dolore e la sofferenza del paziente.
L’artrosi del gatto non può essere diagnosticata se il veterinario non affronta la questione con spirito di intraprendenza, e se il proprietario non offre al generalista la propria indispensabile collaborazione. È fondamentale che il veterinario
interroghi i proprietari di gatti con età superiore ai 6 anni
sull’eventualità che il loro animale abbia manifestato modifiche del comportamento e/o dello stile di vita rispetto a
quando era più giovane. A questo scopo possono essere utilizzati anche appositi questionari. Se eseguita in modo
appropriato, tale intervista – che può essere inizialmente
condotta anche dal personale tecnico infermieristico – potrà
durare in media 10-15 minuti. Esistono specifici questionari
sullo stile di vita del gatto, che possono essere usati nella
pratica clinica.
I cambiamenti del comportamento e/o dello stile di vita
possono essere raggruppati in 4 categorie: mobilità, attività,
toeletta, carattere; la loro gravità può essere quantificata tramite un punteggio. I cambiamenti nella mobilità comprendono il rifiuto o la riluttanza a saltare verso l’alto o verso il
basso, oppure la capacità a compiere solo salti ridotti. I cambiamenti comportamentali legati al salto sono i più rilevanti
per la diagnosi di artrosi del gatto. Le modifiche che interessano il livello di attività si riflettono in un aumento del tempo dedicato al sonno, una minore interazione con il proprietario, una certa riluttanza ad uscire e ad esercitare la normale attività di caccia. I gatti con dolore cronico riducono il
tempo dedicato alla toeletta (grooming) e tendono a modificare anche l’abitudine a “farsi le unghie”. Come cambiamenti di carattere, si intendono, ad esempio, una ridotta
sopportazione del proprietario o di altri animali, ed i cambiamenti a carico del comportamento generale (il gatto tende a starsene più tempo tranquillo ed isolato).
È importante chiedere al proprietario sia una valutazione
complessiva del gatto, sia una valutazione quantitativa (punteggio) dei singoli cambiamenti del comportamento / stile di
vita manifestati dal proprio animale. Se si fa ricorso ad un
questionario, è preferibile associarlo ad una intervista “faccia a faccia”. Nel caso in cui emergano modifiche del comportamento e/o dello stile di vita, allora è opportuno approfondire la questione nel dettaglio, indagando, ad esempio,
perché il gatto non salti più come prima sul davanzale della
finestra. Potrebbe anche emergere una storia di zoppia, sebbene spesso si tratti di episodi non gravi e generalmente
intermittenti.
Se si manifesta anche solo uno di questi cambiamenti di
comportamento / stile di vita, molto probabilmente il gatto
soffre di dolore cronico da artrosi, ed è per questo legittimo
condurre ulteriori approfondimenti, ricordando che sarà
ovviamente necessario escludere altre condizioni che
potrebbero aver generato tali modifiche comportamentali.
La maggior parte dei proprietari considera che i cambiamenti di comportamento / stile di vita siano attribuibili
esclusivamente all’invecchiamento del gatto e, per questo,
non lo portano dal veterinario. È, dunque, importante sottoporre ad un attento esame tutti i gatti anziani che arrivano nel
nostro ambulatorio, qualunque sia il motivo (es. vaccinazione, altre malattie), in modo da valutare tutte le possibili alterazioni del comportamento o dello stile di vita e verificare
l’eventuale presenza di dolore artrosico. È anche consigliabile contattare i proprietari di gatti anziani già registrati
come pazienti della clinica / ambulatorio ed invitarli a compilare l’apposito questionario. Tutti questi gatti dovrebbero
essere rivalutati regolarmente (circa ogni 6 mesi), quanto
meno tramite la compilazione del questionario da parte del
proprietario.
Eseguire un utile esame clinico dell’apparato muscoloscheletrico del gatto non è cosa semplice. Ai gatti non piace
che le loro articolazioni vengano palpate e manipolate. È
importante mantenere il gatto calmo e rilassato, e farlo sentire in un ambiente sicuro. La cosa ideale è che il proprietario passi qualche minuto a coccolare e spazzolare il proprio
gatto prima della visita, in modo da aiutarlo a rilassarsi.
Potrebbe rilevarsi utile anche il ricorso a spray/diffusori di
feromoni nell’area visita o in sala di attesa. In genere, le arti91
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nico FANS attualmente autorizzato per l’uso a lungo termine nel gatto, è facile da somministrare ed efficace nel ridurre il dolore artrosico. Viene metabolizzato attraverso vie
ossidative ed è dunque relativamente sicuro in questa specie.
È consigliabile effettuare terapie a dosaggio pieno per 2-3
settimane e, in caso di miglioramento, ridurre gradualmente
la dose, fino a trovare la dose minima efficace. In alcuni casi,
è anche possibile sospendere completamente il trattamento,
per poi re-introdurlo alla ricomparsa dei segni clinico/comportamentali. Quando un gatto è in terapia a lungo termine
con un FANS, è importante alimentarlo con cibo umido, in
modo da facilitare un’adeguata assunzione di liquidi.
I supplementi nutrizionali hanno un posto di rilevo nella
gestione dell’artrosi del gatto. Si tratta, in genere, di prodotti a base di condroitin solfato e glucosamina, alcuni dei quali contengono anche altre sostanze efficaci, come antiossidanti ed acidi grassi essenziali (EFA). I supplementi nutrizionali possono essere usati singolarmente o in combinazione con i FANS. In virtù del loro elevato profilo di sicurezza,
molti veterinari preferiscono usare inizialmente i nutraceutici, prima di un eventuale ricorso ai FANS. Attualmente, nel
gatto si sta sviluppando il concetto di “terapia analgesica
multimodale” (cioè l’uso di una combinazione di analgesici
con diversi meccanismi d’azione che agiscono in modo
sinergico), ma ulteriori studi sono necessari per definire quale sia la combinazione più appropriata e sicura. La migliore
valutazione della risposta alla terapia resta la verifica di
eventuali miglioramenti comportamentali e/o dello stile di
vita, come riferiti dal proprietario.
Oggi la popolazione felina è una popolazione che sta
invecchiando; dunque, l’artrosi del gatto sta diventando una
malattia sempre più importante. Negli ultimi 15 anni, l’età
media dei gatti in Europa è aumentata da 4,7 a 5,3 anni, ed
attualmente si stima che in Europa ci siano 20 milioni di gatti geriatrici (con età superiore agli 11 anni), pari al 20% della popolazione totale, e che la maggioranza di questi gatti
anziani sia destinata a soffrire di artrosi e, dunque, a richiedere un’opportuna terapia. Per il veterinario generalista,
identificare un gatto con dolore da artrosi non solo è un atto
della massima importanza per il benessere dell’animale, ma
possiede anche importanti implicazioni economiche.
colazioni del gatto con artrosi non sono particolarmente
ispessite; il versamento sinoviale, così come pure il crepitio,
sono rari. Anche per questo, non è facile valutare in modo
accurato il dolore articolare del gatto.
La radiografia può essere utile per evidenziare segni
patologici in una determinata articolazione. Qualunque sia
la specie animale, la presenza di osteofiti è la caratteristica
radiografica più rilevante per la diagnosi di artrosi; nonostante ciò, l’osteofitosi non sempre è un segno radiografico molto evidente nell’articolazione artrosica del gatto.
Altro segno importante, soprattutto a carico del gomito
artrosico, è la sclerosi ossea, sebbene a volte sia difficile
interpretarla. L’evidenza radiografica di sclerosi potrebbe
dipendere, oltre che da una effettiva sclerosi dell’osso subcondrale (ispessimento delle trabecole ossee), anche dalla
presenza di osteofiti del margine articolare sovrapposti
all’epifisi, o dalla mineralizzazione dei tessuti molli sovrastanti l’osso. In effetti la mineralizzazione dei tessuti molli e la presenza di corpi mineralizzati liberi intra-articolari
non sono reperti rari nel gatto affetto da artrosi. Alcune
particolari caratteristiche radiografiche delle articolazioni
del gatto possono a volte generare confusione nella diagnosi di artrosi. Si tratta, ad esempio, del notevole sviluppo del processo coracoideo della scapola, della clavicola,
dell’osso sesamoide posto all’interno del muscolo supinatore, della mineralizzazione del menisco mediale del
ginocchio e, infine, della presenza di entesiofiti localizzati
(es. a livello della tuberosità tibiale), che non rappresentano necessariamente segni di artrosi.
L’indagine radiografica richiede la sedazione o l’anestesia
generale del soggetto. Ciò è spesso motivo di preoccupazione nel gatto anziano, soprattutto se affetto da altre malattie
cliniche o sub-cliniche, come le nefropatie. A mio parere, se
esistono cambiamenti comportamentali e/o dello stile di
vita, e se, all’esame clinico, c’è evidenza di dolore, allora è
opportuno cominciare una terapia, anche in assenza di conferma radiografica di artrosi. Ottenere un miglioramento
comportamentale o dello stile di vita del gatto in seguito al
trattamento - soprattutto se a base di analgesici – ci aiuterà a
confermare la presenza di dolore articolare e a suffragare la
diagnosi definitiva.
Il management dell’artrosi del gatto si basa su molti
approcci diversi, e può essere complicato dalla presenza di
malattie concomitanti, come il diabete e le nefropatie. Tutti
i gatti con sospetto diagnostico di artrosi vanno sottoposti ad
esami ematochimici completi. L’obesità può essere una
caratteristica dei gatti con artrosi (circa il 20% dei gatti con
artrosi è obeso); questi soggetti vanno evidentemente messi
a dieta fino al raggiungimento del peso ideale, sebbene non
si tratti di un obiettivo facilmente raggiungibile. Grande
importanza rivestono anche le modifiche ambientali (es giacigli comodi e confortevoli), oppure quelle strategie di arricchimento ambientale, che facilitano le interazioni gatto/proprietario, ovvero che consentono al gatto di nascondersi al
bisogno. La fisioterapia, sebbene più difficile da effettuare
nel gatto che non nel cane, sta acquistando una grande popolarità per la gestione dell’artrosi felina. Il meloxicam è l’u-
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Aurum muriaticum: analisi del rimedio in relazione al
suo impiego in alcuni casi di fistole perianali nel cane
David Bettio
Med Vet, Parma
La M.O. fonda le sue basi scientifiche su alcuni principi.
Il primo importante concetto è la Legge della Similitudine.
Nel §22 dell’Organon si legge: “Le proprietà terapeutiche
dei medicamenti risiedono esclusivamente nella loro facoltà
di provocare sintomi patologici nell’uomo sano e di farli
sparire nel malato…i medicamenti diventano capaci di
sconfiggere le malattie provocando un certo stato patologico artificiale capace di annullare ed eliminare… lo stato
morboso presente”.
Hahnemann notò come la somministrazione di una sostanza omeopatica in un individuo sano fosse in grado di produrre un determinato complesso di sintomi. Cioè, un medicamento omeopatico è capace di provocare una vera e propria
patologia artificiale in un individuo sano. Questo quadro
patologico artificiale, qualora si presentasse come malattia in
un paziente, può essere curato dal medesimo rimedio che
l’ha provocato nel sano. La reciprocità di manifestazioni tipiche di un rimedio e quelle presenti in una forma morbosa,
esprime l’applicabilità di questa legge. Quindi, tanto più una
malattia ricalca il quadro sintomatologico prodotto da un
rimedio, tanto più si rispecchia nella Legge della Similitudine. Il proving è il processo attraverso il quale vengono valutate le proprietà medicinali delle sostanze omeopatiche (definite di seguito “rimedi”): è il processo della sperimentazione
omeopatica. Ogni rimedio viene somministrato a gruppi di
individui sani, i quali produrranno una serie di sintomi fisici,
mentali ed emozionali che esprimono le caratteristiche del
rimedio oggetto di sperimentazione. Ogni rimedio è in grado
di produrre una vera e propria patogenesi specifica se somministrato in un individuo sano. Tutti i sintomi specifici prodotti da una tale somministrazione sono le manifestazioni
cliniche e caratteristiche tipiche del rimedio in esame e vengono registrate nelle Materie Mediche. Nelle Materie Mediche (M.M.) si trova quindi l’elenco sistematico di tutti i sintomi che compaiono negli sperimentatori di una determinata
sostanza. A tutt’oggi il medico veterinario consulta le MM
derivanti da provings in medicina umana, quindi sono a volte necessarie interpolazioni analogiche dei sintomi presenti
negli animali. Lo scheda della raccolta dei sintomi nelle MM
ricalca quello tracciato da Hahnemann: i primi ad essere
elencati saranno i sintomi riguardanti l’aspetto mentale,
seguiti da tutti i sintomi cosiddetti locali (testa, faccia, collo,
torace, estremità, etc. etc.), fino ad arrivare alla rubrica dei
sintomi che riguardano lo stato generale. È importante sottolineare che ogni rimedio, oltre a manifestare i suoi sintomi
peculiari a livello organico, possiede un “nucleo”, che ne
indica e ne caratterizza la sua essenza sia nell’espressione
delle dinamiche psico-comportamentali, sia dei tropismi
organici più specifici. Le Materie Mediche permettono di
soddisfare l’applicabilità della Legge della Similitudine,
confrontando il quadro generale dell’individuo e della sua
malattia, con il quadro generale, espresso in sintomi, dai
rimedi omeopatici sperimentati.
Uno dei problemi che si riscontrano in Omeopatia Veterinaria è determinato dal fatto che i rimedi sono testati (provings) negli uomini e non sugli animali e sulle diverse specie di animali. Di conseguenza il Repertorio è una collezione di sintomi dei provings umani. Così il limite che abbiamo
noi veterinari è quello di utilizzare il repertorio rubrica per
rubrica. Ma noi abbiamo usato il repertorio e la Materia
Medica con successo per molti anni. Quindi il problema è di
come va usato la Materia Medica in Medicina Veterinaria e
quanto prezioso lavoro possiamo apportare alla stessa attraverso le osservazioni tipiche di specie che vengono curate
dai rimedi. In questo modo l’esperienza nella cura di molti
casi clinici con un determinato rimedio, può servire per
identificare il “nucleo” sintomatologico inquadrandolo in un
senso veterinario. Nel mio caso, l’analisi di Aurum muriaticum vuole essere una spunto di riflessione sulle caratteristiche veterinaria di tale rimedio. Partendo dall’analisi di alcuni casi clinici con una patologia in comune (fistole perianali
del cane), ho cercato di fissare alcuni sintomi e segni tipici
di Aurum muriaticum veterinario.
MENTE - AFFLIZIONE (pena)
MENTE - ANSIA - eccitazione; da
MENTE - ATTIVITÀ; desiderio di
MENTE - AVVERSIONE - tutto, a
MENTE - BRUSCO, rude - affettuoso; rude ma
MENTE - BUIO - coricarsi al buio e che nessuno gli parli,
desidera
MENTE - COLLERICO E IMPETUOSO
MENTE - COMPAGNIA - desiderio di
MENTE - CONTRADDIZIONE - tendenza a contraddire
MENTE - DISTURBI da - afflizione
MENTE - DISTURBI da - spavento
MENTE - ECCITAZIONE
MENTE - INDIFFERENZA, apatia - tutto, a
MENTE - IRREQUIETEZZA
MENTE - IRREQUIETEZZA - cammina, mentre - aria
aperta; all’ - migl.
MENTE - PIANTO
MENTE - SENSIBILE - rumore, al
MENTE - SOBBALZARE, sussultare
MENTE - SOBBALZARE, sussultare - sonno - durante
MENTE - TRISTEZZA - afflizione, dopo
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Faccia: escoriazioni, ulcere presenti sulle labbra e in bocca
(FACCIA - ULCERE - Labbra), i denti non sono fissi nell’alveolo (DENTI - MOBILITÀ dei denti, traballanti).
OCCHI - ULCERAZIONE - Cornea
ORECCHIO - ERUZIONI - Dietro le orecchie - eczema
NASO - LUPUS
NASO - SCOLI (rinorrea) - escorianti
NASO - SCOLI (rinorrea) - giallo-verdastri
NASO - SCOLI (rinorrea) - purulenti
FACCIA - CANCRO - lupus
FACCIA - CONTRAZIONI, spasmodiche
FACCIA - ESPRESSIONE - vecchieggiante
FACCIA - GONFIORE - Sottomascellari, ghiandole
FACCIA - ULCERE - Labbra
DENTI - MOBILITÀ dei denti (traballanti)
STOMACO - DILATAZIONE - mangiando - dopo mangiato
ADDOME - INGROSSATO (ingrossamento) - Fegato
ADDOME - INGROSSATO (ingrossamento) - Milza
RETTO - EMORRAGIA anale - defecazione - durante
RETTO - ESCORIAZIONE
RETTO - ESCORIAZIONE - Perineo; del
RETTO - FISTOLA
RETTO - STITICHEZZA - difficile, defecazione
RETTO - ULCERAZIONE
VESCICA - MINZIONE - involontaria - notte
VESCICA - MINZIONE - sgocciolamento
VESCICA - STIMOLO a urinare - notte
PROSTATA - GONFIORE
MASCHILI, GENITALI - GONFIORE - Testicoli
MASCHILI, GENITALI - INDURIMENTO - Testicoli
RESPIRAZIONE - DIFFICILE - caldo - stanza, in una
RESPIRAZIONE - DIFFICILE - salendo
PELLE - ULCERE - sifilitiche
SINTOMI GENERALI - NOTTE
SINTOMI GENERALI - CALDO - aggr.
SINTOMI GENERALI - CALDO - stanza calda - aggr.
SINTOMI GENERALI - TEMPO - freddo - umido - migl.
Addome: splenomegalia ed epatomegalia, infiammazione
cronica del fegato, il fegato è aumento ed indurito
(ADDOME - INGROSSATO (ingrossamento) – Fegato;
ADDOME - INGROSSATO (ingrossamento) – Milza).
Dolore pressante nella regione del fegato, problemi epatici con perdita di albumina nelle urine e edema declive
agli arti inferiori. Formazione di gas addominali (STOMACO - DILATAZIONE - mangiando - dopo mangiato). Diarrea che peggiora di notte. Emorroide sanguinanti alla defecazione, escoriazione marcata dell’ano. Fistole perianali (RETTO – ESCORIAZIONE; RETTO ESCORIAZIONE - Perineo; del RETTO – FISTOLA;
RETTO – ULCERAZIONE)
Gentalia: ingrossamento della prostata, iperplasia prostatica
benigna (PROSTATA – GONFIORE), testicoli aumentati di volume, estasia dell’epididimo (MASCHILI, GENITALI - GONFIORE – Testicoli; MASCHILI, GENITALI - INDURIMENTO – Testicoli)
Urine: minzione frequente di giorno e di notte, ma peggiorata di notte, perdita di gocce di urina (VESCICA - MINZIONE - involontaria – notte; VESCICA - MINZIONE –
sgocciolamento; VESCICA - STIMOLO a urinare - notte), urine di aspetto torbido, con sedimento rossastro.
Bibliografia
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Gava R, A. Abbate, “L’Esperienza, la Tecnica e la Metodologia di Studio e
di Cura Omeopatica delle Malattie Croniche di A.Masi Elizalde”, ed.
Salus infirmorum
I sintomi mentali sono molto pronunciati: eccitamento (MENTE
– ECCITAZIONE,), ipersensibilità ai rumori (MENTE - SENSIBILE - rumore, al), sobbalza quando sta dormendo (MENTE
- SOBBALZARE, sussultare - sonno – durante) . Insicuro, non
ha stima in se stesso, ha bisogno di conferme esterne (MENTE
- FIDUCIA - mancanza di fiducia in se stesso; MENTE - ILLUSIONI - trascurato - viene trascurato/a; MENTE - ILLUSIONI
- apprezzata, non è). Continua a lamentarsi (MENTE - PIANTO). Costantemente ansioso e agitato con grande irrequietezza.
Non vuole stare in casa perché è peggiorato, quindi esce ma vuol
star da solo (MENTE – IRREQUIETEZZA, MENTE - IRREQUIETEZZA - cammina, mentre - aria aperta; all’ - migl open
air amel). Cerca si isolarsi da tutto e va a coricarsi in un posto
tranquillo (MENTE - AVVERSIONE - tutto, a; MENTE INDIFFERENZA, apatia - tutto, a).
È un rimedio che esprime i suoi sintomi soprattutto di notte
(SINTOMI GENERALI – NOTTE)
Naso: secrezioni purulenti simili a Pulsatilla e Kalium sulphuricum, che migliorano all’aria aperta. Lo scolo è denso,
maleodorante, offensivo e a volte sanguinolento. Il naso è
coperto di croste che sanguinano. Lupus al naso (NASO SCOLI (rinorrea) – escorianti; NASO - SCOLI (rinorrea) giallo-verdastri; NASO - SCOLI (rinorrea) – purulenti)
Indirizzo per la corrispondenza:
David Bettio
Email: [email protected] - Cell. 339-3497871
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Aggiornamento sulle conoscenze in tema di
ipotiroidismo del cane e del diabete mellito del gatto
Andrea Boari
Med Vet, Teramo
zione in cui nella pratica clinica di gran parte delle strutture
veterinarie italiane ed europee, la diagnosi di ipotiroidismo
primario si basa comunemente sull’osservazione di bassi
valori di T4 e di alti valori del TSH. Purtroppo più del 30%
dei cani con ipotiroidismo hanno valori di TSH all’interno
dei valori di riferimento, rendendo la diagnosi molto complessa. A causa di queste grosse limitazioni diagnostiche
l’autore utilizza il test di stimolazione con rhTSH e sebbene
non vi siano ancora dei valori di riferimento universalmente
accettati, si può ragionevolmente affermare che il test risulta indicativo di ipotiroidismo quando il T4 post stimolazione è inferiore a 1.5 µg/dl, mentre valori >2,5µg/dl indicano
uno stato di eutiroidismo.
Ma se la diagnosi di ipotiroidismo rappresenta attualmente uno dei dilemmi più difficile da risolvere nel panorama
endocrinologico veterinario, il trattamento risulta estremamente facile. I soggetti con ipotiroidismo mostrano generalmente un’eccellente risposta ad una appropriata terapia di
supplementazione. Storicamente l’approccio terapeutico
consisteva nella somministrazione al soggetto ipotiroideo di
compresse per uso umano di Levotiroxina sodica per tutta la
vita del cane. Fino a pochi mesi fa la terapia prevedeva il
ricorso iniziale a compresse alla dose di 20 mcg/Kg p.c. per
via orale con il pasto ogni 12 ore. Considerando che nel
cane, l’assorbimento intestinale di levotiroxina è marcatamente inferiore a quanto avviene nell’uomo, i dosaggi
necessari al controllo della malattia risultano essere molto
più elevati di quelli impiegati nell’uomo. In Italia, sono in
commercio compresse di levotiroxina per uso umano che
arrivano ad un dosaggio massimo di 150 mcg; tale concentrazione è scarsamente adattabile al cane in quanto ad esempio nei cani di grossa taglia è necessaria la somministrazione di un numero elevato di compresse due volte al giorno.
Dal novembre 2008, è in commercio un prodotto per uso
veterinario di levotiroxina sodica in formulazione liquida
concentrata. Questo prodotto offre il vantaggio di essere
somministrato facilmente e in una sola volta al giorno alla
dose di 20 mcg/kg. Dose quest’ultima che rappresenta la
metà di quella comunemente impiegata con la formulazione
in compresse. L‘assorbimento di questa formulazione liquida di levotiroxina viene ridotto dalla presenza di cibo, di
conseguenza, viene raccomandato che il prodotto venga preferibilmente somministrato 2-3 ore prima dei pasti. In uno
studio recente5 che ha valutato l’utilizzo della l-tiroxina
liquida per uso veterinario su 35 cani con ipotiroidismo, la
risposta clinica è risultata per lo più sorprendente: lo stato
generale e l’attività sono nettamente migliorate già nelle pri-
L’ipotiroidismo costituisce una delle più frequenti endocrinopatie del cane. La diagnosi risulta particolarmente complessa soprattutto a causa dei segni clinici aspecifici e per la
mancanza di un test dotato di sufficiente accuratezza diagnostica. Fondamentale per la diagnosi risultano essere i dati
anamnestici, i segni clinici e laboratoristici integrati opportunamente con la valutazione degli ormoni tiroidei.
A livello laboratoristico, gli ormoni più comunemente
misurati sono la tiroxina totale (T4), la tiroxina libera (fT4)
e la tireotropina endogena (TSH). La concentrazione di T4
totale rappresenta un eccellente test di screening per l’ipotiroidismo in quanto è in grado di identificare chiaramente i
soggetti non ipotiroidei1,2. Le concentrazioni di T4 totale
possono risultare falsamente ridotte in numerose patologie
croniche non tiroidee e dopo somministrazione di alcuni farmaci (situazione denominata “euthyroid sick sindrome” o
“nonthyroidal illness”).
Uno dei test dotati di maggior accuratezza diagnostica,
quando considerato singolarmente, è il free T4 (fT4), la quota di T4 non legata alle proteine che costituisce la parte
metabolicamente attiva. I soggetti ipotiroidei hanno basse
concentrazioni di fT4 e le sue concentrazioni sono meno
influenzate dall’“euthyroid sick sindrome” e dall’assunzione
di farmaci. Il fT4, viene attualmente valutato mediante
diverse metodiche fra cui l’unica dotata di dimostrata accuratezza diagnostica è quella che utilizza l’equilibrio dialitico
(ED)3, test complesso e costoso che richiede la disponibilità
di un laboratorio specializzato al momento non presente in
Italia. Per quanto riguarda il TSH o tireotropina endogena, il
cTSH specie specifico mostra una buona accuratezza diagnostica nelle svariate metodiche utilizzate, ma è comunque
influenzato, anche se in grado limitato, da farmaci e malattie concomitanti. Una specificità diagnostica del 98% per la
diagnosi di ipotiroidismo è stata riportata quando l’fT4 (ED)
viene usato in congiunzione al TSH endogeno.
Recentemente si sta affermando il test di stimolazione con
TSH ricombinante umano (rhTSH o Thyrogen®)4, da alcuni
Autori ritenuto il gold standard per la diagnosi di ipotiroidismo canino ed in grado di discriminare fra soggetti eutiroidei e ipotiroidei. Esso valuta la riserva funzionale della tiroide dopo stimolo con TSH. Il farmaco, non è tuttavia facilmente reperibile in commercio ed è molto costoso. Il test di
stimolazione con rhTSH, utilizzato anche dall’autore, si
effettua valutando il T4 sierico basale e a distanza di 6 ore
dalla somministrazione endovenosa di 75mg di rhTSH.
Gli elevati costi e la mancata disponibilità sia del fT4
(equilibrio dialitico) che del rhTSH, spiegano l’attuale situa95
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me 4 settimane di trattamento, mentre le alterazioni dermatologiche hanno impiegato alcuni mesi. I livelli di T4 e TSH
sono rapidamente rientrati nei limiti della norma nella maggior parte dei soggetti esaminati. Gli autori suggeriscono di
effettuare il monitoraggio della terapia dopo 4 settimane dall’inizio del trattamento, basandosi sulla valutazione dello
stato clinico e sui livelli sierici di T4. Il T4 totale deve essere misurato 4-6 ore dopo la somministrazione di levotiroxina. La terapia risulta appropriata quando i livelli sierici di T4
risultano vicini o leggermente al di sopra del range superiore dell’intervallo normale di riferimento (35-95 nmol/l).
Livelli elevati o bassi richiedono un aggiustamento della
dose pari a 10 mcg/kg.
Successivamente, la funzionalità tiroidea sarà rivalutata
ogni 6-8 settimane per i primi 6-8 mesi e poi una o due volte all’anno. Ogni volta si procede ad una modificazione del
dosaggio il cane deve essere rivalutato dopo circa 4 settimane. Una raccomandazione importante soprattutto valida in
endocrinologia ed in particolare per la gestione dell’ipotiroidismo, è di servirsi sempre dello stesso laboratorio, che sia
affidabile e utilizzi metodiche validate nel cane, il tutto per
evitare risultati inattesi o di difficile interpretazione.
In riferimento al diabete mellito (DM) nel gatto siamo di
fronte ad una patologia estremamente complessa e multifattoriale che riconosce numerosi fattori di rischio quali il sesso, l’obesità, gli errori alimentari, la vita sedentaria, l’amiloidosi pancreatica e la presenza di pancreatiti6. È noto come
i gatti con DM siano molto più difficili da gestire rispetto al
cane.
L’approccio terapeutico ideale si basa sulla modificazione
della dieta (ricca di proteine e povera di carboidrati) e sulla
precoce istituzione di una idonea terapia insulinica. Viene
prevista una fase di stabilizzazione (necessaria al raggiungimento del miglioramento della sintomatologia) che di solito
dura circa 12-16 settimane. Questa fase iniziale è seguita poi
da una fase di mantenimento in cui si cerca di conservare i
risultati ottenuti attraverso un preciso follow up effettuato a
casa dal proprietario e/o in clinica. La curva glicemica,
caratterizzata da controlli glicemici giornalieri eseguiti ogni
2 o 3 ore, pur con i limiti imposti dalla difficile interpretazione legata alla variabilità individuale e da giorno a giorno,
rappresenta comunque un importante punto di riferimento
nella valutazione del paziente con DM. Se si eccettuano evidenti casi di ipoglicemia, sono di fatto sconsigliate decisioni terapeutiche legate alla valutazione di un singolo valore
glicemico o peggio basate sulla evidenziazione di glicosuria.
Al contrario la assenza ripetuta di glicosuria deve considerarsi segno di controllo ideale del DM ma spesso preclude o
indica la remissione della malattia per cui può assumere un
significato di estrema importanza.7
In un gatto, al momento della diagnosi di DM non complicato, è consigliabile iniziare con l’insulina lenta suina per
uso veterinario al dosaggio di 0.25-0.5 U/Kg due volte al
giorno7,8,9. Si tratta di una insulina usata con successo nel
gatto in Europa, Canada, Australia e ultimamente in USA.
In un recente studio multicentrico europeo condotto su 46
gatti con diabete mellito, il protocollo prevedeva l’approccio
iniziale con 0,25-0.50 U/kg bid e comunque viene sconsigliato di utilizzare un dosaggio superiore a 2 U/bid8. In questo studio, dove l’autore ha partecipato con una casistica di
8 casi, sono andati incontro a remissione del diabete mellito
ben 8 soggetti. Tale situazione di ripristino delle funzioni
pancreatiche è più facile che venga raggiunta se le misure
dietetiche e una corretta terapia insulinica vengono adottate
precocemente e si persevera nel monitoraggio attento del
paziente. Il recente studio europeo8, in accordo con altri
lavori che hanno valutato anche altre insuline di diversa
derivazione e durata di azione10,11,12, circa il 60% dei gatti
hanno raggiunto la stabilità clinica nei primi 3 mesi di terapia. Per stabilità clinica si intende un gatto apparentemente
sano ed interattivo a casa, con appetito e urinazione e sete
normali e con peso corporeo stabile. L’ipoglicemia è un problema piuttosto frequente in corso di trattamento insulinico
e di solito si associa all’impiego di dosi elevate di insulina.
Nello studio multicentrico8 è emerso che occorre fare particolare attenzione a questa potenzialmente mortale complicazione quando il dosaggio di insulina supera le 2 unità/gatto due volte al giorno e questo rischio appare più elevato
soprattutto nelle prime settimane di terapia. È fondamentale
ricordare come, oltre a porre in grave rischio la vita del
paziente, gli episodi ipoglicemici (più spesso documentabili attraverso dosaggi seriali della glicemia) possono esitare
nel fenomeno di Somogyi e quindi complicare significativamente la gestione del gatto con DM. Particolare cura deve
inoltre essere fatta al tipo di glucometro utilizzato, cercando
di preferire quelli che sono stati validati per la medicina
veterinaria. È noto come i glucometri siano poco accurati
nelle loro letture di valori posti agli estremi (bassi vs alti)
ma in particolare è facile che si possano registrare valori
erroneamente troppo bassi che andrebbero verificati
mediante metodica gold standard (esochinasi) prima di
adottare misure atte a controllare o prevenire l’ipoglicemia.
Lo studio in oggetto si riferisce a casi non complicati di
DM, nel senso che sono stati inclusi solo soggetti in cui è si
è cercato di escludere patologie complicanti quali ipertiroidismo, iperadrenocorticismo, acromegalia, pancreatiti e
principali infezioni e insufficienza d’organo. Tuttavia l’età
spesso avanzata dei soggetti esaminati, le obiettive difficoltà diagnostiche di alcune patologie (pancreatite ad es. e
acromegalia) possono a volte complicare enormemente la
gestione di tali pazienti e spesso si procede a modificazione
di dosaggi e/o tipi di insuline quando in realtà potrebbe non
essercene bisogno perché la causa dell’iperglicemia è da
ricercarsi in situazioni patologiche spesso difficili da dimostrare. Pertanto laddove il controllo del DM risulti scadente,
risulta molto importante procedere con estrema cautela nella modificazione del dosaggio di insulina cercando dapprima di verificare eventuali patologie e situazioni concomitanti e in caso di procedere per piccoli gradi soprattutto
quando si è deciso di aumentare la dose.
In riferimento all’efficacia della glargina, una delle più
recenti insuline per uso umano a lenta durata, sono numerosi i dati che riportano risultati positivi del suo impiego ma
questi rimangono per lo più limitati a presentazioni di casi a
Congressi e non sono supportati da studi adeguati che ne
pongano in risalto le caratteristiche di efficacia e di sicurezza così come è stato fatto per la insulina lenta per uso veterinario di derivazione suina.
Si ricorda in ultimo che nel nostro paese vigono leggi che
impongono al veterinario il ricorso primario a farmaci
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
5.
approvati per uso veterinario e che il ricorso di analoghi prodotti per uso umano deve essere accuratamente giustificato e
comunque riservato a documentata inefficacia del farmaco
veterinario.
Per concludere una considerazione che ritengo importante è che se fino a qualche anno fa l’obiettivo finale della
gestione del DM del gatto era quello di ottenere il miglioramento dei segni clinici, la nuova sfida del clinico internista è
quello di effettuare nei tempi e nei modi più adeguati un
intervento terapeutico che preveda l’utilizzo congiunto di
insulina e di una dieta idonea per cercare di ottenere la
remissione del diabete mellito.
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Indirizzo per la corrispondenza
Prof. Andrea Boari
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie
Università degli studi di Teramo
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Citologia delle neoformazioni del cavo orale:
non è tutto così facile come sembra!
Ugo Bonfanti
Med Vet, Dipl ECVCP, Accelera (MI)
L’indagine citologica di neoformazioni della cavità orale
rappresenta momento fondamentale nell’ambito della valutazione di un processo patologico della porzione più prossimale del canale alimentare.
Sedazione o anestesia risultano spesso necessari per eseguire un’indagine approfondita della cavità orale, con relativo esame citologico, nel caso ad un esame ispettivo si
riscontrino ispessimenti di forma e dimensioni variabili,
placche, neoformazioni a carico di labbra, gengive, palato,
tonsille, lingua e strutture ossee di mandibola o mascella.
Risulta determinante campionare porzioni profonde della
lesione mediante biopsia citologica con ago sottile (FNB),
previa eventuale detersione della parte, evitando di contaminare il prelievo con cellule epiteliali squamose superficiali,
con popolazione batterica di origine contaminante, e con
elementi di origine infiammatoria. È inoltre consigliabile
eseguire apposizioni della superficie di taglio di biopsie incisionali o escissionali, o di lesioni asportate chirurgicamente,
al fine di esaminare quanto prima il materiale, per individuare l’origine del processo patologico.
Altre metodiche di prelievo di lesioni del cavo orale sono
rappresentate da tamponi inumiditi da far rotolare sulla parte (swab technique), spazzolamento (brushing technique)
mediante appositi scovolini (citobrush), e scarificazione
(spesso in caso di ulcere) con una lama da bisturi (scraping
technique).
Rilievo comune, specie in preparati derivanti da processi
infiammatori, ed indipendentemente dal tipo di prelievo eseguito, è la presenza esclusiva di elementi di derivazione
ematica.
LESIONI NEOPLASTICHE
Complessivamente le neoplasie della cavità orale rappresentano circa il 6% di tutte le neoplasie nella specie canina,
ed il 3% nella specie felina.
La neoplasia epiteliale più frequente in assoluto è rappresentata dal carcinoma squamocellulare. È la neoplasia più
frequente della cavità orale nel gatto, e spesso si verifica
coinvolgimento osseo con relativa lisi. L’aspetto degli elementi neoplastici può variare in base all’entità della differenziazione. Forme carcinomatose ben differenziate sono
costituite da elementi epiteliali squamosi con scarsi criteri
di malignità citologica: accanto ad anisocitosi ed anisocariosi moderate, le cellule manifestano basofilia citoplasmatica e citoplasma relativamente abbondante. In caso di neoplasie ben differenziate si possono rilevare rare cellule gravemente atpiche frammiste a cellule relativamente ben differenziate. Forme carcinomatose scarsamente differenziate
si caratterizzano per la presenza di elementi tondeggianti,
più spesso singoli, con scarso citoplasma intensamente
basofilo, talora contenente vacuoli perinucleari ialini, elevato rapporto nucleo:citoplasma, ipercromatismo nucleare e
nucleoli prominenti, di grosse dimensioni.
Il melanoma maligno rappresenta neoplasia frequente
ed aggressiva nella specie canina (circa il 6% dei tumori
orali) e meno frequente nella specie felina. Può localizzarsi
a livello di gengive, palato, labbra, guance e lingua. È in
grado di coinvolgere secondariamente il tessuto osseo
determinando lisi ossea. Né l’entità di pigmentazione, né la
morfologia delle cellule posseggono valore prognostico.
Dal punto di vista citomorfologico si caratterizza per la presenza di elementi pleomorfi da tondeggianti, a poligonali a
fusiformi. Le cellule sono spesso voluminose, ad elevato
rapporto nucleo:citoplasma; il nucleo, da tondeggiante ad
ovalare, possiede cromatina reticolare e frequentemente
nucleoli multipli, voluminosi e talora prominenti. Il citoplasma, chiaro o lievemente basofilo, possiede un variabile
numero di granuli di melanina puntiformi, talora finissimi,
tondeggianti e nerastri. In alcune occasioni i granuli sono
completamente assenti o presenti in numero ridotto (melanoma amelanotico): in quest’ultimo caso per arrivare ad una
LESIONI NON NEOPLASTICHE
Le principali lesioni non neoplastiche del cavo orale sono
rappresentate da processi infiammatori a componente cellulare variabile rappresentata da polimorfonucleati neutrofili, da macrofagi, da linfociti, da plasmacellule e da eosinofili. Sono comuni processi infiammatori misti, cronici, granulomatosi, neutrofilico-macrofagici o linfoplasmacellulari.
Nel caso in cui il processo infiammatorio sia causato da
un’infezione batterica primaria, o complicato da un’infezione batterica secondaria, si rileva una popolazione omogenea
di batteri fagocitati da neutrofili.
Un infiltrato caratterizzato dalla predominanza di linfociti maturi e da plasmacellule, può rilevarsi in gatti affetti da
gengivite o stomatite linfoplasmacellulare.
Granulomi e placche contenenti un rilevante numero di
eosinofili, eventualmente frammisti a neutrofili, macrofagi,
fibroblasti e mastociti, rappresentano reperto comune in corso
di lesioni del complesso del granuloma eosinofilo felino.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
diagnosi, possono essere d’aiuto le caratteristiche morfologiche precedentemente descritte, e l’eventuale presenza di
melanofagi.
I fibrosarcomi orali sono neoplasie relativamente frequenti in entrambe le specie. Le cellule neoplastiche sono
fusiformi o di forma irregolare, con nuclei ovalari, cromatina reticolare, ed uno o più nucleoli prominenti. Occasionalmente si rilevano cellule giganti multinucleate. Fibrosarcomi più anaplastici possono essere costituiti da numerose cellule tondeggianti o ovalari, meno differenziate.
Nella cavità orale si segnalano anche fibrosarcomi ben differenziati, sebbene localmente aggressivi ed invasivi. In
questo caso i criteri di malignità delle cellule neopastiche
sono estremamente scarsi.
Tra le neoplasie mesenchimali di derivazione osteocartilaginea coinvolgenti il cavo orale si segnalano più frequentemente osteosarcomi e condrosarcomi. L’osteosarcoma si
caratterizza per la presenza di voluminosi elementi fusiformi
o di forma ovalare, con nuclei spesso eccentrici, dismetrici,
cromatina finemente punteggiata e nucleoli voluminosi,
spesso multipli, talora prominenti; il citoplasma, spesso
basofilo, contiene talora fini punteggiature rossastre. Di supporto alla diagnosi, in questi casi, è la matrice extracellulare
(sostanza osteoide) tra le cellule neoplastiche. Sebbene non
sempre citologicamente rilevabile, la presenza di abbondante materiale rosato o debolmente eosinofilo, brillante, finemente granulare, intercellulare (condroide) rappresenta
caratteristica distintiva di condrosarcoma. In tal caso le cellule sono tondeggianti o fusiformi, ad elevato rapporto
nucleo:citoplasma, con atipie nucleari evidenti e citoplasma
scarso, grigiastro, vacuolizzato.
Le neoplasie rotondocellulari più rappresentate nel cavo
orale sono linfomi e plasmacitomi. Il linfoma, che può coinvolgere o meno le tonsille, è più frequentemente costituito
da elementi linfoidi immaturi, di grosse dimensioni, nucleolati e con scarso citoplasma basofilo. Più spesso nel gatto
sono rappresentati linfomi costituiti principalmente da elementi linfoidi di piccole e medie dimensioni. Plasmacitomi
insorgono in particolare nel cane anziano e coinvolgono
principalmente labbra e gengive. Sono solitamente benigni,
ben differenziati, sebbene talora siano rilevabili cellule multinucleate e sostanza amiloide.
Il tessuto da cui traggono origine le strutture dentarie può
andare incontro allo sviluppo di neoplasie: neoplasie di origine odontogenica. Queste derivano dalla componente epiteliale, che possiede specifiche caratteristiche istomorfologiche, e/o da quella mesenchimale. L’ameloblastoma è un
tumore odontogenico benigno, a crescita lenta, invasivo, non
metastatico, con caratteristiche istomorfologiche specifiche
tra cui, ad esempio, palizzate di elementi epiteliali disposti
alla periferia, nuclei situati in posizione apicale, e citopla-
sma chiaro. Dal punto di vista citomorfologico si possono
riconoscere cellule neoplastiche coese, con anisomacrocitosi moderata, e nuclei lievemente dismetrici. Talora tale neoplasia può manifestare caratteri di cheratinizzazione. In questi casi possono rilevarsi cellule epiteliali cheratinizzate, tendenzialmente tondeggianti (ameloblastoma cheratinizzante).
L’ameloblastoma acantomatoso del cane possiede caratteristiche citomorfologiche sovrapponibili a quelle descritte in
precedenza. Risulta più aggressivo rispetto all’ameloblastoma, spesso si verifica lisi ossea, e la differenziazione squamosa è rara.
Tra i tumori derivanti dal tessuto del legamento periodontale si segnala l’epulide fibromatosa del legamento periodontale. Tale proliferazione gengivale, benigna, è considerata da alcuni autori una proliferazione non neoplastica di
elementi mesenchimali (iperplasia reattiva). Coinvolge la
gengiva senza infiltrare l’osso. Dal punto di vista citomorfologico si riconoscono cellule fusiformi di variabili dimensioni, sostanza fondamentale intercellulare, cellule squamose mature o di dimensioni intermedie. In corso di epulide
ossificante si può rilevare sostanza extracellulare eosinofila,
morfologicamente suggestiva per sostanza osteoide.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Ugo Bonfanti
Nerviano Medical Sciences, viale Pasteur 10
20014 Nerviano, Milano
E-mail: [email protected]
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Esame citologico delle neoplasie gastriche
ed intestinali nel cane e nel gatto
Ugo Bonfanti
Med Vet, Dipl ECVCP, Accelera (MI)
co e citoplasma ampio, schiumoso. I secondi sono caratterizzati da cellule di forma tondeggiante, caratterizzate da
ampio citoplasma chiaro contenente mucine acide o neutre
che tendono a periferizzare il nucleo (“signet-ring cells”).
Le neoplasie della muscolatura liscia (leiomiomi - leiomiosarcomi) insorgono tipicamente in animali di età media
o avanzata e sono tondeggianti, solitarie, spesso endoluminali. Come tutte le neoplasie mesenchimali tendono ad esfoliare con difficoltà. Le cellule dei leiomiomi sono fusiformi,
con sottili nuclei allungati ad estremità smusse, e citoplasma
relativamente ampio a margini indistinti. Rare le figure mitotiche. Le caratteristiche citologiche dei leiomiosarcomi
sono: maggiore cellularità, cellule di forma allungata e talora pleomorfe, ovalari o tondeggianti, con variabile rapporto
nucleo:citoplasmatico.
I linfomi gastrici possono presentarsi sia come neoformazioni o masse, singole o multiple, tondeggianti, sia come
ispessimento diffuso della porzione mucosale, con o senza
ulcerazione concomitante. Lo stomaco può essere coinvolto
sia primariamente (linfoma alimentare) allorquando la neoplasia insorga dall’apparato gastroenterico, sia in corso di
linfoma multicentrico. Lo stomaco è più spesso interessato
da linfoma alimentare che da linfoma multicentrico. La diagnosi citologica si basa classicamente sulla presenza di elementi linfoidi immaturi di variabili dimensioni, ad elevato
rapporto nucleo:citoplasma, con nucleo tondeggiante o lievemente indentato, cromatina finemente punteggiata, uno o
più nucleoli e citoplasma scarso a variabile basofilia. Più
raramente si riconoscono linfomi costituiti da piccoli linfociti maturi.
Le neoplasie gastrointestinali pur rappresentando una percentuale relativamente ridotta di tutte le neoplasie del cane e
del gatto, costituiscono comunque un rilevante problema
oncologico negli animali da affezione. Esse sono rappresentate da neoplasie di origine epiteliale, neuroendocrina,
mesenchimale e rotondocellulare.
Grazie alla sempre maggiore diffusione di ecografia, TC,
endoscopia, l’esame citologico di differenti segmenti dell’apparato gastroenterico ha assunto carattere quasi routinario, permettendo di ottenere preparati in modo meno invasivo rispetto alla laparotomia.
I differenti metodi di prelievo di campioni provenienti dall’apparato gastroenterico sono rappresentati da:
- biopsia citologica ecoguidata o TC assistita, che trova primariamente applicazione a neoformazioni / masse sottomucosali o più profonde.
- spazzolamento mediante via endoscopica, limitato a lesioni mucosali
- apposizione o schiacciamento di prelievi ottenuti mediante
biopsia per via endoscopica, che trova principalmente
applicazione in corso di lesioni mucosali o sottomucosali
- apposizione di lesioni o neoformazioni rilevate in sede chirurgica, in particolare destinata ad indagare lesioni sottomucosali o profonde.
NEOPLASIE GASTRICHE
Le neoplasie gastriche, che rappresentano meno dell’1%
delle neoplasie dei piccoli animali, sono meno frequenti
negli animali domestici di quanto non lo siano nell’uomo.
Esse sono più frequentemente rappresentate da adenocarcinomi, leiomiomi - leiomiosarcomi, linfomi. Più raramente
si segnalano adenomi, carcinoidi, mastocitomi.
Gli adenocarcinomi gastrici insorgono tipicamente in
cani e gatti anziani e possono presentarsi come neoformazioni sessili ulcerate o ispessimenti diffusi della parete
gastrica, sviluppandosi sulla superficie mucosale o in profondità. Prelievi per spazzolamento o mediante apposizione
della superficie mucosale della lesione possono non fornire
sempre cellule diagnostiche. Queste neoplasie sono principalmente rappresentate da adenocarcinomi mucinosi e da
carcinomi con cellule “ad anello con castone”. I primi si
caratterizzano per la presenza di abbondante materiale
(mucina) extracellulare, e per la presenza di elementi tondeggianti, ovalari o di forma colonnare, solitamente raccolti
in piccoli ammassi, e che talora posseggono nucleo eccentri-
NEOPLASIE INTESTINALI
L’incidenza delle neoplasie intestinali è relativamente
bassa, sebbene maggiore rispetto alle neoplasie gastriche.
Costituiscono circa il 3% di tutte le neoplasie nel cane e dal
4 al 9% delle neoplasie nella specie felina. Sono più frequentemente rappresentate da adenocarcinomi, leiomiosarcomi, GIST, linfomi. Più raramente si segnalano carcinoidi e
mastocitomi.
Gli adenocarcinomi rappresentano la neoplasia intestinale più frequente nel cane e la seconda neoplasia in ordine di
frequenza nel gatto. Macroscopicamente si presentano come
masse intraluminali o come lesioni circonferenziali, ad anello. I prelievi derivanti da queste neoplasie sono spesso molto cellulati. Le cellule che li costituiscono sono disperse o
100
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
raccolte in aggregati coesivi che possono manifestare citoarchitetture papillari o acinari. Tali cellule, di forma tondeggiante, ovalare o colonnare, si caratterizzano per anisocitosi
ed anisocariosi variabili, spesso risultano nucleate e posseggono citoplasma debolmente basofilo, relativamente abbondante, e che talora contiene vacuoli di mucina. Talora si rileva estesa desmoplasia, con eventuale presenza di sostanza
fondamentale, che comporta il rilevo citologico di elementi
mesenchimali (fibroblasti). Si riporta che la presenza di elementi colonnari manifestanti disposizione “a palizzata” sia
più caratteristica di forme neoplastiche derivanti dal grosso
intestino.
I carcinoidi derivano dalle cellule neuroendocrine presenti nello spessore della mucosa intestinale. Assumono
spesso il nome della sostanza che secernono (ad es. gastrinoma, glucagonoma). Macroscopicamente si presentano più
spesso come lesioni circonferenziali, ad anello. La maggior
parte sono maligni. I prelievi sono abbastanza cellulati e le
cellule che li compongono posseggono un aspetto relativamente monotono. Si rilevano comunemente numerosi nuclei
solo lievemente dismetrici, di forma tendenzialmente tondeggiante con cromatina addensata, solo raramente nucleolati. Il citoplasma ove visibile è moderato in ampiezza, chiaro, occasionalmente vacuolato.
L’intestino può essere affetto da linfoma sia in corso di
linfoma multicentrico, sia primariamente (linfoma alimentare). I linfomi derivanti dal MALT (mucosa associated
lymphoid tissue), sono principalmente di fenotipo T, e sono
spesso difficilmente differenziabili da malattie infiammatorie croniche dell’intestino (IBD). Sono spesso costituiti da
linfociti di piccole e medie dimensioni residenti a livello
mucosale. Solo raramente sono costituiti da elementi linfoidi immaturi (“high-grade lymphomas”). I linfomi di fenotipo B originano da tessuto linfoide organizzato: placche di
Peyer e noduli linfatici mucosali. Sono più spesso costituiti
da elementi linfoidi di piccole dimensioni (“small-grade
lymphomas”), ma possono evolvere a linfomi di grado elevato. I linfomi dei linfociti granulari (LGL) originanti da linfociti NK e linfociti T citotossici, si caratterizzano per la presenza elementi linfoidi di differenti dimensioni, più spesso
immaturi, nucleolati, e per la presenza di granuli intracitoplasmatici, di dimensioni differenti e a differente affinità tintoriale, talora in prossimità di un’indentatura nucleare.
I mastocitomi intestinali sono più frequenti nella specie felina rispetto al cane. Si caratterizzano per la presenza di mastociti a differenti stadi di differenziazione. Talora, in particolare nella specie felina, non sono infrequenti
mastociti tondeggianti o ovalari, degranulati, o con granuli a scarsa affinità tintoriale, a citoplasma chiaro. Non
raramente si segnala l’infiltrazione da parte polimorfonucleati eosinofili.
Con il termine di GIST (tumori gastroenterici stromali) si
intende un gruppo eterogeneo di neoplasie mesenchimali
dell’apparato gastroenterico derivanti da cellule mesenchimali indifferenziate o primitive, che successivamente possono differenziarsi in senso muscolare o neurale. Sembra che
l’origine precisa sia rappresentata dalle cellule interstiziali di
Cajal (c-kit e CD117 positive). Dal punto di vista citomorfologico, in particolare in medicina umana, sono state
descritte forme neoplastiche costituite principalmente da
cellule fusiformi con nuclei allungati e talora stroma mixoide, e neoplasie costituite da cellule con morfologia di tipo
epitelioide a margini indistinti, nuclei ovalari o tondeggianti
e citoplasmi di ampiezza talora contenenti vacuolizzazioni. I
leiomiosarcomi, tumori derivanti dalla muscolatura intestinale, positivi per i marker immunoistochimici actina e
desmina, e negativi per c-kit, si caratterizzano citomorfologicamente per la presenza di cellule di forma allungata, talora pleomorfe, con variabile rapporto nucleo:citoplasma,
nuclei allungati a forma di sigaro (“cigar-shaped nuclei”) e
citoplasma grigiastro o chiaro.
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101
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Le nuove frontiere della clinica:
Biomarker quale certezza?
Michele Borgarelli
DMV, PhD, DECVIM-CA (Cardiol) - Kansas State University, Manhattan, KS, USA
La definizione di biomarker include genericamente qualsiasi variante genetica, immagine clinica, test fisiologico,
biopsia tissutale, o sostanza presente nel sangue e nelle urine. In cardiologia, negli ultimi anni, un numero crescente
di enzimi, ormoni, sostanze biologiche ed altri marker di
stress or malfunzionamento miocardico hanno acquisito
una sempre maggiore importanza.
Da un punto di vista clinico i biomarker possono avere
svariate funzioni che possono essere associate a stadi differenti di evoluzione della malattia. La maggior parte delle
malattie cardiovascolari presentano un lungo periodo asintomatico, seguito in genere da scompenso cardiaco che porta a
morte l’animale. Idealmente, sotto questo punto di vista un
biomarker dovrebbe consentire:
• Di eseguire una diagnosi in animali senza apparente
malattia cardiovascolare (biomarker di screening)
• Di eseguire una diagnosi in animali con sospetto di
malattia cardiac (biomarker diagnostici)
• Di emettere una prognosi negli animali con malattia cardiaca evidente (prognostic biomarkers)
Il raggiungimento di questi obiettivi è possibile solo se un
biomarker soddisfa le seguenti tre condizioni:
• Consente di eseguire delle misure accurate e ripetibili.
Deve essere disponibile ad un costo ragionevole e i risultati debbono essere disponibili in tempi rapidi (test eseguibile in clinica)
• Consente di ottenere informazioni che non siano già disponibili con un esame clinico accurato
• La sua determinazione consente di prendere decisioni
terapeutiche determinanti per l’animale
Va infine sottolineato che molti biomarker rappresentano
anche fattori di rischio per se, e potrebbero quindi anche
essere utilizzati al fine di monitorare la terapia.
I biomarkers più studiati in cardiologia veterinaria sono
rappresentati dalle catecolamine, dalle endoteline, dalle troponine (Tn) e più recentemente dal peptide natriuretico
atriale (ANP) e da quello cerebrale (BNP) e dalla proteina
C-reattiva (CRP).
test di screening, sia come test prognostici. In uno studio
recente è stato osservato che la CRP era significativamente
più elevata in un gruppo di cani con malattia degenerativa
mitralica cronica (CDVD) rispetto a cani normali, e che questo innalzamento non era correlato con la presenza di insufficienza cardiaca o dell’intensità del soffio. Tuttavia in questo studio la determinazione della CRP non ha dimostrato
sufficiente sensitività e significatività per essere utilizzata
come test di screening.
Neuro-ormoni
L’attivazione neuro-ormonale rappresenta uno dei meccanismi più studiati nei pazienti con insufficienza cardiac.
Sfortunatamente la valutazione della maggior parte dei neuro-ormoni non è semplice e ci sono molti fattori che possono influenzare i risultati quali ad es il contenuto di sale nella dieta. Per tali motivo, la determinazione di catecolamine,
renina, angiotensina II e altri neuroormoni è stata prevalentemente eseuguita in lavori di ricerca Recentemente la misurazione dell’endotelina 1 (ET-1) utilizzando un kit ELISA
destinato all’uomo, è stata validata nel cane e nel gatto.
L’ET-1 si è dimostrata significativamente più elevata nei
cani e nei gatti affetti da patologia cardiovascolare rispetto ai
sani. Questi studi tuttavia non hanno consentito di stabilire
l’utilità di misurare l’ET-1 per fini prognostici.
Troponine
Le troponine (TnI e TnT) rappresentano indicatori di danno dei cardiomiociti. In medicina umana le troponine, in particolare la TnI, si sono dimostrate dei biomarkers utili sia per
la diagnosi, sia per la stratificazione del rischio dei pazienti
con malattia coronarica. È importante ricordare che i valori
di TnI nel cane debbono essere correlati al tipo di analizzatore utilizzato. Innalzamenti della TnI sono stati individuati
in cani e gatti con patologie cardiache differenti e la gravità
dell’innalzamento è stata correlata con la gravità dello scompenso cardiaco. La TnI è stata anche trovata elevata in cani
con malattie sistemiche in assenza di patologie cardiovascolari suggerendo l’esistenza di un danno miocardico inapparente, o di una possibile alterata eliminazione.
Proteina C-reattiva
Recentemente è stato evidenziato come l’infiammazione
miocardica, anche di grado modesto, rappresenti un elemento importante per la progressione e la patogenesi dello scompenso cardiaco.
Diversi studi in medicina umana hanno evidenziato come
i biomarkers di infiammazione, quali la CRP; il tumor necrosis factor-〈 e le interleukine possano essere di aiuto sia come
Peptidi natriuretici (ANP e BNP)
L’ANP e il BNP, sono i peptidi natriuretici più studiati nel
cane. L’ANP è rilasciato dagli atri, mentre il BNP è rilasciato dai ventricoli. Il principale ruolo di tali peptidi è quello di
indurre vasodilatazione, e promuovere l’eliminazione di Na
e acqua e di consequenza di controbilanciare gli effetti del
102
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
sistema renina angiotensina aldosterone. Storicamente il primo peptide ad essere misurato nel cane e nel gatto è stato
l’ANP. Tuttavia, oggi il BNP appare il peptide natriuretico
su cui si sono focalizzati la maggior parte degli studi, in
quanto la sua misurazione appare relativamente più semplice. Va ricordato che i valori di ANP e BNP sono correlati con
età, peso corporeo e funzione renale. L’interpretazione dei
risultati di tali determinazioni quindi deve essere eseguita
considerando questi elementi. L’ANP è risultato correlato
con le dimensioni dell’atrio di sinistra e valori elevati di
ANP si sono dimostrati correlati con la prognosi in cani con
miocardiopatia dilatativa. Per quanto concerne il BNP, esso
al momento appare di maggiore utilità nel gatto. Due recenti studi indipendenti hanno infatto evidenziato come la determinazione del BNP possa essere utile per lo screening della
miocardiopatia ipertrofica, o per differenziare i gatti con
dispnea dovuta a problemi respiratori da quelli con scompenso cardiaco. Nel cane la determinazione del BNP al
momento non ha fornito gli stessi risultati incoraggianti. Per
entrambe le specie invece al momento mancano dati sul
valore prognostico della determinazione del BNP.
Bibliografia: è disponibile a richiesta all’autore
103
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La terapia dello scompenso cardiaco acuto
Michele Borgarelli
DMV, PhD, DECVIM-CA (Cardiol) - Kansas State University, Manhattan, KS, USA
Lo scompenso cardiac acuto (AHF) rappresenta una condizione sempre di più frequente riscontro anche in medicina
veterinaria. Poiché lo AHF può avere conseguenze fatali per
la vita dell’animale, è essenziale riconoscere gli animali
affetti da questa condizione rapidamente, al fine di ottimizzare il trattamento e di conseguenza migliorare la prognosi.
Nel cane e nel gatto lo scompenso cardiaco acuto è clinicamente caratterizzato, nella maggior parte dei casi, da segni
di insufficienza cardiaca sinistra quali, insorgenza acuta di
dispnea e ortopnea.
Alcuni soggetti possono anche presentare sincopi. Nei
casi più gravi si osservano i segni dello schock cardiogeno.
È importante ricordare che tali segni clinici non rappresentano segni specifici di AHF e possono anche essere presenti in corso di patologie respiratorie acute delle vie respiratorie inferiori. In medicina umana, alcuni biomarker quali
il fattore natriuretico cerebrale (BNP) si sono rilevati estremamente utili al fine di differenziare i pazienti con AHF da
quelli con insufficienza respiratoria primitiva. Al momento
la determinazione del BNP nel cane e nel gatto a questo fine
ha prodotto risultati contrastanti e ulteriori studi sono necessari al fine di valutarne l’utilità come biomarker diagnostico.
Gli animali con AHF sono particolarmente sensibili allo
stress e di conseguenza è essenziale ridurre al minimo le
procedure diagnostiche che possono peggiorare le condizioni cliniche. In genere, se la storia clinica e l’esame clinico
indicano che l’animale è in AHF, è consigliabile rinviare le
procedure diagnostiche dopo aver iniziato la terapia. La prima misura terapeutica per i pazienti con sospetto di AHF
presso il nostro centro è rappresentata dalla somministrazione di ossigeno e furosemide e.v.. Sotto questo punto di vista
è consigliabile garantire un accesso venoso mediante il posizionamento di un catetere in tutti gli animali con AHF. Per
quanto concerne le procedure diagnostiche è consigliabile
eseguire appena possibile una radiografia in posizione dorso
ventrale. Questo indagine e ‘in genere ben tollerata anche
dai pazienti in condizioni cliniche più critiche, e consente di
confermare la presenza di edema polmonare e/o di versamento pleurico. In caso di versamento pleurico, è importante procedere ad una toracocentesi appena possibile. Tale procedura è infatti in grado di alleviare i segni clinici e in molti casi di stabilizzare il paziente. In caso di animali particolarmente stressati, è possibile ricorrere ad una lieve sedazione con buprenorfina. Nel caso si sospetti che lo scompenso
lo AHF sia determinato da un’aritmia è essenziale eseguire
un ECG con l’animale in decubito sternale o in posizione
quadrupedale sempre al fine di ridurre lo stress.
Il trattamento dello AHF accertato è basato sulla somministrazione di alcuni farmaci che richiedono un monitoraggio continuo pressorio ed elettrocardiografico del paziente.
La scelta del tipo di trattamento deve basarsi, quando possibile, sulla conoscenza dell’eziologia dello AHF. Per esempio
in caso di AHF determinato da rottura delle corde tendinee
in un cane con malattia degenerativa mitralica cronica la
somministrazione di nitroprusside rappresenta il trattamento
di scelta in quanto in grado di ridurre il precarico ventricolare in modo significativo. Nel caso di un cane con AHF
determinato da miocardiopatia dilatativa la scelta dell’autore è diretta verso la somministrazione di dobutamina o dopamina al fine di sostenere la funzione sistolica. In caso non sia
possibile accertare la malattia cardiaca responsabile dello
AHF la nostra preferenza è diretta all’utilizzo della dobutamina perché dotata di minore effetti ipotensivi.
È importante ricordare che i gatti con AHF sono spesso
affetti da malattie cardiache quali la miocardiopatia ipertrofica o restrittiva. Il trattamento di questi pazienti può essere
particolarmente difficile poiché una eccessiva riduzione del
precarico con diuretici o farmaci vasodilatatori può ridurre
significativamente la portata cardiaca.
Tra i farmaci recentementi proposti per il trattamento dello
scompenso cardiaco acuto vi è anche il pimobendan. I dati
preliminari di uno studio condotto presso un centro di referenza negli USA ha fornito dati contrastanti. Il pimobendan
può essere indicato nei pazienti con AHF per i suoi effetti inotropi positivi e vasodilatatori. Il principale svantaggio del
pimobendan per il trattamento degli animali con AHF è legato al fatto che non esiste in soluzione iniettabile. Sotto questo
punto di vista il levomisendan, un farmaco con effetti simili al
pimobendan disponibile per somministrazione e.v., potrebbe
rappresentare una possibile opzione terapeutica in futuro. Il
levomisendan si è dimostrato un farmaco efficace per il trattamento dello scompenso cardiaco acuto nell’uomo.
Tra i farmaci sconsigliati per il trattamento dello AHF a
nostro parere vi sono i beta bloccanti. Tali farmaci infatti,
sebbene possano avere positivi nei pazienti con scompenso
cardiaco cronico stabilizzato, a causa della loro azione inotropa negativa possono contribuire in modo importante al
peggioramento delle condizioni cliniche degli animali con
AHF non determinato da un’aritmia.
Alcuni dati preliminare suggeriscono che, nei gatti con
miocardiopatia ipertrofica scompensata e stenosi dinamica
aortica l’utilizzo dei beta bloccanti è associato ad una prognosi peggiore. È importante però ricordare che nel caso di gatti
in trattamento cronico con un farmaco beta bloccante, questo
non deve essere sospeso. Infatti, la sospensione improvvisa di
questi farmaci può indurre l’insorgenza di aritmie ventricolari o di peggioramenti emodinamici significativi a causa del
cosiddetto effetto di “rebound catecolaminico”.
La bibliografia è disponibile su richiesta
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Ecocontrasto in ecocardiografia
Michele Borgarelli
DMV, PhD, DECVIM-CA (Cardiol) - Kansas State University, Manhattan, KS, USA
L’utilizzo di mezzi di contrasto in ecocardiografia risale a
circa 40 anni fa. Originariamente gli studi ecocardiografici
con contrasto erano determinati dalla necessità di riconoscere meglio le diverse strutture cardiache e la loro anatomia in
soggetti con esami di scarsa qualità, nonché per riconoscere
la presenza di shunts.
Il mezzo di contrasto più semplice utilizzato in ecocardiografia è rappresentato da una soluzione fisiologica agitata
manualmente e iniettata in una vena periferica. Questa tecnica è utile per identificare le camere cardiache destre in
caso di anomalie congenite come cor triatriatum o per identificare la presenza di shunts destri sinistri. Infatti, quando si
agita manualmente una soluzione fisiologica, si creano delle
microbolle di aria di dimensioni superiori a quelle dei capillari polmonari che, in condizioni normali, non possono attraversare il letto capillare polmonare e raggiungere i settori
sinistri cardiaci. L’identificazione anche solo di poche bolle
in atrio o ventricolo sinistro, deve essere quindi interpretata
come conseguenza di uno shunt destro sinistro.
Negli ultimi anni la ricerca ha consentito di produrre nuovi mezzi di contrasto ecocardiografici utilizzando la tecnica
di sonificazione. Tale metodica consiste nel produrre microbolle di gas di dimensioni inferiori a quelle dei globuli rossi
e che quindi possono attraversare i capillari polmonari e raggiungere i settori sinistri cardiaci dopo essere stati iniettati in
una vena periferica. Il primo di questa nuova generazione di
mezzi di contrasto è stato l’Albunex, prodotto mediante
sonificazione di una soluzione al 5% di albumina umana. Il
gas contenuto all’interno delle microbolle di Albunex era
rappresentato da aria. Il principale svantaggio dell’Albunex
era rappresentato dal fatto che l’aria essendo un gas altamente diffusibile fuorisciva facilmente dalle microbolle nel
momento del loro passaggio nei capillari polmonari e l’opacificazione del ventricolo sinistro era di conseguenza ridotta. Al fine di superare questo limite, l’aria nelle microbolle è
stata sostituita da gas ad alto peso molecolare. Questi gas,
essendo insolubili nel sangue, anche in caso di fuoriuscita
dalle microbolle, mantengono la capacità di aumentare il
contrasto nelle camere cardiache. L’utilizzo di uno di questi
mezzi di contrasto in ecocardiografia (Optison) è stato
descritto in medicina veterinaria al fine di aumentare la qualità del segnale Doppler nella proiezione sottocostale.
Recentemente sono disponibili i mezzi di contrasto di terza generazione in cui il gas non è più intrappolato in un
guscio di albumina ma in una struttura lipidica o di policarbonato. Questi mezzi sono rappresentati dal Sonovue e dal
Definity. Entrambi sono caratterizzati da una maggiore sta-
bilità delle microbolle in circolo e da un ottima capacità di
opacifizzare il miocardio.
Gli studi ecocardiografici con mezzo di contrasto necessitano di settare l’ecocardiografo in modo diverso da un esame normale. In particolare l’indice meccanico della macchina deve essere ridotto.
Questo indice rappresenta la potenza del segnale ecocardiografico, e valori elevati distruggono le microbolle rapidamente. Inoltre, le caratteristiche fisiche delle microbolle
richiedono l’utilizzo della seconda armonica al fine di ottimizzare il contrasto prodotto.
Le principali indicazioni per l’utilizzo della metodica dell’ecocontrasto in cardiologia sono rappresentate da:
a) Identificazione di shunts come descritto in precedenza
b) Opacificazione delle camere cardiache in pazienti con
qualità dell’immagine scarsa
c) Miglioramento del segnale Doppler
d) Valutazione del transito polmonare
e) Valutazione della perfusione miocardica
Opacificazione delle camere cardiache e
miglioramento del segnale doppler
Nei pazienti in cui la qualità delle immagini ecocardiografiche ottenute con la metodica standard è scarsa, l’utilizzo dei
mezzi di contrasto di seconda e terza generazione può essere
utile al fine di identificare meglio le strutture cardiache. In particolare la metodica ecocontrastografica può essere di particolare utilità per calcolare la frazione di eizione in apicale in pazienti con finestra acustica non ottimale. Come detto precedentemente la metodica ecocardiografica può risultare estremamente
utile anche per aumentare l’intensità del segnale doppler. Quest’ultima applicazione può essere importante in caso di screening per malattie quali la stenosi subaortica o polmonare.
Valutazione del transito polmonare (TTP)
Il TTP è un indice di funzione cardiaca. Recentemente è
stato dimostrato che il TTP, valutato mediante tecnica radio
cine-angiografica, correla con la funzione sistolica in cani
normali e cani con malattia degenerativa cronica mitralica.
La valutazione del TTP utilizzando la metodica ecocontrastografica è relativamente semplice e consiste nel conto dei
battiti cardiaci che intercorrono dal momento della comparsa del mezzo di contrasto in atrio destro, al momento della
sua comparsa in atrio sinistro. In uno studio pilota condotto
presso il nostro laboratorio, tale tempo appare costante in
cani normali e concorda con quello riportato negli studi condotti con radiocineangiografici.
105
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Valutazione della perfusione miocardica
bolle inviando per un breve periodo un segnale con indice
meccanico elevato, è quindi possibile studiare quanto tempo
impiegano le microbolle a riperfondere il miocardio e ad evidenziare eventuali aree di ipoperfusione. L’ecocardiografo
utilizzato nel nostro laboratorio inoltre dispone di software
dedicato che consente di quantificare la perfusione in diverse aree del miocardio contemporaneamente.
I mezzi di contrasto di ultima generazione sono relativamente stabili nel circolo ematico. In conseguenza di questa
loro proprietà essi ricircolano nel sistema cardiovascolare e
perfondono anche il miocardio. La valutazione della perfusione miocardiaca richiede un’infusione continua di microbolle. Questo permette il raggiungimento di uno stato di
equilibrio in circolo tra le microbolle immesse e quelle
rimosse dal circolo. In seguito alla distruzione delle micro-
La Bibliografia è disponibile su richiesta
106
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Ruolo della radioterapia ed integrazione radio
chemioterapica nel trattamento
dei linfomi multicentrici nel cane
Julia Buchholz
Dr Med Vet, Dipl ACVR - Radiation Oncology, Switzerland
Lymphoma is one of the most frequently diagnosed cancers in dogs and accounts for 7-24% of canine neoplasia. It
is the most common malignancy of the hematopoetic system. The etiology is largely unknown and likely multifactorial in nature. Ongoing investigations are currently focused
on chromosomal aberrations and their etiologic and prognostic importance and their usefulness as predictive assays.
The most common anatomic form of lymphoma in dogs is
the multicentric form with about 80% representing that type
and with the main clinical sign being generalized peripheral lymphadenopathy. More than 80% of dogs are presented
in advanced stages (stage III-V). About 20-40% present
with clinical signs, classified as substage b (WHO classification), which is associated with a worse prognosis. The
immunophenotype is known to be a prognostic indicator as
well. About 60-80% of canine lymphoma are of B-cell phenotype, whereas 10-38% are of T-cell origin, often associated with hypercalcemia and cranial mediastinal involvement
and a worse prognosis.
Standard of care is the treatment with multiagent chemotherapy protocols, including vincristine, cyclophosphamide, doxorubicin and prednisone (CHOP protocol). Those drugs are
known to be most potent for the treatment of lymphoma,
achieving high initial remission rates of 80-90% and fast
return of a good quality of life and median survival times of
about 12 months. Development of multidrug resistance is a
major drawback in achieving long-term control and at some
point most patients finally die because of recurrence that is
not responsive to chemotherapy anymore and expression of
the MDR-gene could be shown to be more likely in recurrent
lymphoma.
Lymphocytes are known to be exceptionally sensitive to
radiation and radiation is used successfully for the treatment of
localized lymphoma (stage I lymphoma) in diverse areas of the
body, such as the nasal cavity, brain, spinal cord and skin.
Since the multicentric form of lymphoma involves the
whole body, the radiation, in consequence, would have to be
administered to the entire body which in turn carries a higher risk of toxicity. Johnson et al. as well as Laing et al. first
evaluated the technique of half-body radiation therapy
(HBRT) in dogs and subsequently the administration of
HBRT to treat canine lymphoma patients. Laing et al.
applied 7 Gy to each half, separated by 28 days in between
treatments. The radiation was not combined with chemotherapy, even though some dogs failed chemotherapy before
being enrolled in the radiation treatment. Those that have not
received chemotherapy prior to radiation and those with
smaller tumor burdens responded more favorably. Still, the
overall tumor response was poor compared to combination
chemotherapy protocols and the toxicity was unacceptable,
including deaths due to tumor lysis syndrome, sepsis, thrombocytopenia, and up to 80 % of dogs showed signs of radiation sickness.
Since then, more commonly 4 Gy fractions on 2 consecutive days were administered to each half of the body 3-4
weeks apart to reduce toxicity. To increase efficacy, radiation was incorporated in protocols to be given in combination with chemotherapy rather than using the two treatments
apart from each other, trying to let the two modalities work
complementary (Williams et al., 2004; Gustafson et al.,
2004). Results obtained within the pilot study performed at
Colorado State University, published by Gustafson et al.
were promising with median survival times of 560 days.
When looking at a larger cohort of dogs treated at the same
institution, median survival times reached 461 days (Buchholz et al., 2008), which is satisfying, but not overwhelmingly convincing.
Another approach has been used to treat relapsed canine
lymphoma, using low-dose total body irradiation (LDTBI).
The additional rationale for using LDTBI is to induce an
immune response (Rassnick et al,, 2007). A recently published study also used low-dose rate irradiation administered
to half of the body with the rationale to be able to shorten the
inter-radiation interval. This means that half of the body gets
treated first with this low dose rate allowing for sublethal
damage repair to occur, and therefore the other half of the
body can be treated safely after 2 weeks already, thereby
minimizing tumor cell repopulation between the two fractions of radiation. Results of this study were very promising.
Median survival times were about 3 years, even though
patient numbers were small and long-term, maintenance
chemotherapy for about 2 years was administered (Lurie et
al., 2008).
Potential side effects after half-body-/total body irradiation are myelosuppression (mainly neutropenia and thrombocytopenia), alopecia, vomiting/diarrhea (after irradiation
of the caudal half), and anorexia.
These side effects are minimal if patients that are already
in clinical complete remission are irradiated. If macroscopic
lymphoma is present and gets irradiated, tumor lysis syndrome is a possible severe, and potentially life-threatening,
complication (Vickery et al., 2007).
107
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Administering radiation to such large areas of the body
such as half of the body or even the whole body requires
very careful planning as is true also for fractionated radiation therapy to localized areas. For comparison, a commonly used fractionation scheme in veterinary medicine for radiation patients treated for localized, solitary tumors, such as
mast cell tumors or soft tissue sarcomas uses fraction sizes
of 3-3.5 Gray per fraction for 15-18 times within a relatively short period of time. The LD 50/60 for humans is estimated
to be around 3.25 Gray for young healthy adults without any
medical intervention, which indicates a mortality rate of
50% sixty days after having received that dose. This example illustrates the potential danger if people that are not welltrained are using radiation, or other potentially hazardous
treatment modalities.
In human medicine, radiation is not used anymore for the
treatment of lymphoma on a routine basis. It mainly is still
used for limited-stage Hodgkin’s lymphoma, where it has
evolved from extended field radiation therapy (EFRT) to
involved-field radiation therapy (IFRT), reducing toxicity
while maintaining high cure rates. Recently, further field
size reductions to involved-nodal radiation therapy (INRT)
have been recommended. The advantage of irradiating small
areas only is the fact that higher total doses can be applied.
This is also an important factor while treating our animal
patients. With total or half-body irradiation, we obviously
administer the same dose to all sensitive tissues, such as
brain, heart, lungs, spinal cord. Also, the bone marrow toxicity limits our fractionation schedule. Therefore, if we focus
more on irradiating lymph nodes/lymph centers/lymphatic
vessels only, we might be able to treat these areas up to total
doses of 30-40 Gray, leading to long-lasting T-cell lymphopenia. Using computerized treatment planning, after
having obtained exact anatomical information with a CT
scan, radiation can be applied in a very exact and “elegant”
way to structures we want to treat without hitting the sensitive organs that do not necessarily need the dose.
Since we are, in contrast to human medicine, not able to
treat lymphoma aggressive enough with chemotherapy to
cure our patients (less than 10% cure rate), radiation might
play a larger role in the treatment of veterinary lymphoma
patients. Side effects from aggressive chemotherapy are not
acceptable in our patients, and since radiation is very well
tolerated it holds some promise to prolong survival times
and hopefully cure rates in canine lymphoma patients. Also,
using radiation, we might be able to overcome the problem
of chemotherapy resistance. ìFor the future, main indications
for dogs with lymphoma might be further elaborated consolidation protocols for dogs that are already in complete clinical remission after having received systemic multi-drug
chemotherapy protocols, treatment of patients with
chemotherapy-resistant lymphomas, as well as the treatment
of local and/or locoregional macroscopic lymphoma.
Pictures: 1) A dog from Italy immediately prior to administration of the radiation and 2) the 3-dimensional reconstruction of the same dog on the treatment planning computer. 3) Another picture of the same dog showing the dose distribution in the region of the lymph nodes cranial to the
diaphragm (“mantle field”)
108
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Farmacologia degli analgesici:
la teoria incontra la pratica
Antonello Bufalari
Med Vet, PhD, Perugia
Chiara Maggio, Med Vet, Perugia
Ilaria Cerasoli, Med Vet, Perugia
Lidocaina
cessivamente ampliate e, ad oggi, l’infusione continua si
impiega in neurochirurgia, in terapia intensiva per pazienti
pediatrici, per la cardiochirurgia, etc.
In medicina veterinaria, la possibilità di utilizzare la dexmedetomidina (bolo di carico di 1-5 mcg/kg, EV), in infusione continua (1 mcg/kg/h), in corso di intervento chirurgico, risulta particolarmente interessante. Nella nostra esperienza, in corso di anestesia generale con isoflurano, abbiamo riscontrato un significativo abbassamento della dose di
infusione di sufentanil (oppiaceo agonista puro) somministrato contemporaneamente alla dexmedetomidina. A fronte
di parametri cardiovascolari e respiratori stabili, si è notata
una maggiore capacità di controllo dello stimolo nocicettivo
intraoperatorio. Inoltre, è stato evidenziato un risveglio dall’anestesia tranquillo e scevro da complicazioni. Il vantaggio
di poter diminuire la dose di oppiaceo in infusione continua
può risultare di particolare rilievo nella corretta gestione dell’anestesia bilanciata per minimizzare gli effetti collaterali
(es. depressione respiratoria) indotti dagli oppioidi agonisti
puri (Bufalari A, et al. 2008).
Gli effetti della lidocaina somministrata in infusione
endovenosa sono stati oggetto di numerosi studi condotti
negli ultimi anni. L’infusione continua di lidocaina si è rivelata vantaggiosa per diversi aspetti: nell’uomo ha dimostrato
essere efficace nel trattamento del dolore intraoperatorio
(Cassuto et al., 1985) e dopo chirurgia addominale, nonché
nel trattamento dell’iperalgesia (Koppert et al., 1998); nel
ratto affetto da dolore neuropatico, se somministrata in premedicazione, sembra ritardare la comparsa di iperalgesia
(Smith et al., 2002). Negli animali è stato documentato che
l’infusione di lidocaina diminuisce la richiesta di anestetico
inalatorio (misurata tramite la determinazione della MAC)
del 50% nel cavallo e del 18% nel cane e proprio questa
notevole riduzione sembra dimostrare l’effettivo potere analgesico della lidocaina somministrata in infusione (Smith et
al., 2004). I meccanismi con i quali la lidocaina riduce il
dolore includono sicuramente l’interazione con i recettori
degli oppioidi µ e κ. Infatti, da recenti studi sembra possibile evincere un’interazione tra anestetici locali e recettori
oppioidi che potrebbe modulare la formazione di cAMP. Il
bolo di carico è di 1 mg/kg, EV, seguito da infusione continua di 50-100 mcg/kg/min.
Ketamina
È un agente anestetico con proprietà dissociative, catalettiche ma non ipnotiche. Induce uno stato di catatonia e una
condizione di analgesia per riduzione del “wind-up” dei neuroni spinali. La ketamina ha la capacità di bloccare l’azione
di particolari recettori chiamati N-Metil-D-Aspartato
(NMDA) che, se attivati, modificano la permeabilità di membrana dei neuroni con l’instaurarsi di una situazione di ipersensibilità allo stimolo dolorifico. La ketamina, inoltre, interviene nella modulazione dello stimolo nocicettivo agendo sia
con i recettori degli oppioidi, che riducono la trasmissione
nocicettiva a livello di lamina I e V delle corna dorsali, sia
riducendo la trasmissione del tratto spino-reticolare. La ketamina in infusione continua, per la sua peculiare caratteristica
di controllare il dolore, potrebbe svolgere in futuro un possibile ruolo di primo piano come adiuvante nell’analgesia intra
e postoperatoria. In medicina umana, concentrazioni plasmatiche superiori a 20 ng/ml aumentano l’efficacia di morfina e
bupivacaina epidurali. Nel cane il bolo di carico è di 0,5-1
mg/kg, EV, seguito da infusione continua di 0,3-0,5 mg/kg/h.
Dexmedetomidina
La dexmedetomidina è il più recente e selettivo agente α2agonista disponibile in Italia. È costituito esclusivamente
dall’isomero destrogiro della medetomidina. L’assenza dell’isomero levogiro ha permesso di ridurre il carico metabolico epatico, l’interazione con altre molecole e la manifestazione di effetti indesiderati. I due enantiomeri mostrano
effetti opposti sulla trasduzione del segnale a livello cellulare: la dexmedetomidina agisce come un agonista puro, inibendo la produzione di cAMP e riducendo l’entrata del Ca2+
nelle terminazioni nervose, mentre la levomedetomidina agisce come un agonista inverso, aumentando la sintesi di
cAMP e del Ca2+. La dexmedetomidina si comporta, quindi,
come un agonista puro e possiede una selettività α2/α1 superiore rispetto alla clonidina e un’affinità molto bassa per i
recettori α1, che mediano l’aumento dell’attività eccitatoria
e locomotoria e l’aumento della probabilità di aritmie indotte dall’adrenalina. La dexmedetomidina è stata inizialmente
impiegata in medicina umana nel 1999 negli USA come
agente sedativo per infusione intravenosa nei pazienti adulti
in terapia intensiva. Le applicazioni cliniche sono state suc-
Sufentanil
Il sufentanil citrato è un oppioide agonista puro analogo
tienilico del fentanyl. Studi in vitro hanno dimostrato che la
109
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
un rapido onset time (circa un minuto), si equilibra rapidamente tra il cervello ed il sangue e ha un ridotto volume di
distribuzione (Chism, 1996). Il tempo di dimezzamento è
particolarmente breve (3-5 min) ed è indipendente dalla
durata della somministrazione. Nella struttura chimica del
remifentanil è presente un estere metilico molto labile che
rende il farmaco suscettibile di idrolisi da parte di esterasi
eritrocitarie e tissutali aspecifiche; i muscoli, l’intestino ed il
cervello sono gli organi che partecipano più attivamente alla
clearance del remifentanil (Chism, 1996). Il fegato, pertanto, contribuisce in modo del tutto trascurabile al metabolismo del farmaco. Il suo principale metabolita ha anch’esso
un’azione µ agonista ed è escreto dal rene, ha potenza d’azione trascurabile rispetto al remifentanil. Gli effetti collaterali riportati in letteratura per il remifentanil sono sovrapponibili a quelli degli altri oppioidi agonisti e consistono in
apnea, bradicardia, modica ipotensione e rigidità muscolare.
La depressione respiratoria che può verificarsi con l’uso del
remifentanil suggerisce che debba essere garantita la ventilazione assistita del paziente durante l’intervento chirurgico.
Tuttavia è di comune riscontro la rapida ripresa della normale funzionalità respiratoria appena l’infusione del farmaco viene interrotta. Dose di infusione 5-15 mcg/kg/h; non
necessita di un bolo di carico.
selettività di questo farmaco per i recettori µ è superiore a
quella del fentanyl, morfina, meperidina e metadone. Studi
in vivo nel cane hanno rilevato che la potenza del sufentanil
è 625 volte superiore a quella della morfina e circa 5 volte
superiore a quella del fentanyl, mentre il margine di sicurezza (rapporto tra la dose responsabile di grave depressione cardiovascolare e quella in grado di determinare profonda analgesia) è di 24 per il sufentanil e di 5 per il fentanyl
(De Castro et al., 1979). Questo farmaco è più liposolubile
del fentanyl e si lega in elevata percentuale alle proteine
plasmatiche. È metabolizzato a livello epatico, attraverso
reazioni di dealchilazione e demetilazione. Nel cane la
maggior parte dei metaboliti viene eliminata con le urine
(60%). Gli effetti cardiovascolari e respiratori sono simili a
quelli del fentanyl, rispetto al quale sembra produrre una
minore depressione respiratoria nei pazienti umani (Bailey
et al., 1986). Nel cane, anche a dosi di infusione elevate,
dimostra un margine di sicurezza cardiovascolare superiore
rispetto al fentanyl (Monk, 1988), nonostante la bradicardia
vago mediata. La dose in infusione continua di sufentanil
nel cane è di 0,1-2 mcg/kg/h, dopo un bolo di carico di 0,11 mcg/kg, EV.
Alfentanil
L’alfentanil cloridrato (Fentalim ?) è un derivato fenilpiperidinico analogo del fentanyl. È un oppioide agonista puro
dei recettori µ (Branson, 2001). L’alfentanil ha un rapido
onset d’azione (circa 1-2 minuti dopo somministrazione
endovenosa) con durata di 5-10 minuti. Durante l’infusione
endovenosa raggiunge concentrazioni plasmatiche stabili in
circa 10-15 minuti. La percentuale di legame con le proteine
plasmatiche è superiore a quella del fentanyl e tale legame è
meno influenzato dal pH rispetto a quanto avviene per fentanyl e sufentanil. L’alfentanil è metabolizzato in sede epatica attraverso reazioni di dealchilazione e di demetilazione. Il
suo ridotto volume di distribuzione ne rende l’eliminazione
rapida, la sua durata d’azione è breve e il suo accumulo è
scarso anche in caso di infusioni prolungate. Il suo indice
terapeutico, cioè il rapporto tra la LD/50 e la ED/50, è di
1080 nel ratto, a dimostrazione di un margine di sicurezza
nettamente superiore a quello del fentanyl (Fatale, 1999).
L’alfentanil ha un maggiore potere vagotonico rispetto al
fentanyl e spesso è necessario somministrare degli anticolinergici per prevenire delle bradiaritmie clinicamente significative. Tuttavia la somministrazione in infusione endovenosa continua ha evidenziato buona stabilità cardiovascolare
nel cane (De Hert, 1991). Dose di carico di 5-10 mcg/kg, EV,
seguita da infusione di 10-20 mcg/kg/h.
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Remifentanil
Il remifentanil cloridrato è un oppioide di sintesi derivato
della 4-anilidopiperidina che agisce sugli specifici recettori
µ. La potenza analgesica del remifentanil è intermedia tra
quella del fentanyl e dell’alfentanil. Il remifentanil possiede
110
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Il comportamento di aggressione:
la prevenzione nelle scuole
Maria Chiara Catalani
DVM Comportamentalista, Dottoranda Ricerca Università degli Studi di Perugia, Consigliere SISCA
PREMESSA
decentra da situazioni d’angoscia o da esperienze negative,
attacchi di panico o fobie;
etico-scientifiche: orienta i ragazzi verso una relazione
equilibrata e rispettosa con l’alterità animale, fondata sulla
conoscenza delle differenze comportamentali e dei differenti bisogni dell’animale.
La zooantropologia nasce come specifica disciplina di
analisi della relazione tra uomo e animale intesa come rapporto di dialogo, e dei potenziali beneficiali (contributi referenziali) che scaturiscono da tale rapporto. I presupposti fondamentali su cui si fondano relazione e contributi referenziali sono tre. Innanzitutto il riconoscimento del concetto di
alterità animale ovvero l’identificazione dell’animale come
soggetto portatore di differenze ed interlocutore nella relazione. Il secondo aspetto riguarda la valorizzazione della
diversità di cui è portatore l’animale, in grado di offrire una
forte specificità di contenuti attraverso la relazione di interscambio. Infine, il principio di relazione è il terzo elemento
secondo cui presupposto per la relazione è il riconoscimento nell’animale di un soggetto attivo e coinvolto, capace di
interagire con la persona attraverso un dialogo e un interscambio, in grado di apportare e ricevere un cambiamento
dalla relazione. Su questi tre principi, la zooantropologia
fonda le attività che offrono contributi di arricchimento per
la persona.
In zooantropologia applicata si pone come obiettivo un
contributo referenziale che viene promosso dall’incontro
con la diversità animale e che offre al fruitore contributi per
un cambiamento personale e relazionale – sociale6.
Numerosi studi dimostrano che l’interazione uomo-animale presenta importanti valenze formative, didattiche e di
sostegno1. Nei bambini l’interazione con l’animale si è
dimostrata efficace nell’accrescere l’autostima, motivare le
pulsioni relazionali, diminuire gli stati di paura, ansia e
depressione, arricchire il repertorio espressivo, dare un
sostegno nelle “crisi di passaggio”, aumentare la curiosità e
l’entusiasmo3. Inoltre, l’interazione con l’animale presenta
valenze educative4:
formative: aumenta il vocabolario immaginativo e la fantasia, riduce la diffidenza verso la diversità, migliora disposizioni sociali e capacità relazionali, autocontrollo e acquisizione di un corretto registro di movimento, stimola le disposizioni di cura e la dimensione affettiva, implementa relazioni empatiche e di partecipazione emotiva;
didattiche: funge da centro di interesse, permette esperienze di gioco-studio, aiuta a connettere ambiente domestico e scolastico, facilita percorsi interdisciplinari e la comprensione di alcuni concetti descrittivi e di alcuni valori;
di sostegno: aumenta l’interesse e la motivazione ludica e
cognitiva, facilita i rapporti sociali, offre stimoli tranquillizzanti ed appaganti, diminuisce stati di ansia/depressione,
LA ZOOANTROPOLOGIA DIDATTICA:
OBIETTIVI E CONTENUTI7
Il progetto di ZD consta di lezioni teorico-pratiche dove i
ragazzi vengono coinvolti in attività con specifici contenuti
disciplinari e importanti valenze educative e didattiche, che
facilitano il raggiungimento degli obiettivi complessivi dell’attività didattica curricolare.
Un progetto di ZD può prevedere:
– Attività informative sulle caratteristiche comportamentali,
in particolare di cane e gatto, sulle corrette modalità di
comunicazione e interazione, sulla prevenzione degli incidenti legati ai problemi di aggressività, sull’adozione
responsabile e la cura degli animali da compagnia, sulla
prevenzione al randagismo e sulla educazione sanitaria.
– Attività educative finalizzate a valorizzare e promuovere
alcuni aspetti della formazione del ragazzo (educazione
affettiva, sviluppo dell’immaginario, valorizzazione della
diversità, educazione senso-motoria, processi di autostima,
componenti cognitive, espressive, figurative, autocontrollo).
– Attività didattiche rivolte ad aumentare la partecipazione
alla vita scolastica creando centri di interesse, a migliorare le relazioni tra i ragazzi, favorire l’acquisizione e l’organizzazione delle conoscenze, connettere il vissuto
domestico e scolastico, migliorare l’expertise del ragazzo.
– Attività emendativo-rieducative, sono volte ad aiutare il
ragazzo a superare particolari difficoltà e a fortificare
alcune aree deficitarie, assisterlo e motivarlo se poco interessato, migliorare il registro comportamentale, tonificare
l’area emozionale e la dimensione affettivo-partecipativa.
Molteplici possono essere i contenuti specifici della ZD. I
progetti possono essere focalizzati su a) pet-ownership
ovvero su cura e accudimento del pet, scelta dell’animale,
interazione e comunicazione; b) comportamento animale
con approfondimento dell’etogramma di specie, l’adattamento, i processi di apprendimento, percezione e comunicazione animale; c) partnership uomo-animale focalizzate sulla collaborazione uomo-animale domestico, l’analisi storicogeografica di tale alleanza; d) zooantropologia urbana con
111
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
analisi del rapporto uomo-animale in città, dell’ecologia
urbana, prevenzione dell’abbandono e degli incidenti con
animali; e) natura relativi alle diverse entità naturali, al contesto ambientale, all’organizzazione di esperienze conoscitive; f) ecologia, per la conoscenza delle diverse relazioni tra
i viventi; g) diversità animale, mirati a valorizzare la diversità e la conoscenza dell’animale; h) orientamento dello sviluppo, finalizzati a tonificare una particolare area del ragazzo (educazione dei sensi, comunicazione, ecc.). Infine, la ZD
può proporre progetti di affiancamento, dove il progetto
assume il compito di rafforzare altri progetti (educazione alimentare, sanitaria, all’affettività, ecc.) attraverso specifici
contenuti disciplinari.
CONCLUSIONI
Le attività di ZD permettono di raggiungere importanti
obiettivi, differenziati sulla base dei contenuti programmati
e delle attività realizzate in classe. È fondamentale programmare interventi di ZD integrati nelle attività curricolari, per
arricchirle e favorire il processo pedagogico. Il contributo
offerto dalla ZD non è limitato all’aspetto sanitario – preventivo o a quello informativo ma coinvolge aree fondamentali dello sviluppo individuale del bambino. Da ciò deriva
che la formazione del medico veterinario impegnato in queste attività sia specificamente orientata sull’approfondimento della zooantropologia teorica, dell’etologia, della pedagogia. È fondamentale, infatti, che si arricchiscano le attività di
tipo informativo – tecnico con programmi che investano sui
contributi referenziali offerti dalla relazione con l’animale
per contribuire alla crescita e alla formazione del bambino.
PROGETTO “GLI ANIMALI DOMESTICI:
CONOSCERLI, RISPETTARLI, VIVERCI
IN SICUREZZA”6
L’iniziativa, rivolta ai bambini della Scuola Primaria, è
stata realizzata come progetto pilota sull’etologia degli animali d’affezione e sull’approccio sicuro ad essi grazie all’interesse ed il contributo erogato da un Ente Pubblico (Provincia di Ancona) a SISCA. Il progetto è stato realizzato in tre
incontri teorici sull’etologia del cane e del gatto, la comunicazione interspecifica uomo – cane/gatto, le regole dell’approccio al cane ed un incontro con l’animale a Scuola. La
parte teorica è stata realizzata con lezioni frontali seguite da
lavori di mimica e drammatizzazione, per allenare i ragazzi
sul gioco di ruoli nella relazione con l’altro e portarli a sperimentare ed acquisire specifiche prassi di interazione con
un cane sconosciuto, nell’ottica della prevenzione degli incidenti. L’incontro col cane è stato realizzato grazie al contributo di binomi pet-partner della SIUA, composti da un operatore per la pet therapy e la ZD e dall’animale partner, formati e certificati dalla scuola per queste attività.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Il dolore acuto nel cane: come identificarlo?
Louise Clark
DVM, BVMS, Dipl ECVAA, MRCVS, Londra, UK
Prima degli anni ’80 del secolo scorso, i tentativi sistematici di valutare il dolore clinico negli animali erano stati rari,
ed il lavoro più rilevante in questo campo è stato effettuato
dopo il 1990. Sono stati effettuati alcuni tentativi di quantificare obiettivamente la risposta algica di un animale. Rientrano fra questi le misurazioni delle risposte fisiologiche,
biochimiche e comportamentali, comprese quelle dell’animale in esame ai test standard come la sollecitazione della
cute con stimoli nocivi e non nocivi quantitativamente controllati. Nel cane, in ambito di ricerca, è stata impiegata con
successo la misurazione della soglia termica, che però non è
facilmente trasferibile nella pratica clinica.
Nel tentativo di valutare ulteriormente il dolore, sono state studiate in modo obiettivo le risposte fisiologiche ad esso.
Queste possono essere rappresentate da dilatazione delle
pupille e/o spalancamento delle palpebre, modificazioni della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca, aumento
della frequenza e/o della profondità del respiro, variazioni
della temperatura cutanea e corporea, incremento del tono
muscolare, sudorazione, aumento della defecazione e della
minzione. Queste modificazioni si possono riscontrare in
presenza del dolore, dato che non sono specifiche e tendono
semplicemente a riflettere l’attivazione dei sistemi simpatico-surrenalico o ipotalamo-ipofisario, ma sono comunque
molto aspecifiche e possono comparire in tutti gli stati di
ansia o paura. Sperimentalmente, nel tentativo di trovare utili indicatori del dolore, è stata effettuata la misurazione delle variazioni dei livelli di alcune sostanze biochimiche
(diverse dai corticosteroidi) a livello del plasma e del liquido cefalorachidiano. Tuttavia, non esistono prove che indichino che una qualsiasi si esse possa rappresentare un indice pratico.
Di conseguenza, poiché non è stata dimostrata la possibilità di misurare obiettivamente il dolore nelle specie animali, si deve fare ricorso ad una valutazione soggettiva. Ciò
comporta un ruolo dell’uomo come valutatore ed impone un
giudizio di valore. Si deve fare una distinzione fra il dolore
che l’animale può percepire e l’impressione che il valutatore umano ne ha. L’ideale è che la valutazione del dolore non
sia influenzata dallo stato emotivo del valutatore. La maggior parte degli esseri umani ha una capacità altamente sviluppata di apprezzare e condividere i sentimenti degli altri
uomini. Tuttavia, questa capacità non viene utilizzata solo in
modo appropriato per valutare i sentimenti degli altri (nel
qual caso può funzionare molto bene), ma viene anche applicata agli animali, quando potrebbe non essere appropriata.
Benché sia possibile fare delle ipotesi sulla natura generale
del dolore in base alle analogie della fisiologia e farmacologia della nocicezione in un’ampia gamma di specie, può
essere un errore tentare di abbinare una definizione umana
del dolore a ciò che provano gli animali. Questo è un problema intrinseco del fatto che sia un uomo a valutare il dolore animale!
Nella loro risposta comportamentale al dolore, gli animali possono adottare una o più delle seguenti strategie:
• Risposte che portano a cambiamenti del comportamento
dell’animale e che gli permettono di ridurre o evitare il
ripetersi dell’esperienza algica. Queste risposte coinvolgono le esperienze emotive e l’apprendimento, che richiedono le funzioni nervose centrali di livello elevato.
• Risposte, spesso automatiche, che proteggono in parte o
del tutto l’animale. Queste reazioni e risposte riflesse consistono nella retrazione dall’origine dello stimolo, nella
rimozione dello stimolo stesso o nei tentativi di ottenere
questi risultati. I riflessi di retrazione possono essere considerati come risposte minime e possono essere estesi fino
al punto che l’animale scappa via, o, in alternativa, può
cercare di rimuovere o ridurre lo stimolo nocivo leccando,
mordendo o attaccandone la fonte.
• Risposte che riducono al minimo il dolore e favoriscono la
guarigione, per cui l’animale può ridurre l’attività coricandosi, restando in piedi quasi immobile o adottando
alcune altre posture caratteristiche. L’animale può andarsene o nascondersi.
• Risposte volte a chiedere aiuto o a far desistere un altro
animale (uomo compreso) dall’infliggere un ulteriore
dolore, ad es. attraverso la comunicazione mediante vocalizzazione, atteggiamenti posturali, ecc. Ci si potrebbe
aspettare che, sotto le pressioni evolutive, tali risposte
vengano soppresse, dato che i predatori potrebbero individuarle ed utilizzarle per catturare le prede. Tuttavia,
negli animali giovani, che dipendono dalla madre, e come
minimo in alcune specie sociali, possono invece essere ben
sviluppate per ottenere aiuto dalla madre stessa o da altri
membri del gruppo.
• Incapacità di manifestare risposte comportamentali ben
stabilite a causa del predominio di quella algica in atto.
Rientrano in questa categoria la mancanza delle interazioni sociali, l’assenza di risposta ai comandi e la disattenzione.
© University of Edinburgh
La valutazione soggettiva del comportamento algico può
risultare impegnativa. L’ambiente ospedaliero sottopone l’a113
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
si riesce ad identificare una fonte del dolore. La frequenza
della valutazione delle percezioni algiche dipende dal problema che ha determinato la presentazione del soggetto alla
visita. Nei pazienti con dolore chirurgico o traumatico, si
raccomanda di effettuarla come minimo ogni 2 ore.
nimale ad uno stress che può complicare la valutazione del
dolore. Il cane ha perso la sua gerarchia sociale e può essere
spaventato dai vicini rumorosi e confuso, oltre che dolorante.
L’effetto di una lesione sul comportamento osservabile
dei pazienti umani è mal correlato alle descrizioni o ai giudizi che questi ne danno; ciò può avvenire anche nel cane.
Ad esempio, i cani più gravemente feriti della nostra unità di
terapia intensiva di norma mostrano scarsa attenzione al loro
problema, assumendo l’atteggiamento che potrebbero manifestare ai loro proprietari nei periodi in cui si trovano in buona salute. Negli animali, l’intensità dell’esperienza algica
può essere superiore a quella prevedibile unicamente sulla
base dell’osservazione casuale del comportamento. È essenziale che non ci si limiti solo ad osservare il cane, ma che si
interagisca anche fisicamente con lui. Allo scopo è necessario eseguire la palpazione delle ferite e chiedere al paziente
di alzarsi e muoversi, se è in grado di camminare e non sta
dormendo!
Gli infermieri spesso riescono a valutare il dolore molto
meglio dei veterinari, perché trascorrono più tempo con gli
animali. È importante imparare a riconoscere qual è il comportamento normale di un dato individuo prima di un intervento chirurgico. Come riferimento, può essere utile un questionario da far compilare al proprietario prima del ricovero
in ospedale dell’animale. È un cane socievole? Gli piace la
gente? Dorme arrotolato su se stesso o rovesciato sulla
schiena? Vocalizza molto? Bisogna poi tenere in considerazione altri fattori, come la sordità o la cecità!
L’espressione del dolore varia con l’età e da un individuo
all’altro. La mancanza di manifestazioni palesi non indica
necessariamente che i pazienti non stiano sperimentando le
conseguenze negative del dolore. Segnalazioni aneddotiche
suggeriscono che certe razze sembrino più sensibili di altre
agli stimoli dolorifici. Si ignora se ciò rifletta l’effettiva percezione dei segnali algici. Singoli animali sottoposti alla
medesima procedura possono sperimentare o esprimere il
dolore in modo differente.
Un singolo animale può sperimentare più di un tipo di
dolore in un dato momento. Ad esempio, i soggetti anziani
con osteoartrite che vengono sottoposti ad un intervento chirurgico possono percepire un dolore muscoloscheletrico
dovuto al posizionamento durante l’operazione oltre a quello associato alla chirurgia stessa.
Se restano dei dubbi sulla presenza del dolore, si deve
somministrare un analgesico e valutare la risposta del
paziente. La reazione alla terapia è un mezzo appropriato ed
importante per giudicare il dolore. Quando è necessario
gestire il problema, si deve formulare un piano, seguirlo ed
aggiornarlo secondo necessità. Può risultare difficile differenziare la disforia dal dolore, soprattutto nei casi traumatici o chirurgici. Le due condizioni si possono verificare
simultaneamente, complicando ulteriormente il quadro. Gli
animali disforici sono spesso difficili da distrarre o calmare
attraverso l’interazione o le manipolazioni. La somministrazione di una quota maggiore di oppiacei non serve a migliorare la situazione e non si rileva una fonte del dolore facilmente identificabile. Al contrario, gli animali che provano
dolore possono tipicamente essere distratti e calmati ricorrendo all’interazione o alle manipolazioni. La somministrazione di dosi ripetute o aumentate di oppiacei sembra utile e
La misurazione del dolore in ambito clinico
Molti ricercatori veterinari hanno studiato i trattamenti
analgesici utilizzando alcune forme di valutazione comportamentale per giudicare gli effetti degli analgesici sul dolore
acuto. Scale di classificazione del dolore basate su quelle in
uso nei bambini sono state impiegate con livelli di successo
variabili. Parole come lieve, moderato, grave, eccessivo,
atroce, localizzato, netto, sordo, bruciante vengono utilizzate come descrizioni verbali dai pazienti umani che descrivono il proprio dolore. Tuttavia, tali descrizioni sono difficili
da applicare al dolore animale. La cosiddetta Visual Analogue Scale o VAS è una linea di 100 mm, ancorata a sinistra
al numero 0 o a parole come “nessun dolore” e a destra al
numero 100 o a parole come “il peggior dolore possibile” o
“il peggior dolore possibile per questa procedura”. Il valutatore osserva il paziente per un periodo di tempo predeterminato, si serve del giudizio clinico dell’intensità del dolore e
traccia una linea che interseca quella della VAS da 100 mm.
Si misura quindi (in millimetri) la distanza fra questa intersezione e l’estremità sinistra della linea, ottenendo un numero che corrisponde al valore di VAS.
il peggior dolore
possibile
nessun
dolore
0 cm
Distanza
misurata
10 cm
Per la valutazione del dolore sono state anche utilizzate
le scale di classificazione numerica (NRS, Numerical
Rating Scales). Il valutatore traccia un segno circolare
intorno ad un numero (da 0 a 10) che corrisponde alla propria stima. Negli studi in ambito veterinario, queste scale
non sono state sviluppate sistematicamente, ma piuttosto
realizzate dai ricercatori applicando definizioni arbitrarie
agli intervalli considerati.
Metodi verbali, numerici, numerici classificati, VAS o
basati su una combinazione di due o più di queste scale sono
stati usati per la valutazione del comportamento del cane in
almeno 32 studi relativi all’analgesia ed al dolore in medicina veterinaria.
Tutte queste scale sono caratterizzate dal fatto di basarsi
su una valutazione soggettiva di comportamenti la cui correlazione con altri indicatori comportamentali o fisiologici del
dolore e dello stress non è stata confermata. La natura soggettiva di questi strumenti viene rivelata dalla presenza di
una significativa variabilità dei punteggi del dolore assegnati dai vari osservatori (Holton et al. 1998b). Ad esempio, le
parole possono significare cose differenti per persone diverse e possono essere impossibili da definire con precisione
sufficiente a garantire un buon accordo fra gli osservatori.
È stato sviluppato un approccio più formalizzato alla terminologia del dolore. (Holton et al. 2001). Si tratta di una
114
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
ziali. Il punteggio massimo per le 6 categorie è di 24, o 20
se la mobilità è impossibile da valutare. Il punteggio totale
CMPS-SF si è dimostrato un utile indicatore del fabbisogno
analgesico e il livello raccomandato per l’intervento terapeutico è di 6/24 o 5/20.
© University of Glasgow
scala verbale composita che è stata raffinata e validata in
altri ambienti clinici (Murrell et al. 2008) e condensata per
renderla pratica e adatta all’impiego sia in ambito clinico
che di ricerca. Attualmente, costituisce probabilmente il
metodo più utile per la valutazione del dolore acuto nel
cane.
La short form composite measure pain score (CMPS-SF)
CMPS può venire applicata in modo rapido ed affidabile in
ambito clinico ed è stata studiata come uno strumento atto a
prendere decisioni cliniche sviluppato per l’impiego nei cani
con dolore acuto. È formata da 30 opzioni descrittive all’interno di 6 categorie comportamentali, compresa la mobilità.
All’interno di ciascuna categoria, i parametri descrittivi
sono classificati numericamente in relazione all’intensità
del dolore ad essi associata e la persona che effettua la valutazione sceglie quello di ciascuna categoria che si adatta
meglio al comportamento/condizione del cane. È importante condurre la procedura di valutazione nel modo descritto
nel questionario, attenendosi strettamente al protocollo. Il
punteggio del dolore è la somma dei singoli punteggi par-
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115
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Acute pain in dogs: how to identify it?
Louise Clark
DVM, BVMS, Dipl ECVAA, MRCVS, London, UK
Systematic attempts to evaluate clinical pain in animals
were rare before the 1980s, and most relevant work in this area
has been performed since 1990. Some attempts have been
made to objectively quantify an animal`s pain response. These
include measurements of physiological, biochemical and
behavioural responses, including responses of the animal to
standard tests such as quantitatively controlled noxious and
non-noxious stimulation of the skin. Thermal threshold testing
has been successfully employed in canines in the research
environment but it is not easily transferable to clinical practice.
In an attempt to further evaluate pain objectively physiological responses to pain have been studied. These may
include; dilatation of the pupils and/or wide opening of the
eyelids; changes in blood pressure and heart rate; increased
respiration rate and/or depth; changes in skin and body temperature; increased muscle tone; sweating; increased defaecation and urination. Whilst these changes can occur where pain
is present, because they are non- specific and tend to simply
reflect the activation of the sympathoadrenal or hypothalamic
pituitary systems, they are very non-specific and may occur in
anxious or fearful states. Changes in plasma or cerebro-spinal
fluid levels of biochemical substances (other than corticosteroids) have been measured experimentally in attempts to
find useful indices of pain. As yet, evidence that any of these
provide practical indices is not available.
Therefore, because it has not proven possible to measure
pain objectively in animal species, subjective assessment
must be undertaken. This involves a human assessor imposing a value judgement. A distinction should be made
between what pain the animal may be feeling and what the
human assessor is feeling. Ideally, assessment of pain should
not be influenced by the emotional state of the assessor.
Most humans have a highly developed capacity for appreciating and sharing the feelings of other humans. However,
this capacity is not only used appropriately to appreciate the
feelings of other humans (when it may work well), but it is
also applied to animals, when it may not be appropriate.
Although it is possible to make assumptions about the
general nature of pain based on the similar physiology and
pharmacology of nociception across a wide range of animal species, it may be a mistake to attempt to attach a
human definition of pain to their experience. This is an
inherent problem when humans assess animal pain!
Animals may adopt one or more of the following strategies in their behavioural response to pain:
• Responses which lead to changes in the animal’s behaviour and which enable the animal to reduce or avoid
•
•
•
•
recurrence of the pain experience. These responses involve
emotional experiences and learning, for which high-level
central nervous functions are required.
Responses, often automatic, which protect parts or the
whole of the animal. These reflex responses and reactions
include withdrawal from the source of the stimulus, removal
of the stimulus or attempts to achieve these results. Withdrawal reflexes may be regarded as minimal responses and
they may be extended to the whole animal running away,
alternatively the animal may try to remove or reduce the
noxious stimulus by licking, biting or attacking its source.
Responses which minimise pain and assist healing, the
animal may reduce activity by lying down, standing very
still or by adopting some other characteristic posture. The
animal may move away or hide.
Responses designed to elicit help or to stop another animal
(including man) from inflicting more pain e.g. communication by vocalisation, posture etc. Under evolutionary pressures, where predators could detect and use such responses
to pick out their prey, it might be expected that such responses would be suppressed whereas in young, maternally
dependent, animals and at least some social species such
responses may be well developed to elicit help from the
mother or fellow members of the social group.
Failure to carry out well established behavioural responses due to domination of ongoing experience by the pain.
This includes failure of social interactions, unresponsiveness to commands and inattention.
© University of Edinburgh
Subjective assessment of pain behaviour can prove challenging. The hospital environment imposes stress on the animal and this may complicate pain assessment. The dog has
lost its social hierarchy, it may be fearful of noisy neighbours and confused, in addition to being painful.
The effect of injury on observable behaviour in humans
correlates poorly with patient self-reports or assessments,
this may also apply in dogs. For example, the most severely
injured dogs in our intensive care unit routinely show little
attention getting behaviour they might show their owners
during times of good health. In animals the intensity of the
pain experience may be greater than that predicted solely on
the basis of casual observation of behaviour. It is imperative
that the dog is not just observed, but that physical interaction
with it also takes place. This should include wound palpation
and asking the dog to get up and move about if ambulatory
and not sleeping!
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Nurses are often much better at pain assessment than vets
because they spend more time with the animals. It is important to get to know what normal behaviour is for that individual before surgery. A questionnaire that owners complete
before their animal is admitted to hospital is a useful reference. Is it a sociable dog? Does it like people? Does it sleep
curled up/upside down? Does it vocalise a lot? Other factors
such as deafness or blindness must be considered!
Expression of pain varies with age and amongst individuals. A lack of outward evidence does not necessarily indicate
patients are not experiencing the negative consequences of
pain. Anecdotal evidence suggests that certain breeds appear
more sensitive to painful stimuli than others. Whether this
reflects actual pain perception is not known. Individual animals undergoing the same procedure may experience or
express their pain differently.
An individual animal can experience more than one type
of pain at any given time. For example, older animals with
osteoarthritis that undergoe surgery may experience musculoskeletal pain due to positioning during the procedure, in
addition to the pain associated with the surgery itself.
If a question persists regarding the presence of pain, administer an analgesic and assess the patient’s response. Response
to therapy is an appropriate and important tool in pain assessment. When pain management is needed, formulate a plan,
note it and update the plan as needed. Differentiating dysphoria from pain can be challenging, especially in traumatic or
surgical cases. Pain and dysphoria can occur simultaneously,
complicating the picture. Dysphoric animals are often difficult
to distract or calm by interaction or handling. Administering
more opioids does not help the situation, and a source of pain
is not readily identifiable. In contrast, animals in pain typically can be temporarily distracted and calmed by interaction or
handling. Increased or repeateddoses of opioids seem to help,
and a source of pain can be identified. Frequency of pain
assessment depends on the presenting problem. In patients
with surgical or traumatic pain, pain assessment is recommended at least every 2 hours.
scales have not been developed systematically but rather were
creations of the investigator applying arbitrary definitions to
the intervals. Verbal, numerical, categorized numerical, VAS,
or a combination of two or more of these scales have been used
to evaluate behavior in dogs in at least 32 studies investigating
analgesia and pain in veterinary medicine.
All of these scales are characterized by reliance on subjective evaluation of behaviours whose correlation with other behavioural or physiological indicators of pain and distress has not been confirmed. The subjective nature of these
instruments is revealed by the presence of significant variability of pain scores between observers (Holton et al.
1998b). For example, words may mean different things to
different people and be impossible to define with enough
precision to ensure good inter-observer agreement.
A more formalized approach to pain terminology has been
developed. (Holton et al. 2001). It is a composite verbal
scale that has been refined and validated in other clinical
environments ( Murrell et al. 2008) and condensed to make
it practical and sueable in the clini as well as in research. It
currently forms probably the most useful method of assessing acute pain in dogs.
The short form composite measure pain score (CMPS-SF)
CMPS can be applied quickly and reliably in a clinical setting
and has been designed as a clinical decision making tool which
was developed for dogs in acute pain. It includes 30 descriptor
options within 6 behavioural categories, including mobility.
Within each category, the descriptors are ranked numerically
according to their associated pain severity and the person carrying out the assessment chooses the descriptor within each
category which best fits the dog’s behaviour/condition. It is
important to carry out the assessment procedure as described
on the questionnaire, following the protocol closely. The pain
score is the sum of the rank scores. The maximum score for the
6 categories is 24, or 20 if mobility is impossible to assess. The
total CMPS-SF score has been shown to be a useful indicator
of analgesic requirement and the recommended analgesic intervention level is 6/24 or 5/20.
© University of Glasgow
Measuring pain in a clinical setting
Many veterinary researchers have studied analgesic treatments using some form of behavior assessment to assess
analgesic effects on acute pain. Pain rating scales based on
those used in children have been used with variable success.
Words such as mild, moderate, severe, excessive, excruciating, localised, sharp, dull, burning are used as verbal descriptors by humans describing their own pain. However, such
descriptors, are difficult to apply to animal pain. The Visual
Analogue Scale or VAS is a 100-mm line, anchored on the left
by either the number 0 or wording such as “no pain” and on
the right by either the number 100 or wording such as “worst
possible pain” or “worst possible pain for this procedure.” The
observer watches the patient for a predetermined time period,
uses clinical judgment about the severity of pain, and draws a
line that intersects the 100-mm VAS. The distance from the
left end of the line to the intersect is then measured (in millimetres) and this number is the VAS.
Numerical Rating Scales (NRS) have also been used in pain
assessment. The assessor circles a number (0-10) that represents their assessment. In veterinary studies, these numerical
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Il dolore acuto nel gatto:
il gatto non è un piccolo cane
Louise Clark
DVM, BVMS, Dipl ECVAA, MRCVS, Londra, UK
Il gatto è stato a lungo il “parente povero” in termini di
somministrazione degli analgesici. Numerosi studi
(Lascelles et al 1995) hanno dimostrato che le probabilità
che venga attuato un trattamento per il controllo del dolore
sono maggiori nei cani che nei gatti sottoposti alla medesima procedura chirurgica. Fortunatamente, l’impiego degli
analgesici è in aumento – uno studio condotto in Sud Africa ha dimostrato che fra i gatti sottoposti ad intervento chirurgico nel 2000 solo il 13% aveva ricevuto un’analgesia
perioperatoria, mentre nel 2005 questo valore era salito al
56% (Joubert 2006). Non c’è dubbio che restano comunque
ampi spazi di miglioramento. Al fine di attuare un’analgesia efficace nei felini è necessario in primo luogo prendere
in considerazione numerosi problemi, come il numero
limitato dei mezzi validati per la valutazione del dolore, le
caratteristiche esclusive del metabolismo del gatto e la
mancanza di prodotti analgesici registrati per l’impiego in
questa specie animale.
È importante rendersi conto che, sebbene non siano in
grado di comunicare verbalmente come gli esseri umani, i
gatti sono comunque capaci di provare dolore e che fra i
singoli individui sembrano esistere variazioni nella risposta all’intervento analgesico. Il fatto che sia la valutazione
del dolore che la somministrazione degli analgesici dipendano dall’uomo fa sì che, qualora l’uno o l’altro di questi
atti risulti inefficace, l’animale continuerà a soffrire. Quindi, è indispensabile che il dolore venga valutato e trattato
efficacemente.
Per il gatto, non esiste alcun sistema verificato di valutazione del dolore mediante assegnazione di un punteggio. La
valutazione obiettiva del dolore mediante determinazione
della soglia termica viene ampiamente ed efficacemente usata in ambito di ricerca quando si effettuano test sugli analgesici, ma è uno strumento difficile da impiegare in campo
clinico. Per la valutazione dell’efficacia di questi farmaci nei
gatti con zoppia è stata anche usata la valutazione dell’andatura su apposite piattaforme. Le misurazioni dei parametri
fisiologici come la frequenza cardiaca e quella respiratoria
sono di valore limitato, come è già stato ricordato, perché
sono semplicemente dei marcatori dell’attivazione del sistema simpatico-surrenalico e possono anche venire influenzati da stress, farmaci o alterazioni fisiologiche come l’ipovolemia. Sperimentalmente, nel tentativo di trovare utili indicatori del dolore, è stata effettuata la misurazione delle
variazioni dei livelli di alcune sostanze biochimiche a livello del plasma e del liquido cefalorachidiano, ma non ne è
stata dimostrata la specificità.
È chiaro che i sistemi sopracitati non sono utili per la
valutazione pratica del dolore. Il risultato è che a questo scopo, nella maggior parte dei casi, attualmente vengono utilizzati metodi soggettivi e potenzialmente inaccurati basati su
giudizi comportamentali. È stato dimostrato nel cane, ed è
ampiamente accettato nel gatto, che i sistemi più affidabili
sono quelli che prevedono l’interazione con il soggetto in
esame attraverso la palpazione di ogni ferita chirurgica presente. Numerosi fattori rendono la valutazione comportamentale molto difficile all’interno dell’ambiente ospedaliero. Molti gatti sono palesemente stressati (spaventati ed
ansiosi) per il solo fatto di essere confinati molto vicini agli
altri e di non riuscire a “nascondersi” e inoltre possono
opporre un rifiuto alla sola presenza di bendaggi, anche
quando non sono dolorosi. Per distinguere il dolore dalla
paura/ansietà può essere utile adottare delle misure volte a
ridurre i livelli complessivi di stress, come usare dei feromoni spray, tenere i gatti isolati dai cani, lasciare a loro disposizione dei giocattoli, utilizzare la loro lettiera preferita ed
offrire loro musica dolce (evitare i rumori forti) e un posto
per nascondersi. Sul sito web FAB si trovano consigli utili
per far sì che i felini si sentano maggiormente a proprio agio
in una struttura veterinaria.
La compilazione di un questionario da parte dei proprietari dei gatti ricoverati nell’ospedale permette al personale
infermieristico di sapere cosa può essere considerato normale/preferito per ogni singolo individuo. Da questo punto di
vista sono utili l’interazione con il gatto e la sua osservazione prima dell’intervento chirurgico; se quando viene ricoverato nel periodo preoperatorio l’animale mostra un normale
comportamento di toelettatura, arrampicata o gioco, la perdita di questo comportamento dopo l’intervento è fortemente indicativa della presenza di dolore. Quando si sospetta che
un animale soffra, spesso risulta utile la risposta ad una dose
di prova di analgesico. I problemi possono insorgere quando
si trovano delle difficoltà nel differenziare la disforia dal
dolore; l’ulteriore somministrazione di oppiacei può esacerbare i segni della disforia. Spesso il personale infermieristico ha una conoscenza più dettagliata di ciò che è normale
per ogni singolo individuo e più quindi effettuare una valutazione del dolore “migliore” di quella del veterinario.
Waran et al (2007) hanno dimostrato che l’assunzione di
determinate posizioni (animale “piegato in due” o rannicchiato) è correlata alla presenza di dolore addominale. Altri
segni ritenuti indicativi sono la tendenza a leccarsi o mordersi le ferite, le risposte aggressive alle manipolazioni, la
testa tenuta bassa e l’atteggiamento antalgico a spalle incur118
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
caratteristiche farmacocinetiche non sono state ben stabilite.
Secondo l’esperienza dell’autrice, dosaggi multipli portano
all’eccitazione un numero elevato di gatti. Ciò di solito si
risolve quando si sostituisce il trattamento con la buprenorfina! Il butorfanolo si è dimostrato dotato di un’azione di
durata abbastanza breve e di efficacia limitata per il dolore
somatico e viscerale. Le autorizzazioni alla commercializzazione degli oppiacei per l’impiego nel gatto variano da un
Paese all’altro.
Il tramadol viene eliminato più lentamente nel gatto che
nel cane, suggerendo la necessità di impiegare dosaggi più
bassi ed intervalli fra le somministrazioni più prolungati che
nel cane.
I farmaci antinfiammatori non steroidei sono stati recentemente oggetto di un’ampia rassegna (Lascelles 2007). I
FANS hanno generalmente un margine di sicurezza più basso di quello degli oppiacei ed i gatti sembrano essere particolarmente suscettibili ai loro effetti collaterali a livello
renale. Nel Regno Unito, il carprofen è registrato per l’impiego come singola dose preoperatoria, il melociam è
anch’esso registrato per il solo uso preoperatorio ed il ketoprofen per il trattamento solo pre- e postoperatorio. La maggior parte degli studi condotti indica scarse differenze di efficacia dei FANS disponibili nel trattamento del dolore chirurgico acuto (Slingsby e Waterman-Pearson 2002). Il meloxicam è registrato anche per l’impiego cronico alla dose di
0,05 mg/kg/die, benché spesso siano efficaci anche dosi
inferiori o a giorni alterni; i dosaggi più bassi possono servire a ridurre l’incidenza degli effetti collaterali. Anche la
compliance è buona, dal momento che la maggior parte dei
gatti accetta il meloxicam per os o nel cibo.
Nel trattamento del dolore perioperatorio del gatto, gli
anestetici locali sono sottoutilizzati. La maggior parte delle
tecniche locali e regionali applicabili nel cane può trovare
impiego anche nel gatto. La somministrazione epidurale è
leggermente più impegnativa che nel cane – dato che nel gatto il rischio di penetrare nello spazio subaracnoideo è da ritenere più probabile a causa delle differenze anatomiche e delle minori dimensioni. L’inserimento di cateteri nelle ferite
può essere utile in particolare nei casi di rimozione di fibrosarcomi (Davis et al 2007). Nelle tecniche di analgesia
regionale è prudente non superare i 4 mg/kg di lidocaina ed
i 2 mg/kg di bupivacaina.
I gatti possono essere più sensibili agli effetti tossici degli
anestetici locali. Gli studi sull’infusione di lidocaina hanno
dimostrato più effetti collaterali nei gatti che nei cani sottoposti alle stesse infusioni. Sono stati osservati depressione
cardiovascolare ed aumento delle concentrazioni di lattati.
L’autrice pertanto non utilizza la lidocaina CRI in gatti svegli o anestetizzati fino a che non saranno stati condotti ulteriori studi. Si può utilizzare la crema EMLA per facilitare
l’inserimento di un catetere senza alcuna significativa captazione delle componenti.
Gli agonisti degli α-2 adrenocettori sono un’utile aggiunta alla premedicazione nei gatti sani. La medetomidina a
basse dosi (5-15 µg/kg) accentua la sedazione degli oppiacei
(± ACP) ed offre un’analgesia addizionale. Si può impiegare anche l’infusione a velocità costante, clinicamente i gatti
richiedono dosi leggermente più elevate di quelle dei cani
(3-6 µg/kg/ora di medetomidina contro 1-2 µg/kg/ora nel
vate in avanti. È importante rendersi conto che il comportamento algico non è sempre palese e che un gatto tranquillamente seduto in fondo alla gabbia può provare dolore, anche
se non lo dimostra fino a che non viene toccato. Il Colorado
State University Veterinary Teaching Hospital offre sul proprio sito web un’utile (anche se non validata) Scala del
Dolore Acuto nei Felini (Feline Acute Pain Scale). Si possono usare anche altri metodi, basati su valori numerici, analogie visive e semplici parametri descrittivi. È importante che,
qualunque sia, il sistema adottato risulti semplice e di facile
attuazione, affidabile e sensibile. Attualmente, è in corso un
gran numero di lavori sulla valutazione del dolore nei felini,
che dovrebbero migliorare la nostra capacità di riconoscerlo.
Nel frattempo, l’applicazione sensibile ed accurata delle
informazioni attualmente disponibili migliorerà la nostra
capacità di valutare le percezioni algiche del gatto.
Il metabolismo dei farmaci nel gatto è marcatamente
diverso da quello del cane. Nei felini, la capacità di glucuronidazione epatica è bassa. Ciò può esitare in una tossicità se
il dosaggio e la frequenza di somministrazione dei farmaci
non vengono modificati; è anche possibile che, nei casi in
cui la glucuronidazione è necessaria per formare una molecola attiva, il farmaco sia inefficace. Robertson (2008) ha
pubblicato un’eccellente rassegna della farmacologia degli
analgesici. Nella presente relazione ne vengono evidenziati
solo i principali punti salienti.
Per molti anni, gli oppiacei sono stati scarsamente utilizzati nel gatto, a causa della preoccupazione relativa alla
“morfinomania”, un concetto errato derivante da studi nei
quali erano state utilizzate dosi eccessive. Gli oppiacei possono e devono essere usati nei felini. Si possono osservare
delle modificazioni comportamentali e di solito si rileva
midriasi – che può far sì che urtino contro degli oggetti – per
cui ci si deve avvicinare loro lentamente e tenendo la luce
bassa; gli animali fanno le fusa, si rotolano su se stessi e si
torcono. Il vomito di solito si osserva solo con la morfina. In
genere, gli oppiacei sono stati implicati nella comparsa di
ipertermia quando vengono utilizzati a dosi superiori a quelle cliniche. È stata dimostrata una marcata variazione individuale alla risposta analgesica agli oppiacei (Lascelles and
Robertson 2004). Per determinare gli effetti degli specifici
farmaci e le attività dose-correlate e per stabilire la sequenza dei recettori degli oppiacei felini saranno necessari ulteriori lavori. È improbabile che un qualsiasi analgesico ad un
dosaggio specifico riesca a determinare l’analgesia in tutti i
gatti! Ha suscitato molto interesse l’applicazione dei farmaci per via transdermica al fine di ridurre le manipolazioni,
soprattutto nel caso di pazienti difficili. Tuttavia, benché siano disponibili cerotti a base di buprenorfina o fentanyl,
occorre tenere presente che la captazione del farmaco varia
da un soggetto all’altro e può anche non riuscire a raggiungere concentrazioni terapeutiche in un numero significativo
di casi – per cui è essenziale continuare a valutare il dolore.
La buprenorfina è risultata efficace in seguito alla somministrazione per via transmucosa. Questo metodo è anche ben
tollerato. La morfina può essere usata nel gatto, ma la sua
efficacia può essere ridotta in confronto a quella riscontrata
nel cane perché i felini non sono in grado di produrre il
metabolita attivo morfina-6-glucuronide. Anche il metadone
è un analgesico efficace, ma può causare eccitazione – le
119
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
cane). La dexmedetomidina può essere usata in maniera
simile (metà dose). È anche possibile ricorrere alla somministrazione buccale ed orale nei gatti difficili.
La ketamina viene comunemente utilizzata per infusione
a velocità costante alla dose di 2-10 µg/kg/minuto sia in sede
intra- che postoperatoria. Nonostante ciò, praticamente non
ci sono dati a sostegno del suo impiego. Questo farmaco viene escreto per via renale e si può accumulare nei gatti con
nefropatia. Nel gatto sono stati usati altri antagonisti dei
recettori NMDA (Amantadina 3-5 mg/kg PO), ma i dati farmacocinetici a loro sostegno sono limitati. Il dolore neuropatico è stato trattato con gabapentin (3-10 mg/kg PO ogni
8-24 ore), anche in questo caso con un dosaggio empirico!
È chiaro che “il gatto non è un piccolo cane”. Grazie alla
buona conoscenza del metabolismo e del comportamento dei
felini, oggi è possibile stimare e trattare la sofferenza anche
in questa specie animale. Tuttavia, per ottimizzare la valutazione del dolore e sviluppare farmaci analgesici che non
dipendano dalla via della glucuronidazione saranno necessarie ulteriori ricerche specifiche nel gatto.
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120
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Acute pain in the cat: cats are not small dogs
Louise Clark
DVM, BVMS, Dipl ECVAA, MRCVS, London, UK
The feline patient has for a long time been the poor relation in terms of analgesic administration. Numerous studies
(Lascelles et al 1995) have demonstrated that dogs are more
likely than cats to receive analgesia when undergoing the
same surgical procedure. Fortunately, analgesic use is
increasing – a South African study demonstrated that of cats
undergoing surgical procedures in 2000, only 13% received
peri-operative analgesia, by 2005 this had increased to 56%
(Joubert 2006). It remains clear that there is much room for
improvement. In order to provide effective analgesia to
felines we must first address a number of problems which
include limited validated pain assessment tools, the cats`
unique metabolism and the lack of licensed analgesic products for felines.
It is important to realise that even though cats are unable
to communicate verbally as humans do, they are still able to
experience pain, and that there seems to be inter-individual
variation in the response to analgesic intervention. The fact
that humans are responsible for both pain assessment and
analgesic administration means that if either is ineffective,
the animal will continue to suffer pain. Thus, it is imperative
that we assess and treat pain effectively.
There is no well tested pain scoring system for cats.
Objective pain assessment by thermal threshold testing is
widely and effectively used in the research setting when testing analgesics but is a difficult tool to use clinically. Platform gait assessments have also been used when assessing
analgesic effectiveness in lame cats. Physiological measurements such as heart rate and respiratory rate are of limited
value, as discussed previously because they are simply
markers of the activation of the sympatho-adrenal system
and can also be affected by stress, drugs or physiological
derangements such as hypovolaemia. Changes in plasma or
cerebro-spinal fluid levels of biochemical substances have
been measured experimentally in attempts to find useful
indices of pain but have not been shown to be specific.
It is clear that the above systems are not useful for practical pain assessment. The result is that subjective, potentially
inaccurate behaviourally based systems are currently most
commonly used in the clinical assessment of pain. It has
been shown in dogs, and is widely accepted in cats, that systems that involve interaction with the individual including
palpation of any surgical wound are the most reliable. Many
factors make behavioural assessment very difficult in a hospital environment. Many cats are overtly stressed (fearful
and anxious) by being confined in close proximity to others
and being unable to “hide”, they may also object to the pres-
ence of dressings or bandages even if these are not painful.
Steps to reduce overall stress levels by using pheromone
sprays; keeping cats isolated from dogs; providing toys;
their preferred litter; soothing music (avoiding loud noises)
and somewhere to hide may help distinguish pain from
fear/anxiety. There is advice on “cat friendly” practice at the
FAB website.
The completion of a questionnaire by owners when their
cats are admitted to hospital allows nursing staff to focus on
what is normal/ preferred for that individual. Interaction
with and observation of the cat before surgery is useful, if a
cat exhibits normal grooming, climbing or playful behaviour
when hospitalised before surgery, loss of this behaviour after
surgery is strongly suggestive of the presence of pain. Where
pain is suspected, response to a test dose of analgesic is often
useful. Problems may occur when there is difficulty differentiating dysphoria from pain further opioid administration
may exacerbate dysphoria signs. Nursing staff are often
more aware of what is normal for each individual so are
“better” at pain assessment than veterinary surgeons.
Waran et al (2007) have demonstrated that “half tucked
up” and crouching postures are correlated with abdominal
pain. Other signs that have been suggested include liking or
biting wounds, aggression on being handled, low head carriage and hunched avoidance posturing. It is important to
realise that pain behaviour is not always overt and a cat sitting quietly at the back of the cage may be painful but might
not demonstrate this until handled. Colorado State University Veterinary Teaching Hospital provides a useful if unvalidated Feline Acute Pain Scale on its website. Other scales
including numerical rates scales, visual analogue scales and
simple descriptive scales can also be used. It is important
that whatever system is adopted, it must be simple and easy
to perform, reliable and sensitive. There is a large amount of
ongoing work on feline pain assessment which should
improve our ability to recognise pain. In the interim, sensible thoughtful application of the information currently available will enhance our ability to assess feline pain.
Drug metabolism in the feline is markedly different from
that in the canine. Cats have low glucuronidation capacity in
the liver. This may result in toxicity if drug dose and frequency are not altered, or where glucuronidation is required to create an active molecule, the drug may be ineffective. Robertson
(2008) provides an excellent review of analgesic pharmacology. This abstract highlights only the most salient points.
Opioids were for many years little used in cats due to worried about” morphine mania”, this is a misconception arising
121
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
from studies where excessive doses were used. Opioids can
and should be used in the cat. Behavioural changes can be
seen and usually include mydriasis – which can cause them
to bump into things – approach them slowly and keep the
lights dimmed; purring, rolling and kneading. Vomiting is
usually only seen with morphine. Opioids have been implicated in hyperthermia usually when used at greater than clinical doses. Marked individual variation in analgesic response
to opioids has been demonstrated (Lascelles and Robertson
2004). More work is required to determine specific drug and
dose related effects and to sequence feline opioid receptors.
One analgesic at a specific dose is unlikely to provide analgesia in all cats! There has been much interest in transdermal
drug delivery to reduce handling especially of difficult individuals. However, whilst buprenorphine and fentanyl patches are available, drug uptake varies between individuals and
may not reach therapeutic concentrations in a significant
number – therefore continuing pain assessment is essential.
Buprenoprhine has been found to be effective when delivered transmucosally. This method is also well tolerated.
Morphine can be used in cats but efficacy may be reduced
compared to dogs because cats are unable to produce the
active metabolite morphine-6-glucuronide. Methadone is
also an effective analgesic but may cause excitement – the
pharmacokinetics are not well established. In the authors
practice, multiple doses lead to excitement in a number of
cats. This usually resolves when buprenorphine is substituted! Butorphanol has been shown to be fairly short acting and
of limited efficacy for somatic and visceral pain. Market
authorisation for opioid use in cats varies from country to
country.
Tramadol is more slowly eliminated in cats compared to
dogs, suggesting that the doses should be lower and the dosing interval longer than in dogs.
Non-steroidal anti- inflammatory drugs have recently
been extensively reviewed (Lascelles 2007) NSAIDS generally have a lower safety margin than opioids and cats seem
to be particularly susceptible to their adverse renal effects. In
the UK, carprofen has a single dose pre-operative licence,
melociam is also licensed for pre-operative use, ketoprofen
has a post –op only licence. Most studies suggest little difference in the efficacy of the available NSAIDS in the treatment of acute surgical pain (Slingsby and Waterman-Pearson 2002). Meloxicam also has a licence for chronic use at
0.05mg/kg/day, although lower doses or every other day
dosing is often effective, the lower doses may help reduce
the incidence of side effects. Compliance is also good with
most cats accepting meloxicam orally or in food.
Local anaesthetic drugs are underutilised in the management of peri-operative pain in the cat. Most local and regional techniques that are applicable to dogs can be employed in
the cat. Epidural administration is slightly more challenging
than in the dog - entering the subarachnoid space is more
likely in the cat due to their differing anatomy and small
size. Wound catheters may be useful particularly in
fibroscarcoma removal cases (Davis et al 2007) It is prudent
not to exceed 4mg/kg lidociane and 2mg/kg bupivacaine in
regional analgesia techniques.
Cats may be more sensitive to the toxic effects of local
anaesthetics. Lidocaine infusion studies have demonstrated
more side effects in the cat than in dogs receiving similar
infusions. Cardiovascular depression and increased lactate
concentrations have been observed. The author would therefore not use lidocaine CRI in conscious or anaesthetised cats
until further studies have been undertaken. EMLA cream
may be used to aid catheter placement without significant
systemic uptake of the components.
〈-2 adrenoceptor agonists are a useful addition to premedication in healthy cats. Medetomidine at low doses (515mcg/kg) enhances opioid (± ACP) sedation and provides
additional analgesia. Constant rate infusions can also be
used, clinically cats require slightly higher doses than dogs
(3-6 mcg/kg/hour medetomidine cf 1-2mcg/kg/hour in the
dog) Dexmedetomidine can be used in a similar manner
(half the dose). Buccal and oral administration to fractious
cats is also possible.
Ketamine is popular as a constant rate infusion at 210mcg/kg/minute during surgery and post operatively.
Despite this, there is virtually no data to support its use. Ketamine is renally excreted and may accumulate in cats with
renal disease. Other NMDA receptor antagonists have been
used in the cat (Amanatadine 3-5mg/kg PO), limited pharmacokinetic data to support this. Neuropathic pain has been
treated with gabapentin (3-10 mg/kg PO q8-24hr), again the
dose is empirical!
It is clear that “cats are not small dogs”. A good understanding of feline behaviour and metabolism mean that pain
assessment and management are now possible. However further feline specific research is required to optimise pain
assessment and develop analgesic drugs that do not depend
on the glucuronidation pathway.
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122
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
La gestione del dolore nel paziente
non ospedalizzato
Louise Clark
DVM, BVMS, Dipl ECVAA, MRCVS, Londra, UK
Sotto questa voce rientra un enorme spettro di interventi
terapeutici, dal paziente con un’osteoartrite cronica lievemente dolorosa con una speranza di vita normale che richiederà un’analgesia di parecchi anni a quello con una neoplasia in stadio terminale, nel quale l’analgesia potrà essere
necessaria solo per qualche giorno o settimana.
In tutti i casi in cui il dolore viene trattato al di fuori dell’ambiente ospedaliero, spetta al proprietario, o comunque a
chi si prende cura dell’animale, valutare la sofferenza da
questo percepita. Molti proprietari sono osservatori eccezionali e, dato che conoscono bene i loro compagni, riescono ad
individuare eventuali cambiamenti sin dagli stadi iniziali,
mentre altri hanno bisogno di una certa guida. La compilazione dei diari del dolore da parte proprietari è uno strumento utile per monitorare i progressi degli animali. La valutazione su base regolare, eventualmente anche per telefono,
può servire a rifinire la terapia. Al primo posto si devono
sempre porre le considerazioni etiche e di benessere animale ed il proprietario va guidato per ottenere questo risultato.
La gamma dei farmaci e delle tecniche analgesiche all’interno dell’ambito ospedaliero varia notevolmente e permette
di affrontare il problema ragionevolmente bene, ma abbiamo
bisogno di sviluppare metodi analgesici che possano essere
somministrati come aggiunta alle cure palliative nell’ambiente domestico dell’animale.
Per alleviare il dolore cronico è necessario soddisfare
determinati prerequisiti
• la tecnica di somministrazione dei farmaci non deve
richiedere nozioni di tipo veterinario.
• Deve poter essere applicata facilmente nell’ambiente domiciliare dell’animale da coloro che se ne prendono cura
• Non deve essere pericolosa per chi si occupa del paziente,
per la società o per l’animale.
• Se richiede abilità veterinarie, l’effetto deve durare giorni
e non ore, in modo da richiedere solo delle visite periodiche alla clinica.
• Deve risultare accettabile per chi si occupa dell’animale,
per il veterinario e per l’animale.
•
•
•
•
interrompere quello intraoperatorio, e non sono davvero
applicabili al controllo del dolore cronico. Tuttavia, nell’uomo si utilizza occasionalmente l’impianto di dispositivi che consentono un’analgesia controllata del paziente.
La somministrazione epidurale cronica si può usare in
ospedale per alleviare il dolore per parecchi giorni, ma
non è pratica per l’impiego domiciliare.
Somministrazione rettale.
Rilascio prolungato.
Somministrazione transdermica di fentanyl. Il vantaggio di
questi cerotti è che possono venire applicati in clinica ad
intervalli di alcuni giorni, richiedono una scarsa manutenzione da parte del proprietario ed assicurano l’analgesia
attraverso un oppiaceo. Tuttavia, esiste il rischio che il
cerotto venga ingerito accidentalmente dall’animale stesso
o dai figli piccoli del proprietario. Come per tutti gli oppiacei puri, esiste poi anche il potenziale rischio di abuso.
OSTEOARTRITE (OA)
L’argomento è stato oggetto di una rassegna estremamente valida pubblicata in altra sede (Johnston 2008, Papich
2008, Lascelles et al 2007) e nella presente relazione verranno evidenziati solo i punti salienti. Il trattamento dell’OA
è generalmente volto a determinare un’azione palliativa sui
segni clinici piuttosto che alla terapia della patologia sottostante. Recentemente, è stato ipotizzato che l’OA possa riconoscere una componente di dolore neuropatico.
La gestione del dolore è generalmente incentrata su agenti farmacologici, ma non si devono sottovalutare i benefici
effetti della riduzione del peso e della modificazione dello
stile di vita e dei livelli di esercizio (regolare attività fisica a
basso impatto).
Gli interventi fisioterapici che possono risultare utili sono
rappresentati da:
• Crioterapia
• Calore umido
• Esercizi di escursione articolare passiva
• Esercizi di stiramento ed equilibrio
• Massoterapia
• Impiego terapeutico degli ultrasuoni
• Laser
• TENS
In tutti i casi in cui si preveda il ricorso ad una qualsiasi di
queste modalità terapeutiche, è importante instaurare una
stretta relazione con gli specialisti della riabilitazione.
FARMACI
Mezzi di somministrazione:
• Per via orale o transmucosa.
• Per via sottocutanea.
• Le iniezioni intramuscolari ed endovenose in genere sono
riservate al rapido controllo del dolore acuto, ad es., per
123
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Anche l’agopuntura può svolgere un ruolo utile nella
gestione del dolore.
Il trattamento farmacologico dell’OA nel cane e nel gatto è generalmente incentrato sull’impiego dei FANS. La
loro farmacologia è stata oggetto di una rassegna approfondita in un’altra sede (Papich 2008, Lascelles et al 2007). Fra
quelli comunemente impiegati per la gestione dell’OA nel
cane rientrano il carprofen, il meloxicam, il tepoxalin ed il
firocoxib.
In molti animali i FANS non sono tollerati a causa dei loro
effetti collaterali gastroenterici, non possono essere prescritti a causa di una patologia concomitante o non determinano
una sufficiente attenuazione del dolore. È logico pensare che
nei casi refrattari sia probabilmente utile un trattamento
analgesico multimodale. Le opzioni da prendere in considerazione sono rappresentate da: (si noti che la maggior parte
di questi farmaci non è registrata in queste specie animali,
almeno nel Regno Unito)
• Tramadol, un debole agonista OP3 che è stato utilizzato
insieme al ketoprofen (nel cane, 2-5 mg/kg BID-QID), ma
può causare una certa sedazione ed altri effetti collaterali
comportamentali, specialmente quando il dolore non è
intenso. Può essere prudente evitare la somministrazione
del tramadol con qualsiasi inibitore della ricaptazione della serotonina (ad es., antidepressivi triciclici), a causa del
rischio della sindrome serotoninica che è stata osservata
nell’uomo.
• Gabapentin (cane/gatto 5-10 mg/kg BID aumentando fino
a 20 mg/kg BID; in alcuni gatti la dose richiesta è minore). Questo farmaco ha un’efficacia dimostrata nel dolore
neuropatico dell’uomo ed è stato raccomandato per l’OA
del cane (Karas 2009), anche se mancano dati clinici. Le
dosi nelle specie domestiche sono empiriche ed occasionalmente si può avere una sedazione.
• Per il trattamento dell’OA è stata raccomandata anche l’amantadina e gli antagonisti dei recettori NMDA (Karas
2009, Johnston 2008) ed uno studio (Lascelles et al. 2008)
ha dimostrato i benefici effetti di questa somministrazione (3-5 mg/kg SID) insieme al meloxicam.
• I glicosaminoglicani polisolforati ed il pentosanpolifosfato sono classificati come farmaci modificatori di malattia
nell’osteoartrite ed esistono alcuni dati clinici che depongono a favore del loro uso.
Anche gli integratori nutrizionali possono essere utili, ma
le prove cliniche a sostegno del loro impiego sono limitate
• Cozze verdi
• P45FP
• Diete a base di acidi grassi omega-3
La riduzione della massa delle cellule neoplastiche è generalmente uno dei metodi principali per determinare un’analgesia immediata. Questo risultato si può ottenere mediante
chirurgia, chemioterapia e radioterapia, tenendo presente
che un’imponente morte cellulare in situ può esitare una
risposta infiammatoria sistemica generalizzata che coinvolge
l’intero organismo e può progredire fino all’insufficienza di
più organi ed alla morte (sindrome di lisi tumorale).
Per migliorare la qualità della vita di questi pazienti è
essenziale effettuare una sufficiente analgesia a lungo termine. Le linee guida della WHO (OMS) raccomandano di
adottare un approccio basato su farmaci non oppiacei per il
dolore lieve o moderato (con un adiuvante analgesico se
necessario), per poi passare ad una combinazione di oppiacei e non oppiacei per un dolore più intenso. I diari del dolore e la valutazione delle percezioni algiche sono estremamente importanti perché il dolore neoplastico è associato
alla decisione di porre fine alla vita del soggetto. Può sembrare segno di scarsa sensibilità consigliare a qualcuno di
acconsentire all’eutanasia di un suo animale come opzione
migliore quando un parente sta soffrendo per la stessa condizione. Ma come veterinari dobbiamo anche ricordare che
la nostra responsabilità è nei confronti dell’animale e non
del proprietario. Si tratta di una distinzione importante.
Tutte le seguenti classi di farmaci sono applicabili al trattamento dei pazienti neoplastici.
• Oppiacei come la codeina, la buprenorfina per via transmucosa (nel gatto; nel cane i dati sono limitati) ed il fentanyl transdermico.
• Nel Regno Unito, risultano talvolta ben tollerate le combinazioni a base di codeina/paracetamolo per uso orale
(nel cane). La morfina a rilascio protratto per via orale è
utile, ma spesso associata a sedazione.
• Farmaci antinfiammatori non steroidei.
• Paracetamolo (nel cane) (in aggiunta ai FANS)
• Corticosteroidi
• Tramadol
• Amantadina (?dolore neuropatico)
• Antidepressivi triciclici (dolore neuropatico)
• Tecniche di anestesia locale? Cerotti dermici alla lidocaina
• Gabapentin (dolore neuropatico)
• I farmaci contenenti bifosfonato sono in grado di prevenire efficacemente la perdita di osso che si verifica dalle
lesioni metastatiche, ridurre il rischio di fratture e diminuire il dolore inibendo il riassorbimento osseo. Si ritiene
che i bifosfonati inibiscano gli osteoclasti e ne inducano
l’apoptosi (morte cellulare), riducendo efficacemente
l’impatto dannoso degli elementi neoplastici sulla densità
ossea.
Nei casi in cui un FANS non è tollerato, esistono delle
controindicazioni al suo impiego o non offre un’adeguata
analgesia, spesso risulta ben tollerato il paracetamolo (cane),
anche se può causare epatotossicità. Il gabapentin può essere un utile adiuvante nei casi in cui è presente un dolore neuropatico, così come i triciclici. Il tramadol può offrire una
buona analgesia, ma con una minore sedazione degli oppiacei. Quando questi ultimi vengono inclusi in un protocollo
analgesico, si possono osservare forme significative di sedazione e costipazione che possono compromettere marcatamente la qualità della vita dell’animale. Di conseguenza,
DOLORE NEOPLASTICO
Il dolore neoplastico può essere estremamente debilitante
e negli stadi finali della vita dell’animale la prevenzione della sofferenza è quella più frequentemente citata fra le preoccupazioni del proprietario. Gaynor (2008) ha pubblicato
un’eccellente rassegna del trattamento del dolore neoplastico nel cane e nel gatto. Il dolore dovuto ai tumori ossei può
essere particolarmente difficile da controllare a causa dello
stiramento periostale e dell’anomala attività osteoclastica.
124
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
• Il coinvolgimento del proprietario è essenziale, così come
la regolare comunicazione, per contribuire a rifinire la
terapia.
questi farmaci vanno riservati soltanto ai casi in cui le altre
opzioni farmacologiche e terapeutiche hanno fallito. Tutti gli
analgesici hanno degli effetti collaterali, ma le tossicità a
lungo termine possono essere di scarsa importanza quando è
probabile che la somministrazione durerà solo per qualche
giorno/settimana.
Bibliografia
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(NSAIDs) in small animals. Vet Clin North Am Small Anim Pract.
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TECNICHE FISICHE
•
•
•
•
•
Neurectomia sensoriale.
Chirurgia terapeutica.
Analgesia indotta da stimolazione
Agopuntura
Radioterapia palliativa.
CONCLUSIONI
• Se un animale non risponde ad un protocollo analgesico,
provare a cambiarlo.
• Animali diversi rispondono in modo diverso.
• Non tutti i dolori sono uguali.
125
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Pain management at home
Louise Clark
DVM, BVMS, Dipl ECVAA, MRCVS, London, UK
• Transdermal administration of fentanyl. The advantage of
these patches is that they can be applied in the veterinary
surgery every few days, require little owner maintenance
and provide analgesia by an opioid. However there is a
risk of the patch being eaten by accident either by the animal or owners’ children. There is also the abuse potential
as with all pure opioids.
This covers a huge spectrum of disease management,
from the chronically, mildly painful osteoarthritic patient
with a normal life expectancy that requires analgesia over
several years to the terminally ill cancer patient who may
need analgesia for only days to weeks.
Whenever pain is being managed out of the hospital environment, it is the owner or carer that becomes responsible
for assessing the animal`s pain. Many owners are exceptionally observant, and as they know their animals well are able
to detect changes at an early stage, others will require some
guidance. Pain diaries that owners complete are useful tools
to help monitor their pet`s progress. Assessment on a regular basis including by telephone is useful to refine therapy.
Ethical and welfare considerations must always come first
and the owners must be counselled to this effect. The range
of analgesic techniques and drugs within the hospital setting
very wide and reasonably well addressed however as an
adjunct to palliative care we need to develop analgesic methods which can be given within the animal’s home setting.
There are certain pre-requisites for chronic pain relief
• the technique for drug administration should not require
veterinary knowledge.
• It should be easily applied in the animal`s home surroundings by the carer.
• It should not be dangerous for the carer, society or the
animal.
• If requiring veterinary skills, the effects should last days
and not hours, thus only needing periodic attendance at
the veterinary surgery.
• It should be acceptable to carer, veterinary surgeon and
the animal.
OSTEOARTHRITIS (OA)
This subject is extremely well reviewed elsewhere (Johnston
2008, Papich 2008, Lascelles et al 2007) and this abstract will
serve to highlight salient points only. The treatment of OA is
generally aimed at the palliation of clinical signs rather than
treating the underlying pathology. It has recently been suggested that OA may have a neuropathic pain component. Pain
management is generally centred around pharmacological
agents but the benefits of weight reduction, lifestyle and exercise modification (regular low impact exercise) and physical
rehabilitation must not be under-estimated.
Physical therapy that may be beneficial includes:
• Cryotherpay
• Moist heat
• Passive range of motion exercises
• Stretching and balance exercises
• Massage therapy
• Therapeutic ultrasound
• Laser
• TENS
Close liason with rehabiliation specialists is important
should any of these treatment modalities be contemplated:.
Acupuncture may also play a useful part in pain management. Pharmacological management in OA in dogs and cats
is generally centred around NSAIDS. Their pharmacology
has been extensively reviewed elsewhere (Papich 2008, Lascelles et al 2007). NSAIDS in common use for OA management in the dog include carprofen, meloxicam, tepoxalin and
firocoxib. Many animals either do not tolerate NSAIDS due
to GI side effects, can not be prescirbed them due to concommitant pathology or do not gain sufficient pain relief
from them. It is logical that multi-modal analgesic management is likely to be of benefit in refractory cases. Options to
consider include: (Note that most of these drugs are not
licensed in these species at least in the UK)
• Tramadol, a weak OP3 agonist that has been used alongside ketoprofen (dogs 2-5mg/kg bid-QID) but may cause
some sedation and other behavoural side effects especially
where pain is not severe. It may be prudent to avoid giving
DRUGS
Means of administration:
• Oral or transmucosal dosing
• Subcutaneous administration
• Intramuscular and intravenous injections are generally
reserved for rapid control of acute pain e.g intra-operative
pain breakthrough and are not really applicable to control
of chronic pain. However in people chronically implanted
devices are occasionally used to allow patient controlled
analgesia.
• Chronic epidural administration may be used in a hospital
for pain relief for several days but is impractical in a home
setting.
• Rectal administration.
• Sustained release.
126
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
•
•
•
•
Tricyclic antidepressants (neuropathic pain)
Local anaesthetic techniques? Lidocaine dermal patches
Gabapentin (neuropathic pain)
Bisphosphonate drugs can effectively prevent loss of bone
that occurs from metastatic lesions, reduce the risk of
fractures, and decrease pain by inhibiting bone resorption,
It is thought that bisphosphonates inhibit osteoclasts and
induce apoptosis (cell death) in these cells,effectively
reducing the detrimental impact that cancer cells have on
bone density.
Where an NSAID is not tolerated, there are contra-indications to its use or it does not provide adequate analgesia,
paracetamol is often well tolerated (dogs) although it can
cause hepatotoxicty. Gabapentin may be a useful adjuvant
where neuropathic pain is present, as may tricyclics. Tramamdol can provide good analgesia but with less sedation than
opioids. Where opioids are included in an analgesic regimen,
significant sedation and constipation may occur which may
markedly compromise the animals quality of life. Therefore
they should be reserved for cases where other pharmacological and therapeutic options have failed. All analgesics have
side effects but longer term toxicites may not be relevant when
administration is likely to be for only days/weeks.
tramadol with any serotonin reuptake inhibitors ( eg tricyclic antidepressants) because of the risk of serotonin
syndrome which been seen in people.
• Gabapentin (dog/cat 5-10mg/kg bid increasing up to
20mg/kg bid, some cats require less). This drug is demonstrably effective in neuropathic pain in people and has
been recommended for OA in the dog (Karas 2009)
although clinical data is lacking. The doses in domestic
species are empirical and occasionally sedation can occur.
• Amantadine and NMDA receptor antagonist has also be
recommended in OA (Karas 2009, Johnston 2008 ) and
one study (Lascelles et al 2008) has shown benefit when
administered (3-5mg/kg SID) with meloxicam.
• Polysulphated glyocaminoglycan and pentosan polysulphate are classified as disease modifying drugs in
osteoarthritis and have some clinical evidence to support
their use.
Nutritional supplments may also be of benefit, but the
clinical evidence to support their use is limited
• Green lipped mussel
• P45FP
• Omega 3 based diets
CANCER PAIN
PHYSICAL TECHNIQUES
Cancer pain can be extremely debilitating, and in the final
stages of the animal’s life - preventing suffering is the most
commonly cited concern of owner. Gaynor (2008) provides an
excellent review of the management of cancer pain in dogs
and cats. Bone cancer pain can be particularly difficult to control because of periosteal stretch and abnormal osteoclast
activity. Reduction of cancer cell mass is generally a major
means of providing immediate analgesia. This can be
achieved by surgery, chemotherapy and radiation with the
caveat that in situ massive cell death can result in a whole
body generalised systemic inflammatory response that may
progress to multiple organ failure and death (tumour lysis syndrome). Sufficient longer-term analgesia is essential to
enhance the quality of life of these patients. The WHO guidelines recommend an approach based on non-opioids for mild
to moderate pain (with adjuvant analgesics if necessary),
increasing to a combination of opioids and non-opioids for
more severe pain. Pain diaries and assessment are extremely
important as cancer pain is associated with end of life decision
making. It may seem insensitive to advise someone to allow
euthanasia for their pet as the kindest option when a relative is
suffering from the same condition. But as veterinary surgeons
we should also remember that our responsibility is to the animal and not the owner. This is an important distinction.
The following classes of drugs may all be applicable for
use in the cancer patient.
• Opioids including codeine, transmucosal buprenorphine
(cats, limited data in dogs) and transdermal fentanyl.
In the UK oral codeine/paracetamol combinations (dogs)
are sometimes well tolerated. Oral sustained release morphine is useful but often associated with sedation.
• Non-steroidal anti-inflammatory drugs.
• Paracetamol (dogs) (in addition to NSAIDS)
• Corticosteroid
• Tramadol
• Amantadine (?neuropathic pain)
•
•
•
•
•
Sensory neurectomy.
Therapeutic surgery.
Stimulation induced analgesia
Acupuncture
Palliative radiation therapy.
CONCLUSIONS
• If an animal doesn’t respond to one analgesic regime, try
changing.
• Different animals will respond differently.
• Not all pain is the same.
• Owner involvement is essential as is regular communication to help refine therapy.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Epatopatie primitive e secondarie: un possibile
algoritmo diagnostico e alcune strategie terapeutiche
Tiziana Cocca
Med Vet, Napoli
La diagnosi delle patologie epatiche è spesso complessa
per diverse ragioni:
1. Il ruolo centrale che il fegato svolge nel metabolismo, sia
nei processi di sintesi (proteine, carboidrati, lipidi, vitamine, ecc.), che di elaborazione e degradazione (nutrienti,
farmaci, tossine)
2. L’ampia capacità di riserva funzionale dell’organo, con
comparsa di sintomi specifici solo in una fase molto avanzata dell’epatopatia (ittero, ipoglicemia, encefalopatia
epatica, ascite)
3. Sintomi clinici inizialmente vaghi ed aspecifici (disoressia, letargia, PU/PD, V/D ecc)
4. L’elevata frequenza con cui si manifestano epatopatie
secondarie, cioè danni epatici secondari a patologie di
natura diversa, che devono essere individuate e gestite.
Già durante la visita clinica è importante considerare una
possibile epatopatia in diversi casi: predisposizioni di razza
o sesso in soggetti che mostrano sindromi cliniche associabili a patologie epatobiliari: sintomi neurologici possono
correlarsi a shunt in golden retriever, Labrador, maltese,
schnauzer, yorkshire terrier, bassotto; ulcere intestinali; alterazione congenita del metabolismo del rame nel bedlington
terrier con conseguente accumulo del metallo e flogosi
secondaria, ecc. Fondamentali sono anche i riscontri anamnestici: ingestione di sostanze o farmaci notoriamente epatotossici, intolleranza all’anestesia o ai farmaci in soggetti giovani appartenenti a razze predisposte a shunt.
Più spesso però si arriva a prendere in considerazione la
possibile esistenza di una epatopatia quando, valutando il
profilo biochimico di un soggetto che mostra sintomi vaghi,
si notano alcune alterazioni riferibili.
L’elevazione degli enzimi markers di epatopatia (AST,
ALT, gGT, PA) è un dato molto sensibile ma poco specifico
ai fini della diagnosi di una epatopatia 1; questi enzimi infatti si elevano nel siero in numerose condizioni non direttamente correlabili a patologie epatocellulari:
Insufficienza cardiaca congestizia
FARMACI
Anticonvulsivanti
Anestetici
Corticosteroidi
Chemioterapici
CONDIZIONI VARIE
Febbre
Enteriti
Neoplasie
Infezioni
In assenza di evidenze cliniche o analitiche che consentano di diagnosticare l’esistenza di una patologia extraepatica,
è necessario ricorrere a test che consentano di valutare la
funzionalità del fegato e quindi l’esistenza di una patologia
epatica primaria; allo stato attuale valore discriminante si
attribuisce al test della bilirubinemia e a quello degli acidi
biliari, serici o urinari. Molteplici sono però i limiti interpretativi e diagnostici di tali test, primo fra tutti l’impossibilità
di effettuare una diagnosi etiologica, che si può raggiungere
solo attraverso una valutazione istologica del parenchima
epatico. Anche l’istologia però comporta dei possibili errori
diagnostici2 e principalmente errori di campionamento, che
possono derivare da una tecnica non opportunamente condotta o dalla distribuzione non uniforme delle lesioni anche
in quella con le tecniche di diagnostica per immagini può
essere evidenziata come una epatopatia diffusa o problemi di
interpretazione da parte di patologi diversi.
Ciò sottolinea l’importanza di uno scambio costante di
informazioni tra il clinico ed il patologo. Il giudizio definitivo è una responsabilità del clinico, che deve valutare la diagnosi morfologica formulata dal patologo alla luce del quadro clinico mostrato dal paziente. Di conseguenza, internisti
e patologi devono essere disposti ad accettare i limiti della
biopsia epatica e, se necessario, essere pronti a ripeterla.
Sebbene le epatopatie secondarie guariscano generalmente con la risoluzione del problema primario, non devono
essere sottovalutate, perché possono evolvere in primitive
attraverso vari meccanismi patogenetici, il principale dei
quali è la reazione infiammatoria nell’ambito del parenchima epatico e conseguente fibrosi 3.
Questa evenienza è dovuta in genere alla persistenza del
problema primitivo perché non risolvibile o perché non individuato correttamente, oppure perché come spesso accade si
tratta di pazienti anziani o comunque ammalati, le cui riserve funzionali sono già all’origine meno efficienti.
ENDOCRINOPATIE:
Diabete mellito
Iperadrenocorticismo
Ipertiroidismo
Ipotiroidismo
IPOSSIA/IPOTENSIONE
Chirurgia
Shock
Emorragia
Epilessia
128
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
7. ANTIFIBROTICI La fibrosi è spesso la inevitabile sequela di una patologia epatica cronica. Allo stato attuale, la
colchicina è l’antifibrotico di più comune uso; l’effetto si
svolge attraverso l’attivazione dell’enzima collagenasi.
Notevoli ma rari gli effetti collaterali (vomito, diarrea,
segni neurologici). La reale attività clinica non è dimostrata né in medicina umana né veterinaria.
8. ANTIRAME L’accumulo di rame è piuttosto frequente in
veterinaria sia come problema primario (dalmata,
WHWT, bedlington terrier) sia come evento conseguente
a diminuzione dell’escrezione biliare secondaria a colestasi (dobermann, Labrador). L’unica razza nella quale il
meccanismo (genetico) è ben conosciuto è il bedlington.
Il rame in eccesso viene stoccato nei lisosomi e qui non
può essere raggiunto dai chelanti. Il danno è causato dal
rame libero nel citoplasma, ed è di tipo ossidativo. I chelanti sono indicati solo nelle patologie in cui l’accumulo è
primario mentre quelle in cui è secondario vanno trattate
in base alla etiologia. Tra i farmaci antirame: i chelanti
(penicillamina e trientene), che legano il rame libero
extracellulare favorendone l’escrezione renale e creando
così un gradiente con quello intracellulare; inibitori dell’assorbimento intestinale del rame (zinco), che funzionano soprattutto in prevenzione; antiossidanti, che trattano
però le conseguenze dell’accumulo del metallo.
La terapia delle epatopatie si basa sull’utilizzo di pochi
principi terapeutici, generalmente mutuati dalla medicina
umana e sui quali esistono pochi studi in medicina veterinaria:
1. CORTICOSTEROIDI Indicati solo in un piccolo gruppo
di epatopatie a patogenesi autoimmune. Considerati la
scelta elettiva nel trattamento per l’epatite cronica idiopatica nel cane. Hanno inoltre effetti antinfiammatori, coleretici e antifibrotici. È fondamentale utilizzarli solo se non
sono note cause infettive.
2. AZATIOPRINA Seconda scelta rispetto ai corticosteroidi
a causa degli effetti mielosoppressivi e tossici. Si può
associare ai corticosteroidi se gli effetti collaterali di questi ultimi risultano inaccettabili.
3. A.URSIDESOSSICOLICO (UDCA) Previene il danno
mitocondriale e l’apoptosi e aumenta il flusso di bile con
conseguente rimozione degli acidi biliari tossici dal circolo
ed ha effetto colagogo. Quest’ultimo è dovuto al fatto che
aumentando la concentrazione di acidi biliari nella bile
aumenta anche la secrezione di acqua nei canalicoli biliari
per osmosi, con conseguente aumento del flusso biliare.
Controindicato nelle ostruzioni biliari. Aumenta inoltre la
produzione di glutatione ed ha effetto immunomodulante.
4. ANTIOSSIDANTI Alcune condizioni patologiche provocano, tra gli altri effetti metabolici, stress ossidativi cellulari, attivando alcune catene enzimatiche, i mitocondri
epatocitari e i macrofagi di kuppfer che producono radicali liberi; questi captano elettroni, che ossidano le molecole lipidiche e proteiche4. Le difese dell’organismo sono
la superossidodesmutasi, catalasi e GSH perossidasi, ma
talvolta non sono sufficienti. Tra gli Antiossidanti ricordiamo le vit C ed E. Funzione antiossidante hanno anche
la silimarina, adenosilmetionina, lo zinco e l’UDCA.
5. S-ADENOSILMETIONINA (SAME) Aumenta la disponibilità di cisteina, aminoacido del GSH perossidasi. La teoria
per la somministrazione è quindi quella di favorire il ripristino dei livelli di GSH. Non esistono però studi che dimostrino con chiarezza effetti positivi del trattamento con SAME.
6. SILIMARINA Utilizzata da secoli, è un forte eliminatore
di radicali liberi attraverso l’incremento della SOD cellulare. È fortemente protettiva nei confronti degli agenti
dannosi mediante ossidazione. Esistono studi nel cane
sugli effetti protettivi della silimarina in avvelenamenti da
tossici fungini. È inoltre in grado di stimolare le sintesi
proteiche, di aumentare la disponibilità di glutatione ed ha
un moderato effetto colagogo5.
Bibliografia
1.
2.
3.
4.
5.
Ettinger SP, Feldmann EC. (2008), Clinica Medica Veterinaria. Elsevier Masson, Milano., Vol 2, 1454-1472.
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and Histological Diagnosis of Canine and Feline Liver Diseases.
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Levine J. (1990), Ascertainment of side effects in psychopharmacologic clinical trials. Psychopharmacol Ser.,Vol. 8,130-135.
Feher J, Lengyel G, Blazovics A. (1998), Oxidative stress in the liver
and biliary tract diseases. Scand. J Gastroenterol Suppl. 228:38-46.
Gazàk R, Walterovà D, Kren V. (2007), Silybin and silymarin-new
and emerging applications in medicine. Curr Med Chem.,14(3):315318.
Indrizzo per la corrispondenza:
Tiziana Cocca
Cl. Napolivet, Via Miseno, 13, Napoli
E-mail: [email protected] - Tel. 0812303174
129
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Diagnosi avanzate, biologia molecolare
e malattia minima residua
Stefano Comazzi
Med Vet, PhD, Dipl ECVCP, Milano
Tra le tecniche utili per rifinire la diagnosi delle malattie linfo-mieloproliferative dei piccoli animali vanno
ricordate le tecniche di immunofenotipizzazione e quelle
di biologia molecolare. L’utilizzo di metodiche quali la
citometria a flusso, la PCR sia convenzionale che quantitativa (real-time) è ormai entrata a pieno titolo nel pannello indispensabile per il corretto inquadramento clinico
dei linfomi alla luce anche dei numerosi lavori che definiscono la stretta correlazione tra l’immunofenotipo e i
tempi di sopravvivenza (Ponce et al., 2004).
Per immunofenotipizzazione di una neoplasia si intende la definizione del pattern di antigeni presente sulla
membrana (o più raramente nel citoplasma) delle cellule
tumorali mediante l’utilizzo di anticorpi monoclonali.
Questo risultato può essere perseguito con tecniche di
immunoistochimica, molto adatte alle lesioni solide carcinomatose o sarcomatose, o con metodiche citofluorimetriche o immunocitochimiche, su tessuti liquidi o cellule
in sospensione dopo biopsia ad ago sottile.
L’immunofenotipizzazione citofluorimetrica si presta
molto bene alla determinazione del fenotipo delle cellule
di leucemie o dei tumori rotondocellulari, quali linfomi,
neoplasie istiocitarie o mastocitomi, in quanto da un lato
il sangue è una sospensione “naturale” di cellule, dall’altro le cellule rotonde sono scarsamente coesive e quindi
possono facilmente essere aspirate e sospese in appositi
terreni liquidi di coltura.
Tra i vantaggi di questa tecnica rispetto all’immunoistochimica vi è la facilità di prelievo che non richiede
sedazione né approccio chirurgico e l’estrema rapidità di
esecuzione che permette di ottenere risultati clinicamente
rilevanti già in 24 ore dal prelievo, a fronte di un costo
piuttosto contenuto. Un ulteriore vantaggio risiede nella
possibilità di evidenziare la contemporanea espressione
di due o più antigeni sulla membrana delle cellule neoplastiche e di acquisire rapidamente un numero molto elevato di cellule (almeno 10.000) il che permette di risolvere anche le popolazioni cellulari meno rappresentate nel
campione. In medicina umana l’utilizzo di tecniche citofluorimetriche ha permesso di rifinire l’approccio diagnostico alle patologie linfo-mieloproliferative e di definire
in modo preciso l’insieme delle positività caratteristiche
di ogni singola entità neoplastica.
La determinazione dell’immunofenotipo caratteristico
della popolazione di cellule neoplastiche linfomatose è
utile da un punto di vista prognostico, alla luce della più
favorevole prognosi delle neoplasie B rispetto alle T, e per
la determinazione più corretta della stadiazione, grazie
alla possibilità di tracciare le cellule neoplastiche nel sangue e nel midollo con una precisione molto maggiore
rispetto alla semplice determinazione citologica. Lavori
recenti (Marconato et al., 2008) hanno indicato come i
tempi di sopravvivenza fossero profondamente differenti
tra i linfomi senza e con infiltrazione emato-midollare
(stadio V) e come in quest’ultimi si debba spesso considerare l’utilizzo di farmaci specifici in aggiunta al normale protocollo chemioterapico.
La determinazione dell’immunofenotipo neoplastico
permette talvolta anche di distinguere tra le forme di linfoma con infiltrazione ematomidollare e le vere e proprie
leucemie acute, a partenza principale midollare. In particolare, nel cane, l’espressione dell’antigene CD34 è da
considerarsi riconducibile alle leucemie acute, sia linfoidi che mieloidi, in quanto nella stragrande maggioranza
dei linfomi, anche leucemici, è assente tale positività.
Un aspetto di particolare interesse consiste poi nell’evidenziazione dei cosiddetti fenotipi aberranti cioè
espressioni di antigeni generalmente considerati non
compatibili nell’ambito della normale popolazione non
neoplastica (per esempio la coespressione di antigeni
mieloidi o linfoidi o di antigeni della linea B e T) (Wilkerson et al., 2005; Gelain et al., 2007). L’evidenziazione
di questi antigene qualitativamente o quantitativamente
espressi in modo aberrante permette da un lato di confermare la natura neoplastica della cellula interessata (pseudoclonalità) e dall’altro di tracciare in modo assolutamente preciso il livello di infiltrazione dei differenti organi
(stadiazione) e di valutare la percentuali di cellule rimaste nei tessuti dopo protocollo chemioterapico (malattia
minima residua o MDR).
La valutazione dell’origine neoplastica delle cellule si
effettua dimostrando l’origine delle stesse da un’unica
cellula che si replica in modo afinalistico. Tale aspetto,
definito clonalità, può essere dimostrato con tecniche di
immunofenotipizzazione o di biologia molecolare. In
medicina umana la determinazione citofluorimetrica delle catene leggere degli anticorpi (denominate kappa e
lambda) è spesso utilizzata per definire l’origine clonale
delle neoplasie B in quanto in condizioni non neoplastiche le cellule B sono caratterizzate da un misto di entrambe le forme e l’evidenziazione di una netta prevalenza di
una delle due va considerato come segno di neoplasia.
L’utilizzo di tecniche di biologia molecolare per la
determinazione del riarrangiamento dei recettori per le
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
immunoglobuline o del T cell receptor (TCR) è stato
recentemente introdotto sia in medicina canina che felina
(Burnett et al., 2003). Tali tecniche, condotte generalmente mediante PCR qualitativa, seppur in grado di svelare in modo piuttosto efficace l’origine neoplastica della
maggior parte delle neoplasie, non vanno tuttavia considerate esami conclusivi e vanno sempre utilizzate a completamento del normale iter diagnostico ed immunofenotipico. Infatti, da un lato non tutte le neoplasie mostrano
segni di riarrangiamento evidente e segni di clonalità possono essere riscontrati anche in patologie non neoplastiche, dall’altro queste tecniche non sono spesso efficaci
per determinare il fenotipo delle cellule tumorali che
risulta spesso contraddittorio con quello ottenuto mediante altre tecniche di laboratorio.
L’utilizzo di sistemi di PCR qualitativa può, almeno in
linea teorica, permettere la determinazione del grading e
della malattia minima residua nei differenti tessuti e, se
opportunamente sviluppato, aiutare a prevedere le recidive precoci.
Bibliografia essenziale
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Diagnosis of canine lymphoid neoplasia using clonal rearrangements
of antigen receptor genes. Vet Pathol 40:32.
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Marconato L., Bonfanti U, Stefanello D, Lorenzo MR, Romanelli G,
Comazzi S., Zini E. (2008) Cytosine Arabinoside in addition to
VCAA based protocols for the treatment of canine lymphoma with
bone marrow involvement: does it make the difference? Veterinary
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Ponce F, Magnol JP, Ledieu D, Marchal T, Turinelli V, Chalvet-Monfray, K,
Fournel-Fleury C (2004) Prognostic significance of morphological
subtypes in canine malignant lymphomas during chemotherapy. Vet J
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Vernau W Moore PF (1999) An immunophenotipic study of canine leukemias and preliminary assessment of clonality by PCR Vet Immunol
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Wilkerson MJ, Dolce K, Koopman T, Shuman W, Chun R., Garret L., Barber, L, Avery A. (2005) Lineage differentiation of canine lymphoma/leukemia and aberrant expression of CD molecules. Vet Immunol
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131
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Valutare il dolore cronico: la nuova sfida
Federico Corletto
DVM, CertVA, Dipl ECVAA, MRCVS, Cambridge, UK
La valutazione del dolore cronico e dell’efficacia degli
interventi terapeutici presenta notevole difficoltà in algologia umana ed è un argomento relativamente nuovo in medicina veterinaria.
È, innanzitutto, fondamentale stabilire cosa si intenda
per dolore cronico: il dolore cronico propriamente detto è
il dolore che perdura dopo la risoluzione della sua causa.
Nel dolore cronico manca, pertanto, il rapporto
causa/effetto e non è evidente un danno tessutale o un
meccanismo di stimolazione dei nocicettori. Il dolore cronico è sostenuto da una modificazione stabile dei circuiti
neuronali centrali che risulta nella sensazione di dolore sia
dopo stimoli nocicettivi che stimoli non nocicettivi. Si
tratta della cosiddetta “memoria del dolore”. In medicina
veterinaria, tuttavia, spesso si intende cronico il dolore
associato a patologie croniche, utilizzando come criterio
diagnostico la durata del processo che causa dolore, piuttosto che la patogenesi del meccanismo che lo sostiene. La
differenza tra il dolore cronico vero ed il dolore persistente (dolore associato a patologie croniche con continua stimolazione dei meccanismi nocicettivi o disnocicettivi) è
fondamentale dal punto di vista prognostico e terapeutico:
il dolore cronico, considerato il meccanismo patogenetico,
non è curabile, mente il dolore persistente ed il dolore
neuropatico rispondono agli analgesici e sono curabili
risolvendo il problema sottostante.
Dal punto di vista pratico, l’identificazione del dolore
cronico vero e proprio è difficile, mentre è più semplice
sospettare ed identificare il dolore persistente, per esempio associato a patologie degenerative osteoarticolari.
Nonostante la maggior parte dei pazienti con patologie
degenerative osteoarticolari presenti dolore persistente,
piuttosto che cronico, è probabile che alcuni pazienti siano realmente affetti da dolore cronico. In quest’ultimo
caso, la correzione chirurgica della patologia potrebbe non
determinare un significativo miglioramento del quadro clinico, in assenza di complicazioni e dopo un intervento chirurgico riuscito perfettamente. Dal punto di vista prognostico, potrebbe essere interessante cercare di identificare
tali pazienti.
Relativamente più semplice è l’identificazione del dolore
neuropatico, che non è, strettamente parlando, dolore cronico, ma molto spesso è considerato tale per la mancanza di
un’evidente lesione tessutale. In questo caso, la disestesia o
l’alterata funzione del sistema nervoso può essere identificata attraverso una attenta visita clinica. L’identificazione della lesione del sistema nervoso periferico e centrale è quindi
possibile, soprattutto ricorrendo all’aiuto di un neurologo e
di test specifici.
Il primo passo nell’approccio al paziente in cui si sospetti dolore cronico è rappresentato da un esaustivo colloquio
con il proprietario. Il motivo della presentazione non necessariamente è il sospetto di dolore cronico: zoppia, deficit
neurologici, alterazioni delle abitudini alimentari non sono
rari motivi per cui il paziente affetto da dolore cronico è presentato al medico veterinario. Le alterazioni comportamentali indotte dal dolore cronico e persistente sono più sottili di
quelle identificabili in caso di dolore acuto. Lo stressante
ambiente della clinica è spesso sufficiente a mascherare tali
alterazioni, che influenzano la sfera comportamentale piuttosto che indurre alterazioni di pressione arteriosa, frequenza cardiaca, temperatura. In animali anziani, inoltre, è possibile che il medico veterinario interpreti le alterazioni comportamentali riportate dal proprietario come semplici e normali effetti del processo d’invecchiamento. Ciò è molto
comune nel gatto. L’attitudine del paziente nei confronti del
proprietario, di altri esseri umani, e di altri animali può essere influenzata dal dolore cronico. Irritabilità, aggressività,
apatia possono essere indice di dolore cronico. La risposta a
precedenti terapie rappresenta un’utile informazione: in caso
di risposta positiva alla somministrazione di FANS od
oppioidi, è probabile che il dolore sia sostenuto da un danno
tessutale persistente. La completa assenza di risposta ad
analgesici ed anti-infiammatori potrebbe suggerire la possibilità di trovarsi realmente di fronte ad un dolore cronico.
Sono stati proposti schemi di valutazione del dolore da
osteoartrosi nel cane, che identificano comportamenti positivi e negativi, risultando in questionari composti da domande
per il proprietario.
In algologia umana, la diagnosi di dolore cronico è emessa dopo un complesso iter, che inizia con un’accurata descrizione del dolore da parte del paziente: in particolare come il
dolore influenza i ritmi quotidiani del paziente, che tipo di
dolore è (il questionario di McGill utilizza 20 classi, con 35 termini disponibili per ciascuna classe!) con che frequenza si presenta, per quanto tempo, dove si presenta, come
influenza la sfera emotiva e come varia nel tempo. Ciò non
è possibile in medicina veterinaria, considerata l’impossibilità di comunicare con il paziente. Ciononostante è possibile
compiere una visita clinica e algologica atta a:
• Localizzare l’area dolorosa, e descriverne estensione e distribuzione (metamerica, articolare, distrettuale, diffusa).
• Valutazione della postura, del tono e della simmetria
muscolare, della mobilità, presenza di trigger points.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
• Valutazione neurologica dell’area interessata, per identificare deficit sensori e motori.
• Valutazione della sensibilità (normale, diminuita/assente,
allodinia, iperestesia); utile può essere il paragone con
altre parti del corpo. L’utilizzo di filamenti di Von Frey
può facilitare l’oggettivizzazione della sensibilità cutanea.
Allo stato attuale delle nostre conoscenze ed esperienze,
la diagnosi di dolore cronico rappresenta ancora una diagnosi per esclusione, pertanto molto difficile. Il primo aspetto da
considerare è il comportamento del paziente nell’ambiente
abituale, la cui valutazione dipende esclusivamente dal proprietario; il medico veterinario, quindi, deve identificare la
distribuzione del dolore e cercare di escludere o confermare
la presenza di alterazioni della sensibilità o motorie. L’iter
diagnostico successivamente deve escludere o confermare la
presenza di lesioni ortopediche, neurologiche o oncologiche
e quindi cercare di mettere insieme in un contesto logico ed
esplicativo le informazioni raccolte. La risposta agli analgesici, inoltre, può risultare utile, per esempio valutare la risposta alla somministrazione di oppioidi, FANS, ketamina,
sedativi o lidocaina per via sistemica.
Risulta, infine, evidente come il processo diagnostico nel
paziente affetto da dolore, soprattutto cronico, non sia prerogativa di un’unica disciplina, bensì richieda un approccio
multidisciplinare, in cui figure con differente specializzazione possono interagire nell’interesse del paziente.
Indirizzo per la corrispondenza
Federico Corletto
Dick White Referrals - Station Farm
London Road - Six Mile Bottom • Suffolk • CB8 0UH
133
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La gestione del dolore perioperatorio
Federico Corletto
DVM, CertVA, Dipl ECVAA, MRCVS, Cambridge, UK
Il dolore perioperatorio è probabilmente il tipo di dolore
che il medico veterinario è chiamato a controllare più frequentemente. La disponibilità di farmaci veterinari, la possibilità dell’uso improprio di farmaci umani, nonché lo sviluppo e diffusione di metodi relativamente semplici e rapidi
per valutare il dolore nel cane e nel gatto, hanno sicuramente avuto un impatto positivo sulla gestione del dolore pei
operatorio in queste specie.
Per una ottimale gestione del dolore perioperatorio è
necessario considerare quanto segue:
• Dolore preoperatorio: la presenza di danno tissutale e
dolore precedentemente all’intervento chirurgico determina un aumento della sensibilità del sistema nocicettivo ed
influenza anche la componente corticale e limbica del
dolore, rendendo considerevolmente più difficile, ma non
impossibile, la gestione del dolore stesso.
• Attitudine del paziente: pazienti ansiosi e nervosi rendono
più difficile il riconoscimento del dolore, inoltre lo stress
e l’ansia possono in parte diminuire l’efficacia dell’intervento analgesico. L’utilizzo di sedativi e tranquillanti può
essere, in questo caso, di notevole aiuto.
• Tipo di procedura ed invasività: l’effetto dell’esperienza
del chirurgo sul dolore perioperatorio è spesso considerato poco rilevante, mentre viene dato più peso al tipo di
procedura effettuata. Entrambi possono influenzare significativamente il danno tessutale, la risposta infiammatoria,
la stimolazione dei nocicettori, il processo di guarigione e
quindi il fabbisogno analgesico. È difficile “misurare”
l’invasività del chirurgo, tale aspetto può essere facilmente considerato nella gestione del dolore ricorrendo a sistemi di valutazione i più oggettivi possibili e quindi valutando l’effettivo consumo di analgesici nel postoperatorio.
• Analgesia intraoperatoria: il controllo della nocicezione
intraoperatoria sembra influenzare il dolore postoperatorio, spesso è possibile notare come pazienti con marcata
risposta emodinamica causata da inadeguata antinocicezione presentino un notevole challenge per quanto riguarda la gestione del dolore postoperatorio. È possibile speculare, tuttavia, che la maggiore richiesta di analgesici
possa essere ricondotta alla notevole invasività della procedura, e quindi ad una maggiore nocicezione, con marcata risposta emodinamica di difficile controllo. L’analgesia intraoperatoria, quindi, deve essere commisurata
all’invasività della procedura e del chirurgo.
• Tipo di dolore: l’identificazione del meccanismo patogenetico che mantiene il dolore rappresenta un passo fondamentale nella pianificazione di una adeguata analgesia
perioperatoria. Per esempio, nella prima giornata postoperatoria il dolore ha una notevole componente mediata dalla stimolazione nocicettiva e dal danno tessutale diretto,
mentre si sta sviluppando una risposta infiammatoria che
diventa importante diverse ore dopo l’insulto. In alcuni
casi il dolore può originare direttamente nel sistema nervoso, oppure da visceri toracici ed addominali. Gli analgesici disponibili sono relativamente selettivi nel trattare
solo alcuni tipi di dolore. Il tipico esempio è rappresentato dal dolore infiammatorio e dai FANS, dal dolore neurogenico e dalla gabapentina/lidocaina, etc.
• Durata del dolore, frequenza della valutazione: la durata
della terapia perioperatoria deve essere adeguata alla
durata della nocicezione. È eticamente scorretto, inutile e
costoso utilizzare complessi protocolli antalgici per periodi più brevi della durata del processo algico stesso. Risulta fondamentale, quindi, valutare frequentemente il dolore nell’immediato periodo postoperatorio, quindi ridurre
la frequenza della valutazioni secondo la necessità di
interventi analgesici, fino alla completa cessazione della
valutazione del dolore e la dimissione del paziente.
Considerati questi aspetti, è necessario pianificare un
approccio logico all’analgesia perioperatoria, cercando di
ottenere il massimo beneficio per il paziente con il minimo
costo ed effetti indesiderati. I farmaci e le tecniche utilizzabili sono, in questo caso:
• FANS: sono fondamentali nel controllare la componente
infiammatoria del dolore, tuttavia il loro uso è limitato
dalle controindicazioni e dai possibili effetti collaterali.
L’utilizzo preoperatorio sembra essere più efficace, tuttavia comporta il maggior rischio in termini di possibili
complicazioni (renali, epatiche), in caso di ipotensione o
ipovolemia. I moderni farmaci COX-2 selettivi risolvono
in parte il problema della tollerabilità gastroenterica, tuttavia permangono i possibili effetti indesiderati sulla perfusione renale.
• Oppioidi: rappresentano ancora il fondamento dell’analgesia perioperatoria. Il margine di sicurezza nel gatto e,
soprattutto, nel cane è notevole. La moltitudine di farmaci e formulazioni consente di adattare il protocollo analgesico alle necessità del paziente. Sono potenti analgesici,
efficaci nel controllo del dolore sostenuto da diversi meccanismi patogenetici, tuttavia in alcuni casi è necessario
ricorrere alla somministrazione di dosi relativamente elevate ad intervalli frequenti per un efficace controllo del
dolore. In questo caso l’animale sarà sedato e richiederà
maggiore attenzione, con il relativo aumento dei costi e
134
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
•
•
•
•
•
dei rischi legati al decubito ed alla possibile depressione
ventilatoria.
Tecniche locoregionali: qualora possano essere impiegate,
sono molto efficaci nel controllo del dolore senza indurre
gli effetti collaterali tipici di oppioidi e FANS. Le principali limitazioni sono legate alla relativamente breve durata di azione (possono essere, tuttavia, impiegati cateteri
per somministrare infusioni di anestetico sia a livello periferico che neurassiale) ed alla paralisi motoria (può essere controllata ricorrendo a basse concentrazioni di farmaci con maggiore selettività nei confronti delle fibre sensorie). Il profondo blocco sensorio intraoperatorio ottenibile
solo con l’utilizzo di tecniche locoregionali ha un effetto
benefico sul dolore postoperatorio che si estende ben oltre
la durata di azione dell’anestetico stesso. L’utilizzo di
morfina nelle anestesie neurassiali, inoltre, consente di
estendere significativamente l’analgesia nel postoperatorio.
Anestetici locali per via sistemica (infusine di lidocaina):
agendo sui canali per il sodio, diminuiscono la reattività al
danno tessutale, stabilizzano le membrane cellulari, riducono la risposta emodinamica, diminuiscono la concentrazione minima alveolare degli anestetici inalatori. Sono
particolarmente indicati nel controllo del dolore neuropatico periferico e neurogeno.
Ketamina: l’attivazione del recettore NMDA per il glutammato sembra essere un evento fondamentale per promuovere l’instaurazione dell’iperalgesia e della resistenza agli oppioidi. L’approccio più semplice per evitare
l’attivazione di tale recettore consiste nel ridurre gli stimoli nocicettivi che raggiungono il corno dorsale del
midollo spinale (anestesia loco regionale, oppioidi). La
ketamina è un antagonista relativamente specifico nei
confronti di tale recettore, pertanto è utilizzata in infusione nel perioperatorio per facilitare il controllo del dolore
che risponde scarsamente ai soli oppioidi. L’utilizzo di
ketamina in questo scenario, tuttavia, non sempre dà
risultati soddisfacenti e può causare effetti indesiderati di
tipo comportamentale.
Gabapentina: la gabapentina è un antiepilettico che presenta un notevole margine di sicurezza e la cui efficacia
nel trattamento di alcuni tipi di dolore (neurogenico, neuropatico) è stata dimostrata. In alcuni casi è utilizzata
anche per il trattamento del dolore cronico vero e come
coadiuvante nella terapia del dolore persistente legato
all’osteoartrosi.
Sedativi e tranquillanti: hanno un ruolo importante nel
controllo del dolore perioperatorio in animali particolarmente ansiosi, nervosi o aggressivi. Le dosi somministrate sono basse e mirano non alla sedazione, bensì a bilanciare l’aumentata eccitabilità corticale che facilita la percezione del dolore e antagonizza l’effetto analgesico.
• Benzodiazepine: possono essere utili per controllare la
componente del dolore derivante dallo spasmo muscolare
successivamente, per esempio, alla chirurgia della colonna vertebrale.
• Farmaci antidepressivi: poiché il dolore, soprattutto se
persistente può influenzare profondamente il comportamento del paziente, l’utilizzo di farmaci antidepressivi
dopo valutazione comportamentale può migliorare la qualità della vita del paziente. I farmaci antidepressivi, inoltre, attivano vie serotoninergiche inibitorie che possono
migliorare il controllo del dolore.
In base a queste considerazioni ed alla disponibilità di
personale e mezzi, ciascuno deve sviluppare un approccio
logico al dolore. Il mio approccio è il seguente:
1. Utilizzo di oppioidi agonisti puri in premedicazione,
eventualmente associati a basse dosi di dexmedetomidina
in animali ansiosi o nervosi.
2. Implementazione di tecniche locoregionali quando possibile ed indicato.
3. Utilizzo di oppioidi intraoperatori (infusione o boli,
secondo la durata della procedura).
4. In alcuni tipi di intervento (chirurgia della colonna vertebrale, TECA, addome acuto), utilizzo di lidocaina in infusione.
Nel caso dell’addome acuto e di dolore neuropatico periferico, l’infusione è continuata anche nel postoperatorio.
5. Somministrazione di FANS se non controindicato al termine dell’intervento, in assenza di episodi ipotensivi
significativi o ipovolemia. Solitamente sono continuati, in
assenza di controindicazioni od effetti collaterali, per 3-5
giorni, secondo il tipo di intervento.
6. Valutazione del dolore postoperatorio ogni 2 ore nella prima giornata postoperatoria, cominciando quando il
paziente è sveglio, somministrazione di rescue analgesia
(metadone) quando indicato, anche ogni 2 ore.
7. Valutazione del consumo di analgesico e dell’intervallo di
somministrazione della rescue analgesia in seconda giornata, quindi personalizzazione dell’intervallo di valutazione del dolore e del farmaco somministrato nell’intervento
analgesico.
8. Gabapentina e diazepam sono utilizzati nel postoperatorio
della chirurgia a carico della colonna vertebrale.
È importante ribadire che tale protocollo è stato sviluppato considerando la casistica della struttura, la disponibilità di
personale on-site 24 ore al giorno, e la notevole capacità dei
chirurghi di lavorare rapidamente limitando il danno tessutale al minimo indispensabile.
Indirizzo per la corrispondenza
Federico Corletto
Dick White Referrals - Station Farm
London Road - Six Mile Bottom • Suffolk • CB8 0UH
135
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Cane e gatto durante la stagione estiva:
quadro clinico delle patologie più frequenti e possibili
soluzioni. Prevenzione e terapia delle malattie
dermatologiche da esposizione ai raggi solari
Luisa Cornegliani
Med Vet, Dipl ECVD, Milano
ta e bull terrier con l’addome glabro, gatti bianchi o nudi
corrono un rischio maggiore di sviluppare ustioni, dermatite
solare e tumore squamocellulare.
La cute adotta numerosi meccanismi per difendersi dall’esposizione ai raggi UV: sintetizza enzimi, antiossidanti e
“stress protein” che proteggono le cellule epidermiche dai
danni ossidativi. Altri enzimi consentono di riparare il DNA
cellulare eventualmente danneggiato. Inoltre, tramite la produzione di melanina, da parte dei melanociti dello strato
basale dell’epidermide, le radiazioni ultraviolette sono
assorbite con relativa diminuzione del danno cellulare.
Gli animali sono protetti dal mantello, scudo naturale agli
agenti fisici esterni; quelli a pelo corto e/o con cute non pigmentata possono esserlo in modo insufficiente.
LE RADIAZIONI ULTRAVIOLETTE (UV)
La radiazione ultravioletta (UV o raggi ultravioletti) è una
radiazione elettromagnetica con lunghezza d’onda inferiore
alla luce visibile, ma maggiore dei raggi X. Il nome significa “oltre il violetto” (dal latino ultra, “oltre”), perché il violetto è il colore visibile con la lunghezza d’onda più corta. I
raggi ultravioletti sono radiazioni più piccole e più rapide
della luce visibile colorata, che ha una lunghezza d’onda da
400 a 700 nm (nanometri), e costituiscono meno del 5% della radiazione solare. Quando viene considerato l’effetto dei
raggi UV sulla salute umana, la gamma delle lunghezze
d’onda UV viene suddivisa in: UVA (400-320 nm), UVB
(320-290 nm) e UVC (inferiore a 290 nm).
La maggior parte dei raggi nocivi è assorbita dallo strato
d’ozono, dalle impurità atmosferiche e dai vetri delle finestre. L’esposizione ai raggi solari aumenta al crescere dell’altitudine e per ogni 1000 metri si ha un incremento del 1012%. Da qui la necessità di proteggersi, oltre che al mare,
anche durante le passeggiate in montagna.
Malattie dermatologiche foto-indotte
La dermatite solare è una malattia che interessa gli animali a pelo corto e cute chiara. La sua gravità dipende dal
tempo d’esposizione ai raggi UV ed è una reazione fototossica. Causa la formazione di cheratinociti vacuolizzati dell’epidermide superficiale, cheratinociti apoptotici, dilatazione dei vasi, incremento dei componenti vasoattive, delle citochine infiammatorie e dell’ossigeno reattivo. Questa serie di
eventi provoca una progressiva alterazione del DNA con possibile trasformazione cellulare neoplastica (cheratosi attinica
vs carcinoma squamocellulare). Negli animali le lesioni sono
localizzate al dorso della canna nasale ed alle estremità
(orecchie ed arti). Con l’esposizione ripetuta, dopo l’iniziale
eritema, si formano croste ed ulcere, anche profonde. Nel
gatto bianco, le lesioni croniche sono rappresentate da una
dermatite attinica su orecchie, dorso del naso, ecc. Nei casi
più gravi la malattia progredisce in carcinoma squamocellulare. Nel cane si possono sviluppare follicoliti e cisti follicolari attiniche su tronco ed arti, soprattutto se le esposizioni agli UV sono ripetute nel tempo. Le complicanze batteriche (piodermite), peggiorano i sintomi clinici e prolungano
la risoluzione delle lesioni dermatologiche.
ALTERAZIONI DERMATOLOGICHE
INDOTTE DALL’ECCESSIVA
ESPOSIZIONE AI RAGGI UV
Danni strutturali del mantello
Il mantello rappresenta la prima barriera fisica ai raggi
solari impedendone il contatto diretto con la cute. I raggi UV
possono indurre un cambiamento nella composizione chimica del pelo, tramite un effetto di foto-ossidazione. L’alterazione della struttura cuticolare comporta la diminuzione e/o
perdita di coesione tra le lamelle cornee. Ne consegue un
indebolimento del pelo, perdita di lucidità ed opacamento
del colore. Questi eventi sono abbastanza rari in dermatologia veterinaria, ma frequenti in quella umana vista l’abitudine di fare bagni di sole per l’abbronzatura.
Malattie dermatologiche foto-aggravate
L’esposizione eccessiva ai raggi solari è un fattore di peggioramento di malattie immunomediate. In particolare modo
è da evitare in corso di lupus eritematoso discoide e/o sistemico, lupus vescicolare dello Sheltie Sheep dog, dermatomiosite, pemfigo complex e penfigoide. In queste malattie,
l’esposizione agli UV può aumentare la liberazione di antigeni, generare alcune molecole di DNA alterato dai cheratinociti epidermici e creare numerose citochine e molecole di
adesione. Le molecole di DNA alterato fissandosi alla mem-
Danni strutturali della cute
Gli animali a pelo corto, glabri o a pelo bianco sono maggiormente esposti agli effetti dannosi degli UV. Cani dalma136
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no 20-30 minuti prima dell’esposizione ai raggi solari e 1530 dopo.
brana basale dell’epidermide, alla presenza di autoanticorpi,
formano nuovi immunocomplessi e causano la recrudescenza della malattia.
Terapia
Altri effetti dei raggi UV
Il trattamento farmacologico consiste, per i casi meno gravi, nella sola protezione dai raggi solari e l’idratazione cutanea; alcuni autori suggeriscono anche beta-carotene a 30
mg/kg/die per os. Se presenti lesioni dermatologiche di maggiore gravità è preferibile aggiungere corticosteroidi per via
sistemica a dosi antinfiammatorie (prednisolone 1 mg/kg/
die) per 7-10 giorni; in alcuni casi può essere utile somministrare acitretina 0.5-1 mg/kg/die nel cane e 5-10 mg/gatto.
Negli animali con infezione batterica si utilizzano antibiotici ad ampio spettro (durata della terapia differente secondo
la gravità dell’infezione). Alla presenza di neoplasie cutanee
è meglio consultare il veterinario oncologo per la scelta terapeutica più idonea.
Negli animali con malattie immunomediate è necessario
evitare l’esposizione solare diretta, precludendo l’accesso al
giardino e/o l’esposizione agli UV nelle ore più calde. In
questi casi l’impiego di protettivi solari può diminuire i
rischi di recidiva. Vista la gravità di queste malattie, qualora
si verifichino peggioramento o recrudescenza della sintomatologia, è utile consultare il veterinario dermatologo per
modificare la terapia.
Animali in terapia con alcuni antibiotici, come per esempio le tetracicline, devono evitare l’esposizione ai raggi solari: questi possono causare una reazione dermatologica di
foto-tossicità e foto-allergia per i “cataboliti” dei farmaci.
L’eccessiva esposizione ai raggi UV, altera la normale
azione delle cellule di Langerhans influenzando la produzione di citochine, la normale protezione nei confronti degli
antigeni estranei inducendo una diminuita protezione nei
confronti di infezioni virali ed aumentando la suscettibilità
nei confronti dei tumori cutanei.
Prevenzione
Bisognerebbe evitare lunghe passeggiate nelle ore più calde e nella stagione estiva tra le 10 e le 16. Inoltre, la corretta applicazione di un protettivo solare potrebbe contribuire a
diminuire la possibilità d’esposizione incontrollata, la dove
non è possibile limitare le attività del cane o del gatto (animali con accesso al giardino).
I protettivi solari sono divisi in fisici e chimici. I primi
sono pigmenti organici che proteggono la cute impedendo ai
raggi solari di penetrarla grazie alla formazione di una barriera opaca che li riflette, mentre gli altri assorbono i raggi
UV. I protettivi solari fisici sono l’ossido di zinco ed il diossido di titanio. Entrambi forniscono una protezione totale e
non sono state segnalate reazioni avverse alla loro applicazione. I protettivi chimici sono una famiglia di prodotti a
base di acido aminobenzoico (PABA) e derivati del benzofenone. Il PABA è un buon assorbente degli UVB, ma sono
state segnalate reazioni allergiche all’applicazione e non
protegge la cute già lesionata. Negli ultimi anni sono stati
introdotti nuovi prodotti con maggiori capacità di assorbimento (UVB ed UVA-II) e limitati effetti collaterali. È
importante ricordare che vanno riapplicati ogni 2-3 ore,
soprattutto se si dilavano con il bagno o/e con il sudore. Si
ottiene una migliore protezione applicando il prodotto alme-
Bibliografia
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Malattia renale felina: una panoramica
Stephen P. DiBartola
DVM, Dipl ACVIM, Ohio USA
I proprietari di gatti possono non accorgersi dei segni clinici precoci della nefropatia cronica (CRD) come poliuria e
polidipsia, ed i gatti con CRD e insufficienza renale cronica
(CRF) sono portati spesso dal veterinario in un grave stato di
disidratazione. Il giudizio sulla prognosi a lungo termine
non va emesso sulla base dell’aspetto clinico dell’animale e
dei riscontri di laboratorio alla presentazione alla visita.
Spesso, il gatto ed i suoi risultati di laboratorio mostrano dei
netti miglioramenti dopo due o tre giorni di coscienzioso
sforzo per reidratare l’animale. Quando questo è stato totalmente reidratato, si può effettuare un giudizio clinico sulla
fattibilità di un trattamento medico conservativo della CRF.
Alla presentazione iniziale, l’iperazotemia della maggior
parte dei gatti con CRF riconosce una sostanziale componente prerenale, causata da una grave disidratazione che
deve essere risolta mediante somministrazione di fluidi
endovenosi. Dopo reidratazione completa, nei gatti con concentrazioni di creatinina sierica (SCr) comprese nell’intervallo di 2,0-5,0 mg/dl si otterranno probabilmente buoni
risultati con una terapia medica conservativa della CRF.
Anche animali con SCr > 5,0 mg/dl possono essere trattati in
questo modo, ma la loro qualità di vita e la prognosi di
sopravvivenza a lungo termine non sono altrettanto buone.
La disidratazione viene stimata utilizzando caratteristiche
cliniche come il turgore della cute e la valutazione della perfusione periferica (ad es., frequenza e caratteri del polso,
tempo di riempimento capillare). Sfortunatamente, la marcata perdita di grasso sottocutaneo ed elastina nei gatti anziani
con CRF può rendere impegnativa e poco accurata la stima
clinica della disidratazione. Non è raro che i gatti con CRF
siano colpiti, al momento della presentazione alla visita, da
una disidratazione del 10-12%. Quindi, un gatto di 3 kg con
CRF che sia disidratato al 10% necessita di 300 ml di fluido
per correggere la sua disidratazione (0,1 x 3 = 300). I clinici
spesso utilizzano un valore di 60 ml/kg/die per stimare il
fabbisogno di mantenimento dei fluidi nei piccoli animali.
Questo approccio tuttavia sottostima marcatamente il fabbisogno idrico di mantenimento negli animali che pesano
meno di 15 kg. Tale fabbisogno può essere valutato più accuratamente mediante una formula che correla le necessità
idriche alla superficie corporea (cioè 132 x kg0,75). Per esempio, utilizzare 60 ml/kg per stimare le necessità di liquido di
mantenimento richieste in un gatto di 3 kg porta ad un risultato di 180 ml, ma impiegando 132 x kg0,75 si ottiene un valore di 300 ml. Quindi, la “regola pratica” dei 60 ml/kg comporta una sottovalutazione del 40% dei fabbisogni idrici di
mantenimento. Di conseguenza, per stimare questo fabbiso-
gno nei gatti con CRF deve essere utilizzata la formula 132
x kg0,75. La componente finale da considerare per formulare
le necessità di fluidi nelle perdite continue che possono comprendere la dispersione aggiuntiva di liquidi per via urinaria
è rappresentata dalla poliuria. I gatti con CRF devono essere trattati con fluidi cristalloidi alcalinizzanti, come la soluzione di Ringer lattato. Nel corso della fluidoterapia, pesare
ripetutamente l’animale (utilizzando la stessa bilancia) fornisce un’indicazione approssimativa con la quale giudicare il
successo della reidratazione. Ci si deve ricordare di rivalutare l’ematocrito e la concentrazione sierica di proteine durante questo periodo, perché un’eventuale anemia non rigenerativa talvolta si rende evidente solo dopo la reidratazione. Nel
corso di un trattamento a lungo termine, è possibile insegnare ad alcuni proprietari ad effettuare la fluidoterapia percutanea a domicilio e in alcuni casi si può inserire una sonda
da gastrostomia percutanea (PEG) per consentire una somministrazione più agevole di farmaci e liquidi al gatto con
CRF in fase avanzata.
Uno studio effettuato da Barber ed Elliott ha dimostrato
che l’85% dei gatti con CRF presentava un iperparatiroidismo secondario renale (RSHP, renal secondary hyperparathyroidism), che era più comune nei gatti con CRF in stadio avanzato e meno in quelli con CRF lieve. In generale,
l’RSHP nei gatti con CRF può essere trattato mediante una
restrizione di fosforo nella dieta nel 67% circa dei casi, ma
richiede un’integrazione di leganti del fosfato nel restante
33% dei casi. Se il gatto è affetto da CRF avanzata ed iperfosfatemia, la sua risposta clinica può essere monitorata utilizzando la concentrazione di fosforo sierico a digiuno
mirando ad ottenere un intervallo di 2,5-5,0 mg/dl. Invece,
nei gatti con CRF lieve o moderata e concentrazione di
fosforo sierico normale, la valutazione seriale del paratormone sierico (PTH) è un modo più affidabile per monitorare il trattamento della RSHP. Tuttavia, può essere difficile
trovare un laboratorio diagnostico che offra un dosaggio del
PTH che sia stato validato per il gatto. I leganti del fosfato
usati comunemente comprendono composti contenenti alluminio e calcio, come l’idrossido d’allume e il carbonato di
calcio. L’intervallo di dosaggio è compreso fra 90 e 120
mg/kg/die, ma questo dosaggio deve essere aggiustato monitorando la risposta clinica con l’impiego del fosforo sierico
o della concentrazione di PTH. I leganti del fosforo devono
essere somministrati entro 2 ore dal pasto, e il gatto deve
essere monitorato accuratamente per rilevare l’eventuale
comparsa di ipercalcemia se si sta usando carbonato di calcio combinato con calcitriolo. L’epakitina è un prodotto in
138
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
combinazione che contiene carbonato di calcio e chitosano.
Al dosaggio di 1 grammo per 5 kg di peso corporeo due volte al giorno, fornisce 20 mg/kg di carbonato di calcio. Alcuni degli effetti del leganti del fosforo dell’epakitina probabilmente sono dovuti al carbonato di calcio, ma il chitosano
può determinare alcuni benefici aggiuntivi, agendo come
adsorbente di urea ed ammoniaca. Il carbonato di lantano è
un nuovo legante del fosforo che risulta essere più potente, e
può essere provato al dosaggio di 10-40 mg/kg/die.
Nei gatti con CRF, le concentrazioni di calcio totale sierico possono essere basse, normali o elevate. Le alterazioni
nel calcio complessato rendono difficile da prevedere la concentrazione sierica di quello ionizzato, ma spesso gli aumenti del calcio complessato fanno sì che la concentrazione di
calcio sierico totale sia normale, malgrado la presenza di
un’ipocalcemia ionizzata. Nello studio condotto da Barber
ed Elliott, basse concentrazioni di calcio ionizzato sierico
vennero riscontrate soltanto nei gatti con CRF in stadio
avanzato, ed elevate concentrazioni di calcio ionizzato sierico risultarono meno comuni indipendentemente dallo stadio
della CRD. L’interpretazione della calcemia nei gatti con
CRF è ulteriormente complicata dalla comune comparsa, in
questa specie animale, dell’ipercalcemia idiopatica. La concentrazione di calcitriolo sierico viene ridotta negli animali
con CRF avanzata, ma di solito è normale in quelli con
malattia lieve o moderata.
Fino al 20-30% dei gatti con CRF è ipokalemico per gli
effetti combinati di anoressia, perdita di massa muscolare,
poliuria e (occasionalmente) vomito. La deplezione di potassio può essere dannosa per il rene felino e l’alimentazione a
lungo termine con diete carenti di questo elemento può comportare nefrite interstiziale linfoplasmocitaria. L’integrazione è chiaramente indicata nei gatti ipokalemici con CRF, ma
è più controversa in quelli normokalemici con CRF nei quali si sospetti una deplezione del potassio corporeo totale. Più
del 95% delle riserve di potassio organico è intracellulare, e
l’equilibrio di questo ione non può essere valutato facilmente sulla base della sua sola concentrazione sierica. In uno
studio, i gatti normokalemici con CRF dimostrarono una
deplezione muscolare del potassio e furono trattati con gluconato di potassio o gluconato di sodio. In 6 mesi, tra i due
gruppi non vennero dimostrate differenze nella velocità di
filtrazione glomerulare e nella perfusione renale, ma lo studio fu limitato a piccoli numeri di gatti in ciascun gruppo.
Quindi, il problema circa l’integrazione con potassio negli
animali normokalemici con CRF resta, ma molti ritengono
che possa essere utile e che non sia probabilmente dannosa
a condizione che il volume di urina sia adeguato. Tipicamente, l’integrazione con potassio viene attuata alla dose di
2-5 mEq/die sotto forma di gluconato o citrato di potassio.
La risposta iperventilatoria all’acidosi metabolica sembra
essere attenuata nei gatti rispetto ai cani, ed è possibile che i
felini non aumentino l’ammoniogenesi renale con la stessa
efficienza riscontrata nell’acidosi metabolica. Inoltre, molti
alimenti commerciali destinati a questa specie animale sono
formulati per essere acidificanti. Quindi, i gatti con CRF
sembrerebbero predisposti allo sviluppo di acidosi metabolica. Malgrado questo, l’acidosi metabolica sembra essere un
riscontro tardivo nei gatti con CRF. Elliott valutò 59 soggetti con CRF, 20 con forma lieve (SCr 2,0-2,8 mg/dl), 20 con
forma moderata (SCr 2,9-4,5 mg/dl) e 19 con forma grave
(SCr > 4,5 mg/dl) e riscontrò acidemia nel 53% dei gatti del
gruppo con la forma grave, ma solo nel 15% di quelli con la
forma moderata ed in nessuno di quelli con la forma lieve.
La pCO2 media dei gatti con CRF in questo studio variava
fra 33 e 35 mm Hg, supportando l’impressione che la compensazione respiratoria sia minima nei gatti con acidosi
metabolica. Quest’ultima nei soggetti con CRF è una forma
con elevato gap anionico (cioè, la concentrazione di bicarbonato è bassa e quella di cloro è normale o bassa). Il gap
anionico elevato insorge perché gli anioni si accumulano in
modo spropositato, principalmente il fosfato.
Si può considerare la sostituzione degli alcali se il bicarbonato sierico < 12-14 mEq/l. Fonti potenziali di alcali sono
bicarbonato di sodio, gluconato di potassio e citrato di potassio. Quando gli anioni organici come gluconato o citrato
sono metabolizzati nell’organismo, compare un netto incremento di bicarbonato perché l’ADP viene convertito ad ATP
nel ciclo dell’acido citrico, un processo che consuma ioni
idrogeno. Non è chiaro se il trattamento precoce dell’acidosi sia di qualche utilità nei gatti con CRF moderata, ma l’apporto di 2-5 mEq di potassio sotto forma di gluconato di
potassio o citrato di potassio (vedi sopra) dovrebbe anche
determinare un effetto alcalinizzante. In alternativa, si possono diluire 84 g di NaHCO3 in 1 l di acqua per ottenere una
soluzione di 1 mEq/ml che può essere conservata in frigorifero ed utilizzata alla dose di 1 ml per 5 kg di peso due volte al giorno.
Letture consigliate
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80 cases diagnosed between 1992 and 1995. J Small Anim Pract
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139
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Overview of chronic renal disease in cats
Stephen P. DiBartola
DVM, Dipl ACVIM, Ohio USA
Chronic renal disease (CRD) is commonly observed in
older cats (those > 7 years of age), and it has been estimated
to have a prevalence of between 1 and 3% in the geriatric cat
population. On histopathologic examination of the kidneys,
slightly more than half of older cats with CRD have chronic
tubulointerstitial nephritis of unknown etiology characterized
by interstitial infiltration of lymphocytes and plasma cells,
interstitial fibrosis, tubular atrophy, tubular dilatation and
glomerular sclerosis. This diagnosis is relatively non-specific and may include a number of different diseases that are difficult to distinguish histopathologically from one another. For
example, chronic pyelonephritis and chronic glomerulonephritis are two renal diseases of cats that can have endstage renal lesions that are difficult to distinguish from chronic tubulointerstitial nephritis of unknown etiology.
Acute glomerulonephritis is relatively uncommon in cats,
but is relatively easy to recognize clinically due to the presence of severe proteinuria, hypoalbuminemia, hypercholesterolemia and often ascites or subcutaneous edema. Most
cases of acute glomerulonephritis in cats are idiopathic, but
a search for underlying infectious, inflammatory or neoplastic diseases associated with chronic immune complex production is recommended. Clinically, acute pyelonephritis is
readily suspected by the presence of fever, normal-sized but
painful kidneys, a high white blood cell count, pyuria and a
positive urine culture. Chronic pyelonephritis however can
be much more challenging to identify because many of the
clinical features of acute pyelonephritis are lacking, and the
situation is complicated by the fact that many cats with CRD
due to chronic tubulointerstitial nephritis of unknown etiology also have lower urinary tract infection (UTI).
Reactive amyloidosis is a relatively uncommon renal disease of cats that affects primarily the Abyssinian, Siamese,
and Oriental shorthair breeds. This disorder is characterized
by the deposition of amyloid AA fibrils in the kidneys and
many other tissues including the thyroid gland, adrenal
glands, heart, liver, gastrointestinal tract, pancreas, and
spleen. Although amyloid deposits are not restricted to the
kidneys, chronic renal failure (CRF) is the main clinical
presentation of amyloidosis in the Abyssinian cat. In Oriental shorthair and Siamese cats however severe hepatic deposition of amyloid can result in liver rupture and acute hemoabdomen. Amyloid deposits in cats with renal amyloidosis
predominantly are found in the medullary interstitium, and
less consistently in the glomeruli. Thus, the absence of
marked proteinuria and even a negative renal cortical biopsy
do not necessarily out the diagnosis. The medullary intersti-
tial amyloid deposits can interfere with medullary blood
flow by compressing the vasa recta and lead to papillary
necrosis, a gross necropsy finding that should prompt suspicion of amyloidosis. Congo red staining should be requested
on the collected renal tissue to allow a conclusive diagnosis
to be made. Polycystic kidney disease is inherited as an autosomal dominant trait in Persian cats, and it has been reported to affect approximately 25-30% of Persian cats. It is
caused by a mutation in the gene for polycystin 1 (PKD1),
and the mutation can be identified by a PCR test that identifies a single nucleotide polymorphism in exon 29 of the
feline PKD1 gene. From a clinical perspective, renal ultrasound examination is highly sensitive and specific for this
disease if performed when the suspected cat is at least 9
months of age or older. Renal lymphoma and feline infectious peritonitis (FIP) are two systemic diseases of cats that
can involve the kidneys to a sufficient extent to cause CRF.
Normal cat kidneys are approximately 4 cm in length, and
although many cats with CRD have small irregular firm kidneys, cats with polycystic kidney disease, renal lymphoma
and occasionally those with granulomatous interstitial
nephritis due to FIP often have enlarged kidneys on presentation. Potassium depletion nephropathy in cats is of historical interest because it was observed during a time when
commercial cat foods were high in protein and acid content
but deficient in potassium (< 0.4% on a dry matter basis).
Potassium depletion nephropathy was characterized by lymphoplasmacytic interstitial nephritis with vacuolar degeneration of tubular cells. Clinical signs were primarily related to
muscle severe weakness and rhabdomyolysis associated
with potassium depletion and characterized by marked
hypokalemia (< 3.0 mEq/L) and increased serum creatine
kinase activity.
The prevalence of nephrolithiasis in cats has increased
dramatically in the past 25 years. During this time, there
also was a shift in the type of uroliths observed in cats (in
all locations) from struvite to calcium oxalate. CRD occurs
in approximately 75% of cats with nephrolithasis and persists after resolution of obstruction by surgery in 50% of
affected cats. Progressive renal damage by nephroliths may
occur as calculi move back and forth between the renal
pelvis and ureter causing chronic intermittent renal obstruction. Normal urine flow tends to propel calculi into the
ureter causing obstruction whereas the calculi may move
retrograde into the renal pelvis and spontaneously relieve
obstruction when the cat jumps down from high places.
This sequence of events may contribute to so-called “big
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
kidney–little kidney” syndrome in which one kidney is
enlarged from obstruction and the other is small and irregular from chronic interstitial nephritis.
The most common clinical findings in cats with CRF are
anorexia, lethargy, and weight loss. Owners frequently do
not recognize polyuria and polydipsia, and vomiting is less
common in cats with CRF than in dogs. Common findings
on physical examination are dehydration and poor body condition. Depending on the stage of disease at presentation,
laboratory findings in cats with CRF include nonregenerative anemia, azotemia, hyperphosphatemia, and metabolic
acidosis. The severity of anemia may not be appreciated on
presentation due to the effect of dehydration. Between 20
and 30% of cats with CRF have hypokalemia, which contrasts with approximately 5 to 10% of older dogs with CRF.
Mild hypercholesterolemia occurs in many cats with CRF
and does not correlate well with the presence of glomerular
disease. Urine specific gravity typically is in the isosthenuric
range in cats with CRF. Some cats (10-15%) with CRF however retain substantial concentrating ability, which can cause
confusion with pre-renal azotemia. Mild proteinuria (urine
protein/creatinine ratio < 1.0) is common in cats with CRD
and has been correlated with survival. Proteinuria however
may be a marker of severity of CRD rather than a causative
factor in its progression. The urine sediment of cats with
CRF should be examined carefully for pyuria and bacteriuria
because approximately 30% of cats with CRF have UTI, and
most of these do not have clinical signs of lower urinary tract
disease. The most commonly cultured organism is E. coli.
Approximately 30% of cats with CRD are non-azotemic
and have International Renal Interest Society (IRIS) stage 1
disease with serum creatinine concentrations (SCr) < 1.6
mg/dl, 40% have IRIS stage 2 disease (SCr 1.6-2.8 mg/dl),
15% have IRIS stage 3 disease (SCr 2.9-5.0 mg/dl), and 15%
have IRIS stage 4 disease with SCr > 5.0 mg/dl. Overall,
approximately 85% of cats with CRD have renal secondary
hyperparathyroidism based on serum parathyroid hormone
concentration, and the presence of hyperparathyroidism is
correlated with the severity of the CRD. The prevalence of
hypertension in cats with CRD is unclear, and may be
between 20% and 30%. Ocular (e.g., retinal hemorrhage,
retinal edema, retinal detachment, vascular tortuosity) or
cardiac (e.g., gallops, murmurs, arrhythmias) indicate morbidity. Although it is difficult to judge the clinical relevance
of systolic blood pressure between 140 and 150 mmHg (due
to “white coat artifact”), systolic blood pressure > 175
mmHg warrants treatment.
Hyperthyroidism and CRD often occur concurrently in
older cats. The presence of CRD makes hyperthyroidism
more difficult to diagnose because it acts as a non-thyroidal
illness that decreases serum total T4 concentration. Clinicians should trust their identification of a thyroid nodule on
physical examination in making the diagnosis of hyperthyroidism. The effect of hyperthyroidism on renal function
also is a concern in diagnosis and treatment. Hyperthyroidism increases renal blood flow and glomerular filtration
rate (GFR), making renal function (based on SCr) look better than it actually is. When hyperthyroidism is treated,
azotemia can become apparent and the cat may deteriorate.
Hence a “methimazole challenge” (in which the cat is treated with 2.5 mg methimazole once a day and SCr monitored
as the dose is slowly increased over several weeks) is recommended before more definitive treatment of hyperthyroidism is carried out. If renal function remains stable, more
definitive therapy may be safe. There also is concern that
hyperfiltration associated with increased GFR may predispose the cat to additional renal injury and progression of
renal disease. Thus, although unproven, hyperthyroidism
itself may be injurious to the cat’s kidneys.
Selected References
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141
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Prevalenza di alterazioni acido-base e degli elettroliti
nei gatti affetti da CKD
Stephen P. DiBartola
DVM, Dipl ACVIM, Ohio USA
I proprietari di gatti possono non accorgersi dei segni clinici precoci della nefropatia cronica (CRD) come poliuria e
polidipsia, ed i gatti con CRD e insufficienza renale cronica
(CRF) sono portati spesso dal veterinario in un grave stato di
disidratazione. Il giudizio sulla prognosi a lungo termine
non va emesso sulla base dell’aspetto clinico dell’animale e
dei riscontri di laboratorio alla presentazione alla visita.
Spesso, il gatto ed i suoi risultati di laboratorio mostrano dei
netti miglioramenti dopo due o tre giorni di coscienzioso
sforzo per reidratare l’animale. Quando questo è stato totalmente reidratato, si può effettuare un giudizio clinico sulla
fattibilità di un trattamento medico conservativo della CRF.
Alla presentazione iniziale, l’iperazotemia della maggior
parte dei gatti con CRF riconosce una sostanziale componente prerenale, causata da una grave disidratazione che
deve essere risolta mediante somministrazione di fluidi
endovenosi. Dopo reidratazione completa, nei gatti con concentrazioni di creatinina sierica (SCr) comprese nell’intervallo di 2,0-5,0 mg/dl si otterranno probabilmente buoni
risultati con una terapia medica conservativa della CRF.
Anche animali con SCr > 5,0 mg/dl possono essere trattati in
questo modo, ma la loro qualità di vita e la prognosi di
sopravvivenza a lungo termine non sono altrettanto buone.
La disidratazione viene stimata utilizzando caratteristiche
cliniche come il turgore della cute e la valutazione della perfusione periferica (ad es., frequenza e caratteri del polso,
tempo di riempimento capillare). Sfortunatamente, la marcata perdita di grasso sottocutaneo ed elastina nei gatti anziani
con CRF può rendere impegnativa e poco accurata la stima
clinica della disidratazione. Non è raro che i gatti con CRF
siano colpiti, al momento della presentazione alla visita, da
una disidratazione del 10-12%. Quindi, un gatto di 3 kg con
CRF che sia disidratato al 10% necessita di 300 ml di fluido
per correggere la sua disidratazione (0,1 x 3 = 300). I clinici
spesso utilizzano un valore di 60 ml/kg/die per stimare il
fabbisogno di mantenimento dei fluidi nei piccoli animali.
Questo approccio tuttavia sottostima marcatamente il fabbisogno idrico di mantenimento negli animali che pesano
meno di 15 kg. Tale fabbisogno può essere valutato più accuratamente mediante una formula che correla le necessità
idriche alla superficie corporea (cioè 132 x kg0,75). Per esempio, utilizzare 60 ml/kg per stimare le necessità di liquido di
mantenimento richieste in un gatto di 3 kg porta ad un risultato di 180 ml, ma impiegando 132 x kg0,75 si ottiene un valore di 300 ml. Quindi, la “regola pratica” dei 60 ml/kg comporta una sottovalutazione del 40% dei fabbisogni idrici di
mantenimento. Di conseguenza, per stimare questo fabbiso-
gno nei gatti con CRF deve essere utilizzata la formula 132
x kg0,75. La componente finale da considerare per formulare
le necessità di fluidi nelle perdite continue che possono comprendere la dispersione aggiuntiva di liquidi per via urinaria
è rappresentata dalla poliuria. I gatti con CRF devono essere trattati con fluidi cristalloidi alcalinizzanti, come la soluzione di Ringer lattato. Nel corso della fluidoterapia, pesare
ripetutamente l’animale (utilizzando la stessa bilancia) fornisce un’indicazione approssimativa con la quale giudicare il
successo della reidratazione. Ci si deve ricordare di rivalutare l’ematocrito e la concentrazione sierica di proteine durante questo periodo, perché un’eventuale anemia non rigenerativa talvolta si rende evidente solo dopo la reidratazione. Nel
corso di un trattamento a lungo termine, è possibile insegnare ad alcuni proprietari ad effettuare la fluidoterapia percutanea a domicilio e in alcuni casi si può inserire una sonda
da gastrostomia percutanea (PEG) per consentire una somministrazione più agevole di farmaci e liquidi al gatto con
CRF in fase avanzata.
Uno studio effettuato da Barber ed Elliott ha dimostrato
che l’85% dei gatti con CRF presentava un iperparatiroidismo secondario renale (RSHP, renal secondary hyperparathyroidism), che era più comune nei gatti con CRF in stadio avanzato e meno in quelli con CRF lieve. In generale,
l’RSHP nei gatti con CRF può essere trattato mediante una
restrizione di fosforo nella dieta nel 67% circa dei casi, ma
richiede un’integrazione di leganti del fosfato nel restante
33% dei casi. Se il gatto è affetto da CRF avanzata ed iperfosfatemia, la sua risposta clinica può essere monitorata utilizzando la concentrazione di fosforo sierico a digiuno
mirando ad ottenere un intervallo di 2,5-5,0 mg/dl. Invece,
nei gatti con CRF lieve o moderata e concentrazione di
fosforo sierico normale, la valutazione seriale del paratormone sierico (PTH) è un modo più affidabile per monitorare il trattamento della RSHP. Tuttavia, può essere difficile
trovare un laboratorio diagnostico che offra un dosaggio del
PTH che sia stato validato per il gatto. I leganti del fosfato
usati comunemente comprendono composti contenenti alluminio e calcio, come l’idrossido d’allume e il carbonato di
calcio. L’intervallo di dosaggio è compreso fra 90 e 120
mg/kg/die, ma questo dosaggio deve essere aggiustato monitorando la risposta clinica con l’impiego del fosforo sierico
o della concentrazione di PTH. I leganti del fosforo devono
essere somministrati entro 2 ore dal pasto, e il gatto deve
essere monitorato accuratamente per rilevare l’eventuale
comparsa di ipercalcemia se si sta usando carbonato di calcio combinato con calcitriolo. L’epakitina è un prodotto in
142
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
combinazione che contiene carbonato di calcio e chitosano.
Al dosaggio di 1 grammo per 5 kg di peso corporeo due volte al giorno, fornisce 20 mg/kg di carbonato di calcio. Alcuni degli effetti del leganti del fosforo dell’epakitina probabilmente sono dovuti al carbonato di calcio, ma il chitosano
può determinare alcuni benefici aggiuntivi, agendo come
adsorbente di urea ed ammoniaca. Il carbonato di lantano è
un nuovo legante del fosforo che risulta essere più potente, e
può essere provato al dosaggio di 10-40 mg/kg/die.
Nei gatti con CRF, le concentrazioni di calcio totale sierico possono essere basse, normali o elevate. Le alterazioni
nel calcio complessato rendono difficile da prevedere la concentrazione sierica di quello ionizzato, ma spesso gli aumenti del calcio complessato fanno sì che la concentrazione di
calcio sierico totale sia normale, malgrado la presenza di
un’ipocalcemia ionizzata. Nello studio condotto da Barber
ed Elliott, basse concentrazioni di calcio ionizzato sierico
vennero riscontrate soltanto nei gatti con CRF in stadio
avanzato, ed elevate concentrazioni di calcio ionizzato sierico risultarono meno comuni indipendentemente dallo stadio
della CRD. L’interpretazione della calcemia nei gatti con
CRF è ulteriormente complicata dalla comune comparsa, in
questa specie animale, dell’ipercalcemia idiopatica. La concentrazione di calcitriolo sierico viene ridotta negli animali
con CRF avanzata, ma di solito è normale in quelli con
malattia lieve o moderata.
Fino al 20-30% dei gatti con CRF è ipokalemico per gli
effetti combinati di anoressia, perdita di massa muscolare,
poliuria e (occasionalmente) vomito. La deplezione di potassio può essere dannosa per il rene felino e l’alimentazione a
lungo termine con diete carenti di questo elemento può comportare nefrite interstiziale linfoplasmocitaria. L’integrazione è chiaramente indicata nei gatti ipokalemici con CRF, ma
è più controversa in quelli normokalemici con CRF nei quali si sospetti una deplezione del potassio corporeo totale. Più
del 95% delle riserve di potassio organico è intracellulare, e
l’equilibrio di questo ione non può essere valutato facilmente sulla base della sua sola concentrazione sierica. In uno
studio, i gatti normokalemici con CRF dimostrarono una
deplezione muscolare del potassio e furono trattati con gluconato di potassio o gluconato di sodio. In 6 mesi, tra i due
gruppi non vennero dimostrate differenze nella velocità di
filtrazione glomerulare e nella perfusione renale, ma lo studio fu limitato a piccoli numeri di gatti in ciascun gruppo.
Quindi, il problema circa l’integrazione con potassio negli
animali normokalemici con CRF resta, ma molti ritengono
che possa essere utile e che non sia probabilmente dannosa
a condizione che il volume di urina sia adeguato. Tipicamente, l’integrazione con potassio viene attuata alla dose di
2-5 mEq/die sotto forma di gluconato o citrato di potassio.
La risposta iperventilatoria all’acidosi metabolica sembra
essere attenuata nei gatti rispetto ai cani, ed è possibile che i
felini non aumentino l’ammoniogenesi renale con la stessa
efficienza riscontrata nell’acidosi metabolica. Inoltre, molti
alimenti commerciali destinati a questa specie animale sono
formulati per essere acidificanti. Quindi, i gatti con CRF
sembrerebbero predisposti allo sviluppo di acidosi metabolica. Malgrado questo, l’acidosi metabolica sembra essere un
riscontro tardivo nei gatti con CRF. Elliott valutò 59 soggetti con CRF, 20 con forma lieve (SCr 2,0-2,8 mg/dl), 20 con
forma moderata (SCr 2,9-4,5 mg/dl) e 19 con forma grave
(SCr > 4,5 mg/dl) e riscontrò acidemia nel 53% dei gatti del
gruppo con la forma grave, ma solo nel 15% di quelli con la
forma moderata ed in nessuno di quelli con la forma lieve.
La pCO2 media dei gatti con CRF in questo studio variava
fra 33 e 35 mm Hg, supportando l’impressione che la compensazione respiratoria sia minima nei gatti con acidosi
metabolica. Quest’ultima nei soggetti con CRF è una forma
con elevato gap anionico (cioè, la concentrazione di bicarbonato è bassa e quella di cloro è normale o bassa). Il gap
anionico elevato insorge perché gli anioni si accumulano in
modo spropositato, principalmente il fosfato.
Si può considerare la sostituzione degli alcali se il bicarbonato sierico < 12-14 mEq/l. Fonti potenziali di alcali sono
bicarbonato di sodio, gluconato di potassio e citrato di potassio. Quando gli anioni organici come gluconato o citrato
sono metabolizzati nell’organismo, compare un netto incremento di bicarbonato perché l’ADP viene convertito ad ATP
nel ciclo dell’acido citrico, un processo che consuma ioni
idrogeno. Non è chiaro se il trattamento precoce dell’acidosi sia di qualche utilità nei gatti con CRF moderata, ma l’apporto di 2-5 mEq di potassio sotto forma di gluconato di
potassio o citrato di potassio (vedi sopra) dovrebbe anche
determinare un effetto alcalinizzante. In alternativa, si possono diluire 84 g di NaHCO3 in 1 l di acqua per ottenere una
soluzione di 1 mEq/ml che può essere conservata in frigorifero ed utilizzata alla dose di 1 ml per 5 kg di peso due volte al giorno.
Letture consigliate
Barber PJ and Elliott J: Feline chronic renal failure: calcium homeostasis in
80 cases diagnosed between 1992 and 1995. J Small Anim Pract
39:108-116, 1998.
DiBartola SP, Rutgers HC, Zack PM, Tarr MJ: Clinicopathologic findings
associated with chronic renal disease in cats: 74 cases (1973-1984). J
Am Vet Med Assoc 190:1196-1202, 1987.
Elliott J, Syme HM, Markwell PJ: Acid base balance of cats with chronic
renal failure: effect of deterioration in renal function. J Small Anim
Pract 44:261-268, 2003.
Elliott J, Syme HM, Reubens E, Markwell PJ: Assessment of acid base status of cats with naturally-occurring chronic renal failure. J Small
Anim Pract 44:65-70, 2003.
Theisen SK, DiBartola SP, Radin MJ, Chew DJ, Buffington CA, Dow SW:
Muscle potassium content and potassium gluconate supplementation
in normokalemic cats with naturally-occurring chronic renal failure.
J Vet Int Med 11:212-217, 1997.
143
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Fluid, electrolyte, and acid base abnormalities
in cats with chronic renal disease
Stephen P. DiBartola
DVM, Dipl ACVIM, Ohio USA
by which to judge the success of rehydration. Remember to
reassess hematocrit and serum protein concentration during
this time because nonregenrative anemia sometimes only
becomes apparent after rehydration. During long-term management, some owners can be instructed about administering
fluids subcutaneously to the cat at home and in some
instances a percutaneous gastrostomy (PEG) tube can be
placed to allow easy administration of medications and fluids to the cat with advanced CRF.
A study by Barber and Elliott showed that 85% of cats
with CRF had renal secondary hyperparathyroidism
(RSHP) which was most common in cats with advanced
CRF and least common in those with mild CRF. In general,
RSHP in CRF cats can be managed by dietary phosphorus
restriction alone in approximately 67% of cases but requires
addition of phosphate binders in the remaining 33% of cases. If the cat has advanced CRF and hyperphosphatemia, its
clinical response can be monitored using fasting serum
phosphorus concentration aiming for a range of 2.5 to 5.0
mg/dl. However, in cats with mild or moderate CRF and
normal serum phosphorus concentration, serial evaluation
of serum parathyroid (PTH) concentration is a more reliable
way to monitor treatment of RSHP. However it may be challenging to find a diagnostic laboratory that offers a PTH
assay that has been validated for use in cats. Commonly
used phosphate binders include aluminum and calcium containing compounds such as aluminum hydroxide and calcium carbonate. The dosage range is 90-120 mg/kg/day, but
this dosage must be adjusted by monitoring clinical
response using serum phosphorus or PTH concentration.
Phosphorus binders should be administered within 2 hours
of feeding, and the cat should be monitored carefully for the
appearance of hypercalcemia if calcium carbonate is being
used in conjunction with calcitriol. Epakitin is a combination product containing calcium carbonate and chitosan. At
a dosage of 1 gram per 5 kg body weight twice per day, it
supplies 20 mg/kg calcium carbonate. Some of the phosphorus binding effect of Epakitin likely is due to calcium
carbonate, but chitosan may have some added benefit as an
adsorbent for urea and ammonia. Lanthanum carbonate is a
new phosphorus binder that may be more potent, and may
be tried at a dosage of 10-40 mg/kg/day.
Serum total calcium concentrations may be low, normal or
high in cats with CRF. Changes in complexed calcium make
prediction of serum ionized calcium concentration difficult,
but frequently increases in complexed calcium result in normal serum total calcium concentration despite the presence
Cat owners may not notice early signs of chronic renal
disease (CRD) such as polyuria and polydipsia, and cats
with CRD and chronic renal failure (CRF) often are presented to veterinarians in a severely dehydrated state. Judgment about the cat’s long-term prognosis should not be
made on the basis of the cat’s clinical appearance and laboratory findings at presentation. Often, the cat and its laboratory results show dramatic improvement after a conscientious effort to rehydrate the animal over 2 to 3 days.
After the cat has been completely rehydrated, a clinical
judgment can be made about the feasibility of conservative
medical management of the CRF.
At initial presentation, the azotemia in most cats with
CRF has a substantial pre-renal component due to severe
dehydration that must be resolved by intravenous administration of fluids. After complete rehydration, cats with serum
creatinine concentrations (SCr) in the range of 2.0-5.0 mg/dl
are likely to fare reasonably well with conservative medial
management of their CRF. Cats with SCr > 5.0 mg/dl also
can be managed medically, but their quality of life and prognosis for long-term survival are not as good.
Dehydration is estimated using physical features such as
skin turgor and evaluation of peripheral perfusion (e.g. pulse
rate and character, capillary refill time). Unfortunately, the
marked loss of subcutaneous fat and elastin in older cats
with CRF can make clinical estimation of dehydration challenging and inaccurate. It is not unusual for CRF cats to be
10-12% dehydrated on presentation. Thus, a 3 kg cat with
CRF that is 10% dehydrated needs 300 ml of fluid to correct
its dehydration (0.1 ? 3 = 300). Clinicians often us a figure
of 60 ml/kg/day to estimate maintenance fluid needs in small
animals. This approach however markedly underestimates
maintenance fluid needs in animals weighing less than 15
kg. Maintenance fluid needs can be more accurately estimated by a formula that relates fluid needs to body surface
area (i.e. 132 ? kg0.75). For example, use of 60 ml/kg to estimate maintenance fluid requirements in a 3 kg cat yields 180
ml, but using 132 ? kg0.75 yields 300 ml. Thus, the 60 ml/kg
“rule of thumb” results in a 40% underestimation of maintenance fluid needs. Therefore, the formula 132 ? kg0.75 should
be used to estimate maintenance fluid needs in cats with
CRF. The final component to consider in formulating fluid
needs is ongoing losses that could include additional urinary
loss of fluid represented by polyuria. Cats in CRF should be
treated with alkalinizing crystalloid fluids such as lactated
Ringer’s solution. During fluid therapy, serial body weight
(assessed using the same scale) becomes a rough guideline
144
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
of ionized hypocalcemia. In the study by Barber and Elliott,
low serum ionized calcium concentration was only found in
cats with advanced CRF, and high serum ionized calcium
concentrations were uncommon regardless of the stage of
CRD. Interpretation of serum calcium concentrations in cats
with CRF is further complicated by the common occurrence
of idiopathic hypercalemia in cats. Serum calcitriol concentration is decreased in cats with advanced CRF but usually is
normal in those with mild or moderate disease.
As many as 20-30% of cats with CRF are hypokalemic
due to the combined effects of anorexia, loss of muscle
mass, polyuria, and (occasionally) vomiting. Potassium
depletion can be harmful to the feline kidney and long-term
feeding of potassium deficient diets can result in lymphoplasmacytic interstitial nephritis. Supplementation of
hypokalemic cats with CRF clearly is indicated, but this recommendation is more controversial in normokalemic CRF
cats that are suspected to have total body potassium depletion. More than 95% of the body’s potassium stores are
intracellular, and potassium balance cannot be easily
assessed on the basis of serum potassium concentration
alone. In one study, normokalemic cats with CRF were
shown to have muscle depletion of potassium and were treated with potassium gluconate or sodium gluconate. Over 6
months, differences in glomerular filtration rate and renal
blood flow could not be demonstrated between the 2 groups,
but the study was limited by small numbers of cats in each
of the groups. Thus, the question about potassium supplementation in normokalemic CRF cats remains, but many feel
potassium supplementation may be helpful and is not likely
to be harmful as long as urine volume is adequate. Typically, potassium supplementation is provided as 2 to 5 mEq per
day given as potassium gluconate or potassium citrate.
The hyperventilatory response to metabolic acidosis
seems to be blunted in cats as compared to dogs, and cats
may not increase renal ammoniagenesis as efficiently in
metabolic acidosis. Also, many commercial cat foods are
formulated to be acidifying. Thus, CRF cats would seem to
be predisposed to development of metabolic acidosis.
Despite this, metabolic acidosis seems to be a late finding in
cats with CRF. Elliott evaluated 59 cats with CRF: 20 with
mild (SCr 2.0-2.8 mg/dl), 20 with moderate (SCr 2.9-4.5
mg/dl) and 19 with severe (SCr > 4.5 mg/dl) CRF and found
acidemia in 53% of the cats in the severe group, in only 15%
of those in the moderate group and in none of those in the
mild group. The average pCO2 of the CRF cats in this study
ranged between 33 and 35 mmHg, supporting the impression that respiratory compensation is minimal in cats with
metabolic acidosis. The metabolic acidosis in CRF cats is a
high anion gap acidosis (i.e., bicarbonate concentration is
low and chloride concentration is normal or low). The high
anion gap arises because of accumulated unmeasured
anions, principally phosphate.
Alkali replacement can be considered if serum bicarbonate is < 12-14 mEq/L. Potential sources of alkali are sodium
bicarbonate, potassium gluconate, and potassium citrate.
When organic anions such as gluconate or citrate are metabolized in the body, a net gain of bicarbonate occurs as ADP
is converted to ATP in the citric acid cycle, a process that
consumes hydrogen ions. It is unclear if early intervention to
treat acidosis is of any benefit in cats with moderate CRF,
but provision of 2 to 5 mEq of potassium as potassium gluconate or potassium citrate (see above) should also provide
an alkalinizing effect. Alternatively, 84 g NaHCO3 can be
dissolved in 1 L of water to create a 1 mEq/ml solution that
can be stored in the refrigerator and used at a dosage of 1 ml
per 5 kg body weight twice a day.
Selected References
Barber PJ and Elliott J: Feline chronic renal failure: calcium homeostasis in
80 cases diagnosed between 1992 and 1995. J Small Anim Pract
39:108-116, 1998.
DiBartola SP, Rutgers HC, Zack PM, Tarr MJ: Clinicopathologic findings
associated with chronic renal disease in cats: 74 cases (1973-1984). J
Am Vet Med Assoc 190:1196-1202, 1987.
Elliott J, Syme HM, Markwell PJ: Acid base balance of cats with chronic
renal failure: effect of deterioration in renal function. J Small Anim
Pract 44:261-268, 2003.
Elliott J, Syme HM, Reubens E, Markwell PJ: Assessment of acid base status of cats with naturally-occurring chronic renal failure. J Small
Anim Pract 44:65-70, 2003.
Theisen SK, DiBartola SP, Radin MJ, Chew DJ, Buffington CA, Dow SW:
Muscle potassium content and potassium gluconate supplementation
in normokalemic cats with naturally-occurring chronic renal failure.
J Vet Int Med 11:212-217, 1997.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Facciamo il punto su: l’Aspergillosi nei falchi
Antonio Di Somma
Med Vet, SMPA, Dubai, UAE
è sempre affidata all’endoscopia dei sacchi aerei con l’evidenziazione di placche coalescenti e granulomi. Il conseguente esame citologico e colturale dei tessuti prelevati per
biopsia è basilare per la diagnosi. Le alterazioni del quadro
elettroforetico non sono specifiche e possono essere specialmente utili per monitorare il decorso piuttosto che per la prima diagnosi.
Infezioni acute mostrano aumento delle proteine totali e delle betaglobuline mentre quelle croniche mostrano un aumento
delle gammaglobuline a volte unito all’aumento anche delle
betaglobuline.
La titolazione dell’antigene galattomannano, diffusa nella
medicina umana, ha dato risultati inattendibili in altro studio
effettuato nel nostro ospedale.
Spesso la diagnosi clinica si basa su più esami collaterali
piuttosto che su un’unico risultato, tanto è vero che anche la
coltura da reperto bioptico di una colonia di Aspergillus può
insorgere per contaminazione ambientale ed è quindi finanche questa da vedere nel contesto generale diagnostico.
Le infezioni fungine rimangono una causa di significativa
mortalità per tutto il mondo animale, nonostante le più
recenti ricerche e l’emergenza di nuovi agenti antifungini.
L’Aspergillosi aviare è un’opportunistica infezione che
occorre in animali immunocompromessi o quando questi
vengono a contatto con un grande numero di spore fungine.
L’Aspergillosi è anche la più comune delle malattie negli
uccelli selvatici mantenuti in cattività. L’Aspergillosi può
occorrere in tutte le specie aviari ma ci sono alcuni falchi
marcatamente piùpredisposti come gifalchi, astori, giovani
poiane codarossa e aquile reali.
Fra le cause predisponenti vanno annoverate la scarsa
ventilazione dei locali, lo stress legato alle manipolazioni
per la falconeria (abbassamento del peso corporeo) ed il caldo-umido (specialmente per girfalchi). Aspergillus fumigatus è l’agente eziologico più comune ma anche A. flavus, A.
niger e A. terreus sono frequentemente isolati. Il trattamento più efficace è nelle infezioni localizzate o diagnosticate
precocemente mentre casi più gravi sono considerati al di là
di ogni possibile terapia con mortalità che si avvicina al
100/100.
TRATTAMENTO
SEGNI CLINICI
La diagnosi di Aspergillosi dovrebbe essere sempre confermata dato che il trattamento prevede la somministrazione
a medio-lungo termine di farmaci costosi e anche potenzialmente tossici. Il trattamento si dimostra più efficace se la
somministrazione sistemica (usando Itraconazolo o Voriconazolo) è accompagnata da nebulizzazione e applicazione
del principio attivo sulle lesioni in corso di endoscopia. A
volte è necessaria l’asportazione chirugica delle lesioni.
Anni fa la mia struttura ha iniziato un approccio terapeutico con il Voriconazolo che è attualmente considerato la
terapia di scelta dell’Aspergillosi anche in altre specie aviari. Il Voriconazolo è un triazol-derivato di seconda generazione derivato dall’evoluzione in laboratorio del Fluconazolo. È commercializzato in composizioni per via endovenosa
e in compresse da 50 e 200 mg.
Da noi viene utilizzato attualmente alla dose di 12,5 mg/
kg BID o di 18 mg/kg SID. Il Voriconazolo è preparato sciogliendo le compresse da 200 mg in 20 ml di soluzione salina e conservando la soluzione non utilizzata in frigorifero.
La terapia con Voriconazolo ha un costo di circa un euro al
giorno per un falco di 800 grammi (pellegrina). Nei falchi il
Voriconazolo è ben tollerato ai dosaggi terapeutici anche
quando viene la terapia generale è abbinata a quella locale e
alla nebulizzazione. Negli ultimi mesi il mio ospedale sta
I segni clinici sono vari e dipendono dalla gravità della
malattia. Possiamo includere perdita di peso, inappetenza,
dispnea, stridore inspiratorio, ridotta performance nel volo,
tachipnea. Possibile notare anche piumaggio arruffato e, nei
casi più gravi, anoressia e biliverdinuria. Sono discretamente frequenti gravi casi di infezioni dei seni paranasali che
causano ostruzioni degli stessi e finanche osteolisi.
DIAGNOSI
La diagnosi non è mai semplice poiché tali sintomi respiratori possono essere comuni anche ad altre patologie come
la Micobatteriosi e la Clamidofilosi.
I problemi ematologici comprendono leucocitosi, eterofilia, monocitosi e la presenza di eterofili tossici e linfociti
reattivi. Possibile anche l’elevazione degli enzimi epatici.
Un quadro ematico normale comunque non esclude la presenza della malattia. Le anomalie radiologiche includono
opacità nei sacchi aerei e ispessimento della trama bronchiale ma non sono patognomoniche e quasi sempre tardive
rispetto all’insorgenza della malattia. La diagnosi definitiva
146
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
kg di peso di falco). Abbiamo utilizzato il Posaconazolo alla
dose di 12.5 mg/kg BID in falchi con sicura diagnosi di
Aspergillosi e non abbiamo rilevato nessuno degli effetti
indesiderati elencati per pazienti umani. Il prodotto è sempre
stato utilizzato per somministrazione tramite siringa e tubo
metallico direttamente nel gozzo al mattino mentre veniva
somministrato nel cibo (inoculazione in quaglia eviscerata)
alla sera. Abbiamo sviluppato questo protocollo per evitare
lo stress all’animale di essere incappucciato e contenuto per
2 volte al giorno. Dopo la somministrazione al mattino è stato offerto del cibo.
Finora le endoscopie di controllo (ancora in corso) si sono
mostrate soddisfacenti ma il tasso di successo è risultato
uguale o inferiore rispetto a quello del Voriconazolo.
Gli aggiornamenti saranno dati durante la comunicazione
orale in quanto lo studio è ancora in corso.
mettendo a punto un protocollo per la somministrazione del
Posaconazolo nei falchi.
Il Posaconazolo (Noxafil-Shering) e un nuovo potente
triazol derivato che è un risultato dell’evoluzione in laboratorio della molecola dell’Itraconazolo ed è commercializzato dall’anno 2007 per pazienti umani affetti da Aspergillosi
e refrattari al trattamento con Amfotericina o Itraconazolo. Il
Posaconazolo inibisce la sintesi dell’ergosterolo che è un
componente essenziale della membrana fungina inibendone
la crescita. Il suo meccanismo di azione è fondamentalmente lo stesso degli altri triazol derivati ma il suo effetto inibitore è significatamente maggiore.
Il Posaconazolo è attivo anche per la terapia e la prevezione di altre specie fungine cone Scedosporium, Candida e
Histoplasma. In studi in vitro effettuati da circa un anno su
colture fungine da falchi il Posaconazolo ha avuto un’azione
sempre uguale o superiore all’Itraconazolo e in alcuni casi
superiore anche a quella del Voriconazolo. Questi risultati di
MIC 90 si allineano perfettamente a quelli effettuati in studi
su casi di Aspergillosi umani. Il prodotto è commercializzato in soluzione orale alla concentrazione di 40 mg/ml ed ha
un costo molto elevato (terapia costa 4 euro giornalieri per
Indirizzo per la corrispondenza:
Dr Antonio Di Somma
E-mail: [email protected]
147
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Principali patologie dell’anziano e loro cura
(cause, terapia e nutrizione): artropatia degenerativa
Roberto Elices-Mínguez
Prof, DVM, PhD, Madrid, Spain
Le patologie osteoarticolari rappresentano gran parte delle
visite effettuate presso le nostre cliniche. Si stima che il 50%
dei cani e dei gatti di età superiore agli 8 anni sia colpito da
processi degenerativi progressivi a carico delle articolazioni.
L’osteoartrite è una malattia lenta, caratterizzata da perdita
della cartilagine articolare, che viene sostituita da osso, con
formazione, in alcuni casi, di osteofiti. La conseguenza di tutto questo è lo sviluppo di un processo infiammatorio nella parte interessata, che esita nell’immobilizzazione del paziente a
causa del dolore. Quindi, è una patologia che colpisce direttamente la qualità della vita di animale e proprietario. Nel cane
queste affezioni sono state studiate approfonditamente, ma nel
gatto sono passare inosservate. Tuttavia, di recente sono
diventate importanti anche in questa specie animale. Nel complesso, sono caratterizzate da una zoppia che colpisce gli arti
quando fa freddo, che migliora con l’esercizio e peggiora
dopo il riposo che segue un’attività fisica intensa. La visita clinica può rivelare tumefazione, dolore, crepitii e riduzione dell’estensione dei movimenti. Negli animali da compagnia in
età geriatrica l’eziologia è mista, primaria (età) e secondaria
(altri fattori), dato che l’accentuazione delle alterazioni ortopediche si somma all’età avanzata del paziente.
Un grande numero di queste patologie riconosce una componente genetica, ma per il loro sviluppo sono stati descritti
numerosi fattori di rischio: età, appartenenza alle razze di
grossa taglia o giganti, sesso (maschio), mancato controllo
dell’alimentazione durante l’accrescimento e sovralimentazione nello stadio adulto (obesità). È vero che, nell’ambito
di questa classificazione, rientrano lesioni di basso grado che
originano come conseguenza di un indebolimento naturale.
L’artropatia degenerativa è un circolo vizioso: il danno
alla cartilagine provoca rigonfiamento con rilascio di citochine, che danneggiano la cartilagine ancora di più. Alla
fine, l’articolazione non viene lubrificata appropriatamente e
la cartilagine non è nutrita in modo adeguato. Man mano che
il tempo passa, la struttura istologica della cartilagine cambia e si instaura una perdita della sua idratazione e flessibilità. Questo danno cellulare finisce per formare una cicatrice
acellulare con un contenuto limitato di proteoglicani. Le
articolazioni più colpite sono gomiti, ginocchia ed anche. Di
solito questa condizione è bilaterale.
Dato che non si dispone di un trattamento specifico per
questa patologia, il problema non è facile da risolvere.
Innanzi tutto, l’obiettivo primario è ottenere una perdita di
peso nei pazienti obesi. D’altra parte, la chirurgia ed i farmaci aiutano a ridurre il dolore ed il gonfiore, ma si devono
ancora correggere le cause che predispongono o aggravano
questi segni clinici. Inoltre, è molto interessante l’impiego di
integratori nutrizionali che proteggano o sintetizzino la cartilagine (glicosaminoglicani e condroitina), nonché l’uso di
elementi attivi con effetti antiossidanti (vitamine E e C) o
antinfiammatori (acidi grassi omega 3) e l’introduzione di
specifici programmi di allenamento/esercizio, adeguando
l’attività al livello di intensità della malattia.
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Degenerative osteoarhritis
Roberto Elices-Mínguez
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Osteoarticular pathologies represent a great part of the
visits to ours clinics. It is estimated that 50% of dogs and
cats over 8 years old suffer from progressive degenerative
processes in their joints. Osteoarthritis is a slow disease
which is characterized by the loss of articular cartilage,
being replaced by bone, with formation, in some cases, of
osteophytes. The consequence of all this is the development
of an inflammatory process in the region which results in
immobility provoked by pain to the patient. It is therefore a
pathology that affects directly the patient’s and the owner’s
quality of life.
These diseases are thoroughly studied in dogs, but have
gone unnoticed in cats. They have become important recently, though. On the whole, they are characterized by a limp of
the affected limb when cold, which gets better through exercise and worse after rest subsequent to intense exercise.
Physical examination may reveal tumefaction, pain, crackling and decrease in the extent of movements.
In geriatric pets, the aetiology is mixed, primary (age) and
secondary (other factors), as growth orthopaedic alterations
meet the advanced age of the patient.
A large number of these pathologies have a genetic component, but in their development numerous risk factors have
been described: age, large or giant breeds, sex (male), lack
of feeding control in the growing stage and overfeeding in
the adult stage (obesity). It is true that, within this classification, there are low-grade injuries which originate as a consequence of natural weakening.
Degenerative arthropathy is a loop; the cartilage injury
provokes swelling with release of citokins, which damage
the cartilage even more. In the end, the joint does not lubricate properly and the cartilage is not nourished adequately.
As time goes by, the histological structure of the cartilage
changes: a loss of its hydration and flexibility takes place.
This cell damage ends up forming an acellular scar with a
limited content of proteoglycans. The most affected joints
are elbows, knees and hips. Its condition is usually bilateral.
Resulting from not having a specific treatment for this
pathology, it is a problem which is not easy to get to grips
with. First of all, weight loss in obese patients should be the
primary goal. On the one hand, surgery and drugs help
decrease pain and swelling, but we still have to correct the
causes that predispose or aggravate these symptoms. On the
other hand, it is very interesting to use nutritional supplements which protect or synthesize cartilage (glycosaminoglycans and condroitin) as well as the use of active elements
with antioxidant effects (vitamins E and C) or anti-inflam-
matory (omega 3 fatty acid), and the introduction of specific training/exercise programmes, matching the activity to the
disease intensity level.
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Principali patologie dell’anziano e loro cura:
insufficienza cardiaca
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Prof, DVM, PhD, Madrid, Spain
Le affezioni cardiovascolari sono ancora uno dei disordini più comuni nei cani e nei gatti adulti e anziani.
Per le malattie cardiovascolari degli animali da compagnia sono stati riportati molti fattori di rischio ed associazioni cliniche. Nella medicina veterinaria dei piccoli animali possiamo riconoscere diverse patologie: i cani di piccola e media taglia sono predisposti alle valvulopatie, mentre in quelli di grossa taglia e nei gatti è stata descritta la
miocardiopatia dilatativa. In relazione alla causa primaria
ed alla gravità della cardiopatia, i segni clinici possono
variare da paziente a paziente e non sono in alcun modo
patognomonici di cardiopatia vascolare.
Le manifestazioni della malattia possono comprendere
debolezza ed intolleranza all’esercizio, tosse, letargia, inappetenza, vomito, diarrea, tachipnea, difficoltà respiratoria,
sincope o collasso.
Oltre alle somministrazioni di farmaci, il trattamento ottimale prevede anche un’accurata attenzione alla dieta. In
passato l’obiettivo della terapia nutrizionale era sintomatico, data la limitata disponibilità di farmaci. Oggi, negli animali da compagnia con cardiopatie la perdita di peso e l’obesità possono essere dei problemi addizionali o meno e
possono influire negativamente sulla salute. Quindi, il trattamento nutrizionale si basa su misure volte a fornire la
quantità ottimale di calorie, evitare carenze ed eccessi degli
altri principi nutritivi (come sodio e cloro) ed aumentare i
potenziali benefici di alcuni di essi. Nell’uomo l’obesità è
un fattore di rischio di malattia cardiovascolare, ma fra i
pazienti umani con insufficienza cardiaca quelli sovrappeso
ed obesi presentano una sopravvivenza migliore rispetto ai
casi di controllo normali o sottopeso – è il cosiddetto paradosso dell’obesità. Come nell’uomo, nel cane con insufficienza cardiaca le variazioni del peso corporeo sono associate alla sopravvivenza, che risulta più prolungata nei soggetti che aumentano di peso. Ciò può essere dovuto a numerose ragioni, come il ruolo cardioprotettore delle molecole
neuroendocrine derivate dal tessuto adiposo, quali le citochine e gli ormoni.
I pazienti obesi possono essere portati alla visita a causa
di una cardiopatia più precocemente rispetto a quelli non
obesi. L’incremento ponderale può anche essere un indicatore di una migliore risposta al trattamento; in altre parole,
il fatto che il peso del cane resti costante o diminuisca denota una cattiva risposta alla terapia. Infine, il paradosso dell’obesità può essere più attribuibile alla mancanza di
cachessia, dati gli effetti negativi documentati che questa ha
nei pazienti umani con insufficienza cardiaca.
Gli scopi della nutrizione non sono più limitati ad una dieta iposodica, dato che la ricerca oggi sta dimostrando che i
principi nutritivi possono modulare la malattia ed essere un
importante ausilio alla terapia medica. Le carenze di alcuni
di essi, come la taurina, l’arginina, i minerali e le vitamine
(potassio, magnesio e vitamine del gruppo B), possono contribuire alle miocardiopatie, ma alcuni principi nutritivi particolari come gli acidi grassi n-3, l’L-carnitina e gli antiossidanti possono avere benefici farmacologici specifici.
Le modificazioni dell’alimentazione degli animali da
compagnia con insufficienza cardiaca vanno attuate caso per
caso, su base individuale. In questi pazienti si osservano delle variazioni a carico di molti fattori (segni clinici, parametri biochimici) e questo deve condizionare la scelta della dieta. Occorre valutare tutte queste situazioni e tenere a mente
che i proprietari, talvolta, utilizzano integratori dietetici,
erbe o nutraceutici che non sono regolati da norme relative
alla prescrizione. Gli effetti di alcuni prodotti da erboristeria
si possono sommare alle terapie standard con i farmaci cardiaci e bisogna prendere in considerazione le potenziali interazioni farmacologiche.
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Cardiovascular diseases: heart failure
Roberto Elices-Mínguez
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Cardiovascular disease is still one of the most common
life disorders in adult and older dogs and cats.
Many risk factors and clinical associations have been
reported for cardiovascular diseases in pets. In small animal
veterinary medicine we can recognize different diseases:
small and medium dogs are predisposed to valvular diseases,
while dilated cardiomyopathy has been describe in large breed
dogs and cats. Depending on the primary cause and severity
of the cardiac disease, clinical signs can vary from patient to
patient and are by no means pathognomonic for cardiovascular disease. Clinical signs may include weakness and exercise
intolerance, cough, lethargy, inappetence, vomiting, diarrhea,
tachypnea, respiratory distress, syncope, or collapse.
In addition to medications, optimal treatment also includes
careful attention to the diet. In the past, the goal of nutrition
management was symptomatic, due to the limited drugs available. Now, weight loss and obesity can be additional problems,
or not, in animals with cardiac disease, and can adversely affect
the pet’s health. So, providing the optimal number of calories,
avoiding deficiencies and excesses (i.e. sodium and chloride) in
other nutrients, and increasing potential benefits of certain special nutrients are the basis in the nutritional management.
Obesity is a risk factor for cardiovascular disease in people,
but overweight and obese human heart failure patients have
improved survival compared with normal- or underweight
controls—the obesity paradox. As in humans, body weight
changes are associated with survival in dogs with heart failure,
with dogs gaining weight having the longest survival time.
There are a number of possible reasons: i.e. cardioprotective
role of adipose tissue-derived neuroendocrine molecules,
including cytokines and hormones. Obese patients may present earlier for their heart disease than nonobese patients.
Weight gain also may be an indicator of better response to
treatment; ie, if dogs maintain or lose weight, they had a poor
response to therapy. Finally, the obesity paradox may be more
attributable to the lack of cachexia, given the adverse effects
documented for cachexia in human heart failure patients.
The goals of nutrition are no longer limited to a low-sodium diet, as research is now showing that nutrients can modulate disease and be an important adjunct to medical therapy. Deficiencies of certain nutrients can contribute to cardiomyopathies, as with taurine, arginine, minerals and vitamins (potassium, magnesium and B vitamins) but some special nutrients-such as n-3 fatty acids, L-carnitine, and antioxidants-may have specific pharmacologic benefits.
Feeding modification in pets with HF needs to be individualized. These patients vary in terms of many factors
(clinical signs, biochemical parameters…) and this should
affect to the diet selection. We must evaluate all of these
situations and keep in mind that owners, sometimes, use
dietary supplements, herbs or nutraceuticals not regulated
by law. Some herbal therapies can have additive effects to
standard cardiac drug therapy and potential drug interactions need to be considered.
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Principali patologie dell’anziano e loro cura:
insufficienza renale cronica
Roberto Elices-Mínguez
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Col termine di insufficienza renale cronica (CRF, chronic
renal failure) si indica la perdita irreversibile delle capacità
funzionali dei reni in seguito ad una riduzione del numero di
nefroni funzionanti. Nel primo stadio, i nefroni residui
aumentano le proprie dimensioni ed il proprio carico di lavoro per compensare la perdita di nefroni. Nonostante questo
effetto cronico, la distruzione dei nefroni innesca un’ulteriore compensazione e promuove un ciclo di adattamento, che
progredisce sino ad insufficienza renale, sindrome uremica e
morte. Lo stadio terminale della nefropatia è definito come
l’insufficienza quasi completa della funzione renale o una
distruzione irreversibile ed è caratterizzato da sclerosi glomerulare estesa, atrofia tubulare, infiammazione interstiziale e fibrosi. La fibrosi renale è una delle vie che portano
comunemente all’insufficienza dell’organo. Nella fibrogenesi renale sono coinvolti immunociti infiltranti nel rene in stadio terminale e diversi fattori correlati.
L’insufficienza renale cronica è un problema clinico
comune che compare nel 2-5% dei cani sopra i 6,5 anni. È al
terzo posto fra le principali cause di morte nel cane. Nel gatto, la prevalenza è del 2-10%, fino al 53% nei soggetti di età
superiore ai 7 anni. L’insorgenza della condizione tende ad
essere insidiosa, dato che la funzione renale generalmente va
incontro ad un declino che si sviluppa nell’arco di un periodo di mesi od anni.
La perdita della funzione renale ha effetti a diversi livelli:
sistema endocrino, equilibrio elettrolitico ed acido-basico,
metabolismo del calcio e sintesi degli eritrociti. D’altra parte si riscontrano le conseguenze di elevate concentrazioni di
urea in sangue e tessuti.
Il trattamento medico è mirato a ridurre il lavoro della
quota funzionalmente ancora attiva dei reni, attenuare la
condizione uremica, compensare i disordini metabolici ed in
ultimo rallentare il decorso del processo patologico. La terapia nutrizionale è il punto di forza del controllo di questa
malattia. Gli interventi sono finalizzati ad agire su anoressia,
perdita di peso, appropriata filtrazione glomerulare, tossine
uremiche ed anomalie scheletriche. La nutrizione gioca un
ruolo chiave nel migliorare la qualità della vita e la speranza
di vita di questi pazienti, ritardando la progressione della
malattia. Gli interventi nutrizionali tipici comprendono la
modificazione delle concentrazioni di proteine, fosforo e
lipidi. I livelli di proteine sono molto importanti per il contenimento di iperazotemia ed uremia. Il controllo precoce
delle alterazioni del fosforo può aumentare la sopravvivenza
del paziente. Questo minerale è stato messo in relazione alla
progressione della malattia. Alcune prove condotte con livel-
li diversi di fosforo e proteine sono giunte a suggerire che i
pazienti traggano beneficio da bassi livelli di questi principi
nutritivi. La terapia nutrizionale, tuttavia, non consiste semplicemente in un cambiamento della dieta: bisogna anche
accertarsi che venga garantita un’assunzione calorica adeguata e valutare il metodo di somministrazione degli alimenti. È anche di importanza cruciale monitorare gli effetti
della terapia dietetica, per assicurare che i pazienti rispondano appropriatamente alle modificazioni nutrizionali stabilite.
Per il successo a lungo termine della terapia, è necessario
coordinare la gestione della nutrizione con quella dei trattamenti medici. Lo stress ossidativo può contribuire alla progressione dell’insufficienza renale cronica. Inoltre, l’incorporazione di alcuni principi nutritivi specifici come gli
antiossidanti (quali gli integratori contenenti vitamina E, C e
beta-carotene, acidi grassi omega-3 e -6) esercita effetti protettivi sull’animale.
In ogni caso, data la dinamica e la natura progressiva di
questa malattia, il trattamento non è efficace quando si è allo
stadio IV, in cui i proprietari richiedono l’eutanasia per
ragioni umanitarie. La diagnosi ed il trattamento precoci
assicurano un’alternativa accettabile.
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Roberto Elices-Mínguez
Animal Nutrition. Endocrine and Obesity Service
Faculty of Veterinary Medicine. U.C.M. (Madrid-Spain)
154
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Chronic renal failure
Roberto Elices-Mínguez
Prof, DVM, PhD, Madrid, Spain
Chronic renal failure represents the irreversible loss of
functional capacities of the kidneys as a result of a reduction
in the number of functioning nephrons. In the first stage, the
remaining nephrons increase their size and their work load
to compensate for nephron loss. Nevertheless this chronic
effect, with nephron destruction initiates further compensation, promotes a cycle of adaptation, who progress into renal
failure, uremic syndrome and death. The end-stage of renal
disease is defined as the almost complete failure of renal
function or irreversible destruction and is characterized by
extensive glomerular sclerosis, tubular atrophy, interstitial
inflammation, and fibrosis. Renal fibrosis is a common pathway leading to kidney failure. Infiltrating immunocytes in
the end-stage kidney and several related factors are involved
in renal fibrogenesis.
CRF is a common clinical problem occurring in 2-5% of
dogs over 6.5 years. It is the third leading cause of death in
dogs. In cats, the prevalence is 2-10%, up to 53%, over 7
years old. The onset of renal failure tends to be insidious as
renal function generally declines over a period of months
to years.
Renal function loss has effects over different levels:
endocrine system, electrolyte acid-base balance, calcium
metabolism and the synthesis of erythrocytes. On the other
hand, we have the consequences of high urea concentrations
in blood and tissues.
Medical treatment has supported to reduce the work of the
functional kidneys, to reduce uremic status, to compensate
metabolic disorders, and ultimately slow down the disease.
The nutritional therapy is the mainstay of control this disease. The objectives are determined by anorexia, weight
loss, proper glomerular filtration, uremic toxins and skeletal
abnormalities. Nutrition plays a key role in improving quality of life and life expectancy of these patients retarding progression of the disease. Typical nutritional interventions
include modifying the protein, phosphorus, and lipid concentrations. Protein levels are very important for control of
azotemia and uremia. The premature control of phosphorus
alterations can increase the survival of the patient. This mineral has correlated with disease progression. Some conducted trials have done with different levels of phosphorus and
protein, and as conclusion suggests that patients benefit from
low levels of these nutrients. Nutritional therapy, however,
does not simply mean changing the diet; consideration must
also be given to ensuring adequate caloric intake and to the
method of feeding. Monitoring the effects of the dietary
therapy is also crucial to ensure that the patients are respond-
ing appropriately to the selected nutritional modifications.
Nutritional management must be coordinated with medical
management for long term successful treatment.
Oxidative stress may contribute to the progression of
chronic renal failure. Moreover, the incorporation of some
specific nutrients such as antioxidants, i.e. supplements of
vitamins E and C and beta-carotene, omega 3 and 6 fatty
acids exert protective effects on the animal.
Anyway, as the dynamic and progressive nature of this
disease, the treatment is not efficient when we are at stage
IV, so that the owners requested euthanasia for humanitarian
reasons. Earliest diagnosis and treatment assures an acceptable alternative.
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chronic renal disorders of the dog and cat. Vet Res Commun. August
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Address for correspondence:
Roberto Elices-Mínguez
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Faculty of Veterinary Medicine. U.C.M. (Madrid-Spain)
156
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Come possiamo riconoscere la CKD felina
in fase iniziale?
Jonathan Elliott
MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, Londra, UK
gressione. In 14 dei gatti in cui è stato riscontrato un andamento progressivo si è rilevato uno scadimento per tappe
della funzione renale (>50% di aumento della concentrazione della creatinina plasmatica), mentre nei restanti 7 casi la
progressione è stata di tipo lineare. Altri studi volti a stabilire gli effetti della dieta sulla sopravvivenza dei gatti con
CKD avevano rilevato che la percentuale degli animali venuti a morte a causa della malattia sul totale di quelli presi in
considerazione era compresa tra il 25% ed il 54% (Ross et
al., 2006; Elliott et al., 2000), anche se definire la causa di
morte non è sempre facile.
INTRODUZIONE
La nefropatia cronica è una delle sindromi più comuni del
gatto che invecchia e causano una morbilità e mortalità
significativa. Malgrado molto interesse e molte ricerche, la
ragione della predisposizione dei felini alla CKD non è
emersa. È stato suggerito che si tratti di un naturale fenomeno di invecchiamento di questi animali quando si trovano in
un ambiente che consente loro di vivere molto più a lungo
che nella condizione di quelli selvatici (Lawler et al., 2006).
Anche se si tratta di un’ipotesi interessante, questa sindrome
è senza dubbio eterogenea e non v’è dubbio che in alcuni
gatti la durata della vita venga abbreviata da un progressivo
deterioramento della funzione renale, che porta a segni clinici insopportabili e cattiva qualità della vita.
IDENTIFICARE LA NEFROPATIA CRONICA
FELINA AD UNO STADIO PRECOCE
PREVALENZA DELLA NEFROPATIA
CRONICA FELINA
Misurazione della velocità di filtrazione
glomerulare - il test risolutivo
della massa renale funzionale
Sfortunatamente, i dati epidemiologici attendibili sulla
prevalenza della CKD nel gatto sono scarsi e molti di quelli
pubblicati sono aneddotici e non correlati ad una ben definita popolazione di gatti a rischio. Recentemente, abbiamo
riportato uno studio clinico nel corso del quale sono stati
raccolti gatti sani di età superiore a 9 anni che risultavano
normali alla visita clinica ed agli esami biochimici di routine. Questi casi sono stati seguiti per 12 mesi e dei 98 gatti
sottoposti ad un follow-up di questa durata, 29 (29,6%) presentavano delle concentrazioni di creatinina plasmatica al di
fuori dei limiti di riferimento del nostro laboratorio e corrispondevano ai criteri diagnostici di un’affezione da CKD
(Jepson 2008). Ciò venne confrontato dalla prevalenza del
9,2% (9/98) di gatti dello stesso gruppo che avevano sviluppato ipertiroidismo durante lo stesso periodo. Quindi, non
v’è dubbio che la CKD sia una condizione comune. Altro
interrogativo è come questa spesso progredisca in un’“uremia” grave e debilitante.
La condizione non è stata esaminata molto frequentemente in modo sistematico. In uno studio relativo a 55 gatti
reclutati presso alcune strutture veterinarie di primo livello
della zona centrale di Londra, 21 casi (38%) mostrarono le
prove di una progressione, mentre gli animali restanti presentavano concentrazioni di creatinina plasmatica stabili
(variazioni di meno del 20% con un peso corporeo stabile)
in un periodo di almeno 365 giorni (Elliott et al., 2003). In
questo studio, sono stati osservati due diversi quadri di pro-
La concentrazione di creatinina plasmatica è un indicatore poco sensibile ed indiretto della velocità di filtrazione
glomerulare (GFR, glomerular filtration rate). Questo per
due principali ragioni. In primo luogo, la velocità di formazione della creatinina è correlata alla massa muscolare
dell’animale, che è variabile (tendendo a ridursi con l’età).
Secondariamente, esiste una relazione esponenziale fra
creatinina plasmatica e GFR, per cui modificazioni relativamente ampie della GFR (rispetto all’intervallo normale)
si riflettono in alterazioni relativamente piccole nella concentrazione della creatinina plasmatica. Le misurazioni
seriali di quest’ultima, tuttavia, forniscono informazioni
valide nell’ambito di un singolo gatto ed in una popolazione di gatti con valori di creatinina compresi nell’intervallo
di riferimento di laboratorio, quelli con livelli di creatinina
ai limiti superiori della norma (stadio IIa della classificazione IRIS) hanno maggiori probabilità di diventare iperazotemici di quelli con valori ai limiti inferiori della norma
(stadio I della classificazione IRIS) (Jepson 2008). I metodi pratici per misurare la GFR che comportano una strategia di campionamento limitata richiedono un’ulteriore
standardizzazione prima di poter essere consigliati per un
impiego di routine nella pratica clinica.
Un approccio alternativo sarebbe quello di “coreggere”
il valore della concentrazione della creatinina plasmatica
tenendo conto di massa muscolare, età ed altri fattori non
renali che influenzano questo parametro, in modo da riflettere meglio la GFR.
157
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Marker urinari di fibrosi interstiziale e
danno tubulare
Per esempio, è stato ipotizzato un ruolo della cauxina come
proteina urinaria che riflette la massa dei tubuli funzionanti
e si è ipotizzato che la sua escrezione urinaria diminuisca
con la perdita dei nefroni funzionanti. La N-acetil-β-D-glucosaminidasi è un enzima rilasciato dalle cellule tubulari
quando sono danneggiate o sottoposte a stress. La proteina
legante il retinolo è una proteina a basso peso molecolare
che viene filtrata liberamente e di norma viene totalmente
riassorbita dalle cellule tubulari prossimali, per cui la sua
comparsa nell’urina è indicativa di un danno tubulare. Sembra probabile che la misurazione di un quadro proteico urinario consenta di ottenere il maggior numero di informazioni sulla salute renale e sulla probabilità di sviluppo e progressione della CKD nel gatto. Saranno necessari ulteriori
lavori in questa area e, se si vogliono ottenere progressi
significativi in questo campo, pare auspicabile l’impiego di
moderni approcci proteomici per identificare nuovi biomarker specifici per il gatto.
Comprendere i meccanismi coinvolti nella promozione
della fibrosi interstiziale e dell’infiammazione nella nefropatia felina è la chiave per individuare nuovi biomarker utili per rilevare precocemente la CKD ed identificare i casi in
cui è probabile una rapida progressione, che quindi trarrebbero il maggior beneficio da questi trattamenti. Sono stati
fatti alcuni progressi nell’area dei biomarker. Da studi epidemiologici è chiaro che, benché la CKD felina sia prevalentemente una patologia interstiziale, un basso livello di
proteinuria è predittivo di tutte le cause di mortalità (Syme
et al., 2006). Questo studio non cerca di separare la progressione renale da altre cause di deterioramento della salute e di
mortalità. Tuttavia, la proteinuria è anche predittiva di sviluppo di iperazotemia in gatti apparentemente sani di età
avanzata (Jepson 2008). La correlazione tra i due casi è
lineare, con un aumento della proteinuria associato all’incremento del rischio di morte o sviluppo di iperazotemia. La
difficoltà è definire valori soglia clinicamente utili che forniscano validi criteri prognostici.
I fattori di rischio per la proteinuria nel gatto con CKD
comprendono la pressione arteriosa sistemica e lo stadio della malattia, nonostante il fatto che l’ipertensione di per sé
non sembri essere un fattore di rischio indipendente per la
mortalità nei gatti con nefropatia cronica (Syme et al., 2006)
o con ipertensione (Jepson et al., 2007), né per lo sviluppo
dell’iperazotemia in un normale gatto anziano (Jepson,
2008). Queste osservazioni supportano l’ipotesi che la proteinuria in molti casi di CKD sia probabilmente spinta da
iperfiltrazione ed aumento della pressione capillare glomerulare. Ciò è causato da vasodilatazione arteriolare afferente, che espone il letto capillare glomerulare alla pressione
arteriosa sistemica, e vasocostrizione arteriolare efferente
causata da attivazione locale della concentrazione reninaangiotensina-aldosterone, un fenomeno che sembra aumentare con l’incremento della perdita dei nefroni funzionanti.
Sia i livelli di proteine totali che l’albumina nell’urina
sono marker utilizzati correntemente, che riflettono l’incremento del carico proteico che sfugge al filtro glomerulare e
supera la capacità delle cellule tubulari di riassorbire le proteine. Quelle a basso peso molecolare possono essere utilizzate come marker più specifici di disfunzione tubulare (incapacità di riassorbire proteine a basso peso molecolare che
normalmente vengono filtrate) o marker di danno tubulare.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Jonathan Elliott
The Royal Veterinary College,
University of London, Londra (UK)
158
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
How can we recognise kidney disease
at an early stage?
Jonathan Elliott
MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, London, UK
INTRODUCTION
identified between 25 and 54% of cats entered into these
studies have died of because of CKD (Ross et al., 2006;
Elliott et al., 2000) although defining the cause of death is
not always easy.
Chronic kidney disease is one of the most common disease syndromes afflicting the aging cat and causes significant morbidity and mortality. Despite much interest and
research, the reason(s) for the propensity of the cat to develop CKD have not been revealed. The suggestion has been
made that this is a natural aging phenomenon of cats when
they are placed in an environment which allows them to live
much longer than they would in their wild state (Lawler et
al., 2006). Whilst this suggestion is an interesting one, this
syndrome is definitely a heterogeneous one and there is no
doubt that in some cats their lifespan is curtailed by progressive deterioration in renal function leading to intolerable
clinical signs and poor quality of life.
IDENTIFYING FELINE CHRONIC KIDNEY
DISEASE AT AN EARLY STAGE
Measurement of glomerular filtration
rate – the ultimate test of functional
renal mass
Plasma creatinine concentration is an insensitive and indirect indicator of glomerular filtration rate (GFR). This is for
two main reasons. Firstly, the rate of creatinine formation is
related to the muscle mass of the animal which varies (tending to decrease with age). Secondly, there is an exponential
relationship between plasma creatinine and GFR with relatively large changes in GFR (around the normal range) being
reflected in relatively small changes in plasma creatinine
concentration. Serial plasma creatinine measurements are,
however, informative within an individual cat and in a population of cats with creatinine in the laboratory reference
range, those with high end of normal creatinine (IRIS stage
IIa) are more likely to become azotaemic than those with
low end of normal creatinine (IRIS stage I) (Jepson 2008).
Practical methods to measure GFR which involve a limited
sampling strategy require further standardisation before they
can be recommended for routine use in clinical practice. An
alternative approach would be to adjust plasma creatinine
concentration to take account of muscle mass, age and other
non-renal factors that influence creatinine so that it better
reflects GFR.
PREVELANCE OF FELINE CHRONIC
KIDNEY DISEASE
Good epidemiological data defining the prevalence of
CKD in cats are sadly lacking and much of the published
data referring to prevalence is anecdotal and not related to a
defined population of cats at risk. We recently reported on a
prospective clinical study where we recruited healthy cats
over the age of 9 years that were normal on physical examination and routine clinical biochemistry testing. These cases
were followed for 12 months and of the 98 cats with this
length of follow-up, 29 (29.6%) had plasma creatinine concentrations outside of our laboratory reference range and
met the diagnostic criteria of having CKD (Jepson 2008).
This compared to a prevalence of 9.2% (9/98) of the same
group of cats that developed hyperthyroidism over the same
period. Thus, there is no doubt CKD is a common condition.
How often it progresses to severe and debilitating ‘uraemia’
is another question. This has not been systematically studied
very often. In a study of 55 cats recruited from primary care
practices in central London 21 cases (38%) showed evidence
of progression with the remaining cats having stable plasma
creatinine concentrations (changes of less than 20% with
stable body weight) over a period of at least 365 days (Elliott
et al, 2003). There were two different patterns of progression
in this study. Step-wise decrements in renal function (>50%
increase in plasma creatinine concentration) in 14 of the cats
that progressed whereas linear progression was detected in
the remaining 7 cases. Other prospective studies assessing
the the effects of diet on survival of cats with CKD have
Urinary markers of interstitial fibrosis
and tubular damage
Understanding the mechanisms involved in promoting
interstitial fibrosis and inflammation in the diseased feline
kidney is key to devising new biomarkers for early detection
of CKD and identifying those cases that are likely to
progress rapidly and therefore would benefit most from such
treatments. Some progress is being made in the biomarker
area. From epidemiological studies it is clear that although
feline CKD has predominantly an interstitial pathology, low
level proteinuria is predictive of all cause mortality (Syme et
al., 2006). This study did not attempt to separate out renal
progression from other causes of deteriorating health and
159
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
is freely filtered and normally completely reabsorbed by the
proximal tubular cells to its appearance in urine is indicative
of tubular damage. It seems likely that measurement of a
panel of urinary proteins will provide the most information
about renal health and likelihood of the development and
progression of CKD in the cat. Further work in this area is
warranted and the use of modern proteomic approaches to
identify novel biomarkers specific to the cat seems desirable
if significant progress is to be made in this area.
mortality. However, proteinuria is also predictive of development of azotaemia in apparently healthy aged cats (Jepson
2008). The relationship in both instances is a linear one with
increasing proteinuria being associated with increasing risk
of death or development of azotaemia. The challenge is to
define clinically useful cut-points which provide robust
prognostic criteria.
Risk factors for proteinuia in cats with CKD include systemic arterial blood pressure and the stage of the disease
although hypertension per se does not appear to be an independent risk factor for mortality in the CKD feline patient
(Syme et al., 2006), in the hypertensive feline patient (Jepson et al., 2007) nor for the development of azotaemia in the
normal aged feline (Jepson 2008). These observations support the hypothesis that proteinuria in many CKD cases is
probably driven by hyperfiltration and raised glomerular
capillary pressure. This is caused by afferent arteriolar
vasodilation exposing the glomerular capillary bed to systemic arterial blood pressure and efferent arteriolar vasoconstriction, caused by local activation of the renninangiotensin-aldosterone concentration, a phenomenon that
appears to increase with increasing loss of functioning
nephrons.
Both total protein and albumin in the urine are markers
currently used, reflecting the increased load of protein
escaping across the glomerular filter and exceeding the
capacity of tubular cells to reabsorb protein. Low molecular
weight proteins can be used as more specific markers of
tubular dysfunction (inability to reabsorb low MW proteins
that are normally filtered) or markers of tubular damage. For
example, cauxin has been suggested as a urinary protein that
reflects mass of functioning tubules and it has been hypothesised urinary excretion of this protein decreases with loss of
functioning nephrons. N-acetyl-®-D-glucosaminidase is an
enzyme released from tubular cells when they are damaged
or stressed. Retinol binding protein is a low MW protein that
Rerefences
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cats. J Am Vet Med Assoc 2006; 229 (6): 949-957
Syme HM, Markwell PJ, Pfeiffer DU, et al. Survival of cats with naturally
occurring chronic renal failure is related to severity of proteinuria. J
Vet Intern Med 2006; 20(3): 528-35.
Address for correspondence:
Jonathan Elliott
The Royal Veterinary College
University of London, London UK
160
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Iperfosfatemia e malattia renale cronica nel gatto
Jonathan Elliott
MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, Londra, UK
Iperfosfatemia e danno renale progressivo
da questo studio non sia possibile concludere che la restrizione con fosfato sia stata direttamente responsabile delle
differenze nella sopravvivenza, molti dei dati pubblicati che
coinvolgono studi sperimentali su animali supportano il ruolo della restrizione del fosfato nel rallentamento del danno
renale progressivo.
In presenza di una perdita dei nefroni funzionanti la ritenzione di fosfato è inevitabile, se la sua assunzione con la dieta resta stabile. La velocità di escrezione del fosfato dal rene
è limitata dalla velocità di filtrazione glomerulare (GFR). I
tubuli renali non sono in grado di secernere fosfato e la regolazione della sua escrezione urinaria si manifesta con l’alterazione dell’apporto del carico filtrato che viene riassorbito,
un processo che è regolato dall’ormone paratiroideo (PTH),
che ha un effetto fosfaturico. Ciò può aumentare la frazione
del carico filtrato del fosfato che compare nell’urina fino al
70-80% circa.
L’evidenza suggerisce che il sovraccarico di fosfato dell’intero organismo, derivante dall’incapacità di attuarne l’escrezione, è associato ad un danno renale progressivo. L’iperparatiroidismo secondario renale compare come conseguenza della ritenzione di fosfato – una risposta maladattativa che rende l’organismo incapace di effettuare l’escrezione di una maggior quantità di fosfato. Il PTH è in grado di
aumentare l’escrezione di fosfato renale solo quando esiste
una massa definita di nefroni funzionanti. Una volta che la
massa renale è al di sotto del livello critico, aumenti della
secrezione di PTH in risposta all’iperfosfatemia esitano soltanto in una mobilizzazione di calcio e fosfato dall’osso e
portano a mineralizzazione dei tessuti molli, finendo per
determinare un progressivo danno renale mediante nefrocalcinosi.
Le concentrazioni di PTH plasmatico sono elevate in molti gatti normofosfatemici con CKD ad insorgenza spontanea
(Barber & Elliott, 1998) e l’iperparatiroidismo è evidente
prima della comparsa di iperazotemia (osservazioni non
pubblicate). Le diete caratterizzate da una restrizione alimentare di fosfato portano ad una riduzione della concentrazione di PTH plasmatico, che può continuare a diminuire per
molti mesi in presenza di una restrizione continuativa del
fosforo della dieta (Barber et al., 1999b). Nei gatti sottoposti a riduzione chirurgica della massa renale, diminuire l’assunzione di fosfato rallenta il danno progressivo a carico dell’organo (Ross et al., 1982). Uno studio clinico controllato
in cui l’obiettivo era il controllo della concentrazione di PTH
plasmatico attraverso la restrizione del fosfato della dieta,
anche mediante l’uso di chelanti intestinali in caso di necessità (Elliott et al., 2000), dimostrò che il controllo di iperfosfatemia e iperparatiroidismo risultava associato ad un
miglioramento della sopravvivenza. Questo studio non era
randomizzato e la dieta a ridotto tenore di fosfati venne
offerta sin dall’inizio a tutti i gatti presi in esame. Sebbene
Quale valore del fosfato plasmatico
si deve cercare di raggiungere
con la terapia?
Il controllo dell’iperparatiroidismo renale deve essere un
protocollo a stadi per adattare il trattamento ad adeguarsi al
caso individuale. Il grado di restrizione del fosfato per ottenere un controllo ed una stabilizzazione di ciascun gatto
dipenderà dalla gravità della CKD e dalla sua precedente
assunzione di fosfato. La procedura a stadi seguita nella
nostra clinica è:
1. Valutare la stabilità della CKD sulla diagnosi iniziale prelevando due campioni di plasma (separatamente, a distanza di almeno due settimane) prima di effettuare ogni
variazione delle modalità di gestione degli animali.
2. Se il fosfato plasmatico è superiore a 4,5 mg/dl (casi IRIS
allo stadio II) o a 5 mg/dl (IRIS stadio III), introdurre
un’adeguata dieta per pazienti nefropatici – rivalutare
dopo 4-6 settimane. Se la collaborazione da parte dei proprietari è scarsa, addizionare chelanti del fosfato alla dieta standard.
3. Se il fosfato plasmatico resta al di sopra del valore prefissato anche quando il gatto viene alimentato con la dieta
terapeutica, addizionare a quest’ultima dei chelanti intestinali del fosfato o, se già impiegati, aumentarne la dose.
4. In tutti i casi sottoposti a restrizione del fosfato, bisogna
monitorare la concentrazione plasmatica di calcio – se
questa aumenta al di sopra di 3,0 mmol/l, il grado di
restrizione del fosfato deve essere ridotto.
5. L’ipofosfatemia (< 2,5 mg/dl) è dannosa e deve essere
evitata.
I valori bersaglio specifici per il fosfato plasmatico sopra
citati non sono basati su un riscontro definitivo, ma sono
empirici e si fondano sull’esperienza di trattamento di gatti
con CKD negli ultimi 10 anni e sul monitoraggio di ciò che
accade al loro fosfato plasmatico (ed alle concentrazioni di
PTH) quando vengono sottoposti ad una restrizione del
fosfato stesso. Riflettono fortemente le raccomandazioni
applicate in medicina umana, per pazienti in stadi predialisi
di CKD (K/DOKI 2003). Per il veterinario pratico, l’idrossido di alluminio era il principale chelante del fosfato. Oggi
161
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
potrà essere trattato l’iperparatiroidismo in futuro sono
potenzialmente rappresentati dallo sviluppo di inibitori dei
recettori sensibili al calcio sulla ghiandola paratiroide e/o di
agenti mimetici della via della fosfatonina (FGF23 – un altro
ormone fosfaturico). Per determinare se questi siano approcci razionali alla gestione dell’iperparatiroidismo renale felino è necessario un ulteriore lavoro per comprendere la fisiologia di base di questi processi nel gatto.
sono stati introdotti calcio e carbonato di lantano, che e possono presentare vantaggi in quanto sono più appetibili per il
gatto. In questi animali, il calcio contenente agenti chelanti
del fosfato deve essere utilizzato con cautela. In alcuni gatti,
già la sola restrizione del fosfato nella dieta può determinare la comparsa di ipercalcemia (Barber et al., 1998) ed è presumibile che l’impiego di chelanti del fosfato contenenti calcio aumenti il rischio di quest’evenienza indesiderabile,
anche se ad oggi non si sono ancora condotti studi in questo
senso su un gran numero di casi.
Bibliografia
Si deve misurare l’ormone paratiroideo?
Barber, P.J., Elliott, J. Feline chronic renal failure: calcium homeostasis in
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Ross LA, Finco, DR, Crowell, WA Effect of dietary phosphorus restriction
on the kidneys of cats with reduced renal mass. Am J Vet Res, 1982;
43: 1023-1026.
La valutazione dell’ormone paratiroideo dovrebbe fornire
informazioni aggiuntive nel monitoraggio della risposta alla
restrizione del fosfato nei gatti con CKD. La concentrazione
di fosfato plasmatico non riflette necessariamente in modo
accurato lo status del fosfato stesso nell’intero organismo e
il PTH plasmatico può essere elevato malgrado una fosfatemia al di sotto dei valori bersaglio menzionati sopra. Il fosfato intracellulare sembra essere il fattore che guida la secrezione di PTH e che verrà gradualmente depleto se quello
plasmatico viene mantenuto persistentemente al di sotto di
4,5 mg/dl. La misurazione del PTH nella pratica clinica è
problematica poiché esistono relativamente pochi laboratori
che offrono questo esame e l’ormone è instabile nel plasma;
i campioni quindi devono essere effettivamente portati al
laboratorio in stato di congelamento. Teoricamente, se il
PTH plasmatico non fosse controllato dalla sola restrizione
con fosfato, si potrebbe utilizzare la terapia con basse dosi di
calcitriolo per inibire sintesi e secrezione di PTH. Questo
approccio richiede la misurazione del PTH per determinare
se sia necessaria e se ci sia una risposta al trattamento e viene impedito dalla mancanza di formulazioni appropriate di
calcitriolo adatte all’impiego nei gatti. I metodi con i quali
Indirizzo per la corrispondenza:
Jonathan Elliott
The Royal Veterinary College,
University of London, Londra (UK)
162
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Hyperphosphataemia and feline chronic
kidney disease?
Jonathan Elliott
MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, London, UK
Hyperphosphataemia and progressive
renal injury
What target value of plasma phosphate
should be achieved with therapy?
With loss of functioning nephrons, retention of phosphate
is inevitable if dietary phosphate intake remains stable. The
rate of phosphate excretion by the kidney is limited by the
glomerular filtration rate (GFR). Renal tubules are unable to
secrete phosphate and regulation of urinary phosphate excretion occurs by altering the amount of the filtered load which
is reabsorbed, a process which is regulated by parathyroid
hormone (PTH), which has a phosphaturic effect. This can
increase the fraction of the filtered load of phosphate appearing in the urine to about 70 or 80%.
Evidence suggests that whole body overload with phosphate, resulting from inability to excrete phosphate, is associated with progressive renal injury. Secondary renal hyperparathyroidism occurs as a result of phosphate retention - a
mal-adaptive response to enable the body to excrete more
phosphate. PTH is only able to increase renal phosphate
excretion when there is a finite mass of functioning
nephrons. Once renal mass is below a critical level, increases in PTH secretion in response to hyperphosphataemia
merely result in mobilizing calcium and phosphate from
bone and leading to soft tissue mineralization, leading to
progressive renal injury through nephrocalcinosis.
Plasma PTH concentrations are elevated in many normophosphataemic cats with naturally occurring CKD (Barber & Elliott 1998) and hyperparathyroidism is evident
before the onset of azotaemia (unpublished observations).
Feeding phosphate restricted diets results in reduced plasma
PTH concentration which may continue to fall for many
months with continued dietary phosphate restriction (Barber
et al., 1999b).
Reducing phosphate intake slows progressive renal injury
in cats with surgically reduced renal mass (Ross et al.,
1982). A prospective controlled clinical study where the goal
was to control plasma PTH concentration by dietary phosphate restriction, including the use of intestinal phosphate
binders if necessary (Elliott et al., 2000), showed control of
hyperphosphataemia and hyperparathyroidism was associated with improved survival.
This study was not randomized and all cats were offered
a phosphate-restricted diet at entry. Although it is not possible to conclude from this study that phosphate restriction
was directly responsible for the difference in survival, much
of the published data involving experimental animal studies
would support the role of phosphate restriction in slowing
progressive renal injury.
The control of renal hyperparathyroidism should be a
staged procedure to tailor treatment to suit the individual
case. The degree of phosphate restriction to achieve control
and stabilization of each cat will depend on the severity of
CKD and their prior phosphate intake. The staged procedure
followed in our clinic is:
1. Assess the stability of CKD on initial diagnosis by taking
two plasma samples (separated by at least 2 weeks) before
any change in management is made.
2. If plasma phosphate is above 4.5 mg/dl (IRIS stage II cases) or 5 mg/dl (IRIS stage III), introduce a suitable clinical renal diet - reassess after 4 to 6 weeks. If compliance
is poor, add phosphate binders to standard diet.
3. If plasma phosphate remains above the target when the
cats is consuming a clinical diet, add intestinal phosphate binders to clinical diet or increase dose of phosphate binder.
4. In all cases undergoing phosphate restriction, plasma calcium concentration must be monitored - if plasma calcium concentration increases above 3.0 mmol/l, the degree
of phosphate restriction should be reduced.
5. Hypophosphataemia (<2.5 mg/dl) is determental and
should be avoided.
The precise target figures for plasma phosphate mentioned above are not based on definitive evidence but are
empirical and based on experience of treating cats with CKD
over the last 10 years and monitoring closely what happens
to their plasma phosphate (and PTH concentrations) when
subjected to phosphate restriction. They mirror closely the
recommendations in human medicine, for patients in the
pre-dialysis stages of CKD (K/DOKI 2003). Aluminium
hydroxide was the mainstay of phosphate binders for veterinary practice.
Calcium and lanthanum carbonate have now been introduced and may have advantages in that they are more palatable to cats.
The calcium containing phosphate binding agents should
be used with caution in cats. Hypercalcaemia occurs in some
cats when subjected to dietary phosphate restriction alone
(Barber et al., 1998) and presumably, the use of calcium containing phosphate binders would increase the risk of this
undesirable occurrence although this has not been studied in
a large number of cases to date.
163
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
mine whether these are rational approaches to the management of feline secondary renal hyperparathyroidism.
Should you measure parathyroid hormone?
Measurement of parathyroid hormone would provide
additional information in monitoring the response to phosphate restriction in cats with CKD. Plasma phosphate concentration does not necessarily accurately reflect the whole
body phosphate status and plasma PTH can be elevated
despite a plasma phosphate concentration below the targets
mentioned above. Intracellular phosphate seems to be the
factor that drives PTH secretion and this will gradually be
depleted if plasma phosphate is maintained below 4.5
mg/dl persistently. Measurement of PTH from clinical
practice is problematic as there are relatively few laboratories offering this assay and PTH is unstable in plasma so
samples really should be delivered to the laboratory in a
frozen state. Theoretically, if plasma PTH could not be
controlled by phosphate restriction alone, low dose calcitriol therapy could be used to inhibit PTH synthesis and
secretion. This approach requires measurement of PTH to
determine the need for and response to treatment and is
hampered by lack of appropriate formulations of calcitriol
that are suitable for administration to cats. Future development of inhibitors of calcium sensing receptors on the
parathyroid gland and/or mimetics of the phosphotonin
pathway (FGF23 – another phosphaturic hormone) are
potentially future methods by which hyperparathyroidism
may be treated. Further work to understand the basic physiology of these pathways in the cat is warranted to deter-
References
Barber, P.J., Elliott, J. Feline chronic renal failure: calcium homeostasis in
80 cases diagnosed between 1992 and 1995. J Small Anim Pract
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Ross LA, Finco, DR, Crowell, WA Effect of dietary phosphorus restriction
on the kidneys of cats with reduced renal mass. Am J Vet Res, 1982;
43: 1023-1026.
Address for correspondence:
Jonathan Elliott - The Royal Veterinary College
University of London, London UK
164
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Ipertensione felina: un aggiornamento
Jonathan Elliott
MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, Londra, UK
INTRODUZIONE
valori compresi fra 130 e 170 mm Hg, quasi indipendentemente dai valori di SABP prima del trattamento.
L’ipertensione arteriosa sistemica viene sempre più riconosciuta come un problema importante nel gatto che invecchia. In medicina umana, è ritenuta un fattore di rischio indipendente per la progressione della nefropatia (Klag et al.
1996) e per l’ipertrofia ventricolare sinistra, l’ictus ed altri
eventi cardiovascolari. Nei gatti con malattia renale cronica
l’ipertensione è un fattore di rischio per proteinuria, presumibilmente dovuta a incapacità del rene malato di autoregolarsi, portando alla trasmissione ai capillari glomerulari di
una pressione sistemica aumentata. Inoltre, poiché i gatti
vengono comunemente portati alla visita a causa di problemi riferibili ad un danno oculare e del SNC, riconoscere e
trattare efficacemente l’ipertensione felina prima che si verifichi un danno finale irreversibile dell’organo deve essere
uno degli obiettivi della pratica clinica.
Protocollo di trattamento standard
con amlodipina
Il nostro approccio, dopo aver diagnosticato un’ipertensione, prevede di iniziare con una somministrazione di 0,625
mg di amlodipina una volta al giorno e ricontrollare il caso
dopo 7-14 giorni per valutare la risposta al trattamento. Nei
gatti che mostrano segni di insorgenza acuta di problemi
neurologici o cecità causata da distacco retinico, può essere
consigliabile monitorare quotidianamente la SABP, per
valutare più attentamente la risposta. Nei casi di routine, se
dopo 7-14 giorni la pressione sistolica è ancora al di sopra di
160 mm Hg, aumentiamo la dose di amlodipina a 1,25 mg e
rivalutiamo dopo altri 7-14 giorni. La maggior parte dei casi
risponderà a questo trattamento e la SABP misurata 24 ore
dopo l’ultima somministrazione sarà tra 130 e 160 mm Hg.
L’ipotensione è un problema raro, ma potenzialmente in grado di insorgere in seguito a questo protocollo di dosaggio per
l’amlodipina. La SABP al di sotto di 110 mm Hg dovrebbe
essere un motivo di preoccupazione ed un’indicazione per
ridurre la dose. La nostra pratica di routine prevede il monitoraggio di questi casi ogni 6 settimane, una volta che sono
stabili nel trattamento.
Nel gatto, i dati pubblicati sugli effetti a lungo termine del
trattamento con amlodipina sono relativamente scarsi. Sembra che il controllo della SABP con amlodipina fino a portarla al di sotto di 160 mm Hg svolga un’azione protettiva
nei confronti del danno oculare e del SNC, ed in questi casi
la nostra impressione clinica è che ciò migliori la qualità della vita. Resta da dimostrare in modo definitivo se questo trattamento da solo sia sufficiente a far regredire l’ipertrofia
ventricolare sinistra che accompagna l’ipertensione felina,
anche i risultati pubblicati suggeriscono una sua regressione
(Snyder et al., 2001).
TRATTAMENTO DELL’IPERTENSIONE
SISTEMICA
Gli obiettivi della gestione dell’ipertensione sono:
1. proteggere gli organi bersaglio, come il cervello e l’occhio, da potenziali danni catastrofici;
2. far regredire l’ipertrofia ventricolare sinistra concentrica
che accompagna l’ipertensione cronica;
3. proteggere i nefroni funzionanti restanti nel rene, abbassando la pressione capillare glomerulare e riducendo la
gravità della proteinuria.
Anche se sulla base dell’osservazione clinica sembra
ovvio raggiungere come primo obiettivo un determinato
valore di pressione sistolica, non è ancora stato studiato quale sia tale valore per prevenire il danno glomerulare e tubulare derivante da un’ipertensione sistemica. È difficile separare l’ipertensione come fattore eziologico di un danno renale progressivo da molti altri fattori che sono stati implicati in
questo fenomeno. Di fronte ad un gatto con grave ipertensione e segni clinici iniziali di danno oculare, la riduzione
della pressione arteriosa a circa 160 mm Hg sembra svolgere un ruolo protettivo e prevenire ulteriori danni oftalmici o
del SNC (Elliott et al., 2001). Nel gatto, il farmaco che si è
dimostrato capace di raggiungere efficacemente questo
obiettivo è l’amlodipina. La risposta comunemente riscontrata con la somministrazione di 0,625 o 1,25 mg di questo
farmaco una volta al giorno è una caduta della pressione
arteriosa sistolica (SABP, systolic arterial blood pressure) a
Presupposti per l’uso concomitante
di ACE-inibitori
Anche gli effetti nefroprotettivi della monoterapia con
amlodipina restano incerti. I dati dei nostri studi personali
suggeriscono che la sopravvivenza dei gatti trattati con questo farmaco sia determinata dal loro rapporto proteine:creatinina nell’urina (UPC) pre- e post-trattamento (Jepson et
al., 2007). Empiricamente, mantenere l’UPC al di sotto di
0,4 è un obiettivo terapeutico logico. Quando si interpretano
i valori di UPC, è importante assicurarsi che gli animali non
165
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
sione ematica di per sé. Sembra che gli effetti della pressione sanguigna sulla sopravvivenza siano mediati dall’aumento dell’escrezione di proteine e che l’UPC post-trattamento
sia predittiva di sopravvivenza, mentre i valori pressori posttrattamento influenzino la sopravvivenza soprattutto
mediante i loro effetti sull’UPC.
siano colpiti da un’infiammazione del tratto urinario. L’uso
di una monoterapia può costituire un trattamento subottimale, poiché la riduzione della pressione ematica con un calciobloccante può anche comportare l’attivazione del sistema
renina-angiotensina, generando mediatori profibrotici
(angiotensina II e aldosterone). Avrebbe senso abbinare abitualmente la terapia con amlodipina ad una con un ACE-inibitore, ma quando questi farmaci vengono somministrati utilizzando compresse separate la collaborazione da parte del
proprietario per il rispetto delle prescrizioni può costituire
un problema.
Quindi, il nostro protocollo standard consiste nel riservare la terapia con più farmaci ai gatti che restano ipertesi nonostante il trattamento con amlodipina (1,25 mg al giorno) ed
agli animali ipertesi con UPC > 0,4 dopo un trattamento con
amlodipina. Il benazepril, che in Europa è un farmaco autorizzato per l’impiego nel gatto ad un valore di dosaggio di
0,5-1 mg/kg una volta al giorno, si è dimostrato capace di
abbassare la pressione capillare glomerulare nei felini sottoposti sperimentalmente ad una riduzione della massa renale
(Brown et al., 2001). La diminuzione della SABP in questi
animali risultò moderata (10-20 mm Hg). L’esperienza clinica suggerirebbe che nei gatti gravemente ipertesi gli ACEinibitori da soli siano inadeguati a controllare la SABP mantenendola ad un livello protettivo per gli occhi ed il cervello.
Tuttavia, in combinazione con l’amlodipina nel trattamento
del gatto iperteso refrattario o in quello che resta proteinurico dopo trattamento con amlodipina, l’impiego di ACE-inibitori è logico. Dato che questi due farmaci hanno differenti
modalità d’azione antiipertensiva, è possibile che possa
comparire una risposta sinergica che esita in un’ipotensione
significativa. Secondo quanto suggerito da osservazioni preliminari nella nostra clinica, una risposta di questo tipo sembrerebbe essere rara. Tuttavia, dopo l’introduzione degli
ACE-inibitori sarebbe consigliabile un attento monitoraggio
sia della SABP che della creatinina plasmatica. Una riduzione del UPC sarebbe una risposta auspicabile all’introduzione di un ACE-inibitore nel protocollo di trattamento.
Cosa si può imparare dalla medicina umana?
In medicina umana, sono disponibili molti più dati relativi agli effetti a lungo termine del controllo della SABP sulla progressione della nefropatia. Il valore desiderato di
SABP in un paziente umano con CKD dipende dalla gravità
della perdita renale di proteine (Peterson et al., 1995). Per i
soggetti con gradi più elevati di proteinuria vengono fissati
come traguardo dei valori più bassi. Questo approccio è giustificato dal riscontro che la velocità della perdita progressiva della funzione renale è rallentata più efficacemente
abbassando ulteriormente la pressione sanguigna in presenza di una marcata proteinuria. Un approccio sofisticato come
questo alla gestione dell’ipertensione renale felina richiede
una quantità notevolmente maggiore di dati provenienti da
studi controllati. Per dare una risposta a queste domande in
medicina felina sono necessarie ulteriori ricerche.
Bibliografia
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Il caso della monoterapia con benazepril
Ad oggi, non trattiamo con amlodipina gatti con SBP <
170 mmHg in assenza di lesioni oculari o altri segni clinici
di danno degli organi terminali derivante da ipertensione. I
gatti con CKD che sono classificati in categorie di rischio di
danno degli organi terminali da basso a moderato (SBP compresa fra 150 e 170 mm Hg) sono trattati con benazepril
(0,5-1,0 mg/kg una volta al giorno). La decisione se iniziare
o meno la terapia è attualmente basata sul grado di proteinuria (UPC > 0,4) piuttosto che sulla misurazione della pres-
Indirizzo per la corrispondenza:
Jonathan Elliott
The Royal Veterinary College,
University of London, Londra (UK)
166
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Feline hypertension - an update
Jonathan Elliott
MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, London, UK
INTRODUCTION
Standard treatment protocol
with amlodipine
Systemic arterial hypertension has been increasingly recognized as an important problem of the aging cat. In human
medicine, hypertension is recognized as an independent risk
factor for progression of renal disease (Klag et al., 1996)
and for left ventricular hypertrophy, stroke and other cardiovascular events. Hypertension in cats with chronic kidney disease is a risk factor for proteinuria, presumably due
to the inability of the diseased kidney to autoregulate leading to the transmission of raised systemic arterial pressure
to the glomerular capillaries. In addition, presenting problems relating to ocular and CNS damage are common in
feline practice, hence recognition and effective treatment
prior to irreversible end organ damage must be a goal in veterinary practice.
Our approach, having diagnosed hypertension, would be
to start the cat on 0.625 mg amlodipine once daily and to
recheck the case in 7 to 14 days to assess response to treatment. In cats showing signs of acute onset of neurological
problems or blindness due to retinal detachment, it may be
advisable to monitor the SABP daily to assess the response
more closely. In routine cases, if after 7 to 14 days the systolic blood pressure is still above 160 mm Hg, we increase
the amlodipine dose to 1.25 mg and re-assess in 7 to 14 days.
Most cases will respond to this treatment and SABP measured 24 hours after the last dose will be between 130 and
160 mmHg. Hypotension is a rare but potential problem following this dosing regimen for amlodipine. SABP below
110 mmHg would be a concern and an indication for reducing the dose. Our routine practice is to monitor these cases
every 6 weeks once they are stable on treatment.
In the cat, published data on the long-term effects of
amlodipine treatment are relatively sparse. It seems to be the
case that control of SABP below 160 mm Hg with amlodipine protects against ocular and CNS damage and clinically
our impression is that this improves the quality of life of
these cases. Whether this treatment alone is sufficient to
reverse the left ventricular hypertrophy that accompanies
feline hypertension remains to be definitively demonstrated,
although published results do suggest left ventricular hypertrophy does regress (Snyder et al., 2001).
TREATMENT OF SYSTEMIC ARTERIAL
HYPERTENSION
The goals in managing hypertension are:
1. to protect target organs, such as the brain and the eye from
potentially catastrophic damage
2. to reverse the concentric left ventricular hypertrophy that
accompanies chronic hypertension
3. to protect the remaining functioning nephrons in the kidney, lowering glomerular capillary pressure and decreasing the severity of proteinuria.
Whilst the target systolic blood pressure to achieve the
first goal seems obvious from clinical observation, the target blood pressure to prevent glomerular and tubular damage resulting from systemic hypertension has not been
studied. It is difficult to separate hypertension as a factor
causing progressive renal injury from the many other factors that have been implicated in this phenomenon. When
faced with a cat with severe hypertension and the early
signs of ocular damage, reducing the systolic arterial blood
pressure to around 160 mm Hg seems to be protective and
prevents further ocular or CNS damage (Elliott et al.,
2001). The drug that has been proven to reliably achieve
this aim in the cat is amlodipine. The usual response seen
to the administration of 0.625 or 1.25 mg of this drug once
daily is a fall in systolic arterial blood pressure (SABP) to
between 130 and 170 mm Hg, almost regardless of the
SABP prior to treatment.
The rationale for concomitant use
of ACE inhibitors
The renoprotective effects of monotherapy with amlodipine also remain uncertain. Data from our own studies suggests that survival of cats we treat with amlodipine is determined both by their pre- and post-treatment urine protein to
creatinine ratio (UPC) (Jepson et al., 2007). Empirically,
maintaining a UPC below 0.4 is a logical treatment goal. It
is important to ensure animals are free from inflammatory
disease of the urinary tract when interpreting UPCs. Use of
monotherapy may provide sub-optimal management since
reduction of blood pressure with a calcium channel blocker
may well lead to activation of the renin-angiotensin system,
generating pro-fibrotic mediators (angiotensin II and aldosterone). Routinely combining amlodipine therapy with an
ACE inhibitor would make sense but compliance is an issue
when these drugs have to be given as separate tablets.
167
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Thus, our standard protocol is to reserve multiple drug therapy for cats which remain hypertensive despite amlodipine
treatment (1.25 mg daily), and for those hypertensive animals
with UPCs >0.4 following amlodipine treatment. Benazepril, a
drug that is authorized in Europe for cats at a dose rate of 0.5
to 1 mg/kg once daily, has been shown to lower glomerular
capillary pressure in experimental cats with reduced renal mass
(Brown et al., 2001). The decrease in SABP in these animals
was moderate (10 to 20 mmHg). Clinical experience would
suggest that ACE inhibitors alone in severely hypertensive cats
are inadequate to control SABP to a level that is protective of
the eyes and brain. However, in combination with amlodipine
in the management of the refractory hypertensive cat or in the
hypertensive cat that remains proteinuric following amlodipine
treatment, the use of ACE inhibitors is logical. As these two
drugs have different modes of antihypertensive action, there is
a possibility that a synergistc response might occur resulting in
significant hypotension. Preliminary observations in our clinic
would suggest that such a response, seems to be rare. However, close monitoring of both SABP and plasma creatinine
would be advisable following the introduction of the ACE
inhibitor. A reduction in the UPC would be a desirable
response following the introduction of an ACE inhibitor to the
treatment regimen.
What can we learn from human medicine?
In human medicine, many more data are available concerning the long-term effects of SABP control on progression of renal disease. The target SABP of a hypertensive
human CKD patient depends on the severity of renal protein
loss (Peterson et al., 1995). Lower targets are set for patients
with higher degrees of proteinuria. This approach is justified
by the evidence that rate of progressive loss of renal function
is slowed more effectively by lowering blood pressure further in the face of marked proteinuria. Such a sophisticated
approach to the management of feline renal hypertension
requires a great deal more data from controlled prospective
studies. Further prospective studies are necessary addressing
these questions in feline medicine.
References
Brown, S.A., Brown, C.A., Jacobs, G., Stiles, J., Hendi, R.S., Wilson, S.
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52-56.
The case for monotherapy with benazepril
At the present time we do not treat cats with SBP <170
with amlodipine in the absence of ocular lesions or other
signs of end organ damage resulting from hypertension. In
cats with CKD which are categorised at low to moderate risk
of end organ damage (SBP 150 to 170 mmHg) are treated
with benazepril (0.5 to 1.0 mg/kg once daily). The decision
as to whether to start treatment is currently based on the
degree of proteinuria (UPC ?0.4) rather than on the blood
pressure measurement per se. It seems that the effects of
blood pressure on survival are mediated through increasing
protein excretion and that post-treatment UPC is predictive
of survival whereas post-treatment blood pressure influences
survival mainly through its effects on UPC.
Address for correspondence:
Jonathan Elliott - The Royal Veterinary College
University of London, London UK
168
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Proteinuria e lesioni renali progressive:
non si verificano nel gatto?
Jonathan Elliott
MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, Londra, UK
INTRODUZIONE
PROGRESSIONE DELLA MALATTIA AD
INSORGENZA SPONTANEA NEL GATTO
La malattia renale che porta a deficit ed insufficienza dell’organo è un riscontro estremamente comune nei gatti anziani. Mancano validi studi epidemiologici per determinare la
vera prevalenza della nefropatia cronica (CKD, chronic kidney disease), ma le stime suggeriscono che 1 gatto sopra i 12
anni di età su 3 presenti qualche forma di insufficienza renale. Abbiamo recentemente riportato uno studio clinico nel
corso del quale sono stati presi in considerazione gatti sani di
oltre 9 anni di età, che risultavano normali all’esame clinico
ed ai test biochimici di routine. Questi casi vennero seguiti
per 12 mesi e in 29 dei 98 gatti sottoposti a questo periodo di
follow-up (pari al 29,6%) sono state riscontrate concentrazioni di creatinina plasmatica al di fuori dei limiti di riferimento
del nostro laboratorio e corrispondenti ai criteri diagnostici di
una CKD (Jepson, 2008). Secondo le nostre stime, per raggiungere questo stadio di deficit (capacità di concentrazione
delle urine non iperazotemica, ma inadeguata; stadio I della
classificazione IRIS) o insufficienza lieve (lievemente iperazotemica; concentrazione della creatinina plasmatica compresa fra 140 e 250 µmol/l; stadio II della classificazione
IRIS) si deve essere verificata una perdita del 66-75% dei
400.000 nefroni funzionanti. Secondo l’ipotesi del nefrone
intatto (Brenner et al., 1982) si potrebbe prevedere che un
maladattamento intrarenale alla perdita di questo numero di
nefroni funzionali porterebbe ad ipertrofia glomerulare, iperfiltrazione, ipertensione capillare glomerulare, proteinuria e
danno renale progressivo, in assenza di un trauma continuato
derivante dai processi patologici primari.
La presentazione alla visita di una grave CKD “in fase terminale” nel gatto non è inusuale nella pratica clinica, suggerendo la comparsa di un danno renale progressivo. Tuttavia,
i quadri della progressione sono altamente variabili. Alcuni
gatti restano per anni in uno stato lievemente iperazotemico
“compensato” della CKD e muoiono di un’altra malattia più
che di nefropatia cronica progressiva. Altri animali restano
in una condizione di CKD compensata stabile per un certo
periodo e poi manifestano un peggioramento apparentemente improvviso, secondo un andamento “per tappe”, fino a
sviluppare una crisi uremica, che suggerisce una recidiva di
un processo patologico estrinseco responsabile di una perdita dei nefroni funzionali restanti. Tuttavia, esiste un sottogruppo di gatti in cui si ha una perdita graduale e progressiva dei nefroni funzionanti, per cui si osserva la cosiddetta
progressione lineare della CKD. In uno studio longitudinale
su 55 gatti con CKD ad insorgenza spontanea, il 60% non
mostrò alcuna evidenza della progressione, il 25% una progressione per tappe e il 15% una progressione lineare (Elliott
et al., 2003). Parte dell’incapacità di individuare un danno
renale progressivo intrinseco può derivare dal fatto di basarsi su misurazioni seriali della concentrazione della creatinina plasmatica più che su rilievi ripetuti della GFR per individuare la progressione funzionale.
RUOLO DELLA PROTEINURIA
NEL DANNO RENALE PROGRESSIVO
STUDI SPERIMENTALI NEL GATTO
Nei pazienti umani con CKD ad insorgenza spontanea, la
proteinuria è un fattore di rischio indipendente per la perdita progressiva della funzione renale. Questo è stato meglio
documentato nei pazienti diabetici in cui gli interventi volti
a ridurre la perdita di proteine dell’urina rallentano efficacemente la progressione della nefropatia diabetica, una delle
indicazioni principali per il trapianto renale. Ulteriori studi
hanno documentato un effetto benefico del controllo della
pressione arteriosa media (MABP, mean arterial blood pressure) sino a portarla a livelli più bassi di quelli dei valori che
in precedenza si consigliava di raggiungere nei pazienti con
CKD. Nel rallentamento del declino della GFR mediante la
riduzione della MABP sino a raggiungere nuovi livelli più
bassi, il beneficio aggiuntivo ottenuto è tanto maggiore
quanto più è elevato il grado di proteinuria.
L’ipotesi del nefrone intatto è stata fondata su ratti nefrectomizzati sperimentalmente, in cui il danno renale progressivo è prevedibile e rapido. La situazione sembra essere differente per i gatti, in cui il processo è lento, per cui le diminuzioni della velocità di filtrazione glomerulare (GFR, glomerular filtration rate) non sono rilevabili nei gatti parzialmente nefrectomizzati fino a 12 mesi dopo la riduzione della massa renale. Ciò nonostante, gatti sottoposti ad indagini
sperimentali hanno presentato iperfiltrazione glomerulare,
ipertensione capillare glomerulare e aumentata perdita delle
proteine urinarie (Brown & Brown, 1995). Inoltre, nel
modello di rene residuo si osservano lesioni istopatologiche
compatibili con un danno renale progressivo.
169
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
2006). Questa ricerca dimostrò una correlazione inversa fra
il rapporto iniziale dell’UPC e il tempo di sopravvivenza nel
gruppo placebo.
Oggi si considera che questa perdita di proteine attraverso
il glomerulo possa scatenare una sequenza di eventi che portano a danno tubulointerstiziale (Remuzzi & Bertani, 1998).
Se il carico filtrato delle proteine travolge i meccanismi di
riassorbimento del tubulo prossimale, si ha l’attivazione delle cascate dell’infiammazione, con conseguente danno tubulare e infiammazione e fibrosi interstiziali. Al momento, si
stanno svelando i meccanismi cellulari e subcellulari coinvolti in questi processi. Ciò nonostante, questa risposta alla
proteinuria può essere ridotta da trattamenti farmacologici
che inibiscono la perdita di proteine glomerulari.
TRATTAMENTO DEI GATTI CON FARMACI
AD EFFETTO ANTI-PROTEINURICO
SULLA SOPRAVVIVENZA
Sulla base di quanto illustrato più sopra, sembrano esistere ragionevoli prove del fatto che una lieve proteinuria
sia predittiva di una riduzione del tempo di sopravvivenza
nei gatti con CKD. Parrebbe logico che una riduzione della proteinuria possa essere protettiva nei confronti di un
danno renale progressivo, anche quando la proteinuria sia
molto lieve. Ad oggi, non sono stati prodotti dati definitivi
per supportare questa assunzione. Gli inibitori dell’enzima
angiotensina convertente sono risultati in grado di diminuire la pressione capillare glomerulare nei gatti sottoposti a
riduzione chirurgica della massa renale [Brown et al.,
2001]. Lo studio BENRIC ha dimostrato che il benazepril,
ad una velocità di somministrazione di 0,5-1,0 mg/kg, riduceva il rapporto UPC in tutti i gatti trattati con il farmaco
attivo, qualunque fosse il valore iniziale del loro rapporto
UPC al momento dell’inserimento nello studio. Ciò nonostante, nel corso di questa indagine non è stato osservato
alcun ulteriore effetto significativo del trattamento con
benazepril sulla sopravvivenza [King et al., 2006]. Quindi,
si deve prendere in considerazione la possibilità che la proteinuria sia un marcatore della CKD progressiva, più che
una causa.
FATTORI DI RISCHIO PER LA PROTEINURIA
IN GATTI CON NEFROPATIA
Nelle pratica clinica, molti gatti con CKD stabile che si
trovano allo stadio II o III della IRIS (creatinina sierica 140440 µmol/l), saranno non proteinurici (rapporto
proteine/creatinina nell’urina [UPC] < 0,2) o ai limiti della
proteinuria (rapporto UPC 0,2-0,4), mentre la minoranza è
proteinurica (UPC > 0,4). I fattori di rischio per la proteinuria comprendono la concentrazione della creatinina sierica
(più elevata è la creatinina più è probabile che il gatto sia
proteinurico) e la pressione arteriosa sistemica (più è elevata, più è probabile che il gatto sia proteinurico) [Syme et al.,
2006]. Inoltre, la proteinuria, valutata mediante UPC, peggiora con le riduzioni della funzionalità renale che si verificano nel tempo, anche se non è stata trovata alcuna prova di
un peggioramento della proteinuria che preceda il deterioramento della funzione renale. Tuttavia, l’interpretazione delle alterazioni della UPC in relazione alla perdita di nefroni
funzionali è complessa, poiché la tendenza ad aumentare
della perdita di proteine sarà compensata dalla riduzione del
numero dei nefroni. Infine, la proteinuria preannuncia anche
lo sviluppo di iperazotemia in gatti anziani apparentemente
sani (Jepson, 2008).
Bibliografia
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INFLUENZA DELLA PROTEINURIA
SULLA SOPRAVVIVENZA DI GATTI
CON NEFROPATIA
Due studi sulla CKD ad insorgenza spontanea nel gatto
hanno dimostrato che la proteinuria è un indicatore predittivo di sopravvivenza a lungo termine [Syme et al., 2006;
King et al., 2006]. Nel primo studio, che coinvolgeva 117
gatti, venne dimostrato che l’UPC era un fattore predittivo
indipendente di sopravvivenza, quando era valutato
mediante un’analisi di regressione logistica multivariata, in
combinazione con l’età e la concentrazione della creatinina
sierica [Syme et al., 2006]. Questo studio utilizzò la mortalità da qualsiasi causa come punto terminale, che venne raggiunto dal 47% dei gatti compresi nella ricerca. Il secondo
studio era una prova clinica controllata e randomizzata che
coinvolse 193 gatti, raccolti per esaminare l’effetto del
benazepril sulla progressione della CKD (King et al.,
Indirizzo per la corrispondenza:
Jonathan Elliott
The Royal Veterinary College,
University of London, Londra (UK)
170
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Proteinuria and progressive renal injury does it occur in the cat?
Jonathan Elliott
MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, London, UK
INTRODUCTION
PROGRESSION OF NATURALLY
OCCURRING RENAL DISEASE IN CATS
Renal disease leading to renal insufficiency and failure
is an extremely common finding in ageing cats. Good epidemiological studies are lacking to determine the true
prevalence of chronic kidney disease (CKD) but estimates
suggest 1 in 3 cats over the age of 12 have some form of
renal insufficiency.
We recently reported on a prospective clinical study
where we recruited healthy cats over the age of 9 years
that were normal on physical examination and routine
clinical biochemistry testing. These cases were followed
for 12 months and of the 98 cats with this length of follow-up, 29 (29.6%) had plasma creatinine concentrations
outside of our laboratory reference range and met the
diagnostic criteria of having CKD (Jepson 2008).
To reach this stage of insufficiency (non-azotaemic but
inadequate urinary concentrating ability; IRIS stage I) or
mild failure (mildly azotaemic; plasma creatinine concentration 140 to 250 umol/l; IRIS stage II) we would estimate a loss of 66 to 75% of the 400 000 functioning
nephrons has occurred.
The intact nephron hypothesis (Brenner et al., 1982)
would predict that intra-renal mal-adaptation to the loss
of this number of functioning nephrons would lead to
glomerular hypertrophy, hyperfiltration, glomerular capillary hypertension, proteinuria and progressive renal
injury in the absence of continued insult from the primary
disease process(es).
The clinical presentation of severe ‘end-stage’ CKD in cats
is not uncommon in clinical practice suggesting that progressive renal injury does occur. However, the patterns of progression are highly variable. Some cats remain in a mildly
azotaemic ‘compensated’ state of CKD for years and die of
another disease rather than progressive CKD. Other cats
remain in stable compensated CKD for a period and then
apparently suddenly deteriorate in a step-wise fashion to
develop a uremic crisis, suggestive of recurrence of an extrinsic disease process causing loss of remaining functioning
nephrons. Nevertheless, there is a sub-group of cats where
gradual progressive loss of functioning nephrons occurs and
so-called linear progression of CKD is observed. In a longitudinal study of 55 cats with naturally occurring CKD, 60%
showed no evidence of progression, 25% showed stepwise
progression and 15% showed linear progression [Elliott et al.,
2003]. Part of the inability to detect intrinsic progressive renal
injury may result from the reliance on serial measurement of
plasma creatinine concentration rather than repeated measurement of GFR to detect functional progression.
ROLE OF PROTEINURIA IN PROGRESSIVE
RENAL INJURY
In human patients with naturally occurring CKD, proteinuria is an independent risk factor for progressive loss of
renal function. This has been best documented in diabetic
patients where interventions to reduce urinary protein loss
effectively slow progression of diabetic nephropathy, a leading indication for renal transplantation. Further studies have
documented a beneficial effect of controlling mean arterial
blood pressure (MABP) to lower levels than the previously
recommended targets in CKD patients. The higher the
degree of proteinuria, the greater the additional benefit
obtained, in slowing the rate of decline in GFR, by reducing
MABP to new lower target levels.
It is now appreciated that leakage of protein across the
glomerulus can trigger a sequence of events that leads to
tubulointerstitial injury [Remuzzi & Bertani 1998]. If the filtered load of protein overwhelms the proximal tubular reabsorptive mechanisms, activation of inflammatory cascades
occurs, resulting in tubular injury and interstitial inflamma-
EXPERIMENTAL STUDIES IN THE CAT
The intact nephron hypothesis was based on experimentally nephrectomised rats where progressive renal
injury is predictable and rapid. The same does not appear
to be true in cats, where the process is slow such that
decrements in glomerular filtration rate (GFR) can not be
detected in partially nephrectomised cats up to 12 months
after reduction in renal mass.
Nevertheless, experimental cats do demonstrate glomerular hyperfiltration, glomerular capillary hypertension and
increased urinary protein loss (Brown & Brown 1995).
Furthermore, histopathological lesions compatible with
progressive renal injury are seen in remnant kidneys from
this model.
171
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
tion and fibrosis. The cellular and sub-cellular mechanisms
involved in these processes are being unraveled. Nevertheless, this response to proteinuria can be reduced by drug
treatments that inhibit glomerular protein leakage.
TREATMENT OF CATS WITH
ANTI-PROTEINURIC DRUGS –
EFFECT ON SURVIVAL
From the above discussion there appears to be reasonable evidence that mild proteinuria is predictive of reduced
survival time in cats with CKD. It would seem logical that
a reduction in proteinuria might be protective of progressive renal injury, even when proteinuria is very mild. At the
present time definitive data to support this assumption have
not been produced.
Angiotensin converting enzyme inhibitors have been
shown to reduce glomerular capillary pressure in cats with
surgically reduced renal mass [Brown et al., 2001]. The
BENRIC study showed that benazepril at a dose rate of 0.5
to 1.0 mg/kg reduced UPC ratio in all cats receiving the
active drug regardless of their initial UPC ratio at entry to
the study. Nevertheless, no overall significant beneficial
effect of benazepril treatment on survival was observed in
this study [King et al., 2006]. Thus, the possibility that proteinuria is a marker of progressive CKD, rather than the
cause, needs to be considered.
RISK FACTORS FOR PROTEINURIA
IN CATS WITH RENAL DISEASE
In our clinical practice, many cats with stable CKD, which
are IRIS stage II or III (serum creatinine 140 to 440 umol/l),
will be non-proteinuric (urine protein to creatinine (UPC) ratio
of <0.2) or borderline proteinuric (UPC ratio of 0.2 to 0.4) and
the minority are proteinuric (UPC>0.4). Risk factors for proteinuria include serum creatinine concentration (the higher the
creatinine the more likely the cat is to be proteinuric) and systolic arterial blood pressure (the higher the blood pressure the
more likely the cat is to be proteinuric) [Syme et al 2006]. Furthermore, proteinuria, as assessed by UPC, worsens with
decrements in renal function over time although no evidence
has been found for a worsening of proteinuria preceding the
deterioration in renal function. However, the interpretation of
changes in UPC in the face of loss of functioning nephrons is
complex as the tendency for protein loss to increase will be offset by the reduced number of nephrons. Finally, proteinuria is
also predictive of development of azotaemia in apparently
healthy aged cats (Jepson 2008).
REFERENCES
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occurring chronic renal failure is related to severity of proteinuria. J
Vet Intern Med 2006; 20(3): 528-35.
INFLUENCE OF PROTEINURIA ON
SURVIVAL OF CATS WITH RENAL
DISEASE
Two studies of naturally occurring CKD in cats have
demonstrated that proteinuria is a predictive indicator of
long-term survival [Syme et al., 2006; King et al., 2006]. In
the first study involving 117 cats, UPC proved to be an independent predictor of survival when assessed by multivariate
logistic regression analysis in combination with age and
serum creatinine concentration [Syme et al., 2006]. This
study used all-cause mortality as the end point and 47% of
the cats included in the study reached this end point. The
second study was a randomised controlled clinical trial
involving 193 cats designed to examine the effect of
benazepril on progression of CKD (King et al., 2006). This
study showed an inverse correlation between initial UPC
ratio and survival time in the placebo group.
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University of London, London UK
172
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Infezioni batteriche delle vie urinarie:
sono importanti nella CKD?
Jonathan Elliott
MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, Londra, UK
INTRODUZIONE
SCELTA DI UNA TERAPIA
FARMACOLOGICA PER LE INFEZIONI
DEL TRATTO URINARIO
L’urina iperosmotica ostacola la crescita dei batteri, anche
uropatogeni. La perdita della capacità di concentrare l’urina
è un segno precoce di insufficienza renale e spesso compare
prima dell’inizio dello stadio iperazotemico della nefropatia
cronica (CKD).
Anche se la ridotta capacità di concentrare l’urina non è il
solo fattore coinvolto nella suscettibilità alla UTI (Bayliff et
al., 2008), i nostri dati clinici suggeriscono la necessità di
effettuare il monitoraggio delle infezioni urinarie nei gatti
con CKD.
Nel selezionare un protocollo terapeutico appropriato per
trattare la UTI, dobbiamo considerare:
• l’estensione dell’infezione nel tratto urinario
• la sensibilità dell’agente eziologico (è prevedibile o
imprevedibile?)
• la concentrazione del farmaco antibatterico che viene raggiunta nella sede dell’infezione
• la sicurezza del farmaco per la somministrazione al gatto
con CKD
Molti farmaci antibatterici idrosolubili sono altamente
concentrati nell’urina, dove raggiungono livelli 100-300 volte più elevati di quelli riscontrati nel plasma testato negli animali normali. Quindi, nei casi non complicati spesso ha successo il trattamento empirico della UTI con farmaci antibatterici betalattamici.
INFEZIONI DEL TRATTO URINARIO (UTI) –
UNA CAUSA POTENZIALE DI DANNO
RENALE PRIMARIO
Un potenziale insulto renale primario che viene spesso
rilevato nei casi di CKD che vengono portati alla visita per
la prima volta o che hanno appena iniziato a deteriorarsi è
una UTI di tipo batterico. Un piccolo studio ha determinato la prevalenza e l’incidenza delle infezioni del tratto urinario nei gatti con CKD (Berber et al., 1999). Per essere
inserito in questa indagine ogni gatto doveva essere affetto da una CKD stabile ed essere stato seguito per almeno
4 mesi con un minimo di 4 campioni di urina prelevati
mediante cistocentesi. Tutti i campioni sono stati sottoposti a coltura aerobica quantitativa. Nello studio sono stati
compresi 51 gatti.
In totale vennero raccolti 407 campioni di urina. In questa
popolazione la prevalenza della UTI fu del 7,1% e l’incidenza del 29%, con il riscontro di più di un episodio in oltre
il 50% dei gatti infettati. Non è chiaro se questi episodi ripetuti rappresentino reinfezioni o ricadute di infezioni preesistenti che non erano state del tutto eliminate dal trattamento.
Dati recenti hanno suggerito che l’impiego degli antibiogrammi per differenziare queste due situazioni non è attendibile (Freitag et al.,2006).
Uno studio retrospettivo più ampio condotto su 3000 campioni di urina raccolti da gatti presentati presso la nostra clinica per malattie geriatriche o renali ha confermato una prevalenza simile, con il 5% circa di UTI batterica. I principali
microrganismi coinvolti erano Escherichia coli (80% circa)
ed Enterococcus faecalis (20% circa).
RACCOMANDAZIONI PER IL TRATTAMENTO
DELLA UTI NEI GATTI CON CKD
I gatti con CKD, tuttavia, non sono casi semplici quando
sono colpiti da UTI. Spesso, saranno stati sottoposti ad un
trattamento antibatterico nei precedenti 2-3 mesi, il che
significa che le loro probabilità di essere colpiti da infezioni
batteriche resistenti sono più elevate. Inoltre, i clinici devono probabilmente:
• presumere che l’infezione abbia seguito un percorso
ascendente fino a causare una pielonefrite
• eseguire degli antibiogrammi
• continuare il trattamento per 4-6 settimane e documentare
una guarigione batteriologica
• scegliere un farmaco antibatterico che sia sicuro da usare
in pazienti con funzionalità renale compromessa, evitando
i farmaci nefrotossici
• se l’infezione ricompare rapidamente dopo l’interruzione
del trattamento (entro due mesi), condurre ulteriori ricerche per determinare se esista una causa predisponente (ad
es., uroliti o tumori della vescica).
La suscettibilità di un farmaco antibatterico è probabilmente variabile – l’impiego della tecnica di diluizione in
brodo fornisce maggiori informazioni perché consente di
173
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
di trattare i gatti per via orale per 4-6 settimane. L’introduzione di una nuova cefalosporina, il cefovecin, nella pratica
veterinaria in Europa può offrire un’altra opzione per il trattamento della UTI batterica nei gatti con CKD (Stegmann et
al., 2006). La sua sicurezza in questi pazienti deve però
ancora essere stabilita.
stabilire il valore della concentrazione minima inibente
(MIC, minimum inhibitory concentration) per il microrganismo. Dati recenti del nostro laboratorio hanno valutato la
sensibilità di circa 50 E. coli isolati dal tratto urinario dei
gatti con CKD ed hanno dimostrato che i valori di MIC90 da
essi ottenuti erano ben al di sotto delle concentrazioni del
farmaco che si sarebbero raggiunte nell’urina del gatto normale, anche se molti corrispondono al valore limite fra la
resistenza e la sensibilità per questi farmaci sulla base delle
concentrazioni plasmatiche.
Tuttavia, la concentrazione dei farmaci antibatterici betalattamici nell’urina del gatto con CKD non è stata studiata.
Abbiamo recentemente preso in considerazione le concentrazioni di amossicillina/acido clavulanico raggiunte nell’urina dopo 7 giorni di dosaggio a 50 mg due volte al giorno
mediante somministrazione per via orale. Nell’urina di 10
gatti trattati con questo protocollo sono state rilevate concentrazioni di amossicillina (misurate mediante prova
microbiologica) comprese fra 3 e 30 volte il valore di MIC90
che era stato calcolato da isolati recenti dei nostri casi clinici, il che suggerisce che, anche nel campione di urina meno
concentrata, le concentrazioni di antibiotici erano ben al di
sopra di quelle richieste per uccidere i batteri più comunemente coinvolti in queste infezioni nel Regno Unito. Tuttavia, nel mondo probabilmente esistono differenze nei quadri
di sensibilità agli antibiotici e nella virulenza degli uropatogeni (Freitag et al., 2005).
CONCLUSIONI
Le infezioni del tratto urinario sono un evento relativamente comune nei gatti con CKD. Possono essere associate a
malattia generalizzata più che a segni clinici specifici delle
basse vie urinarie. Devono essere trattate come se si fossero
estese al rene ed avessero causato una pielonefrite. Si raccomanda di utilizzare farmaci antimicrobici battericidi con ampi
indici terapeutici, e la scelta dell’antibiotico deve basarsi sulla coltura in brodo e sugli antibiogrammi, nonché sui conseguenti dati relativi alla MIC. Spesso è necessario un ciclo prolungato di trattamento per prevenire ricadute ed è consigliabile il monitoraggio per una guarigione batteriologica.
Bibliografia
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SICUREZZA DEI FARMACI ANTIBATTERICI
NEI GATTI CON CKD
Nella CKD, il margine di sicurezza delle dosi convenzionali dei farmaci eliminati dal rene può essere ridotto. Quindi, è importante evitare agenti potenzialmente tossici, in particolare quelli con nefrotossicità. Usiamo le penicilline
(amossicillina semplice o potenziata con acido clavulanico)
come farmaci antibatterici di prima linea nell’attesa dei
risultati degli esami colturali e degli antibiogrammi. Come
farmaci di seconda linea, il nostro gruppo d’elezione sarebbe rappresentato dai fluorochinoloni, per le infezioni ricorrenti. Tendiamo ad evitare l’enrofloxacin, perché questo farmaco sembra essere interessato da segnalazioni di casi di
cecità retinica nei gatti (Gellatt et al., 2001). Abbiamo utilizzato il marbofloxacin al dosaggio terapeutico standard (2
mg/kg una volta al giorno per via orale) senza effetti avversi nei gatti con CKD. Nei felini con nefropatia cronica trattati con un fluorochinolone non è consigliabile superare la
frequenza della dose terapeutica raccomandata ed il peso
corporeo deve sempre essere accuratamente misurato, più
che stimato. Esistono indicazioni pratiche che suggeriscono
Indirizzo per la corrispondenza:
Jonathan Elliott
The Royal Veterinary College,
University of London, Londra (UK)
174
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Urinary tract infections in cats with
chronic kidney disease
Jonathan Elliott
MA, VetMB, PhD, Cert SAC, DECVPT, MRCVS, London, UK
INTRODUCTION
• sensitivity of the causative organism (is it predictable or
unpredictable?)
• concentration of antibacterial drug achieved at the site of
infection
• safety of the drug for administration to a cat with CKD
Many water soluble antibacterial drugs are highly concentrated within urine and achieve concentrations in urine
which are 100 to 300 times higher than those found in plasma provided the normal animals. Thus, empirical treatment
of UTIs with beta-lactam antibacterial drugs is often successful in uncomplicated cases.
Hyperosmotic urine is hostile to the growth of bacteria,
even uropathogens. Loss of urinary concentrating ability is
an early sign of renal insufficiency and is often seen prior to
the onset of the azotaemic stage of chronic kidney disease
(CKD). Although reduced urine concentrating ability is not
the only factor involved in susceptibility to UTIs (Bayliff et
al., 2008), our clinical data suggest monitoring cats with
CKD for UTIs is warranted.
URINARY TRACT INFECTIONS –
A POTENTIAL CAUSE OF PRIMARY
KIDNEY DAMAGE
RECOMMENDATIONS
FOR MANAGEMENT OF UTIS IN CATS
WITH CKD
One potential primary renal insult we often recognize in
cases of CKD at first presentation for or when they have just
deteriorated is a bacterial UTI. A small prospective study
determined the prevalence and incidence of urinary tract
infections in cats with CKD (Barber et al., 1999). To enter
the study each cat had to have stable CKD and be followed
for at least 4 months with a minimum of 4 urine samples collected by cystocentesis. All samples were subjected to quantitative aerobic bacterial culture. Fifty-one cats were recruited to the study.
A total of 407 urine samples were collected. The prevalence of UTIs was 7.1% in this population and the incidence
was 29% with more than 50% of infected cats having more
than one episode. It is not clear whether repeated episodes
represent re-infections or relapses of existing infections that
were incompletely cleared by treatment. Recent data has
suggested that use of antibiograms to differentiate between
these two situations is unreliable (Freitag et al., 2006). A
larger retrospective study of over 3000 urine samples collected from cats attending our geriatric and kidney disease
clinics has confirmed a similar prevalence of about 5% with
bacterial UTI. The main organisms involved were
Escherichia coli (c80%) and Enterococcus faecalis (c20%).
Cats with CKD, however, are not simple cases when they
have UTIs. Often, they will have had antibacterial drug treatment in the previous 2-3 months meaning the chances of
them having resistant bacterial infections are higher. In addition practitioners should probably:
• Assume the infection has ascended to cause pyelonephritis
• Test sensitivity of organisms
• Treat for 4 to 6 weeks and document a bacteriological
cure
• Choose an antibacterial drug that is safe to use in patients
with compromised renal function, avoiding nephrotoxic
drugs
• If the infection recurs quickly after treatment has stopped
(within 2 months), investigate further to determine
whether there is a predisposing cause (e.g. urolith or bladder tumour)
Antibacterial drug susceptibility is likely to vary – the use
of the broth dilution technique provides most information
since this gives the minimum inhibitory concentration
(MIC) value for the organism. Recent data from our laboratory evaluated the sensitivity of about 50 E coli isolates from
the urinary tract of cats with CKD showed that the MIC90
values obtained from are well below the drug concentrations
that would be achieved in normal feline urine although many
are at the break-point between resistance and sensitivity for
both these drugs based on plasma concentrations.
However, the urine concentration of beta-lactam antibacterial drugs in urine of cats with CKD has not been studied.
We have recently studied the concentrations of amoxycillin
CHOICE OF DRUG THERAPY
FOR URINARY TRACT INFECTIONS
In selecting an appropriate treatment protocol to treat a
UTI, you should consider the:
• extent of the infection within the urinary tract
175
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
/ clavulanic acid achieved in urine after 7 days of dosing at
50 mg twice daily by the oral route. Amoxycillin concentrations (measured by microbiological assay) of between 3 and
30 times the MIC90 value calculated for recent isolates from
our clinic were detected in urine in 10 cats treated with this
protocol, suggesting that even in the least concentrated urine
sample, antibiotic concentrations are well above those
required to kill the most common bacteria involved in these
infections in the UK. However, differences in the patterns of
antibiotic sensitivity and virulence of uropathogens are likely to exist throughout the world (Freitag et al., 2005).
CONCLUSIONS
Urinary tract infections are a relatively common occurrence in cats with CKD. They may be associated with general malaise rather than specific lower urinary tract signs.
They should be treated as though they have extended to the
kidney and caused a pyelonephritis. Use of bactericidal antibacterial drugs with wide therapeutic indices is recommended and the choice of antibiotic should be based on broth culture and sensitivity testing and resulting MIC data. A prolonged course of treatment is often necessary to prevent
recurrence and monitoring for a bacteriological cure is
advisable.
SAFETY OF ANTIBACTERIAL DRUGS
IN CATS WITH CKD
References
The safety margin of conventional doses of drugs eliminated by the kidney may be reduced in CKD. Thus it is
important to avoid potentially toxic drugs, particularly those
with nephrotoxicity. We use penicillins (amoxycillin or
clavulanate potentiated amoxycillin) as the first line antibacterial drug whilst awaiting culture and sensitivity test results.
Our second line group of choice would the fluoroquinolones
for recurrent infections. We tend to avoid is enrofloxacin
because of the reports of retinal blindness in cats seem to
involve enrofloxacin (Gellatt et al, 2001). We have used marbofloxacin at the standard therapeutic dose rate (2 mg/kg
once a day orally) without adverse effects in cats with CKD.
Exceeding the recommended therapeutic dose rate would
not be advisable in cats with CKD whatever fluoroquinolone
prescribed and body weights should be always obtained
accurately rather than estimated. There are practical issues in
dosing cats orally for 4 to 6 weeks. The introduction of the
new cephalosporin, cefovecin, into veterinary practice in
Europe may provide another option in the management of
bacterial UTI in cats with CKD (Stegmann et al., 2006). Its
safety in cats with CKD has yet to be determined however.
Barber, PJ, Rawlings, JM, Markwell, PJ, Rycroft, AN & Elliott, J (1999)
Incidence and prevalence of bacterial urinary tract infections in cats
with chronic renal failure. J. Vet. Intern. Med., 13, 251 (abstract no
101).
Bailiff NL, Westropp JL, Nelson RW, Sykes JE, Owens SD, Kass PH.
(2008) Evaluation of urine specific gravity and urine sediment as risk
factors for urinary tract infections in cats. Vet Clin Pathol.;37(3):31722.
Gelatt KN, van der Woerdt A, Ketring KL, Andrew SE, Brooks DE, Biros
DJ, Denis HM, Cutler TJ. (2001) Enrofloxacin-associated retinal
degeneration in cats. Vet Ophthalmol. 4; 99-106.
Freitag T, Squires RA, Schmid J, Elliott J. (2005) Feline uropathogenic
Escherichia coli from Great Britain and New Zealand have dissimilar
virulence factor genotypes. Vet Microbiol. 106:79-86.
Freitag T, Squires RA, Schmid J, Elliott J. Rycroft, A. (2006) Antibiotic
Sensitivity Profiles are Unreliably in Distinguishing Relapsing Infections from Reinfections in Cats with Chronic Renal Failure and
Recurrent Escherichia coli Urinary Tract Infection. J. Vet. Intern.
Med., 20(2):245-249.
Stegemann MR, Passmore CA, Sherington J, Lindeman CJ, Papp G, Weigel
DJ, Skogerboe TL. (2006) Antimicrobial activity and spectrum of
cefovecin, a new extended- spectrum cephalosporin, against
pathogens collected from dogs and cats in Europe and North America. Antimicrob Agents Chemother., 50(7):2286-92.
Address for correspondence:
Jonathan Elliott - The Royal Veterinary College - University of London, London UK
176
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Presentazione e primo trattamento del paziente
con versamento toracico. Clinica, ossigenoterapia,
toracentesi e toracostomia
Gary W. Ellison
DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA
- Stridore = rumore di tono elevato, aspro, vibratorio
causato da un’ostruzione parziale delle vie aeree
superiori
- Crepitii = suoni discontinui di gorgoglio/scoppiettio
dovuti al fatto che l’aria passa attraverso il liquido
o forza le vie aeree collassate/le pareti alveolari
aprendole
- Sibili = suoni di fischi continui causati da una turbolenza dell’aria nelle vie aeree ristrette
- Grugniti tele-espiratori, sfregamenti pleurici, linee di
fluidi, aree di ottusità..
SEGNI CLINICI ALLA PRESENTAZIONE
I versamenti pleurici lievi sono quasi impossibili da rilevare, dato che la maggior parte dei pazienti non mostra alcun
segno clinico. È soltanto quando si accumulano più di 60
ml/kg di fluido che le manifestazioni della malattia diventano evidenti. Il paziente può mostrare qualsiasi combinazione di tachipnea, ortopnea, dispnea (inspiratoria), respirazione a bocca aperta, riduzione del volume tidalico e cianosi. La
dispnea inspiratoria può comparire anche negli animali con
affezioni delle vie aeree superiori. Gli animali colpiti spesso
presentano suoni polmonari aumentati riferiti dalle vie aeree
superiori, mentre gli animali con malattia dello spazio pleurico presenteranno suoni polmonari ridotti e nessun rumore
significativo delle vie aeree superiori. L’esame obiettivo di
un animale con versamento pleurico moderato o grave spesso rivela un’attenuazione dei suoni polmonari nelle regioni
ventrali, permettendo di identificare una “linea dei fluidi”
rilevabile mediante auscultazione e percussione. Altri
riscontri non specifici comprendono ascite, aritmie, disidratazione, depressione, febbre, linfoadenopatia, soffi cardiaci,
pallore delle mucose, perdita di peso ed inappetenza. Il cane
può tollerare quantità imponenti di liquidi, fino a due volte e
mezza il suo volume residuo, attraverso l’aumento dell’espansione del torace. Tuttavia, man mano che il versamento
pleurico progredisce, questi meccanismi compensatori vengono meno, la CO2 arteriosa aumenta e la grave acidosi può
essere fatale.
Tentiamo di effettuare una emogasanalisi o una pulsossimetria per cercare di misurare quanto sia buona la ventilazione del paziente. Se l’animale sta saturando al 90% od oltre, o
presenta una pO2 al di sopra degli 80 mmHg dell’aria ambiente, non lo consideriamo non ossigeno-dipendente ed effettuiamo delle radiografie. Se l’animale è ossigeno-dipendente, viene fornito ossigeno attraverso una maschera o mediante l’applicazione di insufflazioni nasali. Gli studi condotti hanno
dimostrato che queste ultime producono dei risultati simili ai
valori di O2 ottenuti con la somministrazione in gabbia.
Radiografie: Occorre ottenere almeno due proiezioni
ortogonali del torace. Nella maggior parte dei casi, vengono
effettuate le riprese in proiezione laterolaterale destra e dorso-ventrale. Il liquido ristagna nella parte ventrale del torace
e delinea il profilo cardiaco in presenza di volumi di fluido
molto più piccoli che nella proiezione ventro-dorsale. Se si
sospetta una malattia cardiaca, occorre anche ottenere una
proiezione dorsoventrale o ventrodorsale. Se il paziente presenta difficoltà respiratoria, una singola proiezione dorsoventrale fornisce le principali informazioni e richiede un
minore contenimento.
Nei pazienti con versamento pleurico, i riscontri radiografici sono rappresentati da:
• Linee delle fessure pleuriche
• Silhouette del cuore e del diaframma
• Atelettasia dei polmoni
• Arrotondamento dei lobi polmonari
• Cronicità
• Versamenti reattivi (chilo/pus)
• Le alterazioni possono essere
• Bilaterali
- Ad es., trasudati, trasudati modificati, essudati,
emorragie
VALUTAZIONE CLINICA E TERAPIA
CON O2
Auscultazione e suoni respiratori
• Suoni normali
- Bronchiali (Tracheali) – tono intermedio/elevato,
“tubulare”/“cavo”, suono prodotto da flusso d’aria
turbolento nella trachea.
- Vescicolare – tono basso, “di fruscio leggero”, suono
derivante da un flusso d’aria turbolento nei grossi
bronchi
- Broncovescicolare – suono combinato di tono intermedio.
• Suoni anomali:
- Stertore = suono russante prodotto dall’ostruzione
parziale delle vie aeree superiori
177
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
• Monolaterali
- Ad es., chilo, pus, neoplasie, emorragie
• Sacche fisse
• Ad es., ascessi, neoplasie
Sonda da toracostomia
(inserimento di un drenaggio toracico)
La toracostomia mediante sonda consiste nell’inserimento di un drenaggio toracico. Questo viene utilizzato per evacuare l’aria o il liquido dallo spazio pleurico o per consentire l’accesso allo spazio stesso per l’infusione di un energico
lavaggio terapeutico. Le indicazioni per la toracostomia
mediante sonda sono rappresentate da pneumotorace, emotorace, piotorace, chilotorace e versamenti pleurici che compromettono la funzione respiratoria. Le sonde da toracostomia sono anche utilizzate nella chirurgia intratoracica per
rimuovere l’aria che penetra nello spazio pleurico durante la
procedura.
Il liquido o l’aria nello spazio pleurico riducono la compliance polmonare e la capacità dei polmoni di ventilare gli
alveoli. Il risultato è una riduzione del volume di riserva dei
polmoni, il volume dello spazio alveolare utilizzato quando
l’animale è stressato. Quando il versamento pleurico o lo
pneumotorace riducono la compliance polmonare sino al
punto che l’animale diventa ipossico (cianotico) durante lo
stress, occorre inserire un drenaggio toracico. Questo può
anche venire utilizzato per consentire il lavaggio periodico
dello spazio pleurico. Ciò viene fatto in caso di piotorace, e
spesso sono necessari dei drenaggi bilaterali.
I drenaggi toracici possono essere inseriti con un’anestesia minima; spesso, nel paziente moribondo è sufficiente
soltanto un anestetico locale. L’anestesia locale viene praticata a livello della sede di penetrazione del drenaggio e lungo la via percorsa dallo stesso a livello sottocutaneo. Generalmente, la pleura è l’area più difficile da bloccare e il piano tissutale più doloroso da attraversare. L’anestesia da narcolessi riduce la necessità di contenimento fisico, e di solito consente di eseguire la procedura più dolcemente. Le
indagini di laboratorio preliminare ed i parametri acidobasici contribuiscono a valutare lo stato del paziente. In
alcuni casi è necessaria la terapia con ossigeno mediante
maschera o intubazione. Se l’animale è moribondo, si può
effettuare la toracentesi impiegando un catetere butterfly di
piccolo calibro (22-20 gauge) per rimuovere il fluido o l’aria, usando soltanto l’anestesia locale. Questa procedura
può essere salvavita, e spesso esita in una diagnosi clinica
precoce se è presente pneumotorace o se si esegue l’esame
del liquido di risulta. Dopo la rimozione del fluido o dell’aria, e quando la condizione dell’animale migliora, si può
inserire un drenaggio toracico. Uno degli aspetti più importanti quando si collocano i drenaggi toracici è essere preparati al peggio. Gli animali sotto lieve sedazione spesso collassano durante l’inserimento del drenaggio toracico e,
quando possibile, l’autore preferisce avere dei pazienti anestetizzati ed intubati durante l’operazione. Come minimo
deve essere stato applicato un catetere permanente e si deve
avere a disposizione un’apparecchiatura da anestesia e tubi
orotracheali di diverse dimensioni, nel caso di collasso
respiratorio durante l’inserimento.
La toracostomia mediante sonda viene generalmente
effettuata attraverso un’incisione di punta praticata tra l’8°
ed il 12° spazio intercostale. Con una pinza di Carmalt si
scollano i tessuti realizzando un tunnel sopra due spazi intercostali procedendo in direzione craniale. La sonda, afferrata
con le pinze, viene quindi spinta mediante dissezione per via
Toracentesi: Il torace del cane viene esaminato mediante auscultazione e percussione per rilevare la presenza di
linee di fluidi. Se devono essere rimossi ampi volumi di
liquido, si deve raccordare al catetere una valvola a tre vie.
La sola controindicazione per la toracentesi è la presenza
di una coagulopatia nota. Negli animali stabili, prima della
toracentesi si deve esaminare lo status della coagulazione.
Tuttavia, dato che la maggior parte dei pazienti si presenta
in condizioni gravemente compromesse, a meno non che
sia presente un’evidente emorragia si deve comunque tentare la toracentesi.
L’impiego di un ago di piccolo calibro, un catetere ad ago
interno o butterfly collegato ad una valvola a tre vie e ad un
deflussore riduce i rischi di indurre uno pneumotorace o un
emotorace dovuto alla lacerazione di un lobo di un polmone
o della pleura viscerale.
Introducendo l’ago cranialmente alla costola si evita la
lacerazione di vasi e nervi intercostali. Occorre rimuovere
quanto più liquido possibile. Nella maggior parte dei casi,
la toracentesi unilaterale è tutto quanto è necessario per
fornire un sollievo significativo al paziente. Se il liquido
appare grossolanamente suppurativo (piotorace) o cremoso (chilotorace), o se se ne ottiene una quantità molto scarsa o nulla, si deve effettuare la toracentesi anche dalla parte controlaterale.
Le ragioni dell’esito negativo della toracentesi sono rappresentate da:
• Assenza totale di liquidi
Ricercare un’altra malattia (radiografie, emogasanalisi,
ecc..)
• Liquido racchiuso in una tasca o nella parte controlaterale
del torace
Aspirazione sotto guida ecografica o radiografica
Esecuzione della toracentesi dall’altra parte del torace
• Liquido molto denso
Inserimento di un drenaggio toracico
• Liquido più ventrale dell’ago o più profondo di quanto
l’ago possa raggiungere
Riposizionamento del paziente o dell’ago
Citologia: L’analisi citologica del liquido ottenuto
deve SEMPRE essere parte di una valutazione diagnostica. L’analisi deve comprendere la misurazione delle proteine totali ed il conteggio cellulare totale, nonché la
valutazione quantitativa delle singole cellule (microscopio). Ciò aiuterà a classificare il liquido nell’ambito di
uno dei seguenti gruppi:
• Trasudati
• Trasudati modificati
• Essudati non settici
• Essudati settici
• Versamenti chilosi
• Versamenti emorragici
• Versamenti neoplastici
178
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
tuata in modo intermittente. Si deve esercitare soltanto un’aspirazione delicata, perché se lo stantuffo della siringa viene
tirato troppo vigorosamente si può verificare un danno del
parenchima.
Il drenaggio toracico deve essere protetto dall’automutilazione da parte dell’animale. Spesso per questo scopo è
necessario un collare di Elisabetta in combinazione con un
bendaggio protettivo. Lo pneumotorace che si verifica quando l’animale arriva al drenaggio può essere potenzialmente
letale, quindi è ideale che questi pazienti vengano tenuti in
un’unità di terapia intensiva.
La presenza della sonda causa di per se stessa una risposta infiammatoria pleurica, per cui solitamente vengono prodotti 5-10 ml/kg di liquido finché il tubo è in posizione.
Quindi, il drenaggio del torace non deve mai essere lasciato
in sede fino a che il versamento non si sia arrestato del tutto, perché ciò non accadrà mai!
smussa fino nello spazio pleurico. Dopo aver ritirato le pinze, si inserisce il drenaggio toracico nella parte craniale del
torace. Una sutura a borsa di tabacco viene legata intorno
alla sonda e quest’ultima viene assicurata al torace con un
nastro butterfly o una sutura antiscivolo. Dopo l’aspirazione
del contenuto pleurico, la sonda viene chiusa con un tappo
da catetere sterile e si applica un morsetto di chiusura. Per il
pneumotorace, sono utili delle speciali valvole ad una via
(valvole di Heimlich), che però vengono spesso occluse dal
sangue o da essudati e non servono per i versamenti pleurici. Un altro sistema, più complicato, utilizza un’aspirazione
continua con un sistema a tenuta idraulica. Questo sistema
drena efficacemente sia i fluidi che l’aria, ma è scomodo e
non mobile. I più recenti sistemi Plerivac7 utilizzano gli stessi principi e sono compatti, per cui possono essere comodamente fissati alla porta della gabbia dell’animale. L’aspirazione manuale dello spazio pleurico può anche essere effet-
179
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
The patient with thoracic effusion:
presentation and first aid, clinical assessment,
oxygen therapy, thoracocentesis
and thoracic drainage
Gary W. Ellison
DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA
- Wheezes = continuous whistling sounds caused by air
turbulence in narrowed airways
- End-expiratory Grunts, Plural rubs, Fluid lines, Dull
regions…
We attempt to obtain a blood gas or pulse oximeter reading to gauge how well the animal is ventilating. If the animal
is saturating at 90% or above or the animal is has a p02
above 80mm/hg room air we do not consider it not oxygen
dependent and take radiographs. If the animal is Oxygen
dependent O2 is provided via mask or via use of nasal insufflations. Studies have shown that nasal insufflations yields
similar results to cage delivered O2 values.
PRESENTING SIGNS
Mild pleural effusions are almost impossible to detect, as
most patients show no clinical signs. It is only when more
than 60ml/kg of fluid accumulates that clinical signs become
apparent. The patient may exhibit any combination of
tachypnea, orthopnea, dyspnea (inspiratory), open mouth
breathing reduced tidal volume and cyanosis. Inspiratory
dyspnea can also occur in animals with upper airway disease. Animals with upper airway disease will often have
increased lung sounds referred from the upper airway,
whereas animals with pleural space disease have decreased
lung sounds and no significant upper airway noise. Physical
examination of an animal with moderate to severe pleural
effusion often reveals decreased lung sounds ventrally with
an auscultable and percussable “fluid line” Other non specific findings include ascites, arrhythmias, dehydration,
depression, fever, lymphadenopathy, heart murmurs, pallor,
weight loss and inappetence. The dog can tolerate massive
amounts of fluid of up to two and one-half times its residual
volume by increasing its chest expansion. However, as the
pleural effusion progresses these compensatory mechanisms
fail, arterial CO2 rises, and severe acidosis may be fatal.
Radiographs: At least two orthogonal views of the thorax
should be obtained. Most commonly, a right lateral and a
dorso-ventral view are obtained. Fluid will pool in the ventral chest and cause silhouetting with the heart with much
smaller fluid volumes than with a ventro-dorsal view. If
heart disease is a concern, a DV or VD view should also be
obtained. If the patient is in respiratory distress, a single DV
view provides the most information and requires the least
amount of restraint. Radiographic findings in patients with
pleural effusion include:
• Pleural fissure lines
• Silhouetting of heart and diaphragm
• Atelectasis of lungs
• Rounding of lung lobes
• Chronicity
• Reactive effusions (chyle/pus)
• Changes may be
• Bilateral
- e.g. Transudates, modified transudates, exudates,
hemorrhage
• Unilateral
- e.g. Chyle, pus, neoplasia, hemorrhage
• Fixed pockets
- e.g. Abscess, neoplasia
CLINICAL ASSESSMENT
AND O2 THERAPY
Auscultation and Respiratory sounds
• Normal sounds:
- Bronchial (Tracheal) – intermediate/high pitch, “tubular/”hollow”, sound produced by turbulent airflow in
the trachea.
- Vesicular – low pitch, “soft rustling”, sound from turbulent airflow in large bronchi
- Bronchovesicular – intermediate pitch combination
sound.
• Abnormal sounds:
- Stertor = snoring sound produced by partial obstruction
of upper airway
- Stridor = high pitched, harsh, vibratory noise caused by
partial upper airway obstruction
- Crackles = discontinuous bubbling/popping sounds as
air passes through fluid or forces collapsed airway/alveolar walls open
Thoracocentesis: The dog’s chest is ausculted and percussed for the presence fluids lines. If large volumes of fluid are to be removed a three way stopcock and fluid line are
attached to the catheter. The only contraindication for thoracocentesis is the presence of a known coagulopathy. In
stable animals the status of coagulation should be tested
before thoracocentesis. However, since most animals pres180
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
ent in severely compromised condition, unless there is obvious hemorrhage, thoracocentesis should be attempted.
The use of a small gauge needle, over the needle catheter or
butterfly catheter with a three-way stopcock and extension set,
reduces the risk of creating a pneumothorax or hemothorax
from laceration of a lung lobe or visceral pleura. Introducing
the needle cranial to the rib prevents laceration of the intercostal vessels and nerves. As much fluid as possible should be
removed. In most cases unilateral thoracocentesis is all that is
needed to provide significant relief to the patient. If the fluid
appears grossly suppurative (pyothorax) or creamy (chylothorax), or no/minimal fluid is obtained by thoracocentesis, the
contralateral side should be tapped too.
lavage of the pleural space. This is done in pyothorax, and
bilateral chest drains are often necessary.
Chest drains can be inserted with minimal anesthesia; often,
only a local anesthetic in the moribund patient. Local anesthesia is used at the site of drain penetration and throughout the
subcutaneous path of the drain. Generally, the pleura is the
most difficult area to block and the most painful tissue plane
penetrated. Alternatively, intercostal nerves may be blocked to
provide anesthesia. Narcoleptic anesthesia reduces the requirement for physical restraint, and generally allows the procedure
to proceed more smoothly. Preliminary laboratory work and
acid-base parameters, will aid evaluation of the state of the
patient. Oxygen therapy by mask or intubation is necessary in
some patients. If the animal is moribund, thoracocentesis using
a small bore butterfly catheter (22-20 gauge) can be utilized to
remove fluid or air with only local anesthesia. This procedure
can be life saving, and it often results in an early clinical diagnosis if pneumothorax is present, or upon examination of fluid
obtained. After removal of fluid or air, and when the condition
of the animal improves, a chest drain may be inserted. One of
the most important items when placing chest drains is to be
prepared for the worst scenario. Animals under little sedation
often will collapse during chest drain insertion and where possible I prefer to have the patients anesthetized and intubated
during insertion. At the very least the animal should have an
indwelling catheter and an anesthesia machine and several
sizes of endotracheal tubes should be available in the event of
a respiratory collapse during insertion.
Tube thoracostomy is generally done through a stab incision between 8th and 12th intercostal spaces. Carmalt forceps
are used to undermine a tunnel over two intercostal spaces
in a cranial direction. The tube, grasped by the forceps is
then pushed bluntly into the pleural space. After the forceps
are withdrawn, the chest drain is inserted into the cranial
aspect of the thorax. A pursestring suture is tied around the
tube and the tube secured to the thorax with a tape butterfly
or a Chinese finger snare. After aspiration of the pleural
contents the tube is occluded with a sterile catheter plug and
a tube clamp is applied. Special one-way valves (Heimlich
valves) are useful for pneumothorax, but are often occluded
by blood or exudates and are not useful for pleural effusions.
Another more complicated system utilizes continuous suction with an underwater seal. This system effectively drains
both fluid and air but is cumbersome and non-mobile. Newer Pleurivac7 systems utilize the same principles and are
compact so they can be conveniently attached to the animal’s cage door. Manual aspiration of the pleural space may
also be done intermittently. Only gentle suction should be
applied, because if the syringe plunger is pulled too vigorously, parenchymal damage may occur.
The chest drain must be protected from self mutilation by
the animal. An Elizabethan collar in combination with a protective bandage is often necessary to protect the drain. Pneumothorax that occurs when the animal does get to the drain
can be life-threatening thus it is ideal that these patients are
kept in an intensive care unit.
The tube itself causes a pleural inflammatory response
and the typically 5-10 ml/kg of fluid is produced with the
tube in place. Therefore he chest drain should be not be left
in until all effusion stops because it never will!
Reasons for a negative tap include:
• No fluid present
- Go look for another disease (radiographs, blood gas etc)
• Fluid in walled off pocket or on contralateral side of chest
- Ultrasound or radiograph guided aspirate
- Tap other side of chest
• Fluid very thick
- Place chest tube
• Fluid more ventral than needle or deeper than needle can
reach
- Reposition cat or needle
Cytology: Cytological analysis of fluid obtained should
ALWAYS be part of the diagnostic evaluation. Analysis
should include measurement of total protein and total cell
count, as well as a qualitative assessment of individual cells
(microscope). This will help classify the fluid into one of the
following groups:
• Transudates
• Modified transudates
• Non septic exudates
• Septic exudates
• Chylous effusions
• Hemorrhagic effusions
• Neoplastic effusion
TUBE THORACOSTOMY
(CHEST DRAIN INSERTION)
Tube thoracostomy is chest drain placement. The drain is
used to evacuate air or fluid from the pleural space or to allow
access to the pleural space for infusion of therapeutic ravage.
Indications for tube thoracostomy include: pneumothorax,
hemothorax, pyothorax, chylothorax, and pleural effusions
that compromise respiratory function. Tube thoracostomies
are also utilized in intra-thoracic surgery to remove air that
enters the pleural space during the procedure.
Fluid or air in the pleural space reduces pulmonary compliance and reduces the capability of the lungs to ventilate
alveoli. The result is a reduction in the reserve volume of the
lungs, the volume of alveolar space utilized when the animal
is stressed. When pleural effusion or pneumothorax reduces
pulmonary compliance to the extent that the animal becomes
hypoxic (cyanotic) during stress, a chest drain should be
inserted. Chest drains may also be placed to allow periodic
181
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Empiema toracico: controversie terapeutiche.
Gestione medica vs. chirurgica
Gary W. Ellison
DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA
DIAGNOSI DIFFERENZIALI DEL PIOTORACE
Trasudati e trasudati modificati (Idrotorace)
I trasudati sono fluidi con basse concentrazioni di proteine (< 2,5-3 g/dl) ed un basso conteggio di cellule nucleate (<
500-1000/μl). I tipi cellulari primari sono rappresentati da
elementi mononucleati, che comprendono macrofagi, linfociti e cellule mesoteliali.
I trasudati modificati hanno contenuti proteici lievemente più elevati (fino a 3,5 g/dl) e conteggi delle cellule fino a
5000/μl. Anche i neutrofili possono far parte della componente cellulare.
I trasudati ed i trasudati modificati di solito si formano
come un risultato delle forze di Starling:
PRESSIONE IDROSTATICA AUMENTATA:
• ad es., insufficienza cardiaca congestizia destra, pericardiopatia
• I riscontri all’esame fisico che possono deporre a favore
di queste malattie sono rappresentati da soffio cardiaco,
tachicardia, anomalie del polso giugulare, suoni di
galoppo, suoni cardiaci attutiti ed aritmie.
• Radiografie toraciche, ecografia ed ECG sono indicati quando il paziente è stabile.
PRESSIONE ONCOTICA DIMINUITA:
• Grave ipoalbuminemia (< 1,5 g/dl)(ad es., nefropatie/
enteropatie proteino-disperdenti [PLN/PLE], disfunzione
epatica)
• Riscontri all’anamnesi ed all’esame fisico che possono
supportare l’ipotesi di queste malattie comprendono: diarrea, poliuria/polidipsia (PU/PD), edema sottocutaneo
nelle aree declivi del corpo.
• Il contenuto proteico del versamento, estremamente
basso
• Analisi dell’urina (UA) (±UP:UC), parametri chimici,
proteasi fecale α-1, quando il paziente è stabile
ALTERATA PERMEABILITÀ VASCOLARE:
• Ad es., vasculite (può anche causare essudato se il grado
di permeabilità è maggiore)
• Si possono riscontrare segni di edema in altre aree, possono essere presenti fattori predisponenti noti
• È probabile che il contenuto proteico del versamento
sia relativamente elevato
Qf = velocità di filtrazione del liquido: Kf = coefficiente di
filtrazione vascolare; Pc = pressione idrostatica capillare;
Pπ = pressione idrostatica interstiziale; σ = coefficiente di
riflessione oncotica; πc = pressione capillare colloidoosmotica; πif = pressione interstiziale colloido-osmotica
• Quando il paziente è stato stabilizzato, indagine per
evidenziare sottostanti malattie infiammatorie, infettive
o immunomediate.
OSTRUZIONE LINFATICA:
• Neoplasie (è raro che causino un trasudato puro)
• Ernia diaframmatica (può anche causare essudati nei casi
cronici)
182
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
con i neutrofili degenerati che costituiscono il tipo cellulare
predominante. Batteri possono essere osservati sia all’interno della cellula (con macrofagi e neutrofili) che all’esterno.
Se sono presenti anaerobi, gli essudati settici possono avere
un odore molto sgradevole.
• I riscontri anamnestici e clinici che possono deporre a
favore di queste malattie sono rappresentati da traumi e
precedenti neoplasie
• Radiografie ed ecografie toraciche (± addome) quando il
paziente è stabile.
2) Essudati settici e non settici
Il piotorace può comparire nelle seguenti situazioni:
• SPONTANEAMENTE (IDIOPATICO)
• FERITE PENETRANTI
• Parete toracica, esofago, vie aeree
• CORPI ESTRANEI MIGRANTI DI ORIGINE VEGETALE
• Ariste di graminacee (soprattutto California)
• ESTENSIONE DI POLMONITI BATTERICHE
Gli essudati hanno un contenuto proteico (> 3 g/dl) e un
conteggio cellulare (> 5000/μl) più elevati dei trasudati.
Su tutti gli essudati pleurici si devono effettuare gli esami
colturali aerobici ed anaerobici e gli antibiogrammi, nonché
la colorazione di Gram. Sono comuni le infezioni batteriche
miste, e solitamente si isolano microrganismi anaerobi. I
batteri più frequentemente riscontrati nel gatto sono Bacteroides (anaerobio), Fusobacterium (anaerobio) e Pasteurella
multocida (aerobio). Quelli più comunemente isolati dai
cani sono Fusobacterium (anaerobio), Actinomyces (anaerobio), Nocardia (aerobio), Streptococcus (anaerobio facoltativo) e Pasteurella multocida (aerobio).
TRATTAMENTO MEDICO O CHIRURGICO?
In letteratura sono state pubblicate molte segnalazioni di
successo della terapia medica del piotorace. Questa di solito
consiste nell’inserimento di sonde toraciche per drenare il
pus, con o senza l’impiego di un lavaggio periodico del torace. In un recente lavoro pubblicato in Gran Bretagna è stato
dimostrato un eccellente risultato in 15 cani trattati con anestesia generale, toracentesi monolaterale e soministrazione
combinata di ampicillina alla dose di 33 mg/kg tre volte al
giorno e metronidazolo alla dose di 25 mg/kg due volte al
giorno per un minimo di 6 settimane. Tuttavia, questo è il
solo lavoro in cui vengono riferiti risultati di questo tipo senza l’uso combinato di sonde da toracostomia permanenti,
lavaggio e chirurgia e non era disponibile il follow-up a lungo termine.
Quando si cerca di trattare il piotorace per via medica,
l’inserimento delle sonde toraciche deve essere effettuato
subito dopo la diagnosi. Questo è il trattamento più importante perché consente il drenaggio del versamento. Inizialmente, l’autore inserisce una sonda monolaterale, drena il
pus e poi valuta radiograficamente se sia indicata una seconda sonda. Nelle condizioni a carattere infiammatorio, talvolta il mediastino diventa impervio, per cui è necessaria una
seconda sonda sull’altro lato. L’aspirazione continua con un
sistema a tenuta idraulica è lo standard aureo nell’uomo, ma
non è disponibile in tutte le strutture veterinarie ospedaliere.
Un’aspirazione frequente (ogni 2 ore, 24 ore al giorno) ed
intermittente rappresenta una ragionevole alternativa.
Il lavaggio del torace con 10 ml/kg di soluzione fisiologica sterile riscaldata due volte al giorno è controverso. È raccomandato da alcuni autori, perché può contribuire a fluidificare le secrezioni e favorire l’aspirazione del pus. Altri non
lo raccomandano, perché può aumentare il rischio di introduzione e diffusione dell’infezione. L’autore preferisce servirsene se ha un paziente che presenta pus molto addensato
o focale che non risponde alla terapia standard.
Presso la University of Florida i risultati che abbiamo
ottenuto con la sola terapia medica sono stati piuttosto sfavorevoli e abbiamo la sensazione che il trattamento del piotorace debba essere più aggressivo. Abbiamo rilevato che
trattare il paziente con antibiotici, da soli o abbinati ad altri
agenti, di solito non è sufficiente. Spesso si verifica inizialmente un notevole miglioramento della condizione clinica,
Gli essudati non settici presentano cellule come neutrofili, macrofagi, eosinofili e linfociti. I macrofagi ed i linfociti
possono essere attivati, ma i neutrofili sono di tipo non degenerativo e non si osservano microrganismi.
Le diagnosi differenziali per gli essudati non settici comprendono (senza essere limitate ad esse):
PERITONITE INFETTIVA FELINA (FIP)
• I gatti possono avere febbre, corioretinite ed ascite in
aggiunta ai segni clinici respiratori
• Le proteine dei fluidi spesso sono ESTREMAMENTE
elevate (quasi quanto le proteine del siero). Nel liquido si
possono anche riscontrare filamenti di fibrina o coaguli.
NEOPLASIE
• Possono anche causare idrotorace/chilotorace/emotorace
TORSIONE DI UN LOBO POLMONARE
(Può anche causare chilotorace/emotorace)
• Può essere sia la causa che l’effetto di un versamento
pleurico!
• Si riscontrano delle forme spontanee principalmente nei
cani con torace stretto e profondo (predisposto il Levriero
afgano).
ERNIA DIAFRAMMATICA CRONICA
• Può anche causare idrotorace
ESSUDATI SETTICI IN VIA DI RISOLUZIONE
• Gli animali con infezioni pleuriche (piotorace, empiema)
che sono stati trattati con antibiotici possono presentare
versamenti che sembrano essudati non settici. Quindi, è
importante cercare di stabilire una diagnosi prima di
iniziare il trattamento.
Negli essudati settici spesso il conteggio delle cellule
nucleate è ESTREMAMENTE elevato (50.000-100.000/μl),
183
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
ma quando si interrompe il trattamento le manifestazioni
della malattia recidivano. Inoltre, è più probabile che l’animale soffra delle conseguenze di un’infezione a lungo termine, come fibrosi o ascessi.
Benché sia ancora un argomento controverso, sembra che
l’esplorazione chirurgica con introduzione di sonde toraciche per stabilire un drenaggio sia l’opzione terapeutica più
appropriata per i casi di piotorace.
Ciò richiede un chirurgo capace e un ospedale attrezzato
per maneggiare i pazienti malati in condizioni postoperatorie critiche. Presso la University of Florida effettuiamo tipicamente la sternotomia mediana, la toracotomia esplorativa
completa e la lacerazione delle aderenze fibrose, nonché la
rimozione degli ascessi dei lobi polmonari.
In fase iniziale si devono impiegare antibiotici endovenosi, attendendo i risultati delle prime colture. L’ampicillina è
un vlido farmaco di prima scelta perché è efficace contro
molti aerobi ed anaerobi. Un più ampio spettro di batteri è
suscettibile all’ampicillina potenziata con sulbactam
(UnaSyn). Se sono coinvolti i microrganismi Gram-negativi,
si deve prendere in considerazione l’enrofloxacin. Si possono anche valutare gli aminoglicosidi, che però non sono
altrettanto efficaci per determinare la morte dei batteri nel
pus. Una volta che l’animale inizi a migliorare, la somministrazione degli antibiotici per via endovenosa può essere
sostituita da quella per os.
La valutazione clinica e le colorazioni di Gram del liquido devono essere effettuate ogni 48 ore per rilevare i miglioramenti. Le sonde toraciche sono lasciate in sede fino a che
il liquido raccolto ha un volume < 2 ml/kg/die e non è più
suppurativo e settico. I neutrofili potranno ancora essere presenti, ma non devono apparire degenerati. Le radiografie non
devono mostrare sacche residue di liquido. L’antibioticoterapia viene continuata per 8-12 settimane. Prima di interrompere gli antibiotici e circa due settimane dopo la loro sospensione, si devono effettuare le radiografie del torace.
La toracoscopia video assistita (VATS) è stata utilizzata in
alcuni centri come ponte tra la terapia chirurgica e quella
medica. Si può utilizzare per ottenere dei campioni, sbrigliare le aderenze e visualizzare la pleura per una collocazione
accurata delle sonde toraciche. Pur essendo una tecnica promettente, non ci sono lavori attuali che delineino una sua
efficacia a lungo termine nel trattamento del piotorace.
Riassunto
Il trattamento del piotorace resta molto controverso, con
tassi di mortalità dello 0-42%. Tuttavia, molti cani muoiono
o sono sottoposti ad eutanasia senza un trattamento per l’elevato costo della terapia e la variabilità dei risultati con o
senza intervento chirurgico. La nostra struttura clinica tende
ad esaminare casi in cui il trattamento medico è già fallito e
per questo siamo portati ad assumere un approccio più
aggressivo. La toracoscopia videoassistita sembra promettente come terapia per certi tipi di piotorace.
Bibliografia
1.
2.
184
Johnson MS Martin MWS, Gill PJ. Successful medical management
of 15 dogs with pyothorax. J Sm Anim Pract 200748,12-16.
MacPhail CM. Medical and surgical management of pyothorax. Vet
Clin Small Anim 37(2007) 975-988.
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Pyothorax therapeutic controversies.
Medical vs. surgical treatment
Gary W. Ellison
DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA
DIFFERENTIALS FOR PYOTHORAX
1) Transudates and Modified Transudates (Hydrothorax)
Transudates are fluids with low protein concentrations
(<2.5-3g/dl) and low nucleated cell counts (<500-1000/ml.)
The primary cell types are mononuclear cells, comprised of
macrophages, lymphocytes and mesothelial cells.
Modified transudates have slightly higher protein contents (up to 3.5g/dl) and cells counts up to 5000/ml. Neutrophils can also form part of the cell component.
Transudates and modified transudates usually form as a
result of alterations in Starling forces:
INCREASED HYDROSTIC PRESSURE:
• e.g. right-sided congestive heart failure, pericardial disease
• Physical examination findings that might support these
diseases include: heart murmur, tachycardia, abnormal
jugular pulses, gallop sounds, muffled heart sounds and
arrhythmias.
• Thoracic radiographs, ultrasound and ECG are indicated when patient is stable
DECREASED ONCOTIC PRESSURE:
• Severe hypoalbuminema (<1.5g/dl) (e.g. PLN/PLE,
hepatic dysfunction)
• Historical and physical examination findings that might
support these diseases include: diarrhea, PUPD, SQ edema in dependent areas of body.
• Protein content of effusion extremely low
• UA (+/- UP:UC), Chem, fecal 〈-1 protease... when
patient is stable.
• Diaphragmatic hernia (can also cause exudates in chronic
cases)
• Historical and physical examination findings that might
support these diseases include: trauma, and previous neoplasia.
• Thoracic radiographs and ultrasound (+/- abdomen) when
the patient is stable.
ALTERED VASCULAR PERMEABILITY:
• e.g. Vasculitis (could also cause exudate if greater degree
of permeability)
• Might see evidence of edema in other areas, might have
known predisposing factors.
• Protein content of effusion likely to be relatively high
• Work up for underlying inflammatory, infectious,
or immune-mediated diseases when patient is stabilized.
2) Septic and Non-septic Exudates
LYMPHATIC OBSTRUCTION:
• Neoplasia (uncommonly causes pure transudate)
Exudates have a higher protein content (>3g/dl) and cell
count (>5000/ml) than transudates.
185
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Gram staining and both aerobic and anaerobic cultures with
susceptibility testing should be performed on all pleural exudates. Mixed bacterial infections are common, and anaerobes
are commonly isolated. Common bacterial isolates from cats
are Bacteroides (anaerobic), Fusobacterium (anaerobic) and
Pasteurella multocida (aerobic). Common bacterial isolates
from dogs are Fusobacterium (anaerobic), Actinomyces
(anaerobic), Nocardia (aerobic), Streptococcus (facultatively
anaerobic) and Pasteurella multocida (aerobic).
MEDICAL VS. SURGICAL MANAGEMENT?
There are numerous reports of successful medical treatments of pyothorax. These usually entail the placement of
thoracic tubes to drain the pus with or without the use of
periodic thoracic lavage. A recent publication out of Britain
showed excellent result in 15 dogs who were treated with
general anesthesia, unilateral thoracocentesis and a combination of ampicillin at 33mg/kg three times daily and
Metronidazole at 25mg/kg twice for a minimum of 6 weeks.
This however is the only paper giving these types of results
without either a combination of indwelling thoracostomy
tubes, lavage or surgery and long term follow-up was not
available.
When attempting to treat pyothorax medically, chest tubes
should be placed as soon as the diagnosis is made. This is the
most important treatment as it allows drainage of the effusion. Initially I place a unilateral tube, drain the pus and then
radiographically assess whether a second tube is indicated.
In inflammatory conditions, sometimes the mediastinum
becomes impervious and then a second tube is needed on the
other side. Continuous water seal suction of the tubes is the
gold standard in humans, but is not available in all veterinary
hospitals. Frequent (every 2 hours, 24 hours a day), intermittent aspiration is a reasonable alternative.
Lavage of the chest with 10ml/kg warm sterile saline
twice daily is controversial. It is recommended by some
authors, because it may aid in loosening up secretions and
aid in the aspiration of pus. Others do not recommend it,
because it may increase the risk of introducing and spreading infection. I might use it if I had a patient with very
inspissated or focal pus that was no responding to standard
therapy.
At the University of Florida our results have been rather poor
with medical management alone and we feel that treatment of
pyothorax should be aggressive. We have found that treating the
patient with antibiotics alone or with is usually not enough.
There is often a remarkable improvement in clinical condition
initially, but clinical signs recur when treatment is stopped. Also
the animal is more likely to suffer the consequences of long tem
infection, such as fibrosis or abscesses.
Although there is still some controversy, it appears that
surgical exploration with placement of chest tubes to establish drainage is the most appropriate therapeutic option for
pyothorax cases. This requires a skilled surgeon and a hospital that is equipped to handle critically ill post-operative
patients. At the University of Florida we typically do a median sternotomy, do a full exploratory thoracotomy and break
down fibrous adhesions as well as remove abscessed lung
lobes lung lobes or
Intravenous antibiotics should initially be used, pending
results of initial culture. Ampicillin is a good first choice as
it is effective against many aerobes and anaerobes. A broader spectrum of bacteria is susceptible to Ampicillin potentiated with Sulbactam (UnaSyn). If gram negatives are
involved, Enrofloxacin should be considered. Aminoglycosides can also be considered, however they are not as effective at killing bacteria in pus. Once the animal starts to
improve, intravenous antibiotics can be replaced with oral
antibiotics.
Nonseptic exudates have cell types consisting of neutrophils, macrophages, eosinophils and lymphocytes.
Macrophages and lymphocytes may be activated, but neutrophils are non-degenerate and no organisms are seen.
Differentials for non-septic exudates include (but are not
limited to):
FELINE INFECTIOUS PERITONITIS (FIP)
• Cats may have fever, chorioretinitis and ascites in addition
to respiratory signs
• Fluid protein often EXTREMELY elevated (almost as
high as serum protein). May also see fibrin strands or clots
in fluid.
NEOPLASIA
• May also cause hydrothorax / chylothorax / hemothorax
LUNG LOBE TORSION
(May also cause chylothorax / hemothorax)
• May cause pleural effusion or be caused by pleural effusion!
• Spontaneous form seen mainly in dogs with deep narrow
chest (Afghan Hound predisposed)
• May be secondary to chronic lung disease.
• Thoracic radiographs, and possible ultrasound and
bronchoscopy can be used to confirm torsion when animal is stable.
CHRONIC DIAPHRAGMATIC HERNIA
• May also cause hydrothorax
RESOLVING SEPTIC EXUDATES
• Animals with pleural infections (pyothorax, empyema)
that have been treated with antibiotics may have effusions
that resemble Nonseptic exudates. Thus it is important to
try to establish a diagnosis before initiating treatment.
Septic exudates often have EXTREMELY elevated nucleated cell counts (50,000-100,000/ml), with degenerate neutrophils being the predominant cell type. Bacteria may be
observed intracellularly (within macrophages and neutrophils) and extracellularly. Septic exudates may have a foul
odor if anaerobes are present.
Pyothorax can occur in the following situations:
• SPONTANEOUSLY (IDIOPATHIC)
• PENETRATING WOUNDS
Thoracic wall, esophagus, airways
• MIGRATING GRASS FOREIGN BODIES
Grass awns (esp. California)
• EXTENSION OF BACTERIAL PNEUMONIA
186
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Cytological evaluation and gram stains of the fluid should
be performed every 48 hours to look for improvement. Chest
tubes are left in place until the volume of fluid recovered is
<2ml/kg/day and the fluid is no longer suppurative and septic. Neutrophils will still be present but should not appear
degenerate. Radiographs should show no remaining pockets
of fluid. Antibiotic therapy is continued for 8-12 weeks.
Before discontinuing antibiotics and about 2 weeks after discontinuing antibiotics, chest radiographs should be obtained.
Video Assisted Thoracoscopy (VATS) has been used in
some centers as a bridge between medical and surgical therapy. It can be used to obtain samples, break down adhesions
and visualize the pleura for accurate placement of chest
tubes. Although it holds great promise there are no current
papers out delineating its long term efficacy in the management of pyothorax..
Summary
The treatment of pyothorax remains highly controversial
with mortality rates of 0-42% reported. However many dogs
die or are euthanized without treatment due to the high costs
of therapy and variable results with and without surgery. Our
clinical practice tends to see cases in which medical management has failed and as such we tend to take more aggressive approach. Video assisted thoracoscopy shows new
promise as a treatment for certain type of pyothorax
References
Johnson MS Martin MWS, Gill PJ. Successful medical management of 15
dogs with pyothorax. J Sm Anim Pract 200748,12-16.
MacPhail CM. Medical and surgical management of pyothorax. Vet Clin
Small Anim 37(2007) 975-988.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Pneumotorace: quando la chirurgia?
Gary W. Ellison
DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA
Pneumotorace
Fisiopatologia
Per definizione, lo pneumotorace è l’accumulo di aria o
gas liberi nello spazio pleurico. L’aria può entrare in quest’ultimo attraverso una qualsiasi di queste tre fonti: il polmone stesso, attraverso una fuoriuscita pleuropolmonare,
l’atmosfera, mediante una comunicazione pleurocutanea,
pleuroesofagea o pleurobronchiale, o per la presenza di
microrganismi gas-produttori nello spazio pleurico. Lo
pneumotorace viene classificato in relazione alla sua eziologia e fisiopatologia ed all’entità del collasso polmonare.
Lo pneumotorace può essere di origine traumatica o spontanea. Quello traumatico è stato riportato nel 47% di tutti i
casi di trauma toracico nei piccoli animali e più spesso è il
risultato di incidenti automobilistici. Quello spontaneo viene
definito come uno pneumotorace chiuso in cui il parenchima
polmonare è all’origine della fuga di aria e compare in
assenza di un trauma antecedente. Lo pneumotorace spontaneo viene ulteriormente classificato in primario e secondario. La definizione di pneumotorace spontaneo primario
denota l’assenza di segni clinici riferibili ad una malattia
polmonare sottostante preesistente. Lo pneumotorace spontaneo secondario descrive una coesistenza clinicamente
riconoscibile di anomalie strutturali o funzionali nel polmone. Tutti i casi di pneumotorace spontaneo secondario insorgono come conseguenza di alcuni processi di malattie polmonari sottostanti.
Quando entra nello spazio pleurico, l’aria separa la pleura parietale da quella viscerale e causa il collasso del polmone e l’espansione del torace. Quando il mediastino è
intatto, lo pneumotorace è unilaterale; se è distrutto, lo pneumotorace può essere bilaterale. L’aria può continuare ad
accumularsi nello spazio pleurico anche dopo che un polmone è interamente collassato, facendo sì che il volume di
aria intrappolata sia maggiore di quello dell’emitorace colpito. Il paziente può sviluppare una pressione intrapleurica
positiva all’espirazione e, occasionalmente, durante l’inspirazione. Ciò è noto come pneumotorace iperteso ed è una
situazione immediatamente pericolosa per la vita. Lo pneumotorace iperteso si sviluppa quando compare un effetto a
valvola ad una via, in cui l’aria entra nello spazio pleurico
(durante l’inspirazione) ma non ne fuoriesce.
Segni clinici
Il paziente con pneumotorace presenta segni clinici correlati a ventilazione inadeguata, riduzione del volume tidalico
e capacità funzionale residua, e conseguente ipossiemia ed
acidosi respiratoria. La tachipnea è spesso la prima risposta
respiratoria a piccoli volumi di aria pleurica libera. Inizialmente, questa ventilazione incrementata abbassa i livelli di
biossido di carbonio arterioso ed aumenta il pH ematico.
Man mano che l’apporto di aria pleurica libera aumenta, la
CLASSIFICAZIONE DELLO PNEUMOTORACE
Pneumotorace
Spontaneo
Traumatico
Primario – nessuna
patologia parenchimale
ferita penetrante
Secondario – patologia
parenchimale
Eziologia sconosciuta
Infettivo
Neoplastico
Parassitario
Pneumopatia cronica ostruttiva
Cisti polmonari congenite
Tromboembolico
188
Trauma toracico da
corpo contundente o
Iatrogeno
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
risposta progredisce verso l’iperventilazione. Ciò riduce lo
spazio morto fisiologico nel polmone e migliora l’efficienza
dello scambio gassoso. Il cane può tollerare uno pneumotorace imponente, fino a due volte e mezzo il suo volume residuo, incrementando la propria espansione toracica. Tuttavia,
man mano che lo pneumotorace progredisce, questi meccanismi compensatori vengono meno, la CO2 arteriosa aumenta e una grave acidosi può essere fatale. Il grado di squilibrio
funzionale in caso di pneumotorace dipende dal grado di
collasso e dalla funzione polmonare presente prima del collasso stesso. Negli individui normali, possono essere ben tollerati pneumotoraci con collasso del 50% del polmone, mentre nei pazienti con pneumopatia sottostante e compromissione respiratoria, un piccolo pneumotorace può evocare
alterazioni funzionali devastanti.
di sangue intero o somministrazione di emazie concentrate.
Nelle situazioni di emergenza, si può impiegare l’autotrasfusione come mezzo per ripristinare rapidamente gli eritrociti
quando il sangue intero non è immediatamente disponibile.
Quando un sanguinamento attivo continua e la terapia dello
shock diventa refrattaria può essere richiesta una toracotomia esplorativa d’emergenza utilizzando una tecnica di sternotomia mediana.
Pneumotorace spontaneo
La patogenesi dello pneumotorace spontaneo è multifattoriale; molti casi derivano dalla formazione di spazi cistici
sottopleurici associati a fibrosi interstiziale diffusa o enfisema. La condizione concomitante più comunemente riportata
nei pazienti canini è la pneumopatia ostruttiva (COPD, chronic obstructive pulmonary disease). La fuoriuscita dell’aria
intrappolata attraverso le pareti indebolite degli spazi aerei
dilatati è probabilmente aiutata dalle elevate pressioni intrabronchiali durante la tosse. Può anche contribuire un’ostruzione locale delle vie aeree causata da tappi di muco e
infiammazione. Il risultato è un’infiammazione polmonare,
un indebolimento della normale elasticità della pleura ed una
progressiva distruzione delle pareti alveolari, che porta alla
formazione di bolle. Nei cani, è anche stato riportato uno
pneumotorace spontaneo secondario come rara complicazione della polmonite batterica o virale, rotture di cisti congenite, e rottura di ascessi polmonari formati da corpi estranei
vegetali aspirati. Le eziologie parassitarie come la rottura di
cisti parassitarie da distomi o cestodi nel polmone sono state descritte come causa di pneumotorace, così come è stato
osservato un tromboembolismo polmonare arterioso secondario a filariosi cardiopolmonare. La neoplasia può distruggere il parenchima polmonare normale comportando una
cavitazione del polmone e una necrosi della pleura viscerale, con conseguente pneumotorace spontaneo.
Diagnosi di pneumotorace
I riscontri radiografici classici dello pneumotorace sono
rappresentati da 1) aumento della larghezza dello spazio
pleurico ripieno di aria, 2) collasso polmonare parziale e
retrazione dei margini polmonari dalla parete del torace e 3)
sollevamento dell’ombra cardiaca dallo sterno nelle proiezioni laterolaterali. Con un concomitante pneumotorace
traumatico sono comuni l’accumulo di liquido e le contusioni polmonari. Si può riscontrare una pneumopatia evidente
in caso di pneumotorace spontaneo secondario. La malattia
parenchimale può essere localizzata ad un lobo, come nella
neoplasia polmonare primaria o nella polmonite lobare, o si
può riscontrare diffusamente nei casi di metastasi tumorali,
malattia tromboembolica o polmonite generalizzata.
Lo pneumotorace spontaneo è spesso più difficile da diagnosticare mediante radiografia, perché può essere presente
bilateralmente senza un’evidenza radiografica di malattia
parenchimale. Nell’uomo, soltanto il 10-20% dei casi
mostrerà vescicole o bolle polmonari nelle radiografie toraciche senza mezzo di contrasto. Le lesioni cavitarie, le bolle
o le vescicole possono essere visibili, il che rende inutili gli
ulteriori accertamenti diagnostici, ma sono state descritte
nuove tecniche per aumentare l’efficacia della localizzazione radiografica della fistola broncopleurica, compreso l’impiego di mezzo di contrasto o scintigrafia.
Trattamento dello pneumotorace
L’obiettivo del trattamento dello pneumotorace è la
riespansione del polmone, per ristabilire il contatto fra la
pleura parietale e quella viscerale, con la minore morbilità
possibile. Il trattamento dello pneumotorace traumatico
dipende dal grado di collasso polmonare, dall’entità della
contusione dell’organo e dai segni clinici di pneumotorace
dimostrati dall’animale. Come regola pratica, i casi con
meno del 25% stimato di perdita della capacità vitale non
richiedono una riespansione polmonare. La maggior parte
degli episodi di pneumotorace traumatico si risolve in 3-7
giorni, senza alcun trattamento. I casi più gravi possono
richiedere una terapia con O2 e l’introduzione di sonde da
toracostomia con un’aspirazione continua o intermittente.
I cani con pneumotorace spontaneo spesso presentano una
significativa patologia polmonare sottostante. Questi pazienti vengono tipicamente presentati alla visita per una grave
dispnea o tachipnea. Radiograficamente, spesso dimostrano
pneumotorace bilaterale e un numero significativo può di
fatto presentare uno pneumotorace iperteso. Questi soggetti
richiedono un intervento immediato, aggressivo. Spesso la
toracentesi non sarà sufficiente, e si raccomanda una sonda
da toracostomia. L’accumulo di aria pleurica libera può
quindi essere così rapido che è necessaria una continua aspi-
Emotorace
La presenza di sangue libero nello spazio pleurico spesso
accompagna il trauma toracico. Un sanguinamento secondario alla distruzione dei vasi principali in genere risulta fatale, mentre un’emorragia secondaria al danno polmonare
parenchimale o una lacerazione dei vasi intercostali può di
solito essere trattata con la terapia medica. La diagnosi di
emotorace viene effettuata mediante toracentesi e confronto
dell’ematocrito del liquido con quello del sangue periferico.
Se il sanguinamento intrapleurico è terminato e l’ematocrito
resta al di sopra del 25%, di solito non è necessaria una reintegrazione di eritrociti. Nel caso di un sanguinamento intrapleurico attivo di solito esistono segni clinici addizionali di
shock ipovolemico generalizzato. I pazienti inizialmente
vengono supportati con soluzioni cristalloidi, seguite dall’impiego di soluzione ipertonica di NaCl o componenti del
plasma per mantenere un’adeguata pressione sanguigna. Se
il sanguinamento attivo continua, sono richieste trasfusioni
189
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
razione per mantenere la ventilazione. Se lo pneumotorace
persiste per più di 48 ore ed i segni clinici sono ancora evidenti, o se esistono prove radiografiche dell’origine della
perdita, è indicata una toracotomia esplorativa. In letteratura
veterinaria, l’efficacia ed il momento più opportuno per l’esecuzione dell’intervento chirurgico per il trattamento dello
pneumotorace spontaneo sono oggetto di una notevole controversia; tuttavia i cani che sono stati trattati chirurgicamente hanno una frequenza di recidiva più bassa e una
sopravvivenza a lungo termine maggiore di quelli sottoposti
alla terapia medica.
L’intervento chirurgico nei casi di pneumotorace spontaneo nel cane consiste nella toracotomia esplorativa e nella
resezione parziale o completa del tessuto polmonare colpito.
La sternotomia mediana è l’approccio preferito nella maggior parte dei casi di pneumotorace spontaneo, perché consente l’ispezione completa di entrambi gli emitoraci e permette un’eccellente esposizione degli apici del polmone,
dove le lesioni vengono identificate più frequentemente. La
lobectomia parziale è un’alternativa accettabile a quella
completa quando le lesioni sono focali, dato che consente di
preservare la massima funzionalità polmonare. I dispositivi
per la chiusura dei polmoni mediante graffatura1 (TA30,
TA55, TA90) hanno eliminato il lungo e noioso compito di
effettuare individualmente la dissezione e successiva legatura dei diversi vasi polmonari e dei bronchi. Vengono utilizzati di routine in questi casi per la rapidità e facilità di applicazione, sicurezza ed efficacia.
pedici. Le alterazioni fisiologiche associate al torace a valvola comprendono la riduzione della capacità vitale, la diminuzione della compliance, il calo della capacità funzionale
residua e l’aumento della resistenza delle vie aeree. Queste
alterazioni esitano in ipoventilazione e un maggior incremento nel lavoro di espansione durante la respirazione. Le
lesioni non ortopediche più comuni che si riscontrano nel
trauma da torace a valvola sono le contusioni polmonari.
Queste possono comportare ipoventilazione da riduzione
della compliance ed aree di danno alveolare. Si possono
anche verificare uno shunt arterovenoso ed un disaccoppiamento fra ventilazione e perfusione che esitano in un’ipossiemia di grado estremo.
La ventilazione meccanica è stata impiegata con successo
nei pazienti umani ed oggi è un trattamento standard in molti centri medici per la gestione del torace a valvola. La ventilazione a pressione teleespiratoria positiva (PEEP, positive
end-expiratory pressure) contribuisce a superare il disaccoppiamento fra ventilazione e perfusione e riduce lo shunt arterovenoso che accompagna la maggior parte dei casi di contusione polmonare. Tuttavia, questo metodo non è attuabile
per una gestione a lungo termine del torace a valvola nei cani
perché potrebbe richiedere l’immobilizzazione e la supervisione 24 ore su 24.
Trattamento
Il trattamento appropriato del torace a valvola nei piccoli
animali coinvolge la stabilizzazione della parete toracica. È
stata tentata la fissazione interna delle costole, che però, a
causa delle contusioni polmonari presenta un rischio anestetico inappropriato in molti animali d’affezione. Una valida
alternativa alla stabilizzazione chirurgica del segmento fluttuante è l’impiego di una stecca esterna a scaletta (ladder
splint). Una stecca fatta di bacchette di alluminio viene sagomata in modo da adattarsi alle aree lombare e toracica dorsale del cane. Le estremità della stecca vengono poi collegate con barre orizzontali che passano sull’area instabile della
parete toracica. Le facce craniale e caudale della stecca vengono imbottite per ridurre la probabilità di creare piaghe da
compressione. Quindi si passa un materiale da sutura in
nylon o polipropilene 0 o 1 intorno ai segmenti di costola
instabili e lo si assicura alle barre orizzontali. Per applicare
la sutura è importante utilizzare un grande ago curvo, fatto
passare il più aderente possibile all’osso per evitare di forare i polmoni. Il segmento a valvola viene poi tirato verso l’esterno ed assicurato legando le suture intorno alla barra orizzontale. Ciò consente di eliminare il movimento paradosso
della parete toracica. Il supporto a scaletta esterno di solito
viene lasciato in sede per 2-3 settimane dopo il trauma. A
questa data si è formata una stabilizzazione fibrosa dei capi
di frattura sufficiente a consentirne la rimozione senza la
ricomparsa di un movimento toracico paradosso.
Prognosi
La prognosi per la maggior parte dei casi di pneumotorace traumatico varia da buona ad eccellente. Tuttavia, data la
natura spesso generalizzata della pneumopatia nei pazienti
in cui è stato diagnosticato uno pneumotorace spontaneo, il
tasso di recidiva è elevato. Comunque, esiste un’incidenza
molto più alta di recidiva nei cani trattati in modo conservativo rispetto a quelli trattati chirurgicamente. Nei casi di granulomi parassitari, neoplasie, infarti tromboembolici, polmoniti o cisti polmonari ci può essere soltanto un coinvolgimento focale e la resezione può essere risolutiva. Nei casi
con sottostante enfisema bolloso, tuttavia, la prognosi è
generalmente più riservata, per la natura ricorrente delle
malattie di base, e i proprietari di questi pazienti devono
essere avvertiti preventivamente dell’eventualità di una recidiva. Tuttavia, a lungo termine i risultati clinici più incoraggianti nel trattamento dello pneumotorace spontaneo sono
stati ottenuti ricorrendo alla terapia medica aggressiva ed
all’intervento chirurgico precoce.
Trattamento del torace a valvola
Il torace a valvola si può riscontrare quando due o più
costole adiacenti sono fratturate o dislocate sia prossimalmente che distalmente, creando una sezione segmentale di
parete toracica con movimenti paradossi verso l’interno
durante l’inspirazione e verso l’esterno durante l’espirazione. La causa più comune di torace a valvola è un trauma da
corpo contundente al torace, di solito secondario ad un incidente automobilistico o una ferita toracica da morso. Gli animali con danni da torace a valvola spesso arrivano in una
grave condizione di dispnea e possono avere altri danni orto-
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Pneumothorax - When the surgery is indicated
Gary W. Ellison
DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA
in the pleural space even after one lung has completely collapsed, resulting in a volume of trapped air which is greater
than the volume of affected hemithorax. The patient may
develop a positive intrapleural pressure during expiration
and occasionally during inspiration. This is known as a tension pneumothorax and is an immediately life-threatening
situation. A tension pneumothorax develops when a one-way
valve effect occurs in which air enters the pleural space (during inspiration) but cannot escape.
Pneumothorax
Pneumothorax by definition is the accumulation of free
air or gas in the pleural space. Air may enter the pleural
space from any of three sources: the lung itself via a pleuropulmonary leak; the atmosphere via a pleurocutaneous,
pleuroesophageal or pleurobronchial communication; or due
to the presence of gas-forming organisms in the pleural
space. Pneumothorax is classified according to its etiology,
pathophysiology, or the magnitude of lung collapse.
Pneumothorax may be of traumatic or spontaneous origin.
Traumatic pneumothorax has been reported in 47% of all
cases of chest trauma in small animals and most often is the
result of automobile accidents. Spontaneous pneumothorax
is defined as a closed pneumothorax in which the lung
parenchyma is the source of air leakage and occurs in the
absence of antecedent trauma. Spontaneous pneumothorax
is further classified as primary or secondary. The term primary spontaneous pneumothorax denotes the absence of
clinical evidence of pre-existing underlying pulmonary disease. Secondary spontaneous pneumothorax describes a
clinically recognizable coexisting structural or functional
abnormality in the lung. All cases of secondary spontaneous
pneumothorax occur as the result of some underlying pulmonary disease process.
Clinical Signs
The patient with pneumothorax has clinical signs related
to inadequate ventilation, reduction of tidal volume and
functional residual capacity, and resultant hypoxemia and
respiratory acidosis. Tachypnea is often the first respiratory
response to small volumes of free pleural air. Initially, this
increased ventilation lowers the arterial carbon dioxide and
raises the pH of blood. As the amount of free pleural air
increases, the response progresses to hyperventilation. This
reduces the physiological dead space in the lung and
improves the efficiency of gas exchange. The dog can tolerate massive pneumothorax of up to two and one-half times
its residual volume by increasing its chest expansion. However, as the pneumothorax progresses these compensatory
mechanisms fail, arterial CO2 rises, and severe acidosis may
be fatal. The degree of functional derangement with pneumothorax depends on the degree of collapse and the lung
function present before collapse. In normal individuals,
pneumothoraxes of 50% lung collapse may be well-tolerated, while in patients with underlying lung disease and ventilatory compromise, a small pneumothorax may evoke devastating changes in function.
Diagnosis of Pneumothorax
Classic radiographic findings of pneumothorax include:
1) increased width of an air-filled pleural space, 2) partial
pulmonary collapse and retraction of lung margins from the
chest wall, and 3) the heart shadow elevated off the sternum
in the lateral view. With traumatic pneumothorax concurrent
fluid accumulation and lung contusions are common. There
may be obvious pulmonary disease in cases of secondary
spontaneous pneumothorax. Parenchymal disease may be
localized to one lobe as in primary lung cancer or lobar
pneumonia, or it may be seen diffusely in cases of metastatic cancer, thromboembolic disease, or generalized pneumonia. Spontaneous pneumothorax is often a more difficult
diagnosis to make radiographically, as it may be present
bilaterally without radiographic evidence of parenchymal
disease. In humans, only 10-20% of cases will show evi-
Pathophysiology
When air enters the pleural space, it separates the visceral and parietal pleura and results in both collapse of the lung
and expansion of the thorax. When the mediastinum is intact
the pneumothorax is unilateral, if it is disrupted the pneumothorax may be bilateral. Air may continue to accumulate
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dence of pulmonary blebs or bullae on plain thoracic radiographs. Cavitating lesions, bullae or blebs may be visible
which make further diagnostics unnecessary, but newer techniques have been described to increase the efficacy of radiographic localization of bronchopleural fistula, including the
use of contrast material and scintigraphy.
collapse, the amount of lung contusion and the clinical
signs demonstrated by the animal. As a rule of thumb those
cases with less than 25% estimated loss of vital capacity
will not require lung re-expansion. Most cases of traumatic pneumothorax will resolve in 3-7 days without treatment. More severe cases may require O2 therapy and placement of thoracostomy tubes with either intermittent or continuous suction.
Dogs with spontaneous pneumothorax often have significant underlying pulmonary pathology. These patients typically are presented for severe dyspnea or tachypnea. Radiographically they often demonstrate bilateral pneumothorax,
and a significant number may actually have a tension pneumothorax.
These patients require immediate, aggressive intervention. Often intermittent thoracocentesis will not suffice, and
tube thoracostomy is recommended. Accumulation of free
pleural air may be so rapid that continuous underwater suction is required to maintain ventilation. If the pneumothorax
persists for more than 48 hours and clinical signs are still
apparent, or if there is radiographic evidence of a source of
leakage, exploratory thoracotomy is indicated. Considerable
controversy exists in the veterinary literature regarding the
efficacy and timing of operative intervention for spontaneous pneumothorax, however dogs that are treated surgically have lower recurrence rate and better long-term survival than those treated medically.
Surgical intervention in cases of spontaneous pneumothorax in dogs consists of exploratory thoracotomy and partial
or complete resection of diseased lung tissue. Median sternotomy is the preferred approach in most cases of spontaneous pneumothorax as it allows complete inspection of
both hemithoraces and gives excellent exposure to the lung
apices, where the lesions are most often identified. Partial
lobectomy is an acceptable alternative to complete lobectomy when the lesions are focal, as it allows preservation of
maximal functional lung.
Lung stapling devices1 (TA30, TA55, TA90) have eliminated the tedious and time-consuming task of individual dissection and ligation of pulmonary vessels and bronchi. They
are routinely used in these cases due to the speed and ease of
application, safety and efficacy.
Hemothorax
Free blood in the pleural space often accompanies thoracic trauma. Bleeding secondary to disruption of major vessels is usually fatal whereas hemorrhage secondary to
parenchymal lung damage or tears of the intercostal vessels
can usually be managed medically.
Diagnosis of hemothorax is made via thoracocentesis and
comparison of packed cell volume of the fluid with peripheral blood. If intrapleural bleeding has ceased and peripheral
packed cell volume remains above 25% red cell replacement
is usually unnecessary. With active intrapleural bleeding
there are usually accompanying signs of generalized hypovolemic shock. Patients are initially supported with crystalloid
solutions followed by the use of hypertonic saline or plasma
compounds to maintain adequate blood pressure. If active
bleeding continues whole blood transfusions or administration of packed red cells is warranted. In emergency situations
autotransfusion may be used as a means of rapidly restoring
red cells when whole blood is not immediately available.
When active bleeding continues and shock therapy becomes
refractory emergency exploratory thoracotomy using a median sternotomy technique may be warranted.
Spontaneous Pneumothorax
The pathogenesis of spontaneous pneumothorax is multifactorial; many cases result from the formation of subpleural cystic spaces associated with diffuse interstitial fibrosis or
emphysema. The most commonly reported concurrent condition in canine patients is chronic obstructive pulmonary
disease (COPD). The leakage of trapped air through the
weakened walls of dilated air spaces is probably assisted by
high intrabronchial pressures during coughing. Local airway
obstruction caused by mucus plugs and inflammation may
also contribute. The result is pulmonary inflammation,
weakening of the normal elasticity of the pleura and progressive destruction of alveolar walls leading to bullae formation. In dogs, secondary spontaneous pneumothorax has
also been reported as a rare complication of bacterial or viral
pneumonia, ruptured congenital cysts, and rupture of pulmonary abscesses formed from aspirated plant foreign bodies. Parasitic etiologies such as rupture of lung fluke or tapeworm cysts in the lungs have been described causing pneumothorax, as has pulmonary arterial thromboembolism secondary to heartworm disease. Neoplastic disease may
destroy normal pulmonary parenchyma resulting in pulmonary cavitation and necrosis of visceral pleura resulting
in spontaneous pneumothorax.
Prognosis
The prognosis for most cases of traumatic pneumothorax
is good to excellent. However, due to the often generalized
nature of pulmonary disease in patients diagnosed with
spontaneous pneumothorax, the recurrence rate is high.
However, there is a much higher incidence of recurrence in
dogs treated conservatively than those treated surgically. In
cases of parasitic granulomas, neoplasia, thromboembolic
infarcts, pneumonia or pulmonary cysts there may only be
focal involvement and resection may be curative. In cases
with underlying bullous emphysema however, the prognosis
is generally more guarded due to the recurrent nature of their
underlying disease, and the owners of these patients should
be warned early of the potential for recurrence. Yet, aggressive medical management and early surgical intervention has
demonstrated the most encouraging long-term clinical
results in spontaneous pneumothorax.
Treatment of Pneumothorax
The objective in treating pneumothorax is reexpansion
of the lung to reestablish contact between the visceral and
parietal pleura with the least possible morbidity. Treatment
of traumatic pneumothorax depends on the degree of lung
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Management of Flail Chest
Treatment
Flail chest can occur when two or more adjacent ribs are
fractured or dislocated both proximally and distally creating a segmental section of thoracic wall which paradoxically moves inward during inspiration and outward during
expiration. The most common cause of flail chest is blunt
trauma to the thorax usually secondary to an automobile
accident or thoracic bite wound. Animals with flail chest
injuries often arrive in a severely dyspneic state and may
have other orthopedic injuries. Physiologic changes associated with flail chest include decreased vital capacity,
decreased compliance, reduced functional residual capacity and increased airway resistance. These changes result in
hypoventilation and a greater increase in the work expanded during breathing. Pulmonary contusions are the most
common nonorthopedic lesion found in flail chest injury.
Pulmonary contusions may result in hypoventilation by
lowering compliance and damaged alveolar areas. Arteriovenous shunting and ventilation profusion mismatch may
occur resulting in ultimate hypoxemia.
Mechanical ventilation has been used successfully in
human patient and is now a standard treatment in many medical centers for the management of flail chest. Positive end
expiratory pressure ventilation (PEEP) will help overcome
ventilation profusion, mismatches, and reduce AV shunts
which accompany most cases of pulmonary contusions. However, this method is impractical for longterm management of
flail chest in dogs because of the immobilization and 24 hour
supervision that it would require.
Appropriate treatment of flail chest in small animal
involves the stabilization of the chest wall. Internal fixation
of the ribs has been attempted but because of pulmonary
contusions presents an inappropriate anesthetic risk to many
small animal patients. A viable alternative to surgical stabilization of the flail segment is the use of an external ladder
splint. A splint made of aluminum rod is contoured over the
dog’s dorsal thoracic and lumbar areas. The ends of the
splint are then connected with horizontal bars which pass
over the unstable area of the thoracic wall. The cranial and
caudal aspects of the splint are padded to reduce the chance
of creating pressure sores. Zero or #1 nylon or polypylene
suture material is then passed around the unstable rib segments and is secured to the horizontal bars. While passing
the suture it is important to use a large curved needle and
pass as close to the bone as possible to avoid puncturing of
the lungs. The flail segment is then drawn outward and
secured by tying the sutures around the horizontal bar. This
will eliminate paradoxical movement of the chest wall. The
external ladder support is usually left in place for 23 weeks
after injury. At this time there is enough fibrous stabilization
of the fracture ends to allow its removal without the reoccurrence of paradoxical thoracic movement.
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Tamponamento cardiaco:
quattro chiacchiere sul tema
Gary W. Ellison
DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA
Herbert Maisenbacher, VMD, Dipl ACVIM (Cardiology), Folrida, USA
FISIOPATOLOGIA DEL TAMPONAMENTO
CARDIACO
Tumori della base del cuore. La maggior parte dei
tumori della base del cuore sono chemodectomi derivanti
dai corpi aortici, sebbene in questa sede possano anche
insorgere dei carcinomi tiroidei ectopici o altri tumori.
Tipicamente, le metastasi compaiono tardi o non compaiono affatto. I tumori sono a lento accrescimento e possono anche costituire dei riscontri incidentali. Nella maggior parte dei casi causano segni clinici producendo un
versamento pericardico, ma è possibile un’invasione dei
tessuti adiacenti o la compressione delle strutture cardiovascolari. Le razze brachicefale sono predisposte ed i
maschi sono colpiti più frequentemente. I segni clinici del
tamponamento cardiaco possono essere risolti mediante
pericardectomia. Può essere possibile un’escissione della
massa, con un alto rischio di emorragia e danneggiamento
delle strutture cardiovascolari. L’escissione completa è
rara e ci si attende una recidiva locale.
Mesotelioma. I mesoteliomi possono colpire il pericardio
e/o la pleura. Si tratta generalmente di una neoplasia diffusa,
senza alcuna massa isolata, per cui la diagnosi è problematica. La differenziazione delle cellule neoplastiche da quelle
mesoteliali reattive all’esame citologico non è possibile. La
diagnosi definitiva richiede l’esame istopatologico di biopsie
pericardiche o pleuriche. In generale, produce versamento
pericardico e/o pleurico con segni clinici associati. La prognosi è estremamente sfavorevole, dato che non è possibile
l’escissione chirurgica, anche se, per aumentare la sopravvivenza è stato ipotizzato l’impiego del cisplatino per via
intracavitaria.
Altri. Altri tumori cardiaci primari o metastatici di quasi
qualsiasi tipo possono causare il tamponamento del cuore.
Il linfosarcoma può comparire sia nel cane che nel gatto, ma in quest’ultimo costituisce la più comune causa
neoplastica di versamento pericardico. Sono possibili sia
linfosarcomi miocardici che pericardici. La diagnosi probabilmente si basa sugli esami citologici e la chemioterapia offre una sopravvivenza simile ad altre forme di linfosarcoma.
Versamenti pericardici idiopatici. Nel cane, versamento di tipo idiopatico è la seconda causa più comune
di versamento pericardico dopo la neoplasia. Non è stato
riscontrato nel gatto. La condizione è anche chiamata
versamento pericardico emorragico idiopatico, versamento pericardico benigno ed emorragia pericardica
idiopatica. La causa non è ben compresa, ma si sospetta
che sia infiammatoria, secondaria a cause virali o immunomediate. L’analisi dei liquidi evidenzia un quadro
Si definisce come tamponamento cardiaco la compressione
del cuore dovuta a versamento pericardico che riduce lo riempimento ventricolare e quindi la gittata cardiaca. Accumulandosi rapidamente, il versamento acuto produce un elevato
aumento nella pressione intrapericardica a volumi relativamente bassi, perché il pericardio non ha tempo per distendersi. Il
tamponamento cardiaco cronico tende a produrre segni clinici
di bassa gittata cardiaca come segni di insufficienza cardiaca
congestizia destra (ascite e/o versamento pleurico). L’insufficienza cardiaca destra si verifica perché, anche se le pressioni
capillari sistemiche e polmonari aumentano in ugual misura, i
capillari sistemici lasciano fuoriuscire i fluidi a pressioni inferiori rispetto ai capillari polmonari. Il tamponamento cardiaco
acuto causa profonde diminuzioni della gittata cardiaca e shock
cardiogeno senza segni congestizi sistemici. In risposta alla
riduzione della gittata, il tono simpatico va incontro ad un
aumento acuto per incrementare la frequenza cardiaca e la contrattilità e mantenere la gittata. Tuttavia, per preservare la pressione sanguigna aumenta anche la resistenza vascolare sistemica, che aumenta il postcarico e riduce la gittata cardiaca. Cronicamente, viene anche attivato il sistema renina-angiotensinaaldosterone che causa un’ulteriore vasocostrizione, mantiene
elevato il tono simpatico e causa ritenzione di sodio ed acqua.
EZIOLOGIA
Nel cane, la neoplasia è la causa più comune di versamento pericardico. È meno frequente nel gatto.
Emangiosarcoma. La maggior parte dei tumori che origina dall’atrio o dall’orecchietta di destra è costituita da
emangiosarcomi.
Il versamento pericardico viene prodotto da rottura ed
emorragia proveniente dal tumore. Un lento sanguinamento
causa tamponamento cardiaco cronico, ma un sanguinamento acuto può causare un tamponamento acuto e collasso circolatorio. Sono predisposti Golden retriever e Pastore tedesco. Trattamento e prognosi per l’emangiosarcoma cardiaco
sono simili a quelli dell’emangiosarcoma splenico, che ha
un esito sfavorevole. Compaiono precocemente delle micrometastasi dato che si tratta di tumori ad elevata malignità. La
resezione chirurgica da sola (auriculectomia) non prolunga
la sopravvivenza, ma l’aggiunta di una chemioterapia all’intervento consente di protrarla per mesi.
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Analisi del liquido. La pericardiocentesi può essere
effettuata a scopo diagnostico o anche terapeutico. La
maggior parte dei versamenti pericardici è emorragica con
un ematocrito molto inferiore a quello del sangue periferico, ma si possono riscontrare anche casi di emorragia con
un ematocrito uguale a quello del sangue. I versamenti
non coagulano neppure quando sono causati da un’emorragia, a meno che questa non risulti molto acuta. Occasionalmente, il versamento è trasudativo, settico o chiloso. La
citologia è importante per identificare le cause dovute a
processi infettivi o ad alcune neoplasie (linfosarcoma).
Tuttavia, nella maggior parte delle eziologie neoplastiche
non è possibile effettuare la differenziazione citologica,
perché l’emangiosarcoma ed i tumori della base del cuore
non esfoliano e si riscontrano comunemente cellule mesoteliali reattive.
Se si sospettano cause infettive, occorre effettuare delle
colture batteriche o micotiche. L’uso del pH del versamento per differenziare i versamenti pericardici idiopatici/infiammatori da quelli neoplastici è oggetto di discussione. I versamenti idiopatici/infiammatori tendono ad
avere un pH più basso (6,5-7,0), mentre quelli neoplastici
pH più elevati (7,0-7,5).
Trattamento e prognosi. Quando si sospetta un tamponamento cardiaco è indicata la pericardiocentesi. Il tamponamento viene alleviato riducendo la pressione intrapericardica, migliorando lo riempimento ventricolare ed aumentando la gittata cardiaca. Si verifica immediatamente un miglioramento nella condizione clinica del paziente normalizzando
la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa sistemica. Tecnica: L’animale viene collocato in decubito laterale sinistro
e si opera a livello della regione precordiale destra per ridurre la probabilità di lacerazione dell’arteria coronaria. L’ECG
deve essere monitorato per le aritmie e si deve inserire un
catetere IV per il trattamento di emergenza. L’area del 4-6°
spazio intercostale vicino alla giunzione costocondrale viene tosata e preparata chirurgicamente. Si può utilizzare l’ecografia per determinare la sede migliore. Può essere somministrata un’anestesia locale con lidocaina. Si collega un
catetere ad ago interno da 2-5,5” e 14-18 G al tubo di un
deflussore, una valvola a 3 vie ed una siringa. Il catetere viene fatto avanzare attraverso la parete toracica fino all’interno del pericardio. Una volta ottenuto il versamento pericardico, il catetere viene fatto scorrere sull’ago, che viene
rimosso. Si connette direttamente il tubo del deflussore al
catetere e si rimuove il versamento pericardico. A meno che
non coaguli, se ne deve rimuovere la maggior quantità possibile. Bisogna conservare un campione del versamento per
l’analisi e la coltura del fluido. Le complicazioni comprendono puntura o lacerazione cardiaca, emorragia, aritmie e
disseminazione della neoplasia o infezione; tuttavia, quelle
gravi sono rare.
Opzioni chirurgiche. La pericardectomia, sia a finestra
che subtotale, può essere eseguita attraverso il 5° spazio
intercostale destro, mediante una sternotomia mediana, per
via transdiaframmatica o mediante toracoscopia. In ogni
caso deve essere preservato il nervo frenico. Come alternativa alla chirurgia, è stata descritta una dilatazione mediante
palloncino pericardico percutaneo per produrre un difetto
pericardico.
emorragico senza aumento delle cellule infiammatorie.
Quella di versamento pericardico idiopatico è una diagnosi per esclusione. Inizialmente, si raccomanda un
trattamento conservativo mediante pericardiocentesi e, in
circa metà dei casi, il versamento è autolimitante. Nell’altra metà si verificano delle recidive e sono indicate
delle pericardiocentesi ripetute. L’infiammazione pericardica cronica può portare a pericardite costrittiva.
Infezioni. Il versamento pericardico infettivo è raro, ma
può essere associato ad infezioni batteriche e micotiche. Le
prime possono essere secondarie a corpi estranei, ferite da
morso, perforazione esofagea o estensione di un’infezione
polmonare. Gli agenti eziologici comprendono Mycobacterium, Actinomyces, Nocardia ed altri batteri. Coccidioides
immitis è un micete che causa pericardite riscontrato più frequentemente nel sudovest degli Stati Uniti. Il versamento è
essudativo e spesso gli agenti eziologici possono essere
identificati mediante citologia. È indicata una coltura batterica o micotica. Il trattamento consiste nella somministrazione a lungo termine di agenti antimicrobici appropriati e
nel drenaggio o lavaggio pericardico. Possono essere indicate l’esplorazione chirurgica o la pericardectomia, in particolare se si sospetta la presenza di un corpo estraneo. La FIP
può produrre un versamento piogranulomatoso sterile ed è
una delle cause più comuni di versamento pericardico nel
gatto. La pericardite costrittiva può essere una sequela dell’infezione pericardica.
DIAGNOSI
Anamnesi ed esame clinico. I riscontri all’esame clinico
sono rappresentati da attenuazione dei toni cardiaci, polso
debole, distensione o pulsazione delle vene giugulari (insieme, questi primi tre segni costituiscono la triade di Beck),
tachicardia, polso paradosso, reflusso epatogiugulare positivo, epatomegalia, ascite, suoni polmonari ottusi con versamento pleurico, tachipnea, dispnea e cachessia.
ECG. Tipicamente, compare una tachicardia sinusale con
complessi QRS a basso voltaggio, che però non è sensibile o
specifica per il versamento pleurico. L’alternanza elettrica è
una variazione da battito a battito dell’ampiezza dei complessi QRS e/o delle onde T. Ciò è dovuto all’oscillazione
del cuore all’interno del versamento pericardico. È abbastanza specifica di versamento pericardico.
Radiografie. La silhouette cardiaca assume una forma
globoide senza una struttura definita. La vena cava caudale
spesso è distesa e si osservano epatomegalia ed ascite con
insufficienza cardiaca congestizia destra. Può anche essere
presente un versamento pleurico.
Ecocardiografia. È il modo più semplice ed efficace per
diagnosticare un versamento pericardico. Si possono osservare anche versamenti di volumi molto piccoli. L’eziologia
della condizione può venire determinata se si rileva una massa cardiaca e le tipiche caratteristiche di localizzazione ed
aspetto possono permettere una diagnosi preliminare del tipo
di tumore. Se l’animale è stabile, l’ecocardiografia prima
della pericardiocentesi consente una visualizzazione ottimale di tutta la struttura cardiaca e migliora la diagnosi delle
masse patologiche.
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sa (idiopatica, infettiva o neoplastica). Il rilassamento ventricolare e lo riempimento ventricolare iniziali sono normali. Tuttavia, quando i ventricoli raggiungono il limite di
estensibilità pericardica, ogni ulteriore riempimento ventricolare cessa bruscamente. La riduzione nello riempimento
ventricolare porta a diminuire la gittata cardiaca e l’aumento delle pressioni di riempimento causa una congestione
venosa. Si sviluppa un’insufficienza cardiaca congestizia
destra dovuta all’aumento delle pressioni venose sistemiche.
Quando si verifica un versamento pericardico con costrizione pericardica compare una pericardite costrittiva effusiva.
Radiografia. Il profilo cardiaco può essere normale o lievemente ingrossato e globoide. Di solito, la vena cava caudale risulta dilatata e possono essere presenti ascite o versamento pleurico.
Trattamento e Prognosi. Il trattamento della pericardite
costrittiva è chirurgico, perché la terapia medica con diuretici potrà soltanto peggiorare lo riempimento ventricolare e la
gittata cardiaca. Se la fibrosi è limitata al pericardio parietale, può essere risolutiva la pericardectomia subtotale. Tuttavia, se è coinvolto il pericardio viscerale, la chirurgia deve
comprendere lo stripping epicardico, che è difficile, può portare a danno miocardico o delle arterie coronarie e produrre
dei risultati meno favorevoli.
ALTRE DIAGNOSI DIFFERENZIALI
PER IL TAMPONAMENTO CARDIACO
Cisti pericardiche. Le cisti pericardiche sono anomalie
molto rare nel cane e non sono state descritte nel gatto.
Nel cane, sembrano essere degli ematomi cistici e si ritiene che siano conseguenti ad un’incarceramento dell’omento
o del legamento falciforme. Compaiono nei cani giovani e
possono portare a versamento pericardico e segni clinici di
tamponamento. Le cisti pericardiche vengono identificate
mediante ecocardiografia. La pericardiocentesi è indicata
per il tamponamento cardiaco. Il trattamento definitivo prevede la rimozione della cisti e la pericardectomia mediante
toracotomia.
Ernia diaframmatica peritoneopericardica (PPDH,
peritoneopericardial diaphragmatic hernia). La PPDH si
verifica quando il setto trasverso o le pliche pleruroperitoneali laterali non si fondono nello sviluppo fetale. Ciò consente la persistenza di una comunicazione delle cavità pericardiche e peritoneali attraverso un difetto del diaframma
tramite il quale gli organi addominali possono erniare nel
pericardio. Può essere associato ad ernie ombelicali, difetti
sternali ed altre anomalie cardiache congenite. Non è necessario alcun trattamento se la PPDH è un riscontro incidentale e non vi è alcun segno clinico. La riduzione chirurgica
dell’ernia e la riparazione del difetto diaframmatico sono
indicate quando compaiono segni clinici, ostruzione
gastrointestinale e compromissione vascolare degli organi
erniati. La prognosi postoperatoria è buona.
Pericardite costrittiva. La pericardite costrittiva si può
verificare a causa di una pericardite cronica da qualsiasi cau-
Bibliografia
1.
2.
196
P. Fox, D. Sisson, and N. S. Möise, Textbook of Canine and Feline
Cardiology: Principles and Clinical Practice. Philadelphia: W. B.
Saunders Co., 1999.
Bussadori C, GrassoA, Santilli RA. Percutaneous pericardiectomy
with bollon catheter in ther treatment of malignamt pericardial effusion in dogs.
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Cardiac tamponade patho-physiology
and therapeutic options
Gary W. Ellison
DVM, MS, Dipl ACVS, Florida, USA
Herbert Maisenbacher, VMD, Dipl ACVIM (Cardiology), Folrida, USA
PATHO-PHYSIOLOGY OF CARDIAC
TAMPONADE
location. Typically, metastasis occurs late, if at all. The
tumors are slow growing and may even be incidental findings. Most commonly the tumor causes clinical signs by
producing pericardial effusion, but invasion into adjacent
tissues or compression of cardiovascular structures is possible. Brachycephalic breeds are predisposed and males are
affected more frequently. Signs of cardiac tamponade may
be resolved by pericardiectomy. Mass excision may be possible, with high risk of hemorrhage and damage to cardiovascular structures. Complete excision is rare and local
recurrence is expected.
Mesothelioma Mesothelioma may affect the pericardium
and/or pleura. It is generally a diffuse neoplasm with no discrete masses, so diagnosis is problematic. Differentiation of
neoplastic from reactive mesothelial cells on cytology is not
possible. Definitive diagnosis requires histopathology from
pericardial or pleural biopsies. It generally produces pericardial and/or pleural effusion with associated clinical signs.
Prognosis is extremely poor as surgical excision is not possible, although intracavitary cisplatin has been advocated to
extend survival.
Others Other primary or metastatic cardiac tumors of
almost any type may cause cardiac tamponade. Lymphosarcoma may occur in dogs and cats, but is the most common
neoplastic cause of pericardial effusion in cats. Both myocardial and pericardial lymphosarcoma are possible. Diagnosis is
likely on cytology and chemotherapy offers survival similar to
other forms of lymphosarcoma.
Idiopathic pericardial effusion Idiopathic is the second most common cause of pericardial effusion in dogs
behind neoplasia. It is not recognized to occur in cats. Other terms include idiopathic hemorrhagic pericardial effusion, benign pericardial effusion, and idiopathic pericardial hemorrhage. The cause is not well understood, but is
suspected to be inflammatory secondary to viral or
immune-mediated causes. Fluid analysis is hemorrhagic
without increased inflammatory cells. Idiopathic pericardial effusion is a diagnosis of exclusion. Initially, conservative treatment by pericardiocentesis is recommended
and in about half the cases, the effusion is self-limited. In
the other half, the effusion recurs and repeat pericardiocentesis is indicated. Chronic pericardial inflammation
may lead to constrictive pericarditis.
Infectious Infectious pericardial effusion is uncommon,
but may be associated with either bacterial or fungal infections. Bacterial infections may be secondary to foreign
bodies, bite wounds, esophageal perforation, or extension
Cardiac tamponade is defined as compression of the
heart by pericardial effusion which decreases ventricular
filling and thus cardiac output. Rapidly accumulating,
acute effusion produces large increases in intrapericardial
pressure at relatively low volumes since the pericardium
does not have time to stretch. Chronic cardiac tamponade
tends to produce signs of low cardiac output as well as
signs of right-sided congestive heart failure (ascites and/or
pleural effusion). Right-sided heart failure occurs because
although systemic and pulmonary capillary pressures are
equally increased, systemic capillaries leak at lower pressures than pulmonary capillaries. Acute cardiac tamponade
causes profound reductions in cardiac output and cardiogenic shock without systemic congestive signs. In response
to the reduction in cardiac output, sympathetic tone is
increased acutely to increase heart rate and contractility
and maintain cardiac output. However, it also increases
systemic vascular resistance to maintain blood pressure
which increases afterload and reduces cardiac output.
Chronically, the renin-angiotensin-aldosterone system is
also activated which causes further vasoconstriction, maintains the increased sympathetic tone, and causes sodium
and water retention.
ETIOLOGY
Neoplasia is the most common cause of pericardial effusion in dogs. It is less common in cats.
Hemangiosarcoma Most tumors originating from the
right atrium or auricle are hemangiosarcomas.
Pericardial effusion is produced by rupture and hemorrhage from the tumor. Slow bleeding causes chronic cardiac tamponade, but acute bleeding may cause acute tamponade and circulatory collapse. Golden retrievers and
German shepherds are predisposed. Treatment and prognosis for cardiac hemangiosarcoma is similar to splenic
hemangiosarcoma which is poor. Micrometastasis occurs
early as they are highly malignant tumors. Surgical resection alone (auriculectomy) does not prolong survival, but
chemotherapy in addition to surgery does by months.
Heart base tumors Most heart base tumors are chemodectomas arising from the aortic bodies, although ectopic
thyroid carcinomas or other tumors may also arise at this
197
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Treatment and Prognosis Pericardiocentesis is indicated whenever cardiac tamponade is suspected. It relieves
tamponade by reducing intrapericardial pressure, improving ventricular filling, and increasing cardiac output. There
is immediate improvement in the patient’s clinical status
with normalization of the heart rate and systemic arterial
pressure. Technique: The animal is placed in left lateral
recumbency and the right precordium is used to reduce the
chance of coronary artery laceration. An ECG must be
monitored for arrhythmias and an IV catheter should be in
place for emergency treatment. The area of the 4-6th intercostal space near the costochondral junction is clipped and
surgically prepared. Ultrasound may be used determine the
best site. Local anesthesia with lidocaine may be administered. A 2-5.5 inch 14-18 gauge over-the-needle catheter is
connected to extension tubing, a 3-way stopcock, and a
syringe. The catheter is advanced through the thoracic wall
and into the pericardium. Once pericardial effusion is
obtained, the catheter is advanced over the needle and the
needle is removed. The extension tubing is connected
directly to the catheter and the pericardial effusion is
removed. As much as possible should be removed unless it
is clotting. A sample of the effusion should be reserved for
fluid analysis and culture. Complications include cardiac
puncture or laceration, hemorrhage, arrhythmias, and dissemination of neoplasia or infection; however, serious
complications are rare.
Surgical Options Pericardiectomy whether it be pericardial window or subtotal can be performed thru a right 5th
intercostal, via a median sternotomy, transdiaphragmatically or thoracscopically. The phrenic nerve must be preserved in all cases. Percutaneous pericardial balloon dilation to produce a pericardial defect has been described as
an alternative to surgery.
of pulmonary infection. Causative organisms include
Mycobacterium, Actinomyces, Nocardia, or other bacteria.
Coccidioides immitis is a fungal cause of pericarditis more
frequently seen in the southwest US. The effusion is exudative and often causative organisms may be identified on
cytology. Bacterial or fungal culture is indicated. Treatment involves appropriate antimicrobials long-term and
pericardial drainage or lavage. Surgical exploration and
pericardectomy may be indicated, particularly if a foreign
body is suspected. FIP may produce a sterile pyogranulomatous effusion and is one of the most common causes of
pericardial effusion in cats. Constrictive pericarditis may
be a sequela to pericardial infection.
DIAGNOSIS
History and physical exam Physical exam findings
include muffled heart sounds, weak pulses, jugular venous
distension or pulsation (these 1st three comprise Beck’s triad), tachycardia, pulsus paradoxis, positive hepatojugular
reflux, hepatomegaly, ascites, dull lung sounds with pleural effusion, tachypnea, dyspnea, and cachexia.
ECG Sinus tachycardia with low voltage QRS complexes typically occurs, but is not sensitive or specific for pericardial effusion. Electrical alternans is a beat-to-beat variation in the amplitude of the QRS complexes and/or T
waves. This is due to swinging of the heart within the pericardial effusion. It is fairly specific for pericardial effusion.
Radiography The cardiac silhouette becomes globoid in
shape without defined structure. The caudal vena cava is
often distended and there is hepatomegaly and ascites with
right-sided congestive heart failure. Pleural effusion may
also be present.
Echocardiography This is the simplest and most effective way to diagnose pericardial effusion. Even very small
volume effusions may be observed. Etiology of the effusion may be determined if a cardiac mass is observed and
typical location and appearance may allow preliminary
diagnosis of the tumor type. If the animal is stable,
echocardiography before pericardiocentesis allows optimal
visualization of all cardiac structure and improved diagnosis of mass lesions.
Fluid analysis Pericardiocentesis may be diagnostic as
well as therapeutic. Most pericardial effusions are hemorrhagic with a PCV much lower than the peripheral blood,
but hemorrhage is possible with a PCV equal to that of
blood. Even effusions caused by hemorrhage do not clot
unless the hemorrhage is very acute. Occasionally the effusion is transudative, septic, or chylous. Cytology is important to identify infectious or some neoplastic causes (lymphosarcoma). However, most neoplastic causes cannot be
differentiated on cytology as hemangiosarcoma and heart
base tumors do not exfoliate and reactive mesothelial cells
are commonly seen. If infectious causes are suspected bacterial or fungal cultures should be performed. There is
some debate as to whether pH of the effusion may be used
to differentiate idiopathic/inflammatory from neoplastic
pericardial effusions. Idiopathic/inflammatory effusions
tend to be lower pH (6.5-7.0), whereas neoplastic effusions
tend to have a high pH (7.0-7.5).
OTHER DIFFERENTIALS
FOR CARDIAC TAMPANODE
Pericardial Cysts Pericardial cysts are very rare anomalies in dogs and have not been described in cats.
In dogs, they appear to be cystic hematomas and are
thought to result from incarcerated omentum or falciform
ligament. They occur in young dogs and may lead to pericardial effusion and signs of cardiac tamponade. Pericardial cysts are identified by echocardiography. Pericardiocentesis is indicated for cardiac tamponade. Definitive
treatment involves cyst removal and pericardectomy via
thoracotomy.
Peritoneopericardial Diaphragmatic Hernia (PPDH)
PPDH results when the septum transversum or lateral pleuroperitoneal folds fail to fuse in fetal development. This
allows persistent communication of the pericardial and
peritoneal cavities via a defect in the diaphragm and
abdominal organs may herniate into the pericardium. It
may be associated with umbilical hernias, sternal defects,
and other congenital heart defects No treatment is necessary if the PPDH is an incidental finding and there are no
clinical signs. Surgical reduction of the hernia and repair of
the diaphragmatic defect is indicated when clinical signs,
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
gastrointestinal obstruction, or vascular compromise of
herniated organs occur. Prognosis post-operatively is good.
Constrictive Pericarditis Constrictive pericarditis may
occur due to chronic pericarditis of any cause (idiopathic,
infectious, or neoplastic). Ventricular relaxation is normal
and early ventricular filling is normal. However, once the
ventricles reach the limit of pericardial distensibility, further ventricular filling abruptly ceases. The reduction in
ventricular filling leads to decreased cardiac output and
increased filling pressures leads to venous congestion.
Right-sided congestive heart failure develops due to
increased systemic venous pressures. Constrictive-effusive
pericarditis occurs when pericardial effusion occurs with
pericardial constriction.
Radiography The cardiac silhouette may be normal or
mildly enlarged and globoid. The caudal vena cava is usually dilated and ascites or pleural effusion may be present.
Treatment and Prognosis Treatment of constrictive pericarditis is surgical, as medical therapy with diuretics will
only worsen ventricular filling and cardiac output. If the
fibrosis is limited to the parietal pericardium, subtotal pericardiectomy may be curative. However, if the visceral pericardium is involved, surgery must include epicardial stripping which is difficult, may lead to myocardial or coronary
artery damage, and produces less favorable results.
References
1.
2.
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P. Fox, D. Sisson, and N. S. Möise, Textbook of Canine and Feline
Cardiology: Principles and Clinical Practice. Philadelphia: W. B.
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Bussadori C, GrassoA, Santilli RA. Percutaneous pericardiectomy
with bollon catheter in ther treatment of malignamt pericardial effusion in dogs.
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Approccio terapeutico alle discospondiliti batteriche
Cristian Falzone
Clinica Veterinaria Valdinievole, Monsummano Terme (PT)
Massimo Baroni, Clinica Veterinaria Valdinievole, Monsummano Terme (PT)
Con il termine discospondilite viene indicato un processo
infiammatorio delle limitanti vertebrali di due vertebre adiacenti e del relativo disco intervertebrale. I cani soprattutto di
grande taglia (molto raramente il gatto) possono esserne
affetti. La via di infezione più comunemente implicata nell’instaurarsi delle discospondiliti è quella della diffusione
ematogena di germi responsabili di malattia ad altri livelli
(apparato genito-urinario, gastroenterico, cavo orale, ecc.).
Come causa di discospondilite sono inoltre annoverate le
ferite penetranti, la migrazioni di corpi estranei ed in particolare quelli di origine vegetale ed ultime ma non per importanza, sono le discospondiliti iatrogene, secondarie quindi a
chirurgia spinale per pre-esistenti patologie (ernie discali,
spondilomielopatia cervicale, ecc.) o in rari casi a tecniche
di anestesia spinale. Numerosi batteri (Stafilococco spp.,
Streptococco spp., Escherichia coli, Brucella canis, ecc.) e
più raramente alcuni funghi (Aspergillus spp., ecc.) sono stati riportati come agenti causali di discospondiliti. Il sintomo
comunemente riscontrato è il dolore spinale ma molto più
spesso di quanto si pensa si rilevano in associazione deficit
neurologici di gravità variabile, riferibili al tratto del rachide
interessato. L’articolazione lombo-sacrale è frequentemente
coinvolta seguita per incidenza dall’area toraco-lombare e
quindi cervicale. La diagnosi viene formulata, oltre che sulla base dell’esame clinico e degli esami di laboratorio di routine, grazie all’esecuzione di studi radiografici diretti ma
soprattutto grazie all’impiego di metodiche di diagnostica
per immagine avanzata, quali la tomografia computerizzata
(TC) e la risonanza magnetica (RM). L’urinocoltura, l’emocoltura ed ancora di più le colture di campioni direttamente
prelevati dal sito affetto, permettono l’identificazione dell’agente causale in una buona percentuale di casi, soprattutto se
non precedentemente trattati con terapia antibiotica. La scelta terapeutica, così come la prognosi, sono spesso influenzate da numerosi fattori (la causa, l’estensione focale o multifocale del processo, la sintomatologia al momento della presentazione, ecc.). In generale, per istituire un’idonea terapia
si devono in linea teorica conoscere e quindi poter trattare i
differenti meccanismi fisiopatologici responsabili dei sintomi della malattia stessa. Questa conoscenza è ad oggi solo
parziale per quanto riguarda le discospondiliti; a tal proposito è estremamente importante nella scelta del trattamento
avere e seguire delle linee guida tratte dai risultati dell’esame clinico, degli esami ematologici, degli esami colturali e
delle metodiche di diagnostica per immagine avanzata. Nella pratica clinica ed ancor più nel decorso naturale delle dis-
cospondiliti, le cose non sono sempre così matematiche e
consequenziali come a volte le si vuole rendere per necessità di avere approcci diagnostici e terapeutici il più possibile
codificati e standardizzati. Pertanto, il primo aspetto da sottolineare per un’idonea scelta terapeutica è la necessità di
raggiungere una diagnosi accurata ed in tempi brevi; il riconoscimento precoce della malattia e la pronta istituzione della corretta terapia sono infatti ritenuti alla base di una prognosi migliore. Nei casi avanzati la diagnosi è spesso lampante e si basa sulla presenza di segni clinici e radiografici
ben evidenti e noti. Ci sono però dei casi “border line”, che
escono dagli schemi e che rendono estremamente indaginosa e difficoltosa la diagnosi di discospondilite. Quest’ultima
è ad oggi considerata in medicina veterinaria così come in
quella umana, una sfida diagnostica oltre che terapeutica.
Analizzando perciò in primis l’aspetto clinico è possibile
affermare come in una buona percentuale di casi, i sintomi
clinici possono essere aspecifici e quindi di poco ausilio. A
volte l’unico sintomo presente, il dolore, non è sempre localizzabile al rachide o, qualora lo sia, circoscrivibile ad un
preciso tratto spinale; altre volte ancora si possono avere
alterazioni comuni a tante malattie quali diminuzione dell’appetito, astenia e/o febbre. In questi casi le indagini di
laboratorio possono venire in nostro aiuto, anche se ancora
una volta non sempre sono presenti segni di risentimento
sistemico come la leucocitosi (neutrofilia) o l’aumento dei
parametri di flogosi (velocità di eritrosedimentazione e proteina C-reattiva, ecc.). Quanto all’urinocoltura ed all’emocoltura ci sono dati molto contrastanti in letteratura con percentuali di positività che oscillano rispettivamente tra il
25%-50% ed il 45%-75%. Queste percentuali sono però
destinate a diminuire drasticamente nella pratica, anche e
soprattutto a causa di terapie antibiotiche pre-esistenti al
momento dell’esecuzione degli esami colturali. Anche le
comuni alterazioni radiografiche in corso di discospondilite,
quali il restringimento dello spazio intersomatico ed ancor
più la lisi delle limitanti vertebrali, richiedono 2-4 settimane
dall’esordio della sintomatologia clinica per rendersi evidenti, ritardandone quindi la diagnosi e compromettendone
eventualmente la prognosi. Pertanto, in tutti quei casi in cui
si sospetti la presenza di una discospondilite ma ne manchi
la forte evidenza clinica, ematologica e radiografica, l’esame
di risonanza magnetica (RM) del rachide può giocare un
ruolo fondamentale ai fini dell’ottenimento di una diagnosi
precoce. Ad oggi l’RM è infatti riconosciuta come la metodica d’elezione nella diagnosi della maggior parte delle
200
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
alla terapia antibiotica un trattamento anti-infiammatorio o
con farmaci analgesici (es.: oppiacei); tra gli anti-infiammatori i farmaci non steroidei sono di solito preferiti a quelli a base di cortisone. Molto importante per limitare l’instaurarsi di una possibile instabilità/sublussazione o addirittura frattura vertebrale è inoltre la restrizione del movimento dei soggetti affetti, che andrebbero tenuti in piccoli spazi
e condotti al guinzaglio solo per brevi passeggiate per l’intero trattamento.
Gli obiettivi principali del trattamento chirurgico sono
invece nell’ordine quello di rimuovere tutto il tessuto infettonecrotico e la causa quando presente (es.: corpo estraneo
vegetale migrante), di decomprimere le strutture neurali e,
quando necessario, permettere il riallineamento vertebrale e
garantirne la stabilità. La diffusione del processo flogistico
nel canale vertebrale e quindi la conseguente compressione
delle strutture neurali sono risultati essere, grazie all’impiego della RM, molto più frequenti di quanto prima si pensasse. I sintomi neurologici in corso di discospondilite sono
molto probabilmente dovuti oltre che alla diretta compressione del midollo spinale o delle radici nervose, anche ai
cambiamenti ischemici secondari alla compressione meccanica stessa, alla presenza a tale livello di sostanze flogistiche
vasocostrittrici o di vasculiti indotte dal processo settico. Da
qui ne deriva la necessità anche in quei casi con sintomatologia lieve ma con interessamento del canale vertebrale e
compressione delle strutture neurali di procedere a curettage
chirurgico. Questo infatti, decomprimendo le strutture interessate e ripristinandone la normale vascolarizzazione, ha il
vantaggio tra gli altri di migliorare la qualità del risultato
finale ed eventualmente di ridurre la durata del trattamento
antibiotico. Seppure c’è controversia sull’effettiva efficacia
del trattamento chirurgico in relazione soprattutto alla instabilità che può derivarne, ci sono doverose considerazioni da
fare in merito ad esempio del numero degli spazi intervertebrali affetti o dell’area interessate. Difatti, una minima invasione del canale vertebrale in distretti del rachide in cui il
diametro del canale è relativamente molto ampio, può più
verosimilmente essere associata a lievi sintomi neurologici
più facilmente controllabili e trattabili con la sola terapia
antibiotica. Inoltre, ci sono aree come ad esempio il distretto
toracico, comunemente dotate di maggiore stabilità. Quest’ultima è senza dubbio influenzata anche dalla tecnica chirurgica impiegata e dal numero delle vertebre interessate,
diminuendo ovviamente con l’aumentare degli spazi intersomatici affetti. In molte circostanze nella nostra esperienza è
sufficiente una mini-emilaminectomia associata a fenestrazione, per effettuare un buon debridement chirurgico senza
che ne derivi una significativa instabilità. Anche dopo terapia
chirurgica, così come descritto per la terapia conservativa, i
soggetti devono comunque essere tenuti a riposo per tutta la
durata della somministrazione antibiotica. Volendo tirare delle conclusioni in merito a quanto detto fin’ora è possibile
affermare che la terapia conservativa è indicata in tutti quei
soggetti con solo dolore spinale e/o lievi deficit neurologici,
con coinvolgimento di un solo sito intersomatico e con
assenza di significative compressioni neurali; l’intervento
chirurgico è ovviamente necessario nei casi di fallimento
dell’approccio conservativo, in caso di dolore refrattario alla
terapia medica ed in tutti i casi in cui ci sia una significativa
patologie spinali, comprese le discospondiliti. Nello studio
di queste ultime, secondo alcuni dati tratti dalla medicina
umana, l’RM ha una sensibilità del 96% ed una specificità
del 92%, trovando così particolare applicazione nelle prime
fasi di malattia in cui l’esame radiografico o tomografico
possono dar luogo a falsi negativi. Le alterazioni RM di
comune riscontro sono la perdita di definizione delle placche
vertebrali, ma soprattutto la marcata iperintensità di queste e
del disco intervertebrale nelle immagini T2 pesate (“hot
disk”) ed il diffuso enhancement di tali aree dopo somministrazione endovenosa di mezzo di contrasto paramagnetico
(gadolinio 0.1 mmol/kg). Inoltre, per meglio evidenziare le
alterazioni flogistiche a carico del midollo osseo vertebrale
e la presa di contrasto in particolare nelle fasi acute, si possono rispettivamente eseguire con eccellenti risultati le
sequenze STIR e quelle a saturazione di grasso. Grazie alla
risonanza è inoltre possibile caratterizzare accuratamente il
processo flogistico (accuratezza del 94%) definendone l’estensione, l’eventuale concomitante diffusione ai muscoli
paravertebrali o all’interno del canale vertebrale stabilendone conseguentemente l’entità della compressione delle strutture neurali, il danno a carico di quest’ultime ed eventualmente la presenza di empiema epidurale. I muscoli paravertebrali possono essere interessati nelle fasi tardive di malattia o primariamente in corso di ferite penetranti o di migrazione di corpi estranei con interessamento secondario del
rachide per contiguità. In rare circostanze è possibile evidenziare la presenza del copro estraneo. In ragione della precisa caratterizzazione RM del problema, è infine possibile
stabilire la sede o le sedi più idonee da cui prelevare il materiale da sottoporre all’esame colturale; la percentuale di isolare il germe dal focolaio stesso di discospondilite, sale
infatti fino al 75-80%. Tale percentuale è tanto più vera
quanti più prelievi sia possibile effettuare e quanto più questi provengano da aree rappresentative del problema, così
come suggerito dall’ esame RM. A tal proposito, in medicina umana è riportato come in alcune circostanze sia più proficuo l’esame batteriologico effettuato su materiale prelevato da sedi diverse dal disco intervertebrale, come ad esempio
dal corpo vertebrale stesso. Questo potrebbe probabilmente
riflettere una diversa distribuzione/concentrazione batterica,
evidentemente più bassa a livello del disco per la diminuita
vascolarizzazione, soprattutto nella sua porzione centrale.
Riassumendo, l’esame RM in corso di discospondilite è un
valido ausilio nel raggiungimento della diagnosi in tempi
rapidi, soprattutto in quei casi prima definiti “border line” e,
caratterizzando con precisione tutte le sfaccettature del problema, non solo indica le sedi più idonee da cui prelevare il
materiale per gli esami colturali ma guida soprattutto l’orientamento nella scelta della terapia.
Le opzioni terapeutiche come spesso accade per le malattie neurologiche sono due: terapia conservativa e terapia
chirurgica. La prima consiste nella somministrazione prolungata di antibiotici. Questi, ogni qual volta sia possibile,
devono essere scelti in modo mirato sulla base dei risultati
dell’antibiogramma. In particolare nei casi più gravi, la
somministrazione può essere per via endovenosa per i primi
5-7 giorni, dopodiché si continuerà per via orale per un
periodo minimo di 2-3 mesi. Nelle prime fasi, spesso caratterizzate da marcato dolore spinale, è possibile associare
201
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
compressione e/o alterazione delle strutture neurali, evidenziate tramite esame di risonanza magnetica. Nei casi in cui ci
sia marcata distruzione dei soma vertebrali, si sia effettuato
un esteso/distruttivo approccio chirurgico e/o ci sia primariamente l’evidenzia radiografica di instabilità vertebrale, è
invece prerogativa assoluta ricorrere alla terapia chirurgica
con riduzione e stabilizzazione del rachide. In medicina
umana, forse anche per le differenti forze meccaniche che
agiscono sulla colonna vertebrale così come per l’elevata
incidenza di morbidità e mortalità, è diffusamente considerata buona pratica effettuare la stabilizzazione del rachide dopo
ogni chirurgia in corso di discospondilite. In medicina veterinaria sono state descritte numerose tecniche di stabilizzazione vertebrale. Nella nostra esperienza questa è ottenuta,
dopo procedura di decompressione e curettage quando
necessari, preferibilmente grazie all’impiego di fissatori
esterni con diverse configurazioni. Per facilitare la fusione
vertebrale si fresano in parte le placche terminali e si possono fare innesti di spongiosa negli spazi intersomatici. Qualora la lisi dei corpi vertebrali non garantisca la stabilità dell’impianto, si includono anche la vertebra craniale e quella
caudale. Tali impianti hanno il vantaggio di non essere direttamente impiegati a stretto contatto col focolaio settico ma,
seppure in rari casi, possono non essere ben tollerati dall’animale e richiedono comunque attenzioni da parte del proprietario al fine di una buona protezione e disinfezione. Dove
non ne risulti anatomicamente possibile l’impiego, si può
eccezionalmente ricorrere a mezzi di sintesi interna come
placche, chiodi, viti e polimetilmetacrilato. Questi impianti,
messi a contatto col processo settico, hanno maggiore probabilità di fallimento e comunque, in tutti i casi in cui sia possibile, è consigliabile fare curettage chirurgico e decompressione da un lato e stabilizzare quindi dal lato opposto.
In merito alla durata della terapia antibiotica, si può dire
che questa è estremamente variabile da soggetto a soggetto.
Questa variabilità riflette l’assenza ad oggi di parametri
attendibili nella valutazione della guarigione e quindi dell’efficacia della terapia che suggeriscano la sospensione
della stessa. I cambiamenti radiografici da soli non si sono
dimostrati attendibili. Valutando la progressione RM delle
alterazioni morfologiche, i cambiamenti di segnale nelle
differenti sequenze e la captazione di mezzo di contrasto
(progressiva diminuzione dell’iperintensità T2 e dell’impregnazione contrastografica), è possibile monitorizzare in
parte l’andamento della malattia ed eventualmente la risposta alla terapia antibiotica. Come regola generale, la durata
della terapia antibiotica nelle discospondiliti batteriche va
valutata tenendo in considerazione i cambiamenti di tutti gli
aspetti presi in esame nel raggiungimento della diagnosi;
non deve comunque mai essere di durata inferiore ai 2-3
mesi, non va sospesa se ai successivi controlli clinici è
ancora presente dolore alla palpazione spinale e se soprattutto ci sono segni ematologici, radiografici, TC o RM di
progressione del processo infiammatorio/infettivo.
Due circostanze che rivestono un interesse particolare per
il neurologo clinico e chirurgo sono la formazione dell’empiema epidurale e le discospondiliti iatrogene post-operatorie. In quest’ultima evenienza i sintomi insorgono in tempi
relativamente brevi dopo la chirurgia e spesso sono drammatici e difficili da trattare perché frequentemente secondari ad infezioni nosocomiali sostenute da batteri dotati di
ampia antibiotico-resistenza. Sovente, si riscontrano l’interessamento di più di uno spazio intersomatico e l’instaurarsi
di deformità spinali. Per questi motivi è molto importante
nella grande maggioranza dei casi di discospondiliti batteriche postoperatorie isolare il germe direttamente dai siti
affetti ed intervenire chirurgicamente in tempi rapidi con lo
scopo di eliminare il più possibile il tessuto infetto, di
decomprimere le strutture neurali prima che si istaurino danni gravi e/o irreversibili e, ove necessario, di ottenere il riallineamento e la stabilità vertebrale.
Infine, nel caso in cui la discospondilite sia complicata da
empiema epidurale, seppure ci sono dati contrastanti in
merito, l’approccio chirurgico va fortemente raccomandato.
L’empiema epidurale, sospettato, riconosciuto e ben delineato dall’esame RM (segnale diffusamente/disomogeneamente iperintenso nelle immagini T2 pesate con contrast
enhancement variabile da marcato-diffuso ad evidente solo
ai margini), è infatti molto spesso associato a rapida progressione dei sintomi, alla presenza di gravi deficit neurologici, di grave compressione e/o danno delle strutture neurali
ed è scarsamente rispondente alla sola terapia antibiotica. La
prognosi è altresì buona dopo precoce rimozione/decompressione chirurgica e terapia antibiotica.
202
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
La gestione del paziente aggressivo
durante la visita comportamentale
Franco Fassola
Med Vet Comportamentalista, Asti
LA TEORIA
Si evince che il primo consiglio che si può dare, per una
gestione sicura del paziente aggressivo, è quello di studiare e
conoscere a fondo la teoria della medicina comportamentale.
Per gestire una qualsiasi situazione durante una visita
comportamentale, è importante avere una teoria di riferimento, in base alla quale ci si muove.
Nel caso in esame, la teoria di riferimento, ovvero le teorie di riferimento sono il Modello Psico-patologico del Dott.
Pageat3 e il Modello Sistemico. Il primo modello è importante per la raccolta anamnestica, per la diagnosi, per la prognosi e per la terapia farmacologica o comportamentale. Il
secondo modello è utilizzato dal Medico Veterinario Comportamentalista in quanto - durante la visita - si instaura una
relazione rilevante anche con il proprietario dell’animale
esaminato.
La visita comportamentale è, infatti, un intervento complesso, che ha molti attori: l’animale, il padrone e/o altri
membri della famiglia di questo e il veterinario comportamentalista, tutti soggetti che si muovono, o possono muoversi, in diversi contesti (la sala visita in clinica o in ambulatorio, la casa dove abitano il soggetto con il suo padrone,
il campo d’educazione, la strada o un altro luogo pubblico).
Il medico veterinario comportamentista è il regista, che
coordina gli attori e organizza i setting e i set, dove si svolgono i colloqui o gli esercizi. Posto quanto sopra, si comprende come sia importante sapere e prevedere le mosse delle persone e dell’animale presente e quanto sia fondamentale avere in ogni momento (motivo in più se trattiamo un animale aggressivo) la situazione sotto controllo.
Secondo l’approccio sistemico, il clinico che affronta una
problematica deve:
– sapere (conoscenza): livello teorico/epistemologico
– saper fare: livello professionale
– saper essere: livello personale e relazionale.
Saper fare: livello professionale
…Competenze, abilità, strumenti e tecniche appartengono
al bagaglio di cui un allievo necessita per diventare un professionista. Tramite il tirocinio l’allievo acquisisce tutto ciò.
Tuttavia,sono altrettanto importanti le “simulate”, la
“supervisione” e la discussione dei casi nel gruppo1.
Il saper fare è un altro elemento costitutivo della professionalità e quindi della capacità di gestire situazioni difficili, e si raggiunge con la pratica. La conoscenza teorica per
sublimarsi in professionalità deve essere accompagnata dall’esperienza, ovvero dalla pratica, prima sotto la guida di un
maestro, poi sotto l’ala protettrice, ma distaccata del supervisore, fino a giungere alla gestione autonoma di un caso, il
tutto senza mai rinunciare al confronto attraverso la discussione con i colleghi.
Saper essere: livello personale e relazionale
Nella relazione d’aiuto (componente questa imprescindibile in ogni visita comportamentale), un professionista deve
conoscere se stesso e la propria cultura di appartenenza,
deve essere consapevole dei pregiudizi, del bagaglio e dello
stile personale… diventa di importanza decisiva il modo in
cui interagiamo, comunichiamo e affrontiamo le situazioni
conflittuali quotidiane…1
Questo è un punto cruciale, conoscere se stessi e i propri
pregiudizi è indispensabile per operare in un contesto di aiuto, e ancor di più avendo davanti un proprietario di un cane
che lo ha morsicato, o che ha morsicato un’altra persona,
con tutte le implicazioni di tale evento (il dolore fisico e psichico, il rimorso, il senso di colpa e di impotenza di fronte a
una circostanza non prevista e difficile da comprendere).
Non è possibile, a mio avviso, essere di aiuto, se non riusciamo ad entrare in empatia, perché il nostro pensiero sull’aggressività non ce lo consente, o perché non riusciamo a trasformare un pregiudizio in uno strumento di conoscenza.
Conoscere il proprio stile personale, trattando un animale
aggressivo, è fondamentale, per evitare un approccio troppo
“allegro”, che mette a rischio il professionista, i proprietari e
anche l’animale. Anche la paura, emozione legittima, deve
essere considerata, se c’è non siamo liberi, non ci comportiamo in modo corretto, un professionista che ha paura è percepito dall’animale, che reagisce di conseguenza.
Ignorare il proprio stile, o pensare di essere capaci sempre
Sapere: livello teorico/epistemologico
Lavorare in modo sistemico implica adottare un certo
ambito di pensiero che dovrebbe integrarsi nella vita quotidiana: osservare i comportamenti in un contesto relazionale, vivere gli eventi in maniera circolare, ipotizzare anziché
giudicare, porsi in un atteggiamento di curiosità, formulare
domande circolari, meta comunicare raccontarsi… Lavorare in modo sistemico diventa non solo essere sistemici, ma
pensare sistemico, e ciò significa conoscere. La conoscenza
è uno strumento basilare per essere professionali, per sapere cosa fare…; la conoscenza ci consente di fare scelte consapevoli, di optare per una specifica strategia o tecnica di
intervento1.
203
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
e in ogni situazione, non serve, anzi può peggiorare una relazione già difficile, UN PROFESSIONISTA NON DEVE
LAVORARE CON TUTTI E CERCARE DI RISOLVERE
TUTTI I PROBLEMI/PATOLOGIE.
La professione di medico veterinario comportamentalista
è basata su competenze comunicative e relazionali (competenze indispensabili quando si affronta l’aggressività di un
animale in un contesto famigliare e/o sociale), è importante
acquisirle e saperle usare in modo corretto.
Per concludere questa prima parte della relazione si può
affermare che sapere, saper fare e saper essere sono
inscindibili1.
taglio le persone e/o gli animali presenti. Naturalmente,
dovrà farsi sostare un soggetto aggressivo per un tempo limitatissimo in sala d’attesa, meglio ancora sarebbe evitare tale
attesa (se pure molto limitata nel tempo) e far solo transitare il soggetto.
Arrivati all’ingresso della “sala visite” l’animale viene
introdotto all’interno, in tale caso è possibile entrare per primi e prendere possesso della spazio della stanza (soluzione
che preferisco per i cani assertivi e molto agitati e anche per
i fobici aggressivi), oppure fermarsi sulla soglia, aprire la
porta e introdurlo dentro facendo sfilare il cane e il proprietario (soluzione che preferisco per i cani assertivi, ma calmi).
• Gestione dell’animale all’interno della sala visita
Introdotto all’interno, il cane è al guinzaglio e/o con
museruola, e - in base alle informazioni che sono state raccolte telefonicamente, a quanto osservato all’accoglienza e
al comportamento del proprietario - si può chiedere che il
soggetto venga lasciato libero, ovvero tenuto al guinzaglio,
ovvero che venga tolta la museruola.
Suggerisco di tenere in considerazione il parere del proprietario, chiedendogli cosa desidera fare, avvisandolo che
sarà responsabile del comportamento dell’animale e che è
l’unica persona che può intervenire per fermarlo in caso di
aggressione (attenzione alla scelta dei termini, del momento
in cui dirlo e del tono che si usa).
Nella prima parte della visita consiglio di non interagire
con il cane, di non allungare la mano per toccarlo o accarezzarlo, di non giocare con lui, di raccogliere l’anamnesi stando seduti, senza muoversi, di evitare di incrociare lo sguardo con il soggetto. La raccolta dell’anamnesi serve a conoscere i fatti come riportati dal proprietario, ad osservare l’interazione del soggetto con il/i padrone/i e ad osservare il
cane, come si muove (se libero) o come si comporta (se legato al guinzaglio).
Solo quando si ha un quadro più dettagliato del comportamento del soggetto, dell’interazione con il padrone e delle
abilità e paure di quest’ultimo, si hanno gli elementi per interagire con il cane, ci si può alzare e muoversi per la stanza,
oppure, rimanendo al proprio posto cercare il contatto con il
cane, o ancora, toccarlo e interagire in modo fattivo con lui.
È necessario essere attenti al fatto che, con certi soggetti, è
sufficiente il movimento ad indurre l’aggressione; con altri,
invece, è necessario relazionarsi più a lungo, stimolarli al
gioco. Ci sono cani che cercano la sfida, incrociando lo
sguardo o avvicinandosi con un oggetto che lasciano a terra,
ma che poi difendono, oppure dando dei colpetti con il
muso, non accettate la sfida e rimanete immobili, senza
guardarli.
LA PRATICA
Sezionando la visita comportamentale di un paziente
aggressivo gli aspetti che possono essere presi in considerazione per la sua corretta gestione sono i seguenti:
1. La telefonata per fissare l’appuntamento
2. Dove fare la visita e come condurla
a) Visita in clinica o ambulatorio
b) Visita a domicilio
c) Affido del paziente a un educatore
La telefonata per fissare l’appuntamento
La telefonata, anche nel limite di tempo legato al mezzo,
può essere uno strumento per avere le prime informazioni
pratiche che consentono al veterinario comportamentalista
di capire come comportarsi di fronte all’animale che andrà a
visitare. Le notizie che ci servono sono le seguenti:
• Razza del cane, età, sesso, peso.
• Ha morsicato un altro cane, un altro animale (con ferite,
oppure lo ha ucciso), il proprietario, un famigliare o un
estraneo.
• La/e ferita/e è stata medicata in casa o ha necessitato l’intervento di un veterinario (se la vittima è un animale) o
medico.
• L’animale è sotto sequestro a seguito di una denuncia.
L’insieme di queste informazioni ci può dare un’idea e ci
consente di formare un “pregiudizio”, ovvero di valutare la
problematica secondo le informazioni che abbiamo ottenuto, ma va mantenuta ferma la predisposizione mentale a
cambiare parere se l’anamnesi raccolta durante la visita lo
consentirà.
Il colloquio telefonico consente di decidere se eseguire la
prima visita in ambulatorio o a domicilio.
Dove fare la visita e come condurla:
la visita ambulatoriale
• Gli esercizi
L’esercizio, in una ottica sistemica, non ha lo scopo di
offrire una visione più chiara del problema e neppure di illuminare il proprietario sul problema, ma quello di creare, nel
momento in cui viene eseguito e anche successivamente, dei
cambiamenti nella diade.
Non si vogliono creare delle abilità specifiche, ma una
abilità più generale: la capacità di relazionarsi in modo corretto con il cane e viceversa. Per cui, con un cane aggressivo, consiglio, di valutare bene il momento in cui viene pro-
• Accoglienza e ingresso in sala del cane
In base ai dati raccolti con la telefonata si decide se chiedere al proprietario di portare in clinica il cane con o senza
la museruola. Se si sospetta un comportamento aggressivo
causato da una fobia verso le persone, o se il soggetto è
aggressivo verso gli altri cani, o se è di grossa taglia, si può
fissare l’appuntamento in un’ora in cui l’ambulatorio è chiuso per le visite e quindi non ci sono uomini o animali, oppure farlo entrare da un ingresso secondario. In questo modo si
eviterà di innervosire il paziente e non si metteranno a repen204
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
caso l’attenzione del veterinario per la sicurezza di tutti gli
attori deve aumentare, perché se ne aggiunge un altro: l’educatore, che opera in un contesto spazio-temporale diverso
da quello in cui opera il veterinario, questo richiede una precisa illustrazione del comportamento del cane, un’indicazione dettagliata degli esercizi da eseguire e una comunicazione continua tra veterinario, educatore e anche proprietario,
che deve trovarsi bene con l’educatore.
L’intesa con una terza persona che si inserisce nella relazione, soprattutto con un cane aggressivo, è importante, perché si lavora con una relazione cane-padrone molto critica,
l’intervento del terapeuta ha successo, anche se riesce a creare una buona alleanza, in modo da essere visto come una
“guida” autorevole. Quando si inviano a un altro professionista cliente e paziente, questi devono essere accolti e devono “piacersi”. Il veterinario comportamentalista fa da garante e favorisce l’accettazione, quindi è fondamentale nella
scelta dell’educatore che esista un ottima relazione tra i due,
che siano affiatati e che condividano pienamente le stesse
teorie di riferimento.
posto, la modalità con cui viene presentato e la sua esecuzione. È possibile non proporre esercizi nella prima visita,
ma impostare una terapia farmacologica, oppure spiegare un
semplice esercizio, anche usando un video dimostrativo,
chiedendo che questo venga eseguito a casa, o, fare una
dimostrazione usando un cane terapeuta (che può anche non
essere presente in sala). Nella prima visita può essere sufficiente mostrare al proprietario come muoversi nello spazio
con il suo cane, che può anche indossare la museruola
(movimenti lenti, mai guardare negli occhi il cane, lasciarsi
esplorare mantenendo una postura rilassata).
Negli incontri successivi verranno continuati gli esercizi,
che potranno essere eseguiti in sala visita, se questa è ampia
e il cane non è di grossa taglia, oppure in un campo recintato. L’uso di un campo all’esterno è utile, al di là della taglia
del soggetto o delle dimensioni della camera, perché consente maggior mobilità, è un luogo non conosciuto e informale (questo per il proprietario) e non è medicalizzato. Per
lavorare in sicurezza con il cane aggressivo dobbiamo considerare il contesto in cui avviene il colloquio, in una sala
visita, sia se adibita solo alle visite comportamentali o, se è
usata anche per le visite cliniche, ci sono i feromoni della
paura, inoltre, può essere percepita la presenza di altri animali attraverso i suoni che emettono (abbai, latrati, gemiti,
ecc.), che aumentano l’attenzione dell’animale - in certe
situazioni anche del proprietario - e anche l’aggressività del
cane, ma anche del gatto che si sta visitando. Va posta attenzione anche nell’utilizzo del giardino della casa dove vive il
cane, perché quest’ultimo potrebbe essere più aggressivo nel
proprio territorio. L’anamnesi può aiutarci: se le aggressioni
sono avvenute sempre in casa, è meglio evitare questo luogo
sino a quando non si è sicuri che il proprietario sia in grado
di controllare il cane ovvero fino a quando l’animale non
sarà meno reattivo.
Se l’animale accetta l’interazione, perché il suo comportamento aggressivo è rivolto verso gli animali, o perché è
rivolto verso una categoria di persone (che non sia quella dei
veterinari), o perché l’aggressione è avvenuta in un contesto
tale che al di fuori da quello non si ripeterà (o quanto meno
esistono scarse probabilità che ciò avvenga, ad esempio nel
caso in cui un estraneo si sia introdotto in casa…), possiamo
mostrare direttamente l’esercizio, eseguendolo con il cane e
poi lo facciamo ripetere al proprietario.
Un’alternativa è quella di avvalersi di un educatore/trice,
faccio la differenza perché a volte è meglio affidare il cane a
uno o all’altro, dipende da chi è stata vittima dell’aggressione, ma anche dalla abitudine del cane a convivere di più con
gli uomini o con le donne. Nella fase iniziale del percorso di
cambiamento è importante favorirne l’evoluzione con un
intervento che non sia troppo traumatico (ma è anche vero il
contrario, cioè rimuovere tutti i riferimenti sicuri può rivelarsi un efficace strumento per ottenere il risultato desiderato, e ciò anche con un cane aggressivo, soprattutto se si tratta di un cane assertivo e che comunica in modo corretto con
un proprietario che non conosce le regole relazionali).
La collaborazione con un educatore al quale affidare cane
e proprietario è molto utile, ma richiede un’ottima intesa tra
medico veterinario comportamentalista ed educatore, al fine
della piena reciproca comprensione sul problema/patologia
dell’animale e sul tipo di intervento da eseguire. In questo
Dove fare la visita e come condurla:
la visita domiciliare
A mio avviso, non è saggio né utile fare la prima visita
comportamentale di un cane aggressivo a domicilio, perché
le poche informazioni raccolte al telefono non ci permettono
di operare in sicurezza, per noi, per i proprietari, per il cane.
Tuttavia se non si può fare altrimenti, consiglio di valutare telefonicamente la dinamica dell’aggressione e il contesto: se l’aggressione è avvenuta all’esterno e, soprattutto, se
non ve ne sono mai state all’interno della casa, o se il cane è
aggressivo solo verso certe categorie di persone, oppure se lo
è solo verso gli animali, o ancora se è di piccola taglia o di
giovane età, o se ha avuto un solo episodio e non grave di
aggressione, si può azzardare la prima visita a domicilio.
Ribadisco poi la necessità di chiedere sempre al proprietario di tenere il cane al guinzaglio, eventualmente anche
con la museruola, quando si entra nella abitazione e di invitare il proprietario - se non dovesse sentirsi sicuro di gestire
il cane - di chiuderlo in un luogo che consenta di osservarlo
da lontano ovvero non visti.
In questo ultimo caso, una volta raccolti i dati per una corretta anamnesi, osservato il cane, e solo dopo avere valutato
con ragionevole certezza che non esistono rischi, chiedere al
proprietario di liberare il cane.
Per inciso, sottolineo che la prima visita, non dovrebbe
mai essere domiciliare, in quanto troppo dispersiva e soprattutto perché il veterinario comportamentalista non ha sotto
controllo il setting.
Questo non significa dare un giudizio del tutto negativo
sulla visita a domicilio che può avere una sua ragione di
essere anche sotto il profilo della utilità, ma, particolarmente con un paziente aggressivo, è consigliabile che la visita
domiciliare sia preceduta da una o due incontri in studio,
cioè dopo aver stabilizzato la criticità della situazione, e ciò
sotto il profilo della sicurezza per tutti i soggetti coinvolti.
Recarsi a casa del cliente ha dei vantaggi che arrcchiscono il percorso terapeutico:
1. Informazione: consente di conoscere direttamente l’ambiente, con la possibilità di individuare soluzioni pratiche
205
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
di gestione e di vedere aspetti della relazione che il proprietario non ci segnala, perché troppo interno al sistema,
o che ci sono sfuggiti.
2. Segnale di disponibilità: entrare in casa di un proprietario sottolinea il nostro desiderio di aiutare la coppia canepadrone e la nostra disponibilità piena.
3. Co-costruzione di un percorso: non è solo il proprietario
con il cane che viene da noi, ma anche noi che andiamo
da lui, condividiamo la vita famigliare. Si crea una danza dove tutti collaborano, ognuno con il suo ruolo per
raggiungere il fine comune: creare una relazione e gestire un comportamento.
4. Superamento delle gerarchie e relazioni di potere dettate dai ruoli: non solo il veterinario accoglie la diade, ma
questa accoglie il veterinario. Parlo di diade, perché la
visita a domicilio deve essere un momento al quale partecipa anche il cane, in un certo qual modo deve dare il
suo consenso. Per questo è importante la scelta del
momento nel quale viene fatta: non troppo presto, ma
neppure troppo avanti nel percorso terapeutico.
In certi casi, la visita a domicilio serve per un sopralluogo
dell’ambiente per organizzare gli spazi. Con un cane molto
aggressivo in casa sua e quindi non disposto a “dare il suo
assenso” all’ingresso del veterinario comportamentalista,
consiglio di chiedere al proprietario di allontanare il cane, in
modo che non ci veda entrare nel suo territorio durante la
visita (se si tratta di un appartamento, un membro della famiglia lo porta fuori a spasso quando arriviamo noi). Successivamente, quando il cane sarà gestibile dal proprietario, si
potrà fare un’altra visita, che avrà un ulteriore obbiettivo,
cioè quello di valutare la relazione nel contesto famigliare,
come gli attori si muovono nell’ambiente domestico e per
provare gli esercizi.
Per quanto riguardo gli esercizi rimando a quanto detto
sopra, con il suggerimento di usare il giardino di casa solo
quando il comportamento del cane è gestibile dal proprietario.
l’obiezione che sono state fatte molte parole, senza però che
sia stata fornita la “formula magica”, o ancor meno una
“ricettina”, che consenta di avvicinarsi ad un paziente
aggressivo in sicurezza.
Vi devo quindi una spiegazione, affinché non ve ne
andiate delusi o peggio arrabbiati e più “aggressivi” di
quando siete arrivati: il fatto è che neppure io conosco la
formula (o la ricetta) e sono convinto che nessuno la conosca, perché la visita comportamentale (come, peraltro, tutte le visite) è come una creazione artistica (un’”opera d’arte”) che non può essere realizzata prescindendo dalla tecnica, è un “fare” che deve presupporre una teoria di riferimento che illumina la strada che percorriamo con la diade
animale-padrone.
I suggerimenti che vi ho dato sono il frutto di conoscenze
scientifiche, di conoscenze teoriche-pratiche, di sensibilità,
del mio sentire e della capacità di trasformare il tutto in un
intervento unico per quell’animale e per quel proprietario.
Non so se esista differenza tra un artista e un artigiano, ma
ciò che voi ed io sapremo sempre, perché potremo capirlo da
come ci sentiamo al termine di una visita comportamentale,
è se abbiamo usato tutte le abilità tecniche e personali elencate sopra, oppure se ci siamo limitati a svolgere il nostro
compitino seguendo la tecnica, senza essere riusciti ad entrare dentro la relazione, lasciandoci coinvolgere da questa e
diventando coinvolgenti, SENZA MORSI NÉ RIMORSI …
CONCLUSIONE
Indirizzo per la corrispondenza:
Franco Fassola
Asti - C.so Torino, 88 - Tel. 340/2350989 - 348/2668173
E-mail: [email protected]
Bibliografia
1.
2.
3.
Alla fine di questa dissertazione sulla gestione del paziente aggressivo durante la visita, qualcuno potrebbe sollevare
206
C. Edelstein, Il counseling sistemico pluralista. Dalla teoria alla pratica, Erickson, Gardolo (TN) 2007.
P. Watzalawick, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio,
Roma, 1971.
Pageat P., La patologia comportamentale del cane, Le Point Veterinaire Milano 2000.
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
“Obesità: il più grande organo endocrino
(“posso resistere a tutto ma non alle tentazioni” Oscar Wilde)
Giuseppe Febbraio
Med Vet, Bari
L’obesità, condizione caratterizzata da un eccessivo accumulo di grasso nel corpo rappresenta oggi la patologia nutrizionale che più frequentemente colpisce gli animali da compagnia che vivono nei paesi industrializzati. Il tasso di incidenza dell’obesità nei cani presentati alla visita varia dal
24% al 44% a seconda dell’autore, la sede dello studio epidemiologico e la definizione dei criteri iniziali. Nel gatto, il
tasso d’incidenza dell’obesità, che era molto basso negli
anni 70 supera ora il 20% a prescindere dalla sede dello studio epidemiologico.
L’abitudine sempre più frequente di considerare il gatto come un animale d’appartamento, la limitata attività
fisica quotidiana dei gatti tenuti tra le mura domestiche e
la maggiore disponibilità di cibi molto appetibili sono tutti fattori che possono aver contribuito alla crescita molto
consistente dell’obesità tra i gatti. Stime più recenti, provenienti dal mondo veterinario e da ricerche di mercato
confermano il fatto che la percentuale di cani e gatti in
sovrappeso ha assunto dimensioni rilevanti; tale percentuale diventa addirittura preoccupante in alcune aree geografiche soprattutto del Nord Europa dove le abitudini alimentari della popolazione umana tendono a diete ipercaloriche, con conseguenti ripercussioni sulla salute sia
degli animali domestici che dei loro proprietari. Secondo
una recente indagine svoltasi in Italia i cani in sovrappeso sono il 36% del totale, i felini il 46%.
I ricercatori hanno osservato che l’obesità è associata alla
presenza di cibo appetibile in eccesso e situazioni in cui non
è richiesta un’attività fisica gravosa. Queste condizioni stanno acquisendo una sempre maggiore incidenza nella popolazione umana globale ed è probabile che incidano anche sui
cani e gatti da compagnia. Secondo alcuni studi i proprietari di animali obesi tendono ad antropomorfizzare i loro animali, trasferendo a questi i loro comportamenti riguardo alla
salute e alle abitudini alimentari. I proprietari tendono a
rispondere alle richieste di attenzione da parte dei loro animali somministrando cibo e tendendo a ignorare il bisogno
di esercizio fisico (cibo uguale amore).
Un valore del peso corporeo pari o superiore al 20% in più
rispetto al normale è generalmente considerato indice di
obesità e, nella specie umana, i problemi di salute cominciano a aggravarsi quando il peso raggiunge il 15% in più
rispetto al peso ideale.
L’incremento del peso corporeo si verifica quando ha un
bilancio energetico positivo, dove l’energia introdotta è
maggiore dell’energia spesa, conseguenza di una maggio-
re introduzione di una riduzione del consumo, o di una
combinazione delle due.
Il problema dell’obesità sembra molto semplice in termini di bilancio energetico, ma esistono molte cause responsabili dello squilibrio, primo dei quali la errata convinzione
da parte dei proprietari che somministrare molto cibo ai
propri animali sia la forma più efficace e diretta per dimostrare loro affetto e che, viceversa, l’introduzione di una
dieta controllata sia vissuta dall’animale come una incomprensibile cattiveria. A questo si aggiunge la relativa incapacità dei veterinari di recepire i rischi correlati all’obesità
animale e di comunicare ai proprietari in forma sufficientemente incisiva una corretta educazione alimentare e le
misure dietetiche correlate.
È opinione diffusa che gli animali obesi abbiano un aspetto meno sano e meno gradevole. Spesso l’obesità provoca la
diminuzione delle capacità di reazione del soggetto e dell’attività fisica che normalmente svolge, ma può addirittura
abbreviarne la durata della vita ed esporlo maggiormente al
rischio o essere la causa di disturbi di salute. È ormai assodato che il sovrappeso e l’alimentazione in eccesso negli animali sono coinvolti non solo nell’insorgenza di malattie
metaboliche (es., diabete mellito), ma anche nel peggioramento clinico di condizioni croniche (artrosi, malattie cardiovascolari) e anche nella patogenesi di malattie ortopediche dello sviluppo (displasia dell’anca, osteocondrosi). Ad
esempio la maggiore incidenza di rotture del legamento crociato nei cani obesi non è solo imputabile al carico ponderale abnorme che le articolazioni devono sopportare, ma anche
all’indebolimento della struttura stessa del legamento, composto in questi soggetti da fibrille di collagene di calibro
inferiore alla norma. Anche la valutazione clinica è complessivamente più difficile nel paziente obeso rispetto al
paziente in condizione corporea ideale. Le tecniche ostacolate dall’obesità includono la visita clinica, auscultazione
toracica, palpazione e aspirazione dei linfonodi periferici,
palpazione addominale, prelievo di sangue e urine, diagnostica per immagini (soprattutto l’ecografia). Anche il rischio
anestetico è maggiore negli animali obesi e i problemi includono la stima della dose anestetica, l’inserimento del catetere e il tempo operatorio.
Ricerche più recenti hanno suggerito un nuovo legame tra
obesità e molte malattie. Sembra che il tessuto adiposo, una
volta considerato fisiologicamente inerte, sia un attivo produttore di ormoni, come la Leptina, e numerose citochine. Si
ritiene che le adipo citochine (fattore di necrosi tumorale
207
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
alfa, interleuchina 6, proteina C reattiva, ecc) abbiano un
ruolo nella patogenesi di molti disordini associati all’obesità nell’uomo, ed è probabile che esistano molti parallelismi
con i disordini degli animali da compagnia. Inoltre l’obesità
è associata con aumentato stress ossidativo, che può anche
contribuire alle patologie.
Il concetto alla base del trattamento dell’obesità è semplice: il peso diminuisce quando la spesa energetica supera il
consumo giornaliero di calorie. Può essere tuttavia difficile
implementare programmi di successo per perdere peso nel
caso del cane o del gatto di casa. L’elemento fondamentale
consiste nel valutare dettagliatamente l’anamnesi alimentare
e lo stile di vita per identificare innanzi tutto ogni specifico
limite del proprietario e dell’animale che possa influenzare
l’implementazione del programma per la perdita del peso e,
in seguito, sviluppare soluzioni pratiche in grado di funzionare all’interno di tali limiti.
L’obiettivo primario è sempre quello di ridurre il consumo
giornaliero di calorie e aumentare il dispendio energetico
quotidiano.
Del tutto controindicato è limitare l’apporto calorico semplicemente limitando la quantità di cibo solitamente consumata. Questa scelta produce carenze nutrizionali ed è poco
probabile che abbia successo. L’uso di una dieta appropriata
per la perdita di peso è importante e vi sono diversi criteri da
considerare. Sebbene sia la restrizione calorica che induce la
perdita di peso, è importante evitare una eccessiva restrizione di nutrienti essenziali. Una dieta a bassa densità calorica
con un aumentato rapporto nutrienti/calorie rappresenta un
ottimo approccio. Altra considerazione non meno importante è quella di promuovere la perdita di massa grassa riducendo al minimo quella della massa magra, che può essere
influenzata dalla composizione della dieta.
La scelta della dieta deve tenere conto innanzitutto dell’obiettivo (il trattamento dell’obesità) e possibilmente della
velocità, per la perdita di peso programmata.
La restrizione dei grassi riduce ovviamente la densità
calorica della dieta e di conseguenza aiuta a assumere meno
calorie. Anche l’incorporazione della fibra è senza dubbio
uno dei mezzi principali per ridurre la densità energetica delle diete, garantendo nello stesso tempo un volume soddisfacente e un contenuto energetico ridotto. Nel cane, la restrizione energetica ottenuta somministrando una dieta ad alto
contenuto in fibra e basso contenuto in lipidi ha consentito
una maggiore riduzione del grasso corporeo e delle concentrazioni di colesterolo sierico.
La dieta deve avere un rapporto proteine /calorie appropriato, il cui valore energetico (determinato anche dal contenuto in fibra) sarà il più basso possibile, permettendo allo
stesso tempo una razione e un volume di alimento accettabi-
li per il proprietario e un effetto sufficientemente saziante
per l’animale.
La concentrazione proteica delle diete destinate al trattamento nutrizionale dell’obesità deve, per coprire i fabbisogni in aminoacidi essenziali o meno, essere superiore a quella delle razioni consigliate per il mantenimento. Considerato che l’apporto energetico è fortemente ridotto, occorre
aumentare in proporzione inversa la concentrazione proteica
per prevenire la riduzione dell’apporto proteico al di sotto
dei fabbisogni fisiologici. Le diete ad alto contenuto proteico rendono possibile aumentare la perdita della massa grassa, minimizzando quella della massa magra. Questa può
essere ulteriormente tutelata da un aumentato rapporto Lisina (primo aminoacido limitante). La supplementazione di
una appropriata quantità di aminoacidi in rapporto con la
Lisina piuttosto che un semplice aumento della quantità totale delle proteine favorisce la sintesi proteica e la riduzione
della mobilitazione della massa muscolare.
Nelle diete a basso contenuto energetico possono essere
importanti anche alcuni specifici ingredienti, soprattutto
quelli che influenzano il metabolismo lipidico e, a parte questo, la composizione corporea. La L-carnitina favorisce
appunto la conversione dei grassi in energia, migliora la
ritenzione azotata e modifica la composizione corporea a
favore della massa magra. La scelta del grado di razionamento energetico deve essere adattata in funzione di numerosi criteri e, soprattutto, il grado di soprappeso, il sesso dell’animale e la durata programmata della dieta. I numerosi
studi clinici pubblicati indicano che mantenere una perdita
dell’1 -2% alla settimana rispetto al peso iniziale, costituisce
un obiettivo ragionevole. Un punto di partenza è quindi quello di una restrizione calorica del 40% (20 -30% nel gatto), da
adattare poi al singolo individuo.
Dividere la razione giornaliera in 4 o più piccoli pasti
dovrebbe aumentare la termogenesi postprandiale. È anche
un buon metodo per ridurre la quantità di tempo in cui gli
animali hanno fame, limitando così l’iperattività all’ora di
pranzo. Rivalutare il paziente è importante per riadattare
l’apporto energetico se la perdita di peso è inferiore all’1%
o superiore al 2% alla settimana.
I metodi per il controllo e la riduzione del peso sono principalmente basati sulla dieta e l’esercizio fisico, supportate
da regolari visite del veterinario per valutare i progressi del
paziente e ribadire l’importanza del controllo del peso. La
riduzione del peso è un processo graduale e possono essere
necessari alcuni mesi di trattamento prima di raggiungere il
peso corporeo desiderato. Nei casi più difficili può essere
opportuno ricorrere a terapie farmacologiche mirate ad
aumentare il senso di sazietà del paziente, motivo frequente
di frustrazione da parte del proprietario.
208
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Sindrome di Cushing. Parte 1: Diagnosi.
Parte 2: Distinguere il Cushing ipofisario
da un tumore adrenocorticale
Edward C. Feldman
DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA
ANAMNESI
Fra queste anomalie rientrano l’ingrossamento addominale
(obesità del tronco), il respiro affannoso, l’alopecia simmetrica bilaterale, le infezioni della cute ed i comedoni. All’esame obiettivo vengono comunemente identificate iperpigmentazione, atrofia testicolare ed epatomegalia. Risultano molto
meno comuni la calcificazione ectopica (calcinosis cutis), l’ipertrofia del clitoride e la facile tendenza alla formazione di
lividi. Si rileva, tuttavia, una variazione notevole nel numero
e nella gravità delle anomalie riscontrate. Questi cani possono avere da uno a fino a 10 segni clinici dominanti.
I cani esposti per periodi di tempo prolungati ad un eccesso di cortisolo di solito sviluppano una combinazione classica di segni clinici, alcuni dei quali possono essere impressionanti. Questi riscontri comuni comprendono polidipsia,
poliuria, polifagia, ingrossamento addominale, alopecia,
piodermite, polipnea, debolezza muscolare, assottigliamento
della cute e letargia. Tuttavia, occorre ricordare che non tutti i cani con iperadrenocorticismo sviluppano gli stessi segni
clinici. La maggior parte dei cani presenta parecchi (ma non
tutti) i problemi riportati in questa lunga lista di riscontri
potenziali (più altri). L’iperadrenocorticismo è un disordine
clinico, e gli animali colpiti da questa malattia devono presentare almeno alcune di queste manifestazioni, perché in
caso contrario la diagnosi va messa in discussione. I segni
clinici derivano dagli effetti combinati di gluconeogenesi,
lipolisi, catabolismo proteico ed azioni antinfiammatorie ed
immunosoppressive dei glucocorticoidi.
Il decorso della malattia è tipicamente insidioso e lentamente progressivo. I proprietari di solito riferiscono di aver
osservato nei loro animali alcune delle alterazioni tipiche
dell’iperadrenocorticismo per periodi che vanno da sei mesi
fino a 6 anni, prima di richiedere l’intervento del veterinario
per il loro animale, poiché queste alterazioni insorgono del
tutto gradualmente e spesso sono ritenute la conseguenza di
un semplice “invecchiamento”. In genere, l’opinione del
veterinario viene richiesta soltanto dopo che i segni clinici
sono diventati intollerabili per il cliente o che le anomalie
sono state evidenziate da persone che vedono l’animale saltuariamente (e quindi notano obiettivamente delle alterazioni evidenti che si sono sviluppate così lentamente che i proprietari non le hanno colte). Le ragioni più comuni che spingono i proprietari a rivolgersi ad un veterinario di solito sono
polidipsia/poliuria, polifagia, letargia, polipnea, e/o alterazioni del pelo. Occorre sottolineare che la sindrome di Cushing non comporta vomito, diarrea, anoressia, perdita di
peso o altri segni clinici che spingerebbero molti proprietari
a richiedere rapidamente le cure del veterinario.
SENSIBILITÀ E SPECIFICITÀ
(QUAL È IL TEST MIGLIORE?)
La sensibilità di un particolare test fa riferimento al numero dei pazienti in cui i risultati dei test risultano anomali sul
totale di quelli affetti da una determinata condizione. La specificità di un particolare test fa riferimento al numero di
pazienti in cui i test risultano positivi per una data condizione, benché non ne siano affetti. La medicina sarebbe molto
più facile se i nostri test fossero sensibili e specifici al 100%.
Poiché la situazione non è mai questa, la domanda che ci si
pone più comunemente sull’iperadrenocorticismo ad insorgenza spontanea è: “qual è il test migliore?” Non v’è dubbio
che i test più specifici e sensibili per questa condizione siano anamnesi ed esame fisico. Quindi, tutte le interpretazioni
dei risultati degli esami eseguiti devono essere effettuate nel
contesto di questi due parametri.
DATA BASE DI “ROUTINE”
Qualsiasi cane in cui i dati anamnestici e clinici fanno
sospettare un iperadrenocorticismo deve essere sottoposto ad
una valutazione approfondita prima di passare ad un test
endocrino specifico. Questi accertamenti preliminari comprendono gli esami di laboratorio (esame emocromocitometrico completo, analisi delle urine e profilo biochimico). Oltre
agli esami su campioni di sangue ed urina, si deve effettuare
l’ecografia addominale (preferibile alla radiografia). Riscontrare nei test di screening iniziali un’ampia percentuale di
anomalie compatibili con l’iperadrenocorticismo permette al
veterinario di confermare ulteriormente una diagnosi che inizialmente si basava su anamnesi ed esame clinico. Le tipiche
alterazioni sono rappresentate da drastico aumento dell’attività della fosfatasi alcalina sierica, aumenti da lievi a mode-
ESAME CLINICO
L’esame clinico di un tipico cane “Cushing” rivela un animale stabile, idratato, con mucose di colore buono e non è in
condizione di stress. I veterinari potranno osservare di solito,
nel corso della visita, molti segni riscontrati dai proprietari.
209
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
rati dell’ALT e del colesterolo sierici, azotemia ai limiti inferiori della norma o al di sotto di essi, peso specifico urinario
< 1.020 su un campione prelevato a casa dal proprietario e
batteriuria. Se si ritiene ancora che il cane sia affetto da questa condizione si possono proporre al cliente gli studi più
costosi e sofisticati necessari per “confermare” la diagnosi e
localizzare la causa della sindrome di Cushing. Attraverso i
dati di base iniziali il veterinario può non soltanto procedere
verso la diagnosi corretta, ma anche essere informato di qualsiasi altro problema medico concomitante. Nell’iperadrenocorticismo, questi problemi possono essere comuni (infezione del tratto urinario) o inattesi (insufficienza renale), ma in
ogni caso possono richiedere una terapia specifica.
lo prima e 4-8 ore dopo la somministrazione IV di 0,01
mg/kg di desametazone. La determinazione del cortisolo
plasmatico dopo 8 ore viene utilizzato come test di screening
per l’iperadrenocorticismo, ritenendo che le concentrazioni
> 1,4 µg/dl siano compatibili con la diagnosi di sindrome di
Cushing (ma non la confermino). Questo test è relativamente sensibile e specifico, ma non perfetto. Approssimativamente il 90% dei cani con sindrome di Cushing mostra delle concentrazioni di cortisolo plasmatico > 1,4 µg/dl 8 ore
dopo la somministrazione di desametazone e un altro 6-8%
presenta valori di 0,9-1,3 µg/dl. I risultati dei test con basse
dosi possono anche servire a differenziare il PDH dall’ACT,
utilizzando tre criteri: 1) un cortisolo plasmatico dopo 8 ore
> 1,4 µg/dl, ma < 50% rispetto al valore basale, 2) una concentrazione di cortisolo plasmatico a 4 ore < 1,0 µg/dl e 3)
una concentrazione di cortisolo plasmatico a 4 ore < del 50%
rispetto al valore basale. Se un cane ha la sindrome di Cushing e soddisfa uno qualsiasi di questi tre criteri, con tutta
probabilità è affetto da PDH. Il 65% circa dei cani con PDH
ad insorgenza spontanea dimostra una soppressione, definita secondo questi tre criteri. Un cane con malattia di Cushing
che non soddisfi nessuno di questi tre criteri potrebbe essere
affetto sia da un PDH che da un ACT. Tuttavia, se all’ecografia addominale le due surreni presentano dimensioni relativamente simili, è più probabile che si tratti di un PDH.
TEST DI SCREENING
Principi di base
Dopo aver formulato un sospetto diagnostico di iperadrenocorticismo nel cane sulla base delle osservazioni del proprietario, dell’esame clinico e dei risultati degli esami di
laboratorio di base, di solito si può cercare di ottenere la
“conferma” della diagnosi. Quando necessario, e se possibile, si può anche effettuare un tentativo per determinare se
l’animale presenta un iperadrenocorticismo ipofisi-dipendente (PDH) o un tumore adrenocorticale (ACT). Scegliere
un test di screening per la sindrome di Cushing è importante perché il risultato di questo esame può determinare se un
cane vada trattato o meno. I test di screening impiegati routinariamente comprendono la stimolazione con ACTH, quella con basse dosi di desametazone e la determinazione del
rapporto cortisolo:creatinina nelle urine. La decisione di
trattare un cane con sindrome di Cushing non va mai basata
soltanto sulle informazioni di laboratorio. Si tratta infatti di
un disordine clinico che deve avere dei segni clinici. Se un
cane non presenta manifestazioni riferibili alla sindrome di
Cushing, il trattamento non è necessario. Questo concetto
acquisisce importanza quando si è capito che nessun test di
screening è corretto in qualsiasi occasione, cioè, come detto
in precedenza, che la sensibilità e la specificità non sono mai
pari al 100%. Alcuni cani con malattia non surrenalica e
molti con poliuria e polidipsia causata da una condizione
diversa dalla sindrome di Cushing possono avere risultati dei
test di screening falsi positivi per iperadrenocorticismo. Poiché risultati falsi positivi sono stati osservati con ognuno dei
test di screening comunemente utilizzati, la diagnosi definitiva di sindrome di Cushing non deve mai essere totalmente
basata sull’esito di questi esami, in particolare nei cani con
segni clinici classici o in quelli con malattia conclamata di
tipo non surrenalico. Nell’esperienza dell’autore, i test più
sensibili, specifici ed affidabili per l’iperadrenocorticismo
del cane sono l’anamnesi e l’esame clinico. Lo studio ospedaliero più sensibile, specifico ed affidabile è il test di stimolazione con basse dosi di desametazone.
Stimolazione con ACTH
(NON PIÙ RACCOMANDATA)
Il test di stimolazione con ACTH è stato popolare per
decenni in medicina veterinaria. È semplice da effettuare e
richiede poco tempo. Inoltre, è importante notare che si tratta del solo studio che dimostri in modo affidabile l’effetto
del o-p’-DDD (mitotano) sulla corteccia surrenale. Quindi,
alcuni veterinari desiderano avere i risultati del test di stimolazione con ACTH prima di iniziare una terapia con o,p’DDD, perché si servono di questi valori per avere informazioni sui “livelli basali” al fine di monitorare obiettivamente
gli effetti del mitotano.
Indipendentemente dal protocollo scelto, ci si deve rendere conto che il 20-30% dei cani con sindrome di Cushing
presenta risultati entro l’intervallo di riferimento (nel laboratorio dell’autore, le concentrazioni di cortisolo plasmatico
post-ACTH sono di 6-17 µg/dl). In un ulteriore 20-30% dei
cani affetti da morbo di Cushing i valori riscontrati sono
descritti come “borderline” (concentrazioni di cortisolo plasmatico > 17 ma < 22 µg/dl). Quindi, il test non è considerato sensibile, ma è relativamente specifico, ovvero i cani
con concentrazioni di cortisolo plasmatico > 22 µg/dl spesso
sono affetti da una sindrome di Cushing. Tuttavia, anche la
specificità di una risposta esagerata all’ACTH non è perfetta. Quindi, i risultati del test non devono mai essere interpretati senza conoscere i dati relativi ad anamnesi, esame clinico ed indagini di laboratorio di routine. Non esistono
caratteristiche dei risultati del test di stimolazione con
ACTH che consentano di distinguere fra PDH ed ACT. Dato
che l’ACTH è diventato sempre più costoso, questo test sta
perdendo di popolarità. L’ACTH in gel è efficace e l’ormone sintetico può essere somministrato alla dose di 0,05
mg/kg (IV o IM) invece di impiegarne 0,25 mg (una fiala)
per cane. La quota in eccesso dell’ACTH di sintesi (Cor-
Test di stimolazione con basse dosi
di desametazone (LDDS, low dose
dexamethasone test)
Il protocollo utilizzato per questo test prevede di ottenere
campioni di plasma per la misurazione dei livelli di cortiso210
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
essere la somministrazione di 0,1 anziché 0,01 mg/kg di
desametazone. Se si è convinti che un cane sia affetto da
iperadrenocorticismo ad insorgenza spontanea, ma il test
con basse dosi di desametazone porta costantemente ad
risultato non diagnostico, si può considerare l’impiego di
una stimolazione con ACTH e la valutazione del 17OHP.
Tuttavia, questa è una situazione estremamente inusuale.
trosyn) può essere congelata, mantenendo inalterata la propria potenza per circa 6 mesi. Nell’opinione dell’autore, per
la sua la mancanza di sensibilità il test di stimolazione con
ACTH dovrebbe essere abbandonato dalla professione. Questo esame potrebbe essere indicato per il monitoraggio della
terapia dell’iperadrenocorticismo ad insorgenza spontanea,
per aiutare a diagnosticare la sindrome di Cushing iatrogena
e come “standard aureo” per la diagnosi di ipoadrenocorticismo ad insorgenza spontanea.
TEST DI DISCRIMINAZIONE
Rapporto cortisolo:creatinina nell’urina
(UC:CR)
Test con basse dosi di desametazone
La determinazione del rapporto UC:CR nell’urina si effettua facilmente (occorre semplicemente che il proprietario
raccolga l’urina e la consegni all’ospedale perché la invii al
laboratorio) e, quindi, di solito è meno costosa degli altri test
di screening. La maggior parte dei cani (circa il 97%) con
sindrome di Cushing ad insorgenza spontanea presenta risultati anomali (il test è sensibile), ma lo stesso avviene anche
in una percentuale significativa dei cani con poliuria/polidipsia causata da altre condizioni e di quelli malati per cause non endocrine (il test non è specifico). È stato ipotizzato
che il rapporto UC:CR venga effettuato di routine soltanto
sull’urina raccolta da un proprietario a casa piuttosto che su
quella prelevata in ospedale. Poiché questo protocollo elimina gli stress dovuti al viaggio ed all’ospedalizzazione che
alterano i risultati del test, sembra ragionevole seguire questa ipotesi. L’autore non utilizza questo esame con lo stesso
grado di confidenza con cui impiega quello di screening con
basse dosi di desametazone. Tuttavia, un risultato normale è
davvero raro in un cane con sindrome di Cushing, mentre un
risultato anomalo potrebbe servire a suggerire ulteriori test.
Quindi, il test può essere utilizzato come un’indicazione per
consigliare al proprietario un’ecografia addominale e un esame con basse dosi di desametazone.
Si rimanda alla trattazione precedente.
ACTH endogeno
Si tratta di un esame relativamente difficile da effettuare, perché il plasma deve essere maneggiato con cura, il
test non è disponibile di routine ed è costoso. Dopo aver
utilizzato questo esame per più di 30 anni, abbiamo riscontrato che è altamente specifico e sensibile (valori normali:
10-100 pg/ml; PDH: 45-450 pg/ml; ACT: livelli non rilevabili). Tuttavia, esistono molte sovrapposizioni fra i risultati. Più specificamente, alcuni cani con PDH ed alcuni con
ACT hanno valori che variano fra 10 e 45 pg/ml. La nostra
esperienza con il test LDDS e con l’ecografia addominale
ha limitato la necessità di ricercare le concentrazioni di
ACTH endogeno. Questo test è utilizzato nella maggior
parte dei casi quando altri saggi discriminanti forniscono
informazioni conflittuali.
Soppressione con alte dosi
di desametazone (HDDS, high dose
dexamethasone suppression)
Il test HDDS è relativamente facile da effettuare (il plasma viene ottenuto prima e 4 o 8 ore dopo la somministrazione IV di 0,1 mg/kg di desametazone) facilmente disponibile ed economico. Se un cane è affetto dalla sindrome di
Cushing ed il cortisolo plasmatico, 8 ore dopo la somministrazione del desametazone, è < 50% del valore basale, l’animale è affetto da PDH. Tuttavia, la nostra esperienza con
il test LDDS e con l’ecografia addominale ha limitato la
necessità di impiegare l’HDDS. Approssimativamente il
75% dei cani con PDH dimostra una soppressione con il
HDDS. Dato che il 65% circa dei cani con PDH dimostra
una “soppressione” compatibile con il PDH al test LDDS, il
valore di questo esame è limitato alla sola identificazione di
un ulteriore 10% di cani colpiti.
Test con 17-Idrossiprogesterone (17OHP)
L’impiego del 17OHP è stato raccomandato come test di
screening per i cani con “sindrome di Cushing atipica”. La
definizione di “atipica” è riferita ad un animale in cui i segni
clinici ed i risultati dei test di laboratorio di routine sono
compatibili con l’iperadrenocorticismo, ma i test di screening con basse dosi di desametazone, le prove di stimolazione con ACTH e le determinazioni del rapporto
cortisolo:creatinina urinario sono tutti normali. Nell’uomo,
nel cane e nel gatto sono stati segnalati casi di tumori adrenocorticali in cui l’ormone secreto principalmente era il
17OHP. È noto da tempo che queste neoplasie sintetizzano e
secernono una miriade di steroidi e non sorprende sapere che
alcuni producono principalmente steroidi diversi dal cortisolo. In questi cani e gatti, secondo la nostra esperienza, i test
di screening non fanno riscontrare risultati “normali”, ma si
possono trovare valori relativamente bassi di cortisolo. È
estremamente raro che un cane o un gatto con PDH produca
soltanto 17OHP. Inoltre, la raccomandazione relativa all’uso
di questo ormone prevede di effettuarne la determinazione
dopo la stimolazione con ACTH. La nostra raccomandazione è di ripetere il test con basse dosi di desametazone se i
risultati sono < 0,9 µg/dl al prelievo dopo 8 ore, poiché la
spiegazione più comune per un esito di questo tipo potrebbe
Ecografia addominale
Nei cani con sospetto iperadrenocorticismo, l’ecografia
addominale svolge tre funzioni principali. In primo luogo, fa
parte del “data base di routine” utilizzato per valutare l’addome per qualsiasi anomalia inattesa (calcoli urinari, masse,
ecc…). In secondo luogo, lo studio viene impiegato per
determinare la dimensione e la forma delle surreni. Se queste sembrano avere bilateralmente dimensioni normali o
aumentate nei cani o nei gatti in cui per il resto si diagnosticherebbe la sindrome di Cushing, questo viene considerato
come una valida prova di iperplasia surrenalica causata da
una malattia ipofisi-dipendente (PDH, pituitary dependent
211
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
disease). Se viene riscontrata una singola surrene ingrossata, irregolare e/o invasiva e quella controlaterale è piccola o
non rilevabile, si deve sospettare un tumore della ghiandola.
In alcuni cani con ACT una surrene sembra essere una “massa”, mentre in altri può apparire normale o ingrossata. Si
deve considerare la possibilità di un PDH con surreni irregolari o quella di un PDH in un cane colpito anche da un feocromocitoma. In terzo luogo, se si identifica un tumore surrenalico, l’ecografia è un eccellente test di screening per
identificare metastasi al fegato o ad altri organi, compressione dei tessuti adiacenti al tumore, o invasione neoplastica
nella vena cava o in altre strutture vascolari. Si deve sottolineare che l’interpretazione dell’ecografia addominale è
totalmente dipendente dall’operatore. I radiologi della nostra
scuola effettuano di routine la visualizzazione di entrambe le
surreni dei cani e dei gatti sani. I soli fattori che limitano la
capacità di visualizzare con successo le surreni sono: 1) la
disponibilità dell’animale a rimanere fermo e 2) la presenza
di aria nel tratto intestinale. Nessuno di questi due problemi
è comune e di solito vengono visualizzate entrambe le surreni. Anche nei cani e nei gatti con PDH sono evidenziate
routinariamente tutte e due le ghiandole. Le surreni nel PDH
di solito presentano dimensioni relativamente uguali. Nel
50% circa dei cani con PDH le surreni sembrano avere
dimensioni “normali”, mentre nel restante 50% circa appaiono ingrossate. La dimensione della surrene viene determinata meglio impiegando la larghezza di quella di sinistra (7,5
mm rappresentano il limite superiore della norma).
Indirizzo per la corrispondenza
Professor Edward C Feldman
School of Veterinary Medicine
Tupper Hall, University of California, Davis, CA 95616
212
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Diagnosis of hyperadrenocorticism
(cushing’s syndrome) in dogs... which tests are best?
Edward C. Feldman
DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA
HISTORY
calcification (calcinosis cutis), clitoral hypertrophy, and easy
bruisability are much less common. There is, however,
remarkable variation in the number and severity of abnormalities noted. These dogs may have a single dominant sign
or 10 signs.
Dogs chronically exposed to excess cortisol usually develop a classic combination of clinical signs, some of which
may be dramatic. These common signs include polydipsia,
polyuria, polyphagia, abdominal enlargement, alopecia,
pyoderma, panting, muscle weakness, thin skin, and lethargy. It must be remembered, however, that not all dogs with
hyperadrenocorticism develop the same signs. From this
long list of potential signs (plus others), most dogs exhibit
several (but not all) of these problems. Hyperadrenocorticism is a clinical disorder, and animals afflicted with this
disease must have at least some clinical signs or the diagnosis must be questioned. Clinical signs result from the combined gluconeogenic, lipolytic, protein catabolic, antiinflammatory, and immunosuppressive effects of glucocorticoids.
Typically, the course of the disease is insidious and
slowly progressive. Owners usually report observing some
alterations typical of hyperadrenocorticism in their pet for
6 months to as long as 6 years before they seek veterinary
attention for their animal, since these changes are quite
gradual in onset and are often believed to be a result of
simple “aging.” Commonly, only after signs become intolerable to the client or after abnormalities are pointed out by
people who see a pet infrequently (therefore objectively
noting obvious changes that have developed so slowly the
owners do not observe them) that professional opinion is
sought. The most common reasons that owners give for
finally
seeking
veterinary
help
are
usually
polydipsia/polyuria, polyphagia, lethargy, panting, and/or
hair coat changes. It should be pointed out that dogs with
Cushing’s syndrome do not have vomiting, diarrhea,
anorexia, weight loss, or other signs that would cause many
owners to quickly seek veterinary care.
SENSITIVITY AND SPECIFICITY
(WHICH TEST IS BEST?)
Sensitivity of a particular test refers to the number of
patients with a condition whose test results are abnormal.
Specificity of a particular test refers to the number of
patients that do not have a condition but their test results are
positive for that condition. Medicine would be much easier
if our tests were 100% sensitive and 100% specific. Since
this is never the situation, the most commonly asked question regarding naturally occurring hyperadrenocorticism is:
“which test is best?” There is no doubt that the most specific and sensitive tests for this condition are history and physical examination. Therefore, all test interpretations must be
done in the context of these two parameters.
“ROUTINE” DATA BASE
Any dog suspected of having hyperadrenocorticism from
the history and physical examination should be thoroughly
evaluated before specific endocrine testing is undertaken.
These initial tests should include clinicopathologic studies
(complete blood count [CBC]; urinalysis with culture; and a
serum chemistry profile). In addition to blood and urine testing, abdominal ultrasonography (preferred over radiography) should be completed. Finding a large percentage of
abnormalities on initial screening tests that are consistent
with hyperadrenocorticism further allows the veterinarian to
establish a diagnosis that was initially based on history and
physical examination. Typical abnormalities include dramatic increases in serum alkaline phosphatase activity, mild-tomoderate increases in ALT and serum cholesterol, low-normal or low BUN, urine specific gravity <1.020 on a sample
caught by the owner at home, and bacteriuria. The more
expensive and sophisticated studies needed to “confirm” a
diagnosis and localize the cause of Cushing’s syndrome can
be recommended to the client if the dog is still believed to
have this condition. Initial data base results not only ensure
that the veterinarian is pursing the correct diagnosis but also
PHYSICAL EXAMINATION
The physical examination on a typical “Cushing’s” dog
reveals an animal that is stable, hydrated, has good mucous
membrane color and is not in distress. Veterinarians will
usually observe, during the physical examination, many of
the signs seen by owners. Among these abnormalities are
abdominal enlargement (truncal obesity), panting, bilaterally symmetrical alopecia, skin infections, and comedones.
Hyperpigmentation, testicular atrophy, and hepatomegaly
are commonly identified on physical examination. Ectopic
213
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
might alert the clinician to any concomitant medical problems. These problems may be common for hyperadrenocorticism (urinary tract infection) or unexpected (renal failure),
but in any case may require specific therapy.
by these 3 criteria. A dog with Cushing’s that fails to meet
any of these 3 criteria could have either PDH or ACT. However, if it has 2 relatively equal sized adrenals on abdominal
ultrasonography, it most likely has PDH.
“SCREENING” TESTS
ACTH Stimulation
(NO LONGER RECOMMENDED)
The ACTH stimulation test has been popular for decades
in veterinary medicine. It is simple to complete and takes
little time. The other significant feature regarding results of
an ACTH stimulation test is that this is the only study
which reliably demonstrates the effect of o,p’ DDD on the
adrenal cortex. Thus, some veterinarians want results of an
ACTH stimulation test, prior to initiating o,p’ DDD therapy, because the results are used as “baseline” information
to objectively monitor effects of o,p’ DDD. Regardless of
the protocol chosen, it must be appreciated that 20-30% of
dogs with Cushing’s syndrome have test results within the
reference range (in our laboratory: post ACTH plasma cortisol concentrations of 6 to 17 µg/dl). An additional 20 30% of dogs with Cushing’s have test results described as
“borderline” (plasma cortisol concentrations >17 but <22
µg/dl). Therefore, the test is not considered sensitive but is
relatively specific, i.e., those dogs with plasma cortisol
concentrations >22 µg/dl frequently have Cushing’s. However, specificity of an exaggerated response to ACTH is
also not perfect. Therefore, test results should never be
interpreted without knowing results of history, physical
examination, and routine data base testing. There are no
features of ACTH stimulation test result that allow discrimination between PDH and ACT. As ACTH has become
more and more expensive, this test is losing popularity.
ACTH gel is effective and synthetic ACTH can be given at
0.05 mg/kg (IV or IM) instead of using .25 mg (one vial)
per dog. Excess cortrosyn can be frozen while maintaining
potency for about 6 months. In our opinion, the lack of sensitivity of the ACTH stimulation test makes it a test that the
profession should abandon. The situations in which ACTH
stimulation testing would be indicated include monitoring
therapy for naturally occurring hyperadrenocorticism, to
aid in the diagnosis of iatrogenic Cushing’s syndrome, and
as the “gold standard for the diagnosis of naturally occurring hypoadrenocorticism.
Background
After establishing a presumptive diagnosis of canine
hyperadrenocorticism from a review of owner observations,
physical examination, and laboratory data base, one usually
proceeds to attempt “confirmation” of the diagnosis. When
necessary, and if possible, an attempt can also be made to
determine whether the pet has pituitary dependent hyperadrenocorticism (PDH) or an adrenocortical tumor (ACT).
Choosing a screening test for Cushing’s syndrome is important because that test result may determine whether or not a
dog is treated. Routinely used screening tests include ACTH
stimulation, low dose dexamethasone, and the urine cortisol:
creatinine ratio. The decision to treat a dog for Cushing’s
syndrome should never be based solely on laboratory information. Cushing’s syndrome is a clinical disorder with clinical signs. If a dog has no clinical signs of Cushing’s syndrome, treatment is not recommended. This concept gains
importance when it is understood that no screening test is
correct all of the time, i.e., as previously stated, sensitivity
and specificity is never 100%. Some dogs with non-adrenal
disease and many with polyuria and polydipsia due to a condition other than Cushing’s syndrome can have false positive
screening test results for hyperadrenocorticism. Because
false positive test results have been observed with any commonly used screening test, the definitive diagnosis of Cushing’s syndrome should never be solely on screening test
results, especially in dogs without classical clinical signs or
in those with known non-adrenal disease. In our experience,
the most sensitive, specific, and reliable screening tests for
hyperadrenocorticism in dogs are history and physical
examination. The most sensitive, specific, and reliable hospital study is the low dose dexamethasone test.
Low Dose Dexamethasone Test (LDDS)
The protocol utilized for this test is obtaining plasma samples for cortisol before and 4 and 8 hours after I.V. administration of 0.01 mg/kg dexamethasone. The 8-hour plasma
cortisol is used as a screening test for hyperadrenocorticism,
with concentrations >1.4 µg/d1 being consistent with (not
confirming) the diagnosis of Cushing’s syndrome. This test
is relatively sensitive and specific, but not perfect. Approximately 90% of dogs with Cushing’s syndrome have an 8
hour post-dexamethasone plasma cortisol concentration
>1.4 µg/dl and another 6 to 8% have values of 0.9 – 1.3
µg/dl. The results of a low dose test can also aid in discriminating PDH from ACT, using 3 criteria: 1) an 8 hour plasma cortisol >1.4 µg/dl but <50% of the basal value; 2) a 4
hour plasma cortisol concentration <1.0 µg/dl; and 3) a 4
hour plasma cortisol concentration <50% of the basal value.
If a dog has Cushing’s and it meets any of these 3 criteria, it
most likely has PDH. Approximately 65% of dogs with naturally occurring PDH demonstrate suppression, as defined
Urine Cortisol: Creatinine Ratio (UC:CR)
The urine UC:CR ratio is easily performed (simply have
the owner collect and deliver urine to the hospital and submit it to the laboratory) and, therefore, it is usually less
expensive than other screening tests. Most dogs (~97%) with
naturally occurring Cushing’s syndrome have an abnormal
result (the test is sensitive) but a significant percentage of
dogs with polyuria / polydipsia due to other conditions and
those with non-endocrine illness also have abnormal results
(the test is not specific). It has be suggested that the UC:CR
be routinely performed only on urine collected by an owner
at home, rather than having it collected in-hospital. Since
this protocol eliminates travel or hospital stress from altering
test results, it seems reasonable to follow this concept. We do
not utilize this test with the same degree of confidence with
which we use the low dose dexamethasone screening test.
214
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
monly utilized when other discrimination test results provide conflicting information.
However, a normal result is quite uncommon in a dog with
Cushing’s syndrome while an abnormal result could be used
to prompt further testing. Therefore, this test can be used as
a prompt to recommend abdominal ultrasonography and a
low dose dexamethasone test to an owner.
High Dose Dexamethasone Suppression
(HDDS)
The HDDS test is relatively easy to perform (plasma
obtained before and 4 or 8 hours after I.V. administration of
0.1 mg/kg dexamethasone), readily available and inexpensive. If a dog has Cushing’s syndrome and the plasma cortisol, 8 hours post dex, is <50% of the basal value, the dog has
PDH. However, our experience with the LDDS and abdominal ultrasonography has limited the need and use of HDDS.
Approximately 75% of dogs with PDH demonstrate suppression with the HDDS.
Realizing that approximately 65% of PDH dogs demonstrate “suppression” consistent with PDH on the LDDS limits the value of this test by only identifying an additional
10% of afflicted dogs.
17-HydroxyProgesterone (17OHP) Testing
The use of 17OHP has been recommended as a screening
test for dogs with “atypical Cushing’s syndrome”. The definition of “atypical” is a dog with clinical signs and routine
laboratory testing consistent with hyperadrenocorticism but
with normal low dose dexamethasone screening test results,
normal ACTH stimulation test results, and normal urine cortisol: creatinine ratio test results. Human beings, dogs and
cats with adrenocortical tumors have been reported in which
the primary hormone secreted by such tumors has been
17OHP. Adrenocortical tumors have long been known to
synthesize and secrete a myriad of steroids and it is not surprising to learn that some primarily produce steroids other
than cortisol. Such dogs and cats, in our experience, do not
have “normal” screening tests results, but their results may
be relatively low in cortisol.
It is extremely rare for a dog or cat with PDH to produce
only 17OHP. Further, the recommendation regarding use of
this hormone involves assaying 17OHP after ACTH stimulation. Our recommendation would be repeating a low dose
dexamethasone test if results are <0.9 µg/dl at the 8-hour
sample, since the most common explanation for such a
result would be administration of 0.1 instead of 0.01 mg/kg
of dexamethasone.
If one is convinced that a dog has naturally occurring
hyperadrenocorticism, and if that dog persistently has a nondiagnostic low dose dexamethasone test result, use of ACTH
stimulation and assessment of 17OHP can be considered.
This is an extremely unusual situation, however.
Abdominal Ultrasonography
In dogs suspected as having hyperadrenocorticism,
abdominal ultrasonography serves three major functions.
First, it is part of the “routine data base” utilized to evaluate
the abdomen for any unexpected abnormalities (urinary calculi, masses, etc.). Second, the study is used to evaluate the
size and shape of the adrenals. If the adrenal glands appear
to be bilaterally normal sized or large in a dog or cat otherwise diagnosed as having Cushing’s, this is considered
strong evidence of adrenal hyperplasia due to pituitary
dependent disease (PDH). If one, large, irregular and/or
invasive adrenal is visualized and the opposite is small or not
seen, adrenal tumor must be suspected. Some dogs with
ACT have one adrenal that appears to be a “mass” and the
other may be normal or enlarged. One must consider the
possibility of PDH with irregular adrenals or PDH in a dog
that also has a pheochromocytoma. Third, if an adrenal
tumor is identified, ultrasound is an excellent screening test
to identify hepatic or other organ metastasis, compression of
adjacent tissues by a tumor, or tumor invasion into the vena
cava or other vascular structures. It must be emphasized that
interpretation of abdominal ultrasonography is completely
operator dependent. Radiologists at our school routinely
visualize both adrenals in healthy dogs and cats. The only
limitations to successfully visualizing the adrenals are: 1)
the pet’s willingness to remain still and 2) air in the intestinal tract. Neither of these problems is common and both
adrenals are usually visualized. In dogs and cats with PDH,
both adrenals are also routinely visualized. The adrenals in
PDH are usually described as relatively equal in size.
Approximately 50% of dogs with PDH have adrenals that
appear to be “normal” in size and about 50% have adrenal
glands that appear to be enlarged. Adrenal size is best determined using the width of the left adrenal (7.5 mm represents
the upper limit of normal).
DISCRIMINATION TESTS
Low Dose Dexamethasone Test
Please see previous discussion
Endogenous ACTH
This test is relatively difficult to perform because the
plasma must be handled with care, the test is not routinely
available, and it is expensive. Having used this test for
more than 30 years, we have found it to be highly specific
and sensitive (normals: 10 to 100 pg/ml; PDH: 45 to 450
pg/ml; ACT: results are undetectable). There is some overlap in results, however. Most specifically, some dogs with
PDH and some with ACT have results that range from 10 –
45 pg/ml. Our experience with the LDDS and abdominal
ultrasonography has limited the need for assaying the
endogenous ACTH concentration. This test is most com-
215
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Sindrome di Cushing parte 3: terapia, chirurgia,
trilostano, mitotano o radioterapia?
Edward C. Feldman
DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA
RIMOZIONE CHIRURGICA DEI TUMORI
IPOFISARI
acqua nei cani polidipsici si può ridurre in appena 2 giorni o
richiedere anche fino a 35 giorni (media 5-14 giorni).
Il lysodren è molto efficace nell’eliminare i segni clinici
della sindrome di Cushing. Deve essere abbinato ad una stretta comunicazione fra proprietario e veterinario. Il veterinario
o il tecnico devono sentire il proprietario quotidianamente a
partire dal secondo giorno di terapia. Il proprietario deve
essere impressionato dal livello di preoccupazione del veterinario e tenere sotto stretta osservazione l’animale. Noi avvertiamo i nostri clienti di alimentare i loro cani con due piccoli
pasti al giorno. L’appetito dell’animale deve essere valutato
prima di ogni somministrazione di o,p’-DDD. Se il cibo viene consumato rapidamente, si potrà dare il farmaco. Se viene
consumato lentamente, in modo incompleto, o per nulla, il
farmaco non dovrà essere somministrato fino a che il veterinario non sia stato informato della cosa e sia stata effettuato
un test di risposta all’ACTH. Oltre a telefonare ogni giorno,
il veterinario deve visitare il cane 8-9 giorni dopo l’inizio della terapia. A questo punto, bisogna effettuare un’indagine
anamnestica approfondita, un esame clinico ed un test di
risposta all’ACTH. Nei cani che hanno risposto clinicamente
al farmaco (o nei casi in cui il proprietario non è sicuro sulla
risposta) ogni ulteriore terapia va sospesa fino a quando non
sia possibile valutare i risultati di un test di risposta
all’ACTH. La terapia con o,p’-DDD ha lo scopo di ottenere
la risoluzione dei segni clinici e far sì che gli esiti del test di
risposta all’ACTH siano indicativi di un ipoadrenocorticismo
relativo. Nel nostro laboratorio, il successo della risposta
all’o,p’-DDD è indicato da concentrazioni di cortisolo plasmatico pre- e post-ACTH > 1,5 mg/dl e < 5 mg/dl.
La rimozione chirurgica di un tumori ipofisario che causa
un iperadrenocorticismo (PDH) è la strategia di trattamento
standard nei pazienti umani colpiti da questa condizione.
Questo stesso metodo di trattamento è stato impiegato in
cani e gatti con PDH. La sola limitazione nel raccomandare
questa soluzione come terapia d’elezione è il ristretto numero di chirurghi veterinari preparati per eseguire in questa
procedura. È stato anticipato che questa forma di trattamento diventerà lo standard nel futuro, quando più chirurghi
veterinari avranno acquisito esperienza.
TERAPIA MEDICA MEDIANTE IMPIEGO
DI O-P’-DDD
Protocollo di induzione
La terapia con lysodren (o-p’-DDD) viene sempre iniziata a casa con la somministrazione di 25 mg/kg bid da parte
del proprietario. I glucocorticoidi non sono somministrati né
prescritti di routine. Piuttosto, i proprietari devono ricevere
informazioni accurate sulle azioni del o-p’-DDD. Quindi,
viene loro detto di iniziare a ridurre di un terzo la dose di
cibo del cane incominciando dal giorno che precede l’avvio
della somministrazione di o-p’-DDD. L’autore inizia sempre
la terapia di domenica. In altre parole, i proprietari dovranno offrire un terzo della dose normale dell’alimento del loro
cane ogni mattina e poi di nuovo ogni pomeriggio incominciando da sabato. Ciò dovrebbe rendere vorace il tipico cane
polifagico.
NOTA: NESSUN CANE CON UN APPETITO SCARSO DOVRÀ MAI RICEVERE QUESTO FARMACO!
La somministrazione di lysodren deve essere interrotta
quando (1) il consumo quotidiano di acqua del cane polidipsico si avvicina a 60 ml/kg, (2) il cane semplicemente impiega più tempo a consumare il pasto e,a maggior ragione, se
sviluppa un’inappetenza parziale o completa, (3) vomita, (4)
presenta diarrea o (5) mostra un’insolita irrequietezza. Uno
qualsiasi di questi segni costituisce per il proprietario un’indicazione per interrompere la terapia giornaliera con o,p’DDD e far sottoporre il cane ad una visita veterinaria. Il singolo indicatore più affidabile e costante sul quale basarsi per
interrompere la fase di induzione della terapia è l’appetito.
Qualsiasi diminuzione di quest’ultimo indica che la fase di
induzione della terapia è stata completata. L’assunzione di
Terapia di mantenimento
Una volta che sia stata ottenuta la risposta iposurrenalica
all’ACTH si può iniziare la fase di mantenimento della terapia con o,p’-DDD. Se il cane con iperadrenocorticismo ha
una risposta normale o esagerata all’ACTH, dopo i primi 89 giorni di terapia con o,p’-DDD, si deve continuare con le
somministrazioni quotidiane. Benché si tratti di un’evenienza molto insolita, si continua per altri 3-7 giorni. I test di
risposta all’ACTH devono essere ripetuti ogni 7-10 giorni
fino a che si ottiene una bassa concentrazione plasmatica di
cortisolo post-ACTH. È importante sottolineare che ogni
cane deve essere trattato come un caso singolo. Non sembra
esserci alcun metodo affidabile per prevedere la durata del
periodo di tempo richiesto per una risposta o la quantità di
o,p’-DDD da somministrare, per cui si può solo affermare
che la maggior parte dei cani risponde in 5-9 giorni. È inso216
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
lito per un cane richiedere più di 9 giorni consecutivi di o,p’DDD. Circa il 20% dei cani con PDH non è polidipsico.
Quindi, questi animali possono e devono essere trattati dai
loro proprietari a casa. L’assenza di polidipsia elimina semplicemente uno dei fattori che possono essere monitorati
durante le fasi iniziali della terapia. Quest’ultima si baserà su
anamnesi, esame clinico e confronto fra i risultati dei test di
risposta pre- e post-terapia con ACTH. Il più importante
indicatore per il monitoraggio in questi cani è lo stesso utilizzato per quelli polidipsici, il loro appetito. Una riduzione
di quest’ultimo in qualsiasi cane trattato con o,p’-DDD è
un’indicazione che la fase di induzione è completata o che è
imminente un sovradosaggio.
Il lysodren non agisce sull’ipofisi. Quindi, la secrezione
eccessiva di ACTH associato a PDH continua o diventa esagerata con la terapia. La mancata prosecuzione a lungo termine della somministrazione di o,p’-DDD comporterà la
ricrescita della corticale della surrene ed il ritorno dei segni
clinici. Questa recidiva compare tipicamente entro 1-12 mesi
dall’interruzione del farmaco. La terapia di mantenimento
richiede di scegliere un protocollo o,p’-DDD e modificarlo
in funzione delle richieste del cane. I soggetti che rispondono alla terapia giornaliera con questo farmaco entro 5-7 giorni sono classificati come “sensibili” ed iniziano ad essere
trattati secondo uno schema di mantenimento di 25
mg/kg/settimana di o,p’-DDD. Quelli che inizialmente
richiedono 7-10 giorni di terapia sono classificati come
“resistenti” e ricevono 50 mg/kg/settimana. Dopo 1-3 mesi
dall’inizio della terapia di mantenimento, e poi ogni 3-6
mesi, si effettua un test di risposta all’ACTH. Se la concentrazione di cortisolo plasmatico dopo la somministrazione di
questo ormone risulta normale o elevata, il dosaggio dell’o,p’-DDD o la frequenza della somministrazione vengono
aumentati. Se la concentrazione di cortisolo plasmatico postACTH è < 1 mg/dl (talvolta < 2 mg/dl) la dose va ridotta. Se
un cane trattato con o,p’-DDD diventa “malato” la somministrazione va interrotta.
nessun effetto collaterale notato durante i 3-7 mesi di terapia
(Hurley et al., 1998). In un secondo lavoro dello stesso gruppo, sei cani con sindrome di Cushing ad insorgenza spontanea ricevettero dosi variabili da 3 a 30 mg/kg/die somministrate per un periodo di tempo fino a 7 mesi. Di nuovo, tutti
i cani migliorarono inizialmente con la terapia, ma in questo
lavoro tre soggetti subirono una ricaduta, malgrado la somministrazione continua del farmaco (Ramsey e Hurley,
2000). In un terzo lavoro, venne dimostrato che le concentrazioni di cortisolo sierico a riposo erano diminuite per un
periodo pari a 13 ore e quelle del cortisolo plasmatico postACTH avevano presentato un’attenuazione per periodi fino
a 20 ore dopo la somministrazione di trilostano a 10 cani. Vi
furono alcune variazioni individuali nella risposta (Neiger ed
Hurley, 2001).
Diversi studi successivi valutarono in modo critico l’impiego della terapia con trilostano in cani con PDH (Ruckstuhl, 2002; Neiger et al., 2002). Nello studio completato in
Svizzera (Ruckstuhl et al., 2002), furono trattati 11 cani. La
dose iniziale era di 30 mg/die per gli animali di peso inferiore a 5 kg e di 60 mg/die per quelli di peso superiore. Queste dosi calcolate sulla base del peso corporeo erano di 3,99,2 mg/kg (mediana 6,25 mg/kg). Uno degli obiettivi della
terapia era quello di raggiungere una concentrazione di cortisolo sierico post-ACTH di 1,0-2,5 µg/dl. Le dosi del trilostano vennero adeguate secondo necessità per raggiungere
l’obiettivo. Nella maggior parte dei cani, la dose venne
modificata con un aumento di 20-30 mg/cane e, alla fine di
6 mesi, le dosi variavano fra circa 4 e 16 mg/kg/die (mediana di circa 6 mg/kg/die). Tutti i cani risposero bene al trattamento, con riduzioni di poliuria, polidipsia e polipnea, e
dimostrarono un miglioramento della forza muscolare. La
polifagia si ridusse in nove dei dieci cani, e in nove su undici si osservò un miglioramento della qualità del mantello.
Dopo 6 mesi di terapia, nove su undici furono considerati del
tutto guariti, e due mostrarono un miglioramento. Tutti i cani
presentarono un aumento di dimensione della ghiandola surrenale, valutato con l’ecografia addominale. Sette cani furono trattati per almeno un anno, tre dei sette per almeno due
anni. Gli effetti collaterali avversi furono considerati minori,
con la comparsa di letargia in un cane e vomito in un altro.
Questi problemi vennero affrontati interrompendo temporaneamente il trattamento e somministrando prednisone. La
conclusione raggiunta in questo studio fu che il trilostano era
un farmaco efficace e sicuro per il trattamento dei cani con
PDH.
In uno studio completato in Australia (Braddock, 2002),
31 cani con PDH vennero trattati con trilostano. Il peso corporeo di questi animali variava fra 4 e 42 kg. Come nello studio svizzero, questi cani risposero assolutamente bene alla
terapia con trilostano, e la durata media del trattamento fu di
circa un anno. Questo autore sottolineò anche il concetto che
per indurre e mantenere un’adeguata soppressione della corticale surrenalica fosse richiesto un ampio intervallo di
dosaggi (totali o per kg di peso corporeo). Alla data finale
del test, i cani stavano ricevendo 1,4-8,7 volte la dose iniziale di “controllo”. Si osservò frequentemente che gli animali
mostravano un’iniziale sensibilità al trilostano che risultava
di breve durata e poi si rendeva necessario aumentare la dose
fino al raggiungimento dell’appropriata “posologia a lungo
TERAPIA MEDICA CON KETOCONAZOLO
Oltre a svolgere la propria attività antimicotica, è stato
dimostrato che il ketoconazolo (Nizoral) interferisce con la
sintesi degli steroidi gonadici e surrenalici. L’autore ha valutato l’impiego di questo farmaco nei cani con sindrome di
Cushing ipofisi-dipendente ed anche in quelli con Cushing
secondario ad un tumore della corticale della surrene. La
risposta al trattamento con questo farmaco è stata discontinua e relativamente costosa. È una terapia impiegata raramente.
TERAPIA MEDICA CON TRILOSTANO
La prima segnalazione sull’impiego del trilostano per trattare l’iperadrenocorticismo ad insorgenza spontanea nei
cane fu un lavoro su quattro cani con PDH ed uno con ATH.
La dose impiegata in questi cinque animali variava da 2,6 a
4,8 mg/kg/die. Tutti i cani dimostrarono una buona risposta
clinica, con risoluzione delle manifestazioni della malattia e
217
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
potenziali complicazioni postoperatorie. Una volta confermata la diagnosi di iperadrenocorticismo causato da tumore
della surrene, occorre tentare di localizzare la neoplasia ed
escludere metastasi o invasione vascolare. I metodi per la
localizzazione tumorale sono rappresentati da radiografie
addominali, ecografie, TC e immagini con gamma camera.
L’ecografia si è dimostrata il nostro strumento più utile ed
economicamente conveniente per la localizzazione del
tumore e per individuare l’invasione vascolare o le metastasi. Se si sospetta una metastasi, si può effettuare una biopsia
guidata ecograficamente per confermare il dubbio. Inoltre, si
devono anche utilizzare le radiografie toraciche per rilevare
eventuali metastasi nel parenchima polmonare.
termine”. Il dosaggio tendeva a giungere alla fine ad un plateau in ogni cane, non ad aumentare continuamente. È
importante avere esperienza con il farmaco. In questo caso,
occorsero in media quasi 90 giorni per ottenere un controllo
soddisfacente del PDH nei primi 10 cani trattati, mentre ci
vollero in media solo 40 giorni per raggiungere un livello
simile di controllo negli ultimi 10 cani. La dose media
richiesta per controllare il PDH fu di 19,4 mg/kg somministrati una volta al giorno, con una mediana di 16,7 mg/kg ed
un intervallo di 5,3-50 mg/kg. La dose di avvio raccomandata era di 10 mg/kg, con aggiustamenti per eccesso e per
difetto (20-30 mg/cane) basati sui risultati di test periodici di
stimolazione con ACTH, effettuati 3-8 ore dopo la somministrazione di trilostano. Con tutta probabilità, le dosi necessarie per controllare il PDH sono comprese tra 16 e 19 mg/kg,
ed i cani di maggiori dimensioni richiedono una dose minore per kg rispetto a quelli più piccoli. Per monitorare la terapia possono e devono essere impiegati la risposta clinica, la
stimolazione con ACTH ed i risultati del rapporto cortisolo:creatinina nell’urina. Un problema identificato in questo
studio risultò essere il costo della terapia, che venne stimato
pari a due-quattro volte quello del trattamento con o,p’DDD. Fu inoltre sottolineato che il trilostano può essere utile anche nei cani con un tumore adrenocorticale che causa
iperadrenocorticismo.
Nel Regno Unito, il trilostano è ufficialmente registrato
per l’impiego nei cani sotto il nome commerciale di Vetoryl.
Il prodotto per l’uso nell’uomo è noto come Modrenal. Le
raccomandazioni attuali fornite da un gruppo di ricercatori
sono di somministrare inizialmente 30 mg/die ai cani di peso
< 5 kg, 60 mg/die a quelli di peso compreso fra 5 e 20 kg e
120 mg/die ai cani che pesano > 20 kg. Sono state suggerite
delle rivalutazioni dopo 1, 3, 6 e 13 settimane e poi dopo 6 e
12 mesi. Ogni ricontrollo deve comprendere anamnesi, esame clinico ed un test di stimolazione con ACTH. Quest’ultimo deve essere completato 2-6 ore dopo la somministrazione di trilostano. L’intervallo desiderato per le concentrazioni di cortisolo nel siero o nel plasma è compreso fra 1 e 2
µg/dl. Poiché alcuni cani sono rimasti stabili per periodi prolungati, con concentrazioni di cortisolo inferiori ad 1 µg/dl,
si assume che tali concentrazioni rappresentino il nadir giornaliero e che le concentrazioni medie giornaliere siano più
elevate o che i precursori si accumulino nel siero e mantengano una qualche attività biologica, anche se non vengono
misurati attraverso le determinazioni del cortisolo.
RADIOTERAPIA, MACROADENOMI
IPOFISARI
Si rimanda alla sezione su diagnosi e trattamento dei
tumori ipofisari in questi Atti.
TERAPIA MEDICA CON L-DEPRENYL
(ANIPRYL)
L’impiego di questo farmaco si basa sulla teoria che la
malattia di Cushing ipofisaria sia causata dalla carenza ipofisaria di dopamina. Questo farmaco è un agonista della
dopamina (aumenta la secrezione di dopamina). Questa non
è una teoria nuova. È stata studiata a fondo nell’uomo alla
fine degli anni ’60 ed all’inizio degli anni ’70 del secolo
scorso. L’idea di questo trattamento venne abbandonata perché meno del 20% dei pazienti umani risposero. In studi
obiettivi su cani con malattia di Cushing ad insorgenza spontanea, l’impiego dell’Anipryl non causò alcuna variazione
nei risultati dei test con basse dosi di desametazone, nessuna alterazione nei risultati dei test di stimolazione con
ACTH, nessuna variazione nei rapporti cortisolo:creatinina
urinari e nessun cambiamento nel volume e nella concentrazione dell’urina. Questi studi vennero condotti su un ampio
numero di cani trattati alle dosi raccomandate per più di un
anno. In studi simili ultimati presso la University of California, il farmaco non ha determinato alcun beneficio in più del
90% dei cani trattati. L’autore non ne raccomanda l’impiego.
Parole chiave
o,p’-DDD, Trilostano, Ketoconazolo, Anipryl.
CHIRURGIA: SURRENALECTOMIA
La surrenalectomia può essere unilaterale (per un tumore
adrenocorticale) o bilaterale (come modalità terapeutica per
il PDH). Si raccomanda che questa tecnica chirurgica sia
effettuata da specialisti e in strutture capaci di gestire le
Indirizzo per la corrispondenza
Professor Edward C Feldman
School of Veterinary Medicine
Tupper Hall, University of California, Davis, CA 95616
218
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Treatment of hyperadrenocorticism in dogs
Edward C. Feldman
DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA
SURGICAL REMOVAL OF PITUITARY
TUMORS
technician should call the owner every day beginning with
the second day of therapy. The owner should be impressed
with the veterinarian’s concern and will observe the animal
closely. We advise our clients to feed their dogs 2 small
meals each day. The dog’s appetite should be observed prior
to each o,p’ DDD administration. If food is rapidly consumed, medication can be given. If food is consumed slowly, incompletely, or not at all, the medication should not be
given until the veterinarian is notified and an ACTH
response test is performed. In addition to making daily
phone calls, the veterinarian should see the dog 8 to 9 days
after beginning therapy. At this time, a thorough history,
physical examination and an ACTH response test should be
performed. Dogs that have responded clinically to the medication (or if the owner is not certain about response) should
have further therapy withheld until results of the ACTH
response test can be evaluated. The goals of therapy with
o,p’ DDD are to achieve resolution of the clinical signs and
an ACTH response test that is suggestive of relative hypoadrenocorticism. In our laboratory, successful response to o,p’
DDD is indicated by pre- and post ACTH plasma cortisol
concentrations >1.5:g/dl and <5:g/dl.
Surgical removal of a pituitary tumor causing hyperadrenocorticism (PDH) is the standard treatment strategy for
people with this condition. This same method of treatment
has been employed with dogs and cats that have PDH. The
only restriction to recommending this form of treatment as
the treatment of choice are the few veterinary surgeons
trained in this procedure. It is anticipated that this form of
treatment will become standard in the future as expertise is
gained by more veterinary surgeons.
MEDICAL THERAPY USING 0,P’DDD
Induction Protocol
Lysodren (o,p’ DDD) therapy is always initiated at home
with the owner administering 25 mg/kg, given b.i.d. Glucocorticoids are not routinely administered and are not routinely dispensed. Rather, the owner should receive thorough instructions on the actions of o,p’ DDD. Then, the
owner is instructed to begin reducing their dog’s food allotment by one-third beginning the day before o,p’-DDD is
begun. We always begin therapy on Sundays. In other
words, we have owners give their dog one-third of its normal food allotment each morning and again each afternoon, beginning on a Saturday. This should make the typical polyphagic dog ravenous.
NOTE: NO DOG WITH A POOR APPETITE SHOULD
EVER RECEIVE THIS DRUG!
Lysodren administration should be stopped when (1) the
polydipsic dog’s daily water consumption approaches 60
ml/kg; (2) the dog simply takes longer to consume a meal
and certainly if it develops partial or complete inappetence;
(3) vomiting; (4) diarrhea, or (5) unusual listlessness. Any of
these signs is an indication for the owner to stop daily o,p’
DDD therapy and have the dog examined by the veterinarian. The single most reliable and consistent indicator for
stopping the induction phase of therapy is appetite. Any
reduction in appetite indicates that the induction phase of
therapy has been completed. The water intake in polydipsic
dogs may decrease in as few as 2 days or in as long as 35
days (average is 5 to 14 days).
Lysodren is quite successful in eliminating signs of Cushing’ s. This should be coupled with close communication
between owner and veterinarian. Either the veterinarian or a
Maintenance Therapy
The maintenance phase of therapy with o,p’ DDD may be
initiated once a hypoadrenal response to ACTH is obtained.
If the dog with hyperadrenocorticism has a normal or exaggerated response to ACTH following the initial 8 to 9 days
of o,p’ DDD therapy, daily medication should be continued.
Whie quite unusual, it is continued for 3 to 7 additional days.
ACTH response tests should be repeated every 7 to 10 days
until a low post ACTH plasma cortisol concentration is
achieved. It is important to emphasize that each dog must be
treated as an individual. There appears to be no reliable
method of predicting the length of time required for a
response or the amount of o,p’ DDD therapy except to state
that most dogs respond in 5 – 9 days. It is unusual for a dog
to require more than 9 consecutive days of o,p’ DDD.
Approximately 20% of dogs with PDH are not polydipsic.
They, too, can and should be treated by their owners at
home. Absence of polydipsia simply eliminates one of the
factors that can be monitored during the initial phases of
therapy. Therapy will be based on history, physical examination and the comparison of pre and post therapy ACTH
response test results. The most important monitoring guide
in these dogs is no different than for polydipsic dogs, it is
their appetite. Reduction in appetite in any dog receiving
219
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
(Ruckstuhl et al, 2002), 11 dogs were treated. The initial
dose was 30 mg/day for dogs that weighed less than 5 kg and
60 mg/day for dogs that weighed more. These doses calculated on a body weight basis were 3.9 to 9.2 mg/kg (median,
6.25 mg/kg). One objective of therapy was to achieve a postACTH serum cortisol concentration of 1.0 to 2.5 ⎨g/dl.
Trilostane dosages were adjusted as needed to meet this aim.
In most dogs, dose adjustments were made in increments of
20 to 30 mg/dog and by the end of 6 months, the doses
ranged from about 4 to 16 mg/kg/day (mediuan of about 6
mg/kg/day). All dogs responded well to treatment, with
reductions in polyuria, polydipsia, and panting, and showed
improvement in muscle strength. Polyphagia decreased in
nine of 10 dogs, and nine of 11 showed improvement in coat
quality. After 6 months of therapy, nine of the 11 were considered completely healthy, and two had improved. All dogs
had an increase in adrenal gland size, as evaluated with
abdominal ultrasonography. Seven dogs were treated for at
least a year, three of the seven for a least 2 years. Adverse
side effects were considered minor, with lethargy occurring
in one dog and vomiting in another. These problems were
managed by temporarily discontinuing treatment and by providing prednisone. The conclusion reached in this study was
that trilostane was an efficacious and safe medication for
treatment of dogs with PDH. The initial dose was 30 mg/day
for dogs that weighed less than 5 kg and 60 mg/day for dogs
that weighed more. These doses, calculated on a body
weight basis, were 3.9 to 9.2 mg/kg (median, 6.25 mg/kg).
One objective of therapy was to achieve a post-ACTH serum
cortisol concentration of 1.0 to 2.5 :g/dl. Trilostane dosages
were adjusted as needed to meet this aim. In most dogs, dose
adjustments were made in increments of 20 to 30 mg/dog
and by the end of 6 months, the doses ranged from about 4
to 16 mg/kg/day (median of about 6 mg/kg/day). All dogs
responded with reductions in polyuria, polydipsia, panting,
and improved muscle strength. Polyphagia decreased in 9/10
dogs, and 9/11 showed improvement in coat quality. After 6
months of therapy, 9/11 were completely healthy, and 2 had
improved. All dogs had an increase in adrenal gland size, as
evaluated with abdominal ultrasonography. Seven dogs were
treated for at least a year, 3 of 7 for a least 2 years. Adverse
side effects were considered minor, with lethargy occurring
in one dog and vomiting in another. These problems were
managed by temporarily discontinuing treatment and by giving prednisone.
In a study completed in Australia (Braddock, 2002), 31
dogs with PDH were treated with trilostane. The body
weights of these dogs ranged from 4 to 42 kg. As in the
Swiss study, these dogs responded quite well to trilostane
therapy, and the average duration of treatment was about 1
year. This author also emphasized the concept that a wide
range of doses (total or per kg of body weight) were required
to induce and maintain adequate adrenocortical suppression.
By the final test date, the dogs were receiving 1.4 to 8.7
times the initial “controlling” dose. A frequent observation
was that the dogs had an initial sensitivity to trilostane that
was short-lived and that the dose then had to be increased
until the appropriate “long-term dose” was achieved. The
trend was for the dose to eventually plateau in each dog, not
continually increase. Experience with the drug is important.
o,p’ DDD is an indication that the induction phase is completed or that over dosage is imminent.
Lysodren does not affect the pituitary. Therefore, the
excessive ACTH secretion associated with PDH continues or
becomes exaggerated with therapy. Failure to chronically
continue o,p’ DDD therapy will result in re-growth of the
adrenal cortices and return of clinical signs. This recurrence
typically occurs within 1 to 12 months of stopping therapy.
Maintenance therapy involves choosing an o,p’ DDD protocol and altering that regimen as required by the dog. Dogs
that respond to daily o,p’ DDD therapy within 5 - 7 days are
classified as “sensitive” and begin a maintenance schedule
of 25 mg/kg/wk of o,p’ DDD. Those that initially require 7 10 days of therapy are classified as “resistant” and receive
50 mg/kg/wk. An ACTH response test is performed 1 and 3
months after beginning the maintenance therapy, and every
3 to 6 months thereafter. If the plasma cortisol concentration
after ACTH administration is normal or elevated, the o,p’
DDD dosage or the frequency of administration is increased.
If the post- ACTH plasma cortisol concentration is < 1 :g/dl
(sometimes <2 :g/dl) the dose should be decreased. If a dog
receiving o,p’DDD ever becomes “ill” no o,p’DDD should
be given.
MEDICAL THERAPY USING
KETOCONAZOLE
In addition to its antifungal activity, ketoconazole (Nizoral) has been shown to interfere with gonadal and adrenal
steroid synthesis. We have evaluated the use of this drug in
dogs with pituitary dependent Cushing’s as well as those
with Cushing’s secondary to an adrenocortical tumor.
Response to treatment with this drug has been inconsistent
and relatively expensive. It is a therapy rarely employed.
MECICAL THERAPY USING TRILOSTANE
The first report on the use of trilostane for treating naturally occurring hyperadrenocorticism in dogs was an
abstract on four dogs with PDH and one with ATH. The dose
used in these five dogs ranged from 2.6 to 4.8 mg/kg/day. All
the dogs demonstrated a good clinical response, with resolution of clinical signs and no adverse effects noted during 3 to
7 months of therapy (Hurley et al, 1998). In a second report
from the same group, six dogs with naturally occurring
Cushing’s syndrome received doses of 3 to 30 mg/kg/day
given for a long as 7 months. Again, all dogs initially
improved with therapy, but in this report three dogs suffered
relapses despite continued administration (Ramsey and Hurley, 2000). In a third abstract, it was demonstrated that resting serum cortisol concentrations were decreased for as long
as 13 hours and post-ACTH plasma cortisol concentrations
were blunted for as long as 20 hours after trilostane administration to 10 dogs. There was some individual variation in
response (Neiger and Hurley, 2001).
Several subsequent studies critically evaluated the use of
trilostane therapy for dogs with PDH (Ruckstuhl, 2002;
Neiger et al, 2002). In the study completed in Switzerland
220
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
in facilities capable of handling the potential postoperative
complications. Once the diagnosis of hyperadrenocorticism
due to an adrenal tumor has been confirmed, attempts should
be made to localize the tumor and rule out metastasis or vascular invasion. Methods for tumor localization include
abdominal radiographs, ultrasonography, CT scans, and
gamma camera imaging. Ultrasonography has proven to be
our most valuable and cost effective aid in tumor localization
and for detecting vascular invasion or metastasis. If metastasis is suspected, an ultrasound guided biopsy can be performed to confirm this suspicion. Thoracic radiographs
should also be evaluated for metastatic disease in the lung
parenchyma.
In this case, it took an average of almost 90 days to achieve
satisfactory control of PDH in the first 10 dogs treated, but
it only took an average of 40 days to achieve a similar level
of control in the last 10 dogs. The mean dose required to
control PDH was 19.4 mg/kg given once daily, with a median of 16.7 mg/kg and a range of 5.3 to 50 mg/kg. The recommended starting dose was 10 mg/kg, with upward of
downward adjustments (20 to 30 mg/dog) based on periodic
ACTH stimulation test results performed 3 to 8 hours after
trilostane administration. The doses most likely needed to
control PDH are 16 to 19 mg/kg, with larger dogs requiring
a lower dose per kilogram than smaller dogs. Clinical
response, ACTH stimulation and urine cortisol:creatinine
results can and should be used in monitoring therapy. One
concern identified in this study was the cost of therapy,
which was estimated to be two to four times the cost of
o,p’DDD therapy. It was also pointed out that trilostane may
also be useful for dogs with an adrenocortical tumor causing
hyperadrenocorticism.
In the United Kingdom, trilostane is officially registered
for use in dogs under the trade name Vetoryl. The product for
use in humans is listed as Modrenal. The current recommendations from one group is to initially administer 30 mg/day
to dogs weighing <5 kg; 60 mg/day to dogs weighing 5 to 20
kg; and 120 mg/day to dogs weighing >20 kg. Re-evaluations are suggested after 1,3,6, and 13 weeks, and then after
6 and 12 months. Each recheck should include a history,
physical examination, and an ACTH stimulation test. The
stimulation test should be completed 2 to 6 hours after
administration of the trilostane. The target range for serum
or plasma cortisol concentration should be 1 to 2 ⎨g/dl.
Since some dogs have been stable for prolonged periods
with cortisol concentrations less than 1 ⎨g/dl, it is assumed
that such concentrations represent the daily nadir and that
average daily, concentrations are higher or that precursors
accumulate in the serum and retain some biological activity,
although these precursors are not assayed by the cortisol
measurement.
RADIATION THERAPY,
PITUITARY MACROADENOMAS
Please see the section on diagnosis and treatment of pituitary tumors in this proceedings.
MEDICAL THERAPY USING LDEPRENYL
(ANIPRYL)
Use of this drug is based on the theory that pituitary
Cushing’s is caused by a pituitary deficiency of dopamine.
This drug is a dopamine agonist (it increases secretion of
dopamine). This is not a new theory. It was heavily investigated in humans in the late 1960s and early 1970s. The
idea of such treatment was abandoned because less than
20% of people responded to such treatment. In objective
studies on dogs with naturally occurring Cushing’s use of
Anipryl caused no change in low dose dexamethasone test
results, no change in ACTH stimulation test results, no
change in urine cortisol to creatinine ratios, no change in
urine volume and no change in urine concentration. These
studies were carried out in a large number of dogs treated
at recommended doses for more than a year. In similar
studies completed at the University of California, the drug
was not of benefit to more than 90% of treated dogs. We do
not recommend use of this drug.
SURGERY: ADRENALECTOMY
Adrenalectomy may be unilateral for an adrenocortical
tumor or bilateral as a mode of therapy for PDH. It is recommended that this surgery be performed by specialists and
Key Words
o,p’-DDD, Trilostane, Ketoconazole, Anipryl.
221
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Cosa c’è di nuovo nella diagnosi
e nel trattamento dell’Addison nel cane
Edward C. Feldman
DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA
Cos’è la malattia di Addison?
sa più comune della malattia di Addison è la distruzione di
entrambe le ghiandole surrenali da parte del sistema immunitario dell’individuo. Il sistema immunitario funziona
innanzitutto restando continuamente alla ricerca di corpi
estranei e cercando immediatamente di uccidere quello che
non riconosce come “self”, di qualsiasi cosa si tratti. Il
miglior esempio di corpo estraneo che il sistema immunitario vuole uccidere sono batteri e virus. Per ragioni non ben
comprese, occasionalmente il sistema immunitario vede parti del corpo normali come “estranee” e si imposta per uccidere questi tessuti. In questo caso insolito, il sistema immunitario vede le ghiandole surrenali come estranee e ne uccide le cellule. Cause meno comuni di Malattia di Addison
sono le neoplasie e le infezioni che possono invadere ed
uccidere le surreni.
Cani, gatti, uomo ed altre specie animali hanno un paio di
piccole ghiandole poste nell’addome, sopra ad ogni rene. Con
un termine derivato dal latino, queste piccole ghiandole sono
quindi dette surreni per la loro localizzazione. Sono anche
chiamate così perché vennero individuate dagli anatomisti
molto prima che la loro funzione vitale (salva vita) fosse compresa. Le ghiandole producono due sostanze che sono critiche
per la vita, i “glucocorticoidi” ed i “mineralcorticoidi”. Queste sostanze sono immesse nel flusso sanguigno dopo la loro
sintesi e circolano attraverso il corpo. Come tali, vengono
classificate come “ormoni”. Entrambi questi ormoni hanno un
effetto sulla funzione delle cellule in ogni parte del corpo. Da
un altro punto di vista, le cellule di ogni parte dell’organismo
hanno bisogno di una certa quota di glucocorticoidi e mineralcorticoidi per essere sane. Entrano in una condizione di sofferenza se uno o entrambi gli ormoni sono in eccesso ed
ugualmente se uno o entrambi gli ormoni sono carenti.
I glucocorticoidi sono cortisonici naturali. Il cortisone è
necessario per la vita e è importante per assicurare che gli
individui stiano bene. I glucocorticoidi hanno molte funzioni,
compreso un effetto sull’appetito e sulla funzione del sistema
immunitario. I medici impiegano comunemente sia i cortisonici naturali che quelli sintetici. Il cortisone può essere utile
sia per il trattamento medico di problemi relativamente minori (ad esempio, nelle dermatiti da contatto) che per disordini
medici pericolosi per la vita (alcune neoplasie, per esempio).
La presenza cronica di elevati livelli di cortisone negli apparati di un dato soggetto può portare a gravi problemi medici.
Lo stesso dicasi se un individuo ha poco cortisone nei suoi
apparati. L’insufficienza del cortisone è uno dei due componenti della malattia di Addison. I mineralcorticoidi sono
un’altra sostanza vitale prodotta dalle ghiandole surrenali
normali. I mineralcorticoidi controllano le concentrazioni di
due componenti del “sale” criticamente importanti per l’organismo, ovvero i livelli di sodio e potassio. Come per i glucocorticoidi, anche un eccesso di mineralcorticoidi nel sistema di solito comporta gravi problemi medici. Lo stesso dicasi per una quantità di mineralcorticoidi troppo bassa. La
malattia di Addison (chiamata così da Thomas Addison, uno
scienziato britannico ritenuto il primo studioso che ha dimostrato che queste ghiandole sono necessarie per la vita) è
un’affezione in cui il corpo contiene troppo pochi glucocorticoidi ed altrettanto scarsi mineralcorticoidi.
Di solito questa condizione è il risultato di alcuni processi distruttivi che colpiscono entrambe le surreni e le cellule
che producono questi ormoni di importanza critica. La cau-
Quali sono i segni clinici
della Malattia di Addison?
La malattia di Addison è relativamente poco comune nel
cane ed è considerata rara nel gatto. È più frequente nelle
cagne giovani o di media età. La condizione è stata diagnosticata nei cani e nei gatti di tutte le età e di entrambi i sessi,
sia negli animali interi che in quelli sterilizzati. È stato dimostrato che poche razze di cani sembrano predisposte alla
Malattia di Addison. Le razze che hanno una predisposizione a questa condizione comprendono il cane da acqua Portoghese, il Barbone standard ed il Bearded Collie. Tuttavia,
quest’affezione può colpire qualsiasi razza canina ed anche
gli incroci.
In generale, i segni clinici della Malattia di Addison sembrano comparire rapidamente, di solito in quelli che sembrano pochissimi giorni. Si può sviluppare in settimane o anche
in qualche mese. La maggior parte dei proprietari nota che il
loro animale sviluppa nello stesso momento numerosi problemi. Senza alcun ordine particolare, questi problemi comprendono perdita di appetito, letargia estrema, vomito, diarrea, perdita di peso e debolezza muscolare. Meno comunemente, il proprietario osserva debolezza e perdita di appetito
che sembrano comparire e scomparire per un po’ di tempo
prima che il segno clinico diventi persistente. In alcuni cani
sono stati riscontrati brividi, tremori o fremiti come se avessero freddo. Altri collassano improvvisamente e sembrano
sviluppare rapidamente una condizione simile a shock.
Quali test sono necessari?
Vomito, diarrea, perdita di appetito, debolezza e perdita di
peso sono problemi estremamente aspecifici. Questi possono
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
infatti essere i segni clinici di un cane o un gatto con una
gastropatia, un’enteropatia, una cardiopatia, un’epatopatia o
una nefropatia. Anche altre condizioni possono causare questi tipi di manifestazioni. Per complicare ulteriormente questo quadro, le malattie di altri apparati sono molto più comuni della Malattia di Addison. Quindi, il veterinario può o
meno sospettare una Malattia di Addison dopo aver parlato
con i clienti e dopo aver ultimato un esame clinico. È più probabile che il veterinario creda che l’animale sia malato e raccomandi una “batteria” di test che valuteranno vari apparati
simultaneamente. Una delle anomalie caratteristiche riscontrate nei cani con Malattia di Addison è l’aumento delle concentrazioni ematiche di potassio e la riduzione di quelle del
sodio. Tuttavia, anche queste alterazioni sono aspecifiche.
Quando il veterinario sospetta una Malattia di Addison, dato
che questa è una condizione che richiede un terapia che dura
tutta la vita, è stato raccomandato un esame specifico. Questo, chiamato test di stimolazione con ACTH, è lo standard
aureo per la diagnosi della malattia in uomo, cane e gatto. Se
il risultato è tipico della Malattia di Addison, l’animale
richiederà un trattamento a lungo termine per sopravvivere.
sostituzione con glucocorticoidi per la Malattia di Addison è
il fatto che gli animali colpiti richiedono dosi relativamente
piccole in confronto a quelle utilizzate per i soggetti affetti
da malattie immunomediate, neoplasie o altro.
Esistono due diversi mineralcorticoidi disponibili.
Entrambi questi farmaci sono specifici per i pazienti con la
Malattia di Addison. La forma in pillole viene impiegata
comunemente in medicina umana ed è assolutamente efficace a basse dosi. Cani e gatti sembrano relativamente resistenti alle pillole e, quindi, possono richiedere dosi relativamente elevate. Questo, a sua volta, esita in un notevole impegno economico. Esiste una versione del farmaco iniettabile
una volta ogni 25 giorni, preparata specificamente per cani e
gatti. Questo farmaco è molto efficace ed è il mineralcorticoide raccomandato. Alcuni cani richiedono iniezioni ogni
21 giorni e altri possono farcela con un’iniezione al mese. La
maggior parte, tuttavia, risponde meglio con una somministrazione ogni 25 giorni. Queste iniezioni possono essere
solitamente effettuate dai proprietari. Possono occorrere 2-6
mesi per stabilire una dose. Una volta individuata, la dose
corretta per un dato animale rimarrà relativamente costante.
Quale trattamento è disponibile?
Conclusione
Il trattamento a lungo termine per la malattia di Addison è
meno difficile che formulare o sospettare la diagnosi. Inoltre, un trattamento a lungo termine è meno difficile delle
terapie intensive che devono essere inizialmente attuate nell’ospedale per salvare la vita del cane. Quando l’animale è
pronto a tornare a casa, tuttavia, il ruolo dei proprietari sarà
molto meno difficile. Esistono terapie sostitutive sia con glucocorticoidi che con mineralcorticoidi. I glucocorticoidi
impiegati per il trattamento della malattia di Addison non
hanno nulla di speciale. Anzi, sono gli stessi farmaci utilizzati per una varietà di condizioni sia in medicina umana che
veterinaria. Il solo aspetto unico che riguarda la terapia di
La Malattia di Addison è una sindrome relativamente
poco comune. Cani e gatti in cui sia stata correttamente diagnosticata e trattata in modo appropriato vivono sani e felici. Anche se può essere associata ad alcune spese considerevoli, la terapia a lungo termine degli animali colpiti è quasi
sempre efficace e gratificante.
Indirizzo per la corrispondenza
Professor Edward C Feldman
School of Veterinary Medicine
Tupper Hall, University of California, Davis, CA 95616
223
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Addison’s disease
Edward C. Feldman
DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA
What is Addison’s Disease?
adrenal glands by the individuals’ own immune system.
The immune system functions primarily by constantly
being on the lookout for foreign objects and upon seeing
something not recognized as “self” this system immediately tries to kill whatever that might be. The best examples of
foreign objects that the immune system wants to kill are
bacteria and viruses. For reasons that are not well understood, occasionally the immune system sees normal body
parts as “foreign” and sets out to kill those tissues. In this
uncommon instance, the immune system sees the adrenal
glands as foreign and kills those cells. Less common causes of Addison’s Disease are cancers or infections that can
invade and kill the adrenal glands.
Dogs, cats, people and other species have a pair of small
glands located in the abdomen, one next to each kidney. In
Latin, “kidney” is “renal” and “next to” is “ad”. These small
glands are, therefore, called the adrenal glands because of
their location. They are so-named because they were recognized by anatomists long before their vital (life saving) function was understood. The glands produce 2 substances that
are critical for life, they are the “glucocorticoids” and “mineralocorticoids”. These substances are placed into the blood
stream after they have been synthesized and circulate
throughout the body. As such, they are classified as being
“hormones”. Both these hormones have an effect on the
function of cells everywhere in the body. To look at it another way, cells everywhere in the body need some glucocorticoid and some mineralocorticoid to be healthy. They suffer
if there is too much of either or both and they suffer if there
is too little of either or both.
Glucocorticoids are natural cortisone. Cortisone is necessary for life and are important in assuring that individuals
feel well. Glucocorticoids have many functions, including
an effect on appetite and immune system function. Both natural and synthetic cortisones are used commonly by doctors.
Cortisone can be beneficial as a medical treatment for relatively minor problems (poison oak, for example) and for
serious life-threatening medical disorders (some cancers, for
example). If an individual chronically has too much cortisone in their systems, serious medical problems can result. If
an individual has too little cortisone in their systems, other
serious medical problems result. Too little cortisone is one of
two components of Addison’s Disease. Mineralocorticoids
are another vital substance produced by normal adrenal
glands. Mineralocorticoids control two of the body’s critically important “salt” concentrations, i.e. mineralocorticoids
control the levels of both sodium and potassium. As with
glucocorticoids, too much mineralocorticoid in the system
usually results in serious medical problems. Too little mineralocorticoid is a life-threatening condition. Addison’s disease (named after Thomas Addison, a British scientist who
is credited for being the first person to demonstrate that
these glands are necessary for life) is one in which the body
contains too little glucocorticoid and too little mineralocorticoid.
This condition usually is the result of some destructive
process affecting both adrenal glands and the cells that produce both of these critically important hormones. The most
common cause of Addison’s Disease is destruction of both
What are the symptoms of Addison’s
Disease?
Addison’s Disease is relatively uncommon in dogs and is
considered rare in cats. The disease is most common in
young-to-middle-aged female dogs. The condition has been
diagnosed in dogs and cats of all ages, either gender, and in
both intact and neutered animals. It has been demonstrated
that a few dog breeds seem predisposed to Addison’s Disease. The breeds that have a predisposition to this condition
include the Portugese Water Dog, the Standard Poodle, and
the Bearded Collie. Addison’s disease, however, can affect
any breed and mixed breed dogs as well.
In general, the symptoms of Addison’s Disease seem to
come on quickly, usually over what seems to be just a few
days. It can develop over weeks or months as well. Most
owners note that their pet develops several problems at about
the same time. In no particular order, these problems include
loss of appetite, extreme lethargy, vomiting, diarrhea, weight
loss and muscle weakness. Less common owner observations include weakness and loss of appetite that seems to
come and go a few times before the symptoms persist. Some
dogs have been observed to shiver, tremble, or shake as if
they are cold. Some dogs suddenly collapse and quickly
seem to develop a shock-like condition.
What tests are needed?
Vomiting, diarrhea, loss of appetite, weakness and weight
loss are extremely non-specific problems. These can be the
symptoms of a dog or cat that has stomach disease, intestinal disease, heart disease, liver disease, or kidney disease.
Other conditions can also cause these types of symptoms. To
further complicate this issue, diseases of other organ systems
are much more common than Addison’s Disease. Therefore,
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62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
and veterinary medicine. The only unique aspect regarding
glucocorticoid replacement therapy for Addison’s Disease is
the fact that affected pets require relatively tiny doses as
compared to the doses used for pets with immune-mediated
disease, cancer, or other conditions.
There are 2 different mineralocorticoids available. Both
of these medications are specific for patients with Addison’s
Disease. The pill form is commonly used in people with this
disease and is quite effective at low doses. Dogs and cats
seems relatively resistant to the pills and, therefore, they
may require relatively large doses. This, in turn, results in
quite an expensive commitment. There is a once every 25
day injectable medication specifically made for dogs and
cats. This drug is quite effective and is the recommended
mineralocorticoid. Some dogs require injections once every
21 days and others can get by with one injection each
month. Most, however, respond best with injections every
25 days. These injections can usually be administered by
owners. It may take 2 to 6 months to establish a dose. Once
the correct dose is established for your pet, it will remain
relatively constant.
your veterinarian may or may not suspect Addison’s Disease
after talking with you and after completing a physical examination. It is most likely that your veterinarian will believe
that your pet is ill and will recommend a “battery” of tests
that will assess various organ systems simultaneously. One
of the hallmark abnormalities seen in dogs with Addison’s
Disease is an increase in blood concentrations of potassium
and decreases in blood concentrations of sodium. However,
such changes are also non-specific. Since your veterinarian
suspected Addison’s Disease and because this is a condition
that requires life-long therapy, a specific test for Addison’s
Disease was recommended. This test, called the ACTH stimulation test, is the “gold standard” for diagnosing Addison’s
Disease in people, dogs, and cats. If the result is typical of
Addison’s Disease, your pet will require life-long treatment
for survival.
What treatment is available?
Long-term treatment of Addison’s is not nearly as difficult
as making or suspecting the diagnosis in the first place. Further, long-term treatment is not nearly as difficult as the
intensive care required initially in the hospital that saved
your dog’s life. Once your dog is ready to be sent home,
however, your role will be much less difficult. There are both
glucocorticoid and mineralocorticoid replacement medications. The glucocorticoids used in the treatment of Addison’s
disease are not special in any way. Rather, these are the same
medications used for a variety of conditions in both human
Conclusion
Addison’s Disease is a relatively uncommon syndrome.
Dogs and cats correctly diagnosed and properly treated live
healthy and happy lives. While there is some significant
expense associated with the long-term care of affected pets,
their treatment is almost always successful and rewarding.
225
62° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Cushing nel gatto: diagnosi e trattamento
Edward C. Feldman
DVM, Dipl ACVIM (Internal Medicine), California, USA
ta. Alcuni di questi animali possono essere descritti come
“svogliati” o “depressi” a causa della debolezza muscolare o
per gli effetti di un’ampia massa ipofisaria.
CONSIDERAZIONI GENERALI
I due disordini endocrini più comuni nel gatto sono il diabete mellito e l’ipertiroidismo. Ognuno di essi è stata
descritto sia come il più comune disordine endocrino nei
gatti anziani del nord America che, separatamente, come una
delle più comuni affezioni riscontrabili nella stessa popolazione. Sembrerebbe che tutti gli altri disturbi endocrini dei
gatti siano da poco comuni a rari. L’iperadrenocorticismo
felino è una sindrome analoga a quella di Cushing nell’uomo. L’incidenza di questa condizione in gatto e uomo è rara,
mentre viene considerata comune nel cane. L’iperadrenocorticismo ad insorgenza spontanea dei felini di solito (circa
l’80% dei casi) è causato da un tumore dell’ipofisi che funziona autonomamente (generalmente un adenoma) che, a
sua volta, comporta un’iperplasia adrenocorticale (iperadrenocorticismo ipofisi-dipendente; PDH). Il 20% circa dei gatti presenta un tumore funzionale della surrene (circa il 50%
adenomi e circa il 50% carcinomi).
ESAMI DI LABORATORIO ED INDAGINI
RADIOGRAFICHE
I conteggi cellulari di eritrociti e leucociti di solito non
forniscono risultati rimarcabili. Dal 75-80% dei gatti con
sindrome di Cushing sono stati ottenuti casualmente dei
campioni di urina con un peso specifico > 1.020; in altre
parole, la poliuria e la diluizione urinaria tipiche dei cani con
sindrome di Cushing non si riscontrano nel gatto. Più
dell’80% dei felini con sindrome di Cushing è affetto da diabete mellito e, quindi, iperglicemia. Tuttavia, aumenti della
concentrazione di colesterolo sierico o delle attività degli
enzimi epatici sierici non sono tipici. La fosfatasi alcalina
“indotta da steroidi” e “l’epatopatia da steroidi” sono esclusivi del cane e non compaiono nel gatto. I cani con sindrome
di Cushing hanno quasi sempre un’azotemia al livello inferiore della norma o ridotta, mentre i gatti tendono ad avere
livelli ai limiti superiori della norma o aumentati. I cani colpiti tendono ad essere positivi al test per l’ipotiroidismo,
mentre i gatti tendono ad essere eutiroidei. Radiograficamente, la maggior parte (> 70%) dei felini con sindrome di
Cushing presenta epatomegalia, un contrasto eccellente
dovuto al grasso mesenterico ed un addome pendulo. L’ecografia addominale è di gran lunga più preziosa ed affidabile
per la valutazione delle dimensioni delle surreni e della possibilità di neoplasia di queste ghiandole.
SEGNI CLINICI
I gatti con sindrome di Cushing di solito sono di media età
o anziani (media: 10-11 anni). I gatti maschi e femmine sono
colpiti in ugual misura e praticamente tutti sono stati sterilizzati. Nella maggior parte dei casi, il più comune “motivo
di presentazione alla visita” da parte del proprietario era la
“difficoltà a controllare il diabete mellito” definito come una
continua poliuria e polidipsia, malgrado la terapia con insulina. Nella maggior parte dei gatti l’iperadrenocorticismo
venne diagnosticato dopo aver documentato un diabete mellito insulinoresistente. Quindi, la poliuria e la polidipsia si
sviluppano come conseguenza dell’iperglicemia e della glicosuria più che per un eccesso di cortisolo. Questo concetto
è compatibile con la bassa incidenza di poliuria, polidipsia e
polifagia nei gatti trattati con glucocorticoidi esogeni e nella
maggior parte di questi gatti il riscontro clinico più comune
era un’urina concentrata (> 1.020). I segni dermatologici più
evidenti sono rappresentati da cute estremamente fragile,
sottile, infettata, e predisposta alla facile formazione di lividi (“sindrome della cute fragile felina”). Questi problemi
cutanei rappresentano la seconda serie più comune di segni
clinici nel gatto con iperadrenocorticismo. I felini colpiti
possono anche presentare un mantello trascurato, a chiazze,
ed alopecia asimmetrica, consunzione muscolare e ventre a
botte (addome pendulo con epatomegalia) e cute pigmenta-
TEST ENDOCRINI DI SCREENING
Test di stimolazione con ACTH
Il test di stimolazione con ACTH non è consigliato nel
gatto perché non è sufficientemente sensibile.
Test con basse dosi di desametazone
Il test di screening con desametazone richiede dieci volte
la dose impiegata nel cane, cioè 0,1 mg/kg IV. Bisogna effettuare un prelievo di plasma per la de