Didattica 5
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Didattica 5
R. A. Rossi, Formazione e nuova cittadinanza. Le prospettive della democrazia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005. Indice Introduzione Capitolo primo L’intercultura come problema della democrazia 1.1 Pedagogia interculturale 1.2 Il cittadino del mondo nell’educazione contemporanea 1.3 L’idea di cittadinanza nell’antichità greca e romana 1.4 La condizione femminile in Oriente: una interpretazione pedagogica 1.5 Il progetto filosofico per l’emancipazione della donna 1.6 Verso uno sviluppo sociale Capitolo secondo La formazione alla cittadinanza 2.1 La formazione come orizzonte della pedagogia 2.2 La formazione tra teoria, prassi e poieticità 2.3 Formazione e cittadinanza Capitolo terzo La funzione sociale ed educativa del volontariato. 3.1 Associazioni per il disagio sociale 3.2 Il volontariato come risorsa sociale 3.3 Alle origini del sistema assistenziale 3.4 Alcuni cenni storici: il povero nel Cristianesimo e nell’Europa cristiana 3.5 Il volontariato in Italia 3.6 Il Welfare Statedal modello “Residuale” a quello “Istituzionale” 3.7 Prospettive conciliari, movimenti radicali e cultura di comunità Capitolo quarto La formazione dell’uomo solidale 4.1 Volontariato organizzato e terzo sistema 4.2 Prospettive pedagogiche del volontariato 4.3 La formazione dell’uomo solidale Bibliografia Indice dei nomi Introduzione Una delle questioni centrali al dibattito pedagogico più recente riguarda il senso che oggi deve assumere il diritto alla cittadinanza, un diritto che si va ripensando in tempi di mondializzazione dei processi sociali, culturali, economici e produttivi. Se si considera che l’attuale scenario entro cui si vanno realizzando i processi formativi si è completamente ridisegnato per l’affermazione di radicali trasformazioni riguardanti ogni settore in cui si dispiega l’attività umana, è evidente che l’idea di cittadinanza viene completamente rivisitata rispetto ai canoni con cui la cultura occidentale l’aveva pensata nei secoli. Se, dal punto di vista storico, il termine “cittadinanza” ha evocato l’appartenenza di un soggetto ad una comunità politica riconosciuta anche in un comune denominatore etnico e culturale, oggi tale termine si carica di nuovi significati originati dall’attuale condizione di oscillazione tra radicamento nella comunità locale e dislocazione verso una grande comunità sovranazionale. In tale scenario, sono da sottolinearsi il ruolo espresso da fenomeni nuovi quali la globalizzazione dei mercati, la diffusione di situazioni multietniche e multiculturali, l’affermazione dell’universo mediatico, fenomeni che impegnano i soggetti a guardare oltre i propri confini, oltre i propri giudizi e pregiudizi, oltre le proprie visioni del mondo. Per effetto di tali fenomeni e processi, l’idea di cittadinanza che va affermandosi ripensa radicalmente i concetti di sovranità, territorio, appartenenza per come si sono sviluppati nell’età moderna e, pur riallacciandosi ad essi, li ripensa e li trascrive in formule che, dal punto di vista politico e da quello etico, si legano al riconoscimento universale di un pluralismo impegnato a misurarsi con i principi della pace, della giustizia sociale, della solidarietà umana. In questa prospettiva, per la pedagogia il problema della nuova cittadinanza, per molti versi viene a coincidere con il problema della formazione; anzi, esso diventa un’occasione per impegnarsi nella definizione di una Paideia per il XXI secolo corrispondente alle esigenze di società interdipendenti, pluralistiche, multietniche e virtuali, ma garante di una dimensione umana, individuale e collettiva insieme, che si rivolge alla persona, soggetto centrale di ogni riflessione pedagogica, depositario di diritti inalienabili e costruttore di significati di cui quello della democrazia costituisce un vettore di grande valore antropologico e politico. Il problema formativo, allora, si traduce nell’impegno a definire i percorsi che conducono le persone a guadagnare uno status di cittadinanza per come va definendosi nell’ambito del più recente dibattito pedagogico, impegno che non può non misurarsi sia con la grande lezione di humanitas che viene dalla cultura occidentale – si legga in questi termini il riferimento al pensiero dall’ampio dibattito culturale su temi nevralgici quali quello dell’incontro con altre popolazioni, della prospettiva interculturale, dell’emergenza della soggettività, dell’integrazione, ecc. Si va delineando così un modello educativo ispirato ad un concetto di cittadinanza come condizione interiore di colui che, pur esprimendo una specifica identità, avverte l’esigenza di riconoscersi in una più ampia comunità, il cui patrimonio etico, civile e politico risulti essere sintesi consapevole di una pluralità di prospettive, credi, valori, visioni del mondo tale da assicurare ad una molteplicità di consociati la garanzia indispensabile per l’effettivo esercizio della cittadinanza. Una tale prospettiva può diventare la via per favorirne l’integrazione, la via della formazione, una risorsa dal grande valore politico perché all’educazione è affidato il compito di realizzare un cittadino in grado di vivere la complessità di questa nostra grande stagione culturale, sociale e politica, un cittadino in grado di avvertire l’appartenenza al proprio gruppo ma di predisporsi a partecipare ad un’esperienza comunitaria più ampia, quella della pluralità delle culture, delle etnie, delle diverse modalità di credere, vivere, partecipare. Essere cittadino attivo significa contribuire con le proprie capacità, con la propria attività e le proprie competenze, alle scelte che determinano le politiche, che ha iniziativa e possiede quella visione d’insieme e quella capacità di giudizio che permette di valutare le proposte e di prendere decisioni a ragion veduta. Chiaramente questa capacità trova la propria fonte conoscitiva nell’esperienza sociale diretta che deve necessariamente essere articolata al di là della propria realtà, che deve nutrirsi dell’esperienza della diversità, deve irrobustirsi attraverso l’incontro, la relazionalità, lo scambio. Risulta evidente l’ancoraggio ad una prospettiva che, pur esprimendo la sua continuità nel tempo, oggi si è particolarmente affermata attraverso un suo deciso legame con l’attuale realtà storica: quella del volontariato, votata a mettere in campo e concretizzare l’idea dell’uomo solidale. Si delinea un’idea di persona i cui tratti distintivi la impegnano, attraverso la gratuità e il dono, a partecipare direttamente per promuovere la costruzione di significati solidaristici che ridefiniscono lo stesso carattere del pluralismo democratico. Se il pluralismo può essere considerato l’orizzonte axiologico auspicato, tale orizzonte, però, si nutre dell’azione diretta nel sociale per promuoverne la coesione attraverso l’esperienza del dono, della reciprocità, della solidarietà. Diventa punto di riferimento centrale la “Carta dei Valori del Volontariato”, documento in cui l’azione del volontariato viene proposta come un laboratorio di educazione alla convivenza democratica, di formazione dell’uomo solidale. L’ipotesi dell’uomo solidale può affermarsi significativamente nel dibattito pedagogico come forte provocazione che trova i suoi principi di validazione nelle categorie di persona, socialità, incontro, azione volontaria diretta nella realtà politica e sociale. R.A.R CAPITOLO PRIMO L’intercultura come problema della democrazia 1.1 Pedagogia interculturale. La riflessione sull’educazione si interroga oggi su questioni di rilievo che riguardano il complesso dei processi sociali, politici, culturali ed economici della contemporaneità che, come è noto, è contraddistinta dai caratteri della complessità e della globalizzazione. Misurarsi con la categoria della formazione, in fondo, rimanda ad un lavoro di analisi che guarda al soggetto e agli orizzonti antropologici, culturali e linguistici in cui il soggetto cresce, si sviluppa, si forma. In questo lavoro di analisi non può sfuggire che gli scenari della contemporaneità esprimono la condizione fortemente contraddittoria dell’essere, per un verso, radicalmente innovatori, e, per altro verso, estremamente conflittuali e drammatici1. Il problema dell’educazione interculturale si situa proprio all’interno di questa dialettica controversa, ne diventa lo stemma forse più significativo e s’impone all’attenzione del pedagogista di professione, del politico, dell’uomo di scuola, della stessa opinione pubblica, come luogo in cui affiorano posizioni contrapposte, ora di apertura culturale e politica, ora di arroccamento su fondamentalismi, integralismi, nazionalismi. L’educazione interculturale, dunque, si pone come prospettiva pedagogica piuttosto che come modello in atto, anche se è necessario precisare che si tratta pur sempre di un processo in fieri, destinato certamente ad affermarsi nel tempo, probabilmente tra molte resistenze, conflittualità, reazioni dei singoli soggetti, dei gruppi umani e delle politiche stesse degli stati. Per l’Occidente è un processo iniziato, secondo alcuni autori2 con la scoperta e la globalizzazione delle Americhe, un evento drammatico, stigmatizzato dallo sterminio e dal genocidio, ma destinato, malgrado tutto, ad erodere nella cultura occidentale il pregiudizio etnocentrico, imponendo un incontro con l’altro da sé, in cui evidentemente l’occidentale “non si riconobbe”3, con cui iniziò però a confrontarsi, misurarsi, incrociarsi. Saranno quindi le successive esplorazioni e gli stessi viaggi dei missionari a riproporre l’incontro, ma sarebbe meglio parlare di scontro con l’altro da sé e a promuovere la diffusione di situazioni multiculturali e multietniche che daranno luogo a miti e rappresentazioni sociali di vario genere, in cui si può anche situare il mito paternalistico, tutto occidentale, del buon selvaggio. 1 Cfr. F. Cambi, E. Colicchi, M. Muzi, G. Spadafora, Pedagogia generale. Identità, modelli, problemi, La Nuova Italia, Firenze, 2001. 2 Cfr. P. Hirst, G. Thompson, La globalizzazione dell’economia, Editori Riuniti, Roma, 1997. 3 Cfr. M. Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, Milano, 1994. E’ evidente che, in questo sistema ideologico di intendere l’identico e il diverso si rafforza anche il pregiudizio di razza, una categoria etnocentrica, fondata sulla gerarchizzazione tra le razze umane, al culmine della quale si situa la razza bianca, occidentale ed ariana, per qualità di ordine morale, intellettuale e fisico non possedute, biologicamente parlando, da altri gruppi etnici. Il pregiudizio di razza, una nozione diversa da quella di etnia che ha un significato culturale piuttosto che biologico, troverà un luogo teorico della sua fondazione nel positivismo e specialmente in alcuni autori, criminologi in particolare, i quali teorizzeranno l’esistenza della differenza di razza su base biologica, affidandosi sia alla teoria evoluzionistica – utilizzata per discriminare i diversi gruppi umani sulla scorta di diversi gradi di evoluzione – che all’ipotesi dei condizionamenti ambientali sui caratteri degli individui, con un preciso orientamento inteso a gerarchizzare le popolazioni umane tra settentrionali e meridionali, a tutto svantaggio di quelle meridionali. La scuola antropologica, tra l’Ottocento e il Novecento, fonderà su questi criteri la legittimazione del pregiudizio di razza ed alimenterà più o meno direttamente il mito nazionalistico che in Europa giustificherà, con il nazifascismo, la tragedia dell’olocausto. La ricostruzione storica di una dialettica che intercorre, in fondo, tra identità e diversità, tra soggettività ed alterità, pone in evidenza non solo gli eventi, i fenomeni e i processi ad essa interrelati, ma anche e soprattutto, l’affermazione di una modalità ideologica di intendere, vivere e rappresentare il problema antropologico della diversità, sottolineando altresì l’esistenza di una razionalità totalizzante, unitaria, dogmatica fondata su principi quali l’ordine, l’unità, la norma. La fenomenologia del razzismo si accompagnerà a modelli di elaborazione e diffusione quale la paura per lo straniero e per la perdita di identità, da cui avranno origine misure di controllo sociale che sconfineranno nell’epurazione e nello sterminio4. Non pare inutile sottolineare come questi sistemi ideologici di rappresentazione sociale della diversità antropologica troveranno nell’educazione, e nelle stesse istituzioni formative, i luoghi della trasmissione e della propagazione5. Gli eventi sociali, politici, culturali del secondo Novecento, però, imporranno significativamente il bisogno di intercultura, portando all’attenzione di molti soggetti istituzionali, oltre che del pedagogista di professione, la prospettiva dell’educazione interculturale come ipotesi di fondazione di una Bildung per la pacifica convivenza, per la cooperazione, per la democrazia. Gli eventi che hanno promosso un tale radicale ripensamento della cultura della modernità, quella della razionalità totalizzante ed unitaria e la ricerca di una nuova piattaforma normativa per la fondazione dell’educazione interculturale, sono da rintracciarsi proprio nei processi della complessità e della globalizzazione, e in particolare in quelli della diffusione delle situazioni multietniche e multiculturali e dell’esplosione dei sistemi e mezzi di comunicazione di massa. I flussi migratori che hanno segnato e segnano gli anni più recenti, hanno fatto acquisire vivibilità alla pluralità, al molteplice, al differente; le inedite forme della comunicazione massmediologica ed in rete hanno ridisegnato le categorie spazio-temporali, facendo del pianeta il “villaggio globale” “profetizzato” da Mac Luhan. E’ stato messo in crisi con il pensiero unitario, il pensiero della certezza. Il pensiero si è fatto più inquieto e scettico, 4 Cfr. F. Cambi, Emarginazione tra cultura, etnia, razza. L’intercultura come progetto e intervento pedagogico, in S. Ulivieri, a cura di, L’educazione e i marginali, La Nuova Italia, Firenze, 1997. 5 Cfr. A. Broccoli, Ideologia e educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1974. “debole”6 in ambito filosofico, politico, religioso, scientifico ed etico. Ciò significa che la razionalità si è misurata con i propri limiti, ha visto crollare la fiducia nei miti, quello del progresso, quello dell’Occidente come depositario della cultura e della civiltà e come guida. Anche il concetto di storia è stato messo in crisi in luogo di una storiografia che dà voce e memoria alla pluralità degli uomini, ai luoghi della sofferenza e della marginalità, ai soggetti che sono passati nel silenzio della storia senza lasciare traccia della propria vicenda esistenziale e del proprio universo di pensieri, azioni, ideali. In questa prospettiva, si è affermato un orientamento storiografico che ha fatto emergere il sommerso umano attraverso la trascrizione di storie al plurale, scritte senza maiuscole e sottolineature, storie orizzontali che riformulano i modelli culturali occidentali, facendo ripensare le ideologie delle conquiste e delle colonizzazioni in termini di sterminio, genocidio, imperialismo. Accanto a questo lavoro di scavo, disoccultamento e disvelamento, si è affermata anche in pedagogia una razionalità antifondamentalistica, oltre che antifondazionista, che ha messo in crisi il pensiero unitario e totalizzante, il pregiudizio etnocentrico, monolinguistico, monotematico e monoculturale. A fronte del riconoscimento del plurale, del molteplice, del differente e del polimorfico, si è andata delineando la consapevolezza della categoria della diversità non come carattere negativo della normalità ma come condizione esistenziale che caratterizza ciascun uomo che nasce alla vita, ciascun soggetto. La diversità non è la categoria della negatività, della difettività e della marginalità più o meno eversiva, ma è il vero volto dell’identità, ovvero il carattere che contraddistingue qualsiasi persona per la sua unicità, singolarità, irripetibilità. La diversità, altra faccia dell’identità, accomuna paradossalmente gli uomini nella comune appartenenza alla categoria della differenza. Se crollano le storiche contrapposizioni tra normalità e anomarlità, tra lineare e deviato, tra identico e diverso, allora si afferma in pedagogia un solo possibile ethos, quello del pluralismo, ovvero quel riferimento normativo che riconosce l’apertura alla varietà, alla molteplicità e prefigura l’oltrepassamento delle categorie del pensiero universalizzante e totalizzante, per lasciare spazio a modelli che danno voce alla pluralità degli uomini, dei gruppi, delle relative visioni del mondo. Un tale ethos, costitutivo del fondamento epistemologico della pedagogia interculturale, si fonda sul presupposto che soggetti e gruppi umani, considerati nella loro differenza, hanno il diritto di acquisire visibilità sociale e che occorre superare la logica perversa centromargine, quel gioco che ha permesso la cancellazione, la segregazione, la negazione7. Siamo al cospetto di una nuova antropologia secondo cui il soggetto non è più luogo della coscienza ma sintesi tra diverse dimensioni che cercano equilibrio ma in modo sempre personale. Questa antropologia ridisegna i valori cercando nel plurale , nel dismorfico, nel molteplice una piattaforma normativa che riconosca al singolo i diritti all’identità e alla diversità e su questa base permetta la realizzazione di nuovi vincoli sociali. Rispetto ai valori assoluti, ipotizzati con pretese di universalità, si affermano quelli del pluralismo, della differenza, del dialogo, costruiti nella contingenza umana e sociale. Rispetto a questo orizzonte normativo, l’educazione interculturale si pone come scelta ineludibile e prefigura una axiologia ed una teleologia formativa che si può sostanzialmente 6 Cfr. G. Vattimo, P. A. Rovatti, Il pensiero debole,Feltrinelli, Milano, 1983. Cfr. F. Cambi, Emarginazione tra cultura, etnia, razza. L’intercultura come progetto e intervento pedagogico, in S. Ulivieri, a cura di, L’educazione dei marginali, cit. 7 ricondurre ad alcuni precisi vettori. Il rispetto per l’alterità anzitutto. Si tratta di una fuoriuscita dalla categoria della soggettività, quella che s’impone con un Io autosufficiente e autoreferenziale, per scoprire la relazione Io e tu8, di una relazione destinata non solo a dare il senso dell’identità ma, soprattutto, a rinsaldare il legame costruendo prossimità. La prossimità che non è riduzione delle differenze e costruzione di identità al plurale; piuttosto è scoperta della ricchezza antropologica dell’alterità9; è costruzione di un orizzonte di coimplicazione e di autentica comprensione. Si pongono l’attenzione per la diversità culturale e la promozione di una politica di partecipazione di gruppi e minoranze interne alla vita sociale dei paesi, e dei paesi accoglienti in particolare10. Lungo questa linea, si prefigura il vettore dell’intersoggettività. E’ questa una specifica connotazione del rapporto interumano che autori come Apel11 e Habermas12 propongono in chiave etica. Per Apel si tratta di individuare nei principi della solidarietà e della corresponsabilità il telos che sia della comunicazione, della socializzazione, della partecipazione, in ultima analisi, dell’intersoggettività. Per Habermas il problema si pone in termini di costruzione di una nuova razionalità, né forte, né debole, ma eticamente fondata ed orientata verso l’azione, ovvero verso l’agire pubblico comunicativo. Con i due autori siamo dinanzi ad un modello filosofico, sociologico, politico, e pedagogico anche, inteso a realizzare, attraverso la comunicazione e l’intersoggettività, l’orizzonte della democrazia. L’intreccio tra questioni di filosofia morale, politica ed educazione sembra estremamente interessante e particolarmente fecondo per l’educazione interculturale. D’altro canto, lo stesso John Dewey, il filosofo della democrazia americana, già nel 1916, nell’opera Democrazia e educazione, aveva avanzato una proposta puntuale per corrispondere alle esigenze di una convivenza democratica di un crogiuolo umano come il popolo statunitense, puntando sulla formazione e sulla scuola13. Si situa in questa logica l’ipotesi della scuola laboratorio di democrazia, ipotesi che, come è agevole constatare, viene riproposta con tagli diversi non solo in modelli di educazione interculturale, ma anche nelle stesse politiche internazionali, orientate, a proposito della questione nodale della pacifica convivenza tra i popoli, a promuovere l’investimento sul “capitale umano”14. Appare con chiara evidenza il ruolo nevralgico della scuola e delle fondamentali agenzie della formazione su tale questione, La scuola, infatti, può diventare luogo in cui si sperimentano il pluralismo, la pacifica convivenza e la democrazia, a condizione che questa istituzione fuoriesca dal modello istituzionale, culturale e pedagogico monotematico, monolinguistico, etnocentrico e monoculturale. Ponendosi come centro della formazione alla libera investigazione, al dialogo, al confronto, alla partecipazione, alla co-implicazione, la scuola può fare emergere e sentire vivi i valori della persona, dell’alterità, della diversità, della pluralità e dell’intersoggettività. In questo modello aperto alla pluralità dei soggetti, dei 8 Cfr. M. Buber, Il principio dialogico (1923), trad. it., Comunità, Milano, 1958. Cfr. E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo (1972), trad. it., Il Melangolo, Genova, 1985. 10 Cfr. F. Gobbo, Pedagogia interculturale. Il progetto educativo nella società complessa, Carocci, Roma, 2000. 11 Cfr. K. O. Apel, L’Apriori della comunità della comunicazione e i fondamenti della scienza. Il problema d’una fondazione razionale dell’etica nell’epoca della scienza (1973) trad. it., Comunità e comunicazione, Rosemberg & Sellier, Torino, 1977. 12 Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità (1985), trad. it., Laterza, Roma-Bari, 1987. 13 Cfr. G. Spadafora, La pedagogia tra filosofia, scienza e politica nel Novecento e oltre, in F. Cambi, E. Colicchi, M. Muzi, G. Spadafora, Pedagogia Generale. Identità, modelli, problemi, cit. 14 Cfr. J. Delors, Nell’educazione un tesoro, Armando, Roma, 1997. 9 linguaggi, dei saperi, dei sistemi di rappresentazione sociale, esercita una funzione di primo piano la coltivazione di un pensiero creativo che richiama lo stesso problema della conoscenza, da non pensarsi in termini di trasmissione culturale ma di autonoma costruzione di modelli conoscitivi. Quel che cambia, con il diverso approccio alla conoscenza, è l’attribuzione di senso e di significato alla cultura e, per ciò stesso, l’apertura della creatività alla divergenza e l’orientamento verso un giudizio autonomo del soggetto rispetto allo studio e all’analisi delle vicende umane e sociali, analisi sostenuta anche da un patrimonio conoscitivo libero da pre-giudizio e pre-cognizioni. S’impone qui l’attenzione per saperi quali la storia, la geografia umana, le lingue. Ma s’impone, soprattutto, un diverso approccio a questi saperi, un approccio fondato sull’interpretazione degli eventi, dei dati, dei contenuti disciplinari. Quel che deve profondamente mutare nelle nostre scuole è soprattutto la “filosofia” di fondo, il fattore teleologico nella consapevolezza che non si tratta di istruire per formare tecnici che sappiano inserirsi in un mercato del lavoro ad elevate tecnologie15, ma persone capaci di autonomia nel giudizio e nella costruzione delle conoscenze, di apertura agli altri, di co-implicazione, solidarietà, ma soprattutto capaci di riconoscere la propria identità non per considerarla un ghetto culturale, ma una risorsa con cui misurarsi con le altre identità. La formazione, questo processo fondamentale dell’esistenza umana che ci coglie di sorpresa con la nascita e ci orienta con gli accadimenti della vita e con la stessa attenzione di quanti intenzionalmente se ne occupano, può dirsi processo di coltivazione, di apprendimento, di sviluppo, di cura se ci permette di fuoriuscire dalla condizione di “soggezione” e farci persona. Questo significa che ogni essere umano è soggetto, certo depositario ontologicamente della prerogativa dell’umanità, ma è attraverso la formazione che può emanciparsi da condizioni di illibertà e di reificazione. Sono condizioni che più spesso risiedono nelle nostre cognizioni e nei nostri pregiudizi, che fanno soggiacere il pensiero ad ottuse formule di accondiscendenza ai modi di pensare di altri, degli stessi sistemi di rappresentazione sociale. L’analisi sul ripensamento filosofico dell’atto educativo oggi, alla luce di tendenza della ricerca pedagogica più recente, non può quindi svilupparsi adeguatamente se non si considera la centralità del concetto di formazione che si applica alle situazioni specifiche della vita e che, soprattutto, caratterizza la diversità dei soggetti. In questo senso, ritengo che l’analisi di Martha Nussbaum ci possa aiutare a comprendere meglio i problemi della pedagogia interculturale, in relazione anche alla costruzione di un’autentica democrazia. Nel pensiero della Nussbaum, infatti, e in particolare nei testi di Coltivare l’umanità e Diventare persone, è molto chiaro il tentativo di ricostruire il significato della formazione e del concetto di persona nelle situazioni specifiche. Sono tre gli aspetti che la Nussbaum mette in rilievo per definire la specificità della persona: l’autoesame socratico, il concetto di “cittadini del mondo”, il concetto di immaginazione narrativa. L’autoesame socratico è pensato come un procedimento metodologico che permette la messa in discussione di tutti i principi educativi tradizionali e ipotizza la formazione di un pensiero libero da pregiudizi di qualsivoglia natura, aperto alla libera investigazione, votato alla creatività e alla costruzione della democrazia. “Per esercitare questa capacità è necessario saper ragionare correttamente e verificare la coerenza del ragionamento, l’esattezza e 15 Cfr. N. Luhmann, K. E. Schorr, Il sistema educativo. Problemi di riflessività (1979), trad. it., Armando, Roma, 1988. l’accuratezza di ciò che si legge o si scrive. Esami di questo genere portano spesso a sfidare la tradizione, come ben sapeva Socrate quando dovette difendersi dall’accusa di corrompere i giovani”. Ma proprio per questa costante messa in discussione la Nussbaum propone la costituzione di un concetto nuovo di soggettività: il cittadino del mondo, profondamente legato ai principi della pedagogia interculturale e che vanta dei precedenti nelle tradizioni educative. Il termino cittadino del mondo fu coniato da Diogene il Cinico. Diogene (404-323 a.C.) riteneva che povertà e libertà di pensiero e di parola andassero di pari passo. Esprimere liberamente il proprio pensiero era per lui “la cosa più bella che si potesse fare nella vita”. Quando gli si chiedeva da dove venisse, Diogene rispondeva “io sono un cittadino del mondo”. Con questa sua affermazione, il filosofo geco, intendeva rifiutare di essere definito unicamente sulla base delle sue origini geografiche o dell’appartenenza ad un gruppo, elementi a quell’epoca importanti per la strutturazione dell’identità di un uomo greco; egli continuava invece a definirsi in termini di aspirazioni e di interessi più universali. I filosofi stoici, nei secoli successivi, si impegnarono a rendere il pensiero di Diogene più accettabile e utile alla cultura di quel tempo sviluppando il concetto di cittadino del mondo in modo moralmente e filosoficamente rigoroso, facendo dell’idea di Kosmou polites il fondamento del loro programma educativo. Anche Socrate stesso venne educato in un’Atene fortemente influenzata da questo tipo di idee. Nel quinto secolo a.C., infatti, egli sosteneva “se qualcuno ti domanda di dove sei, non rispondere sono di Corinto o di Atene, ma rispondi sono cittadino del mondo”. In seguito S. Agostino, Dante, Tommaso Campanella, Voltaire, Rousseau, Montesquieu, Kant, Hugo, Mazzini, Gandhi e molti altri ancora ci dicono, sebbene sotto i diversi influssi delle proprie idee e dei propri tempi, che l’umanità potrà avere pace e benessere solo istituendo una cittadinanza universale, sulla base dell’uguaglianza e della libertà, suffragata dalla non violenza, dalla coerenza logica e dalla tolleranza. Pertanto possiamo vantare di avere dalla nostra parte una grossa schiera di grandi uomini e possiamo vantare di occuparci del problema più importante dell’umanità e, pur ammettendo di non essere originali, ci sentiamo orgogliosi e forti di poter affermare di voler trasformare in pratica di vita, in leggi, le idee delle menti più eccelse. Il cittadino del mondo si lega agli orizzonti axiologici della comunità cui appartiene ed ai valori universali della democrazia, come ad esempio il rispetto della persona, della diversità, dei diritti umani. “Cittadini che coltivano la propria umanità devono concepire se stessi non solo come membri di un gruppo, ma anche, e soprattutto, come esseri umani legati ad altri esseri umani da interessi comuni e dalla necessità di un reciproco riconoscimento”16. Ma l’aspetto più significativo del tentativo della Nussbaum che ci fa comprendere il complesso rapporto tra soggetto, persona, formazione, comunità e democrazia, è dato dal concetto di immaginazione narrativa. L’individuo, entrando nel vivo della dimensione emotiva ed affettiva, deve conoscere sé e l’altro da sé, aprirsi all’intersoggettività, guardare alla prossimità, costruire democrazia. “La capacità di immaginarsi nei panni di un’altra persona, di capire la sua storia personale, di intuire le sue emozioni, i suoi desideri e le sue speranze. Questo non comporta una mancanza di senso critico, perché nell’incontro con 16 M. C. Nussbaum, Coltivare l’umanità (1997), trad. it. di S. Paterni, Carocci, Roma, 1999, p. 25. l’altro manteniamo comunque fermi la nostra identità e i nostri giudizi”17. E’ vero che, spesso, conoscere l’altro non è un elemento sufficiente per autodeterminarsi, in quanto i processi conoscitivi sono molto complessi e legati, soprattutto, ai differenziali di potere tra le persone, tra le diversità, tra i gruppi umani. E’ indubbio, però, che in questo modo si sviluppa il processo unico e irripetibile della persona, nelle situazioni specifiche. “L’immaginazione narrativa è dunque uno strumento necessario per preparasi ad affrontare correttamente l’interazione morale. Abituarsi ad agire in maniera empatica e a riflettere sull’interiorità di chi ci troviamo di fronte concorre alla formazione di un certo tipo di cittadino e di una certa forma di comunità: una comunità che approfondisca e sviluppi la sensibilità simpatetica nei confronti dei bisogni degli altri e che comprenda in che modo le circostanze orientino questi bisogni, nel rispetto dell’individualità e del diritto alla privacy”18. Questo concetto della Nussbaum di coltivare l’umanità, secondo il detto di Seneca, con il concetto di una nuova formazione, ci aiuta molto a comprendere le possibilità di una pedagogia interculturale che si lega fortemente alle problematiche della democrazia. Solo se vi è una formazione unica e irripetibile, adattata alle situazioni specifiche dei soggetti, si possono costruire i valori comuni della democrazia che, come Dewey sosteneva in Democrazia e educazione, consiste nel legare la formazione unica e irripetibile dell’individuo con le dimensioni valoriali degli altri individui per limitare le differenze di potere ma soprattutto per costruire comuni valori, non statici, che possono orientare l’individuo alle trasformazioni sociali e ai cambiamenti culturali. Il discorso della Nussbaum si lega molto bene proprio al concetto di comunità deweyano ripreso per certi aspetti sia da Habermas che da Apel. L’individuo deve costruire valori all’interno della comunità per collegarsi ai valori della comunità globale che rappresenta il principio universale della democrazia. “Diventare persone”, quindi, significa guadagnare davvero in libertà, emancipazione ed autonomia non per arroccarsi aristocraticamente nella nostra condizione, ma per predisporci verso una realtà umana che aspetta giustizia sociale e solidarietà. Nella consapevolezza che ogni essere umano attraverso la formazione realizza l’umanamente possibile, la sfida dell’intercultura è sfida dell’educazione e passa, attraverso la formazione delle giovani generazioni, costruisce l’orizzonte axiologico e teleologico della democrazia. 17 18 Ibidem. Ivi, pp.104, 105. 1.2 Il cittadino del mondo nell’educazione contemporanea. L’educazione della persona assolve fondamentalmente al compito di promuovere l’affermazione di una democrazia intesa come orizzonte in cui si invera l’universalità del progetto della “coltivazione dell’umanità”. Nell’opera Coltivare l’umanità19 Martha Nussbaum individua l’occasione davvero unica per formare persone capaci di realizzare forme più mature e più giuste di vita democratica. In una società complessa, come quella contemporanea, il concetto dia autonomia comporta quello di responsabilità attraverso la quale il cittadino diventa soggetto di una realtà universale, nella quale si avvia la convivenza democratica che è alla base del concetto moderno di cittadinanza, dove vengono sviluppate le soggettività individuali che dovranno essere responsabili delle varie espressioni sociali. Ma come potrebbe prender forma il progetto di un’educazione alla “cittadinanza del mondo” nel programma di un’università odierna? E cosa dovrebbero imparare gli studenti tenendo presente che tutti noi come cittadini interagiamo con persone provenienti da diverse tradizioni e dobbiamo quindi saper affrontare le questioni che sorgono dalle differenze culturali? Questa educazione secondo Martha Nussbaum deve essere multiculturale, deve cioè far conoscere agli studenti le caratteristiche principali della cultura tipica di altri gruppi, includendo lo studio delle religioni del mondo, quello dei gruppi razziali ed etnici, delle minoranze sociali e sessuali all’interno dei loro rispettivi curricoli formativi. Lo studio delle lingue e della storia, gli studi sulle religioni e della filosofia hanno tutti un ruolo importante nella realizzazione di questo progetto. “La consapevolezza della differenza culturale è essenziale per favorire il rispetto reciproco, che è a sua volta il necessario presupposto per l’instaurarsi di un dialogo produttivo. Le cause principali del rifiuto di chi è diverso sono infatti l’ignoranza e il ritenere le proprie abitudini valide per natura. E’ certo che nessun tipo di educazione liberale potrà mai mettere gli studenti in grado di conoscere tutto ciò che sarebbe utile sapere, ma la conoscenza precisa di almeno una tradizione non familiare, e qualche nozione sulle altre, è già sufficiente per far nascere la consapevolezza tipicamente socratica di quanto sia limitata e limitativa la nostra esperienza”20. E’ giusto, secondo Nussbaum, che il cittadino del mondo si dedichi maggiormente allo studio della propria regione e della propria storia, perché è evidente che le sue scelte dovranno principalmente essere compiute in questo ambiente. “La necessità di dare comunque ampio spazio allo studio delle realtà locali ha riflessi importanti sull’educazione. Commetteremmo un grosso errore se volessimo fornire agli studenti una conoscenza completa di tutte le culture: sarebbe come se tentassimo di far imparare loro qualcosa di ogni lingua. A parte il risultato superficiale e anzi ridicolo che si otterrebbe, un atteggiamento del genere fallirebbe nel compito prioritario di rendere di rendere familiare agli studenti l’ambiente in cui la maggior parte delle loro azioni avranno luogo”21. D’altra parte, secondo Nussbaum, è di estrema importanza che questi argomenti vengano presentati agli studenti in modo da non far dimenticare la realtà più vasta all’interno della quale si collocano le tradizioni occidentali. “E’ comunque indispensabile una riforma del 19 Cfr. M. C. Nussbaum, Coltivare l’umanità (1997), cit. Ivi, p. 86. 21 Ibidem. 20 programma, che dovrebbe dare la possibilità agli studenti di conoscere le tradizioni di pensiero più importanti e, soprattutto, dovrebbe renderli consapevoli della loro ignoranza relativamente ad argomenti di estremo rilievo. E’ necessario che i cittadini del mondo ricevano un’educazione adeguata a questo scopo fin da piccoli”22. Martha Nussbaum fa notare che per un buon cittadino del mondo conoscere le culture degli altri popoli e delle minoranze non significa soltanto riconoscere la dignità degli studenti stranieri e di quelli appartenenti alle minoranze, sebbene anche questo sia un risultato rilevante. Ma un’educazione di questo tipo si rivolge agli studenti così come ai cittadini affinché imparino a trattare il prossimo con rispetto e comprensione. Il rispetto e la comprensione implicano il riconoscimento non solo delle differenze ma anche, e nello stesso tempo, il riconoscimento dei diritti, delle aspirazioni, delle stesse problematiche condivise. Tre capacità sono essenziali secondo Nussbaum affinché si possa “coltivare l’umanità” e affinché un cittadino diventi cittadino del mondo. In primo luogo, la capacità di giudicare criticamente se stessi e le proprie tradizioni per vivere quella potremmo chiamare, secondo Socrate, una “vita esaminata”. “Ciò significa non accettare alcuna credenza come vincolante solo perché è stata trasmessa dalla tradizione o perché è diventata familiare con l’abitudine”23. In effetti significa mettere in gioco tutte le credenze e accettare soltanto quelle che resistono alle richieste di coerenza e di giustificazione razionale. Per esercitare questa capacità è necessario esaminare l’esattezza del ragionamento e verificare con accuratezza ciò che si scrive o si legge. Esami di questo tipo ci portano spesso a sfidare la tradizione proprio come fece Socrate quando dovette difendersi dall’accusa di corrompere i giovani. E Socrate difese la sua attività perché la democrazia del tempo aveva bisogno di cittadini capaci di pensare autonomamente senza lasciare questo compito a un’autorità che potesse decidere per loro. In secondo luogo i cittadini che vogliono diventare “cittadini del mondo” devono concepire se stessi non solo come membri di un gruppo o di una nazione ma soprattutto come esseri umani legati ad altri esseri umani da interessi comuni. “Tutti ci pensiamo facilmente in termini di gruppo, anzitutto come americani o francesi o italiani e, solo dopo, come esseri umani. Trascuriamo bisogni e capacità che ci uniscono a cittadini che vivono lontano da noi o che hanno un aspetto diverso dal nostro. Questo significa che neghiamo a noi stessi numerose possibilità di comunicazione e di amicizia, sottraendoci a eventuali responsabilità. Spesso sbagliamo a negare le differenze, ritenendo che le esistenze lontane debbano essere come le nostre e mostrando scarsa curiosità per modi di vita diversi”.24 In effetti “coltivare l’umanità” in modo interdipendente significa comprendere come i bisogni e gli scopi comuni vengano realizzati in modo diverso e in circostanze diverse. Il terzo requisito della cittadinanza viene definito da Martha Nussbaum “immaginazione narrativa”, ovvero la capacità di immaginarsi nei panni di un’altra persona per capire meglio la sua storia personale, il suo vissuto intuire le sue emozioni e i suoi desideri. “Questo non comporta una mancanza di senso critico, perché nell’incontro con l’altro manteniamo comunque fermi la nostra identità e i nostri giudizi. Quando ci identifichiamo con un personaggio di un romanzo, per esempio o con la storia di una persona lontana non possiamo 22 Ivi, p. 87. Ivi, p. 24. 24 Ivi, p. 25. 23 fare a meno di giudicarli alla luce dei nostri fini e delle nostre personali aspirazioni”25. In effetti, un primo passo verso la comprensione dell’altro è essenziale per ogni giudizio responsabile dal momento che non possiamo ritenere di conoscere ciò che stiamo giudicando, finché non comprendiamo il significato che una determinata azione ha per la persona che la compie, o il significato di un discorso in quanto espressione della storia di questa persona e del suo ambiente sociale. “Diventare un cittadino del mondo significa spesso intraprendere un cammino solitario, una sorta di esilio, lontani dalla comodità delle verità certe, dal sentimento rassicurante di essere circondati da persone che condividono le nostre stesse convinzioni e i nostri stessi ideali”26. Poiché fin da bambini si prova un sentimento di fiducia nei confronti dei propri genitori, accade che anche come cittadini si sia tentati di comportarsi allo stesso modo, ritrovando un’immagine idealizzata della nazione o di un leader, un sostituto dei genitori che penserà a tutto in nostra vece. “E’ nostro compito in qualità di educatori mostrare agli studenti come sia bella e interessante una vita aperta al mondo, quanta soddisfazione si ricavi dall’essere cittadini che si rifiutano di accettare acriticamente le impostazioni altrui, quanto sia affascinante lo studio degli essere umani in tutta la loro reale complessità e l’opporsi ai pregiudizi più superficiali, quanta importanza abbia vivere fondandosi sulla ragione piuttosto che sulla sottomissione all’autorità. Abbiamo il dovere di mostrare tutto questo ai nostri studenti, se vogliamo che la democrazia nel nostro paese e in tutto il mondo abbia un futuro”27. 1.3 L’idea di cittadinanza nell’antichità greca e romana. I dibattiti contemporanei trasmettono di frequente l’idea che il progetto di rendere “multiculturale” l’educazione sia una nuova moda priva di antecedenti nelle tradizioni educative. Facendo un passo indietro nella storia greca notiamo che vari furono gli studiosi che si occuparono dell’educazione dei cittadini. Ricordiamo Aristofane, grande commediografo che insegnava ai giovani cittadini i valori tradizionali. Aristofane prediligeva un regime patriottico, basato su una rigida disciplina che concedeva molto spazio all’apprendimento mnemonico e poco alla discussione. Ad opporsi al pensiero di Aristofane riguardo all’educazione, fu Socrate, un grande retore, in grado di sedurre con le parole. Egli metteva tutto in discussione sovvertendo così il valore della tradizione. L’intento socratico era quello di riuscire a formare cittadini che possedessero la capacità di ripensare criticamente le proprie convinzioni, affermando che una vita che non si fondasse sull’autoesame non valeva la pena di essere vissuta. Socrate considerava la “vita esaminata” un fine essenziale dell’educazione democratica non definendo, però, con precisione i termini in cui questo ideale ancora astratto doveva realizzarsi nei programmi educativi concreti. Si andava quindi diffondendo in questo periodo il progetto di rendere l’educazione multiculturale. Lo stesso Socrate, infatti, venne educato in 25 Ibidem. Ivi, p. 95. 27 Ibidem. 26 un’Atene già influenzata da queste nuove idee. Lo scrittore Erodoto affermava che un’analisi interculturale potesse mettere in evidenza che tutto ciò che si considera normale e naturale sia soltanto frutto dell’abitudine e di una visione ristretta. Pertanto, se gli Ateniesi del V secolo a.C. in origine pensavano che i loro usi e costumi fossero universali, andando avanti nel tempo presero consapevolezza della differenza culturale e si confrontarono con gli altri popoli, in particolar modo con gli Spartani, popolo nemico da sempre. Dalle informazioni trasmesse a noi da Tucidide, veniamo a conoscenza che Sparta non era una città democratica, bensì gerarchica, basata sull’assoluto rispetto delle regole, nella quale il buon cittadino era colui che obbediva alle tradizioni senza metterle in discussione. A tal proposito ricordiamo il grande Pericle che fa di Atene una Polis democratica dove si contempera l’autonomia dell’individuo nella sua vita privata con un vigoroso senso civico di rispetto della legge e di obbedienza ai magistrati, ciascuno unisce la cura degli interessi familiari a una presenza attiva nella vita politica. Gli Ateniesi, dopo essersi confrontati con gli Spartani, apprezzarono, ancora di più, quanto sia insostituibile il dono della libertà e a tal proposito ritorna alla mente il pensiero di Diogene il Cinico che coniò il termine “cittadino del mondo”. Egli scelse di imboccare la strada della povertà e non quella della ricchezza proprio per paura di perdere la libertà ritenendo che la libertà e la povertà viaggiassero di pari passo. Ritornando al pensiero degli Stoici, sostenitori di Socrate, e in particolare ai loro scritti cominciamo a capire quali possano essere le implicazioni dell’esempio socratico in campo educativo. Gli stoici sostengono che un buon cittadino è in primo luogo “cittadino del mondo”. Essi ritengono che per conoscere se stessi sia necessario aprirsi a tutte le manifestazioni umane, conoscere noi stessi e le nostre abitudini, entrare in relazione con quelle di altri uomini. Essi ritengono, spingendosi ancora oltre, che riusciremo a trovare soluzioni migliori ai nostri problemi se ci caleremo in questo contesto più ampio, se la nostra capacità inventiva non rimarrà ancorata alle nostre soffocanti fedeltà di gruppo. Gli scritti stoici mostrano continuamente come le identità particolari e nazionali e gli odi ad esse associati vengano manipolati facilmente da certuni per il proprio tornaconto, e quanto invece sia difficile riuscire a falsificare la ragione, dal momento che il linguaggio su cui si basa può essere esaminato criticamente da tutti. Gli stoici non auspicano la realizzazione del loro ideale di “cittadinanza del mondo” limitandosi a evidenziare la sua convenienza. Essi sottolineano infatti come la posizione assunta dal Kosmou polites abbia un valore intrinseco, cioè la capacità di cogliere nelle persone quello che di buono è in loro, quello che merita maggiore rispetto e riconoscimento, cioè la loro aspirazione alla giustizia e al bene e la loro capacità di ragionare sui mezzi corretti per realizzare tali scopi. Per diventare cittadini del mondo non è necessario abbandonare completamente i legami particolari, che spesso sono fonte di arricchimento. A questo proposito gli stoici propongono di figurarsi l’uomo avvolto in una serie di cerchi concentrici, il primo circonda l’individuo, il successivo la sua famiglia, quello seguente racchiude tutti i parenti, poi c’è quello che circonda i nostri vicini via via fino a tutti i concittadini, il cerchio più ampio racchiude tutta l’umanità presa come un tutto indistinto. Il nostro compito come cittadini del mondo, e come educatori che indirizzano i giovani su questa strada, sarà dunque quello di orientare in un certo senso tutti i cerchi verso il centro, facendo sì che tutti gli uomini diventino in qualche modo nostri concittadini. In altre parole, non è necessario rinunciare alle identità che ci hanno plasmato e ci hanno dato un’identità nazionale, etnica o religiosa; ma dobbiamo impegnarci a rendere tutti gli esseri umani parte di una comunità al cui interno si possa dialogare e avere a cuore gli interessi altrui, rispettando qualsiasi espressione di umanità e lasciando che questo rispetto limiti e guidi le scelte politiche nazionali o locali28. Per diventare cittadini del mondo, secondo gli stoici, non è necessario negare l’importanza delle fedeltà particolari e della loro funzione educativa. L’educazione del Kosmou polites è perciò strettamente connessa alla ricerca socratica e al fine cui si vuole giungere attraverso l’autoesame. “Diventare membro della più vasta comunità del mondo implica la volontà di mettere in dubbio la correttezza e la bontà del proprio modo di vita e di partecipare allo scambio aperto delle argomentazioni critiche relativamente alle scelte etiche e politiche, rispettando tutti i punti di vista. Attraverso lo scambio sempre più preciso delle esperienze e delle argomentazioni, coloro che prendono parte a queste discussioni dovrebbero gradualmente acquisire la capacità di distinguere, all’interno delle proprie tradizioni, ciò che è particolaristico da ciò che potrebbe diventare una norma per altri, ciò che è arbitrario e ingiustificato da ciò che potrebbe essere giustificato mediante un’argomentazione ragionata”29. Dal momento che ogni tradizione odierna è già pluralistica e racchiude aspetti di resistenza, critica e contestazione, l’appello alla ragione spesso non ci obbliga a distanziarci dalla cultura nella quale ci troviamo immersi. Gli stoici giustamente ritenevano che in ogni essere umano fosse presente una capacità critica e un profondo amore per la verità. “Chiunque venga privato della verità, lo è contro la propria volontà”. Così dice Marco Aurelio citando Platone. “In questo senso, ogni tradizione umana ricerca la verità, e il passaggio da questa ricerca, limitata a una singola cultura, a una invece più globale non avviene necessariamente in maniera traumatica. Al contrario è evidente come oggi la critica alle tradizioni particolari spesso assuma la forma di un’esaltazione di ciò che si pensa sia giusto e buono in altre tradizioni”30. 1.4 La condizione femminile in Oriente: una interpretazione pedagogica. La filosofa americana Martha Nussbaum nel testo Diventare Persone31, descrive la difficile situazione femminile, soffermandosi in particolare in India, offrendo uno straordinario contributo e individuando in una prospettiva filosofica e politica, i principi costituzionali fondamentali che dovrebbero essere rispettati e fatti rispettare dai governi di tutte le nazioni per superare tali disparità. Il suo approccio, di matrice liberalista e di vocazione universalista, si basa sulle “capacità” e combina le norme multiculturali di giustizia, di eguaglianza e di diritto con le specificità locali e con i singoli contesti. 28 Cfr. M. C. Nussbaum, Coltivare l’umanità (1997), cit. Ivi, p. 80. 30 Ibidem. 31 M. C. Nussbaum, Diventare persone (2000), trad. it. di W. Mafezzoni, il Mulino, Bologna, 2001. 29 Nussbaum elabora un progetto filosofica “forte”, di tipo normativo, che vuole uscire dalla pura dimensione speculativa per dare risposte concrete ai fatti empirici, e mettere il lettore in contatto con un repertorio vivo di voci, storie, testimonianze che ci aiutano a capire la reale condizione, ancora oggi fortemente svantaggiata, della donna rispetto agli uomini, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Peggio nutrite, più esposte alle malattie, alla violenza fisica e agli abusi sessuali, meno secolarizzate, spesso prive di qualsiasi formazione professionale, le donne non possono contare nemmeno sugli stessi diritti. L’autrice, che ha sempre cercato, con il conferimento della democrazia e dei diritti umani, è riuscita a donare al mondo intero un importante insegnamento al quale dobbiamo dare un valido riconoscimento nella speranza che funga da stimolo per quanti si dibattono per i diritti umani nel proprio paese e in tutto il mondo. Le donne in molte parti del mondo non hanno gli stessi diritti degli uomini; infatti, non godono di piena uguaglianza: nel lavoro, in famiglia, nella scuola, nella religione, essendo inoltre più esposte ad ogni tipo di violenza e, in alcune parti del pianeta non hanno neanche diritto alla scolarizzazione, né tanto meno alla formazione professionale32. Oggi la situazione sta cambiando, i cambiamenti sociali sono all’ordine del giorno ma, ancora in molti campi, restano ineguali condizioni sociali che apportano alla donna difficoltà e si vanno ad aggiungere alle responsabilità del lavoro domestico e della cura dei bambini. In questo quadro generale, la donna per affrontare la situazione si priva sempre dei propri spazi e alla fine il tutto si ripercuote sul suo benessere psichico e fisico. Nel programma di sviluppo delle Nazioni Unite del 1997 emerge, dagli studi effettuati, che al mondo non esiste alcun paese che tratti in egual misura le donne quanto gli uomini. Questo è quanto attestato da complessi e numerosi indagini e ricerche che considerano diversi fattori: il benessere, la mancanza d’istruzione, la durata della vita , la denutrizione, la mancanza dei servizi sanitari. I paesi in via di sviluppo presentano problemi a volte molto pressanti essendo la disuguaglianza di genere correlata fortemente alla povertà33. Quando i due fattori si sovrappongono, il risultato è un grave crollo delle capacità umane fondamentali: nei paesi in via di sviluppo, complessivamente il numero di donne adulte analfabete supera del 60% quello degli uomini, il tasso di reclutamento scolastico è del 23% inferiore a quello maschile persino nelle scuole elementari, mentre i salari femminili sono tre quarti di quelli maschili. In questi paesi sono ancora numerosi i casi di violenza, abuso domestico e molestie sessuali e spesso la violenza all’interno del matrimonio non è considerata un crimine e persino gli atti di violenza contro estranei sono così raramente puniti che molte donne evitano di denunciare il crimine34. La storia sociale di una donna e la sua appartenenza sociale, spiega Nussbaum, vengono sicuramente usate contro di lei in tribunale; raramente le prove mediche sono raccolte con tempestività, la polizia manda avanti le pratiche con tempestivo ritardo e quindi è molto difficile giungere ad una condanna. Secondo le legge indiana è molto costoso intentare una causa di questo genere, non essendoci attualmente assistenza legale gratuita per le vittime di stupro. Su 105 casi portati in tribunale (secondo uno studio condotto da una ONG 32 Ibidem. I dati comprendono paesi in via di sviluppo, che si trovano ai vertici di una classifica che tiene conto della differenza di genere. 34 Cfr, M. C. Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, cit. 33 “Organizzazione non Governativa” con sede a Delhi) solo 17 sono puniti con la prigione. Se poi si prende in esame l’area fondamentale della salute e dell’alimentazione, ci sono prove diffuse di discriminazione contro la popolazione femminile. Molti dei paesi in via di sviluppo hanno un rapporto dei due sessi nettamente inferiore: l’India, per esempio, ha 92,7 donne ogni cento uomini, il più basso dall’inizio del secolo. Si ottiene così un dato che l’economista Amartya Sen ha efficacemente chiamato il numero delle “donne mancanti” e che equivale a molti milioni di donne al mondo. Inoltre in India, Nussbaum commenta che il tasso di mortalità delle donne è più elevato rispetto a quello degli uomini, questo dato è particolarmente accentuato tra i bambini (le bambine muoiono in quantità molto più elevate rispetto ai maschi). In breve, manca alle donne il sostentamento necessario per condurre una vita che sia pienamente umana e ciò è frequentemente dovuto solo al loro essere donne. Così, anche vivendo in una democrazia costituzionale come l’India, dove tutti, in teoria, dovrebbero essere uguali, le donne sono in realtà cittadine di seconda classe. Il problema del pieno dispiegamento umano femminile e maschile nel mondo è l’oggetto principale di studio di Martha Nussbaum riferito al problema della questione femminile. L’impianto teorico del suo lavoro parte dalla posizione della donna nei Paesi del Terzo mondo, in base all’assunto che la disuguaglianza di “genere” è strettamente correlata alla povertà. La prospettiva adottata consente di lanciare uno sguardo al fenomeno della subordinazione femminile in paesi lontani per confrontarlo infine a questioni a noi vicine. La tesi “forte” di Martha Nussbaum è che per arrivare ad una soglia minima di rispetto della dignità umana (femminile e maschile) l’approccio migliore risulta essere quello fondato sulle capacità umane, anzi sul principio delle capacità di ogni persona, basato a sua volta sul principio di considerare ogni persona un fine a sé35. L’approccio secondo le capacità difeso da Martha Nussbaum non solo assegna un posto preminente all’immaginazione, sentimenti ma fa anche affidamento su di essi sul piano metodologico. Il referente principale della teoria del “capabality approach” è l’ideale marxiano del pieno dispiegarsi delle capacità e delle funzioni umane. Quel che ci interessa è la soglia più alta di questo dispiegamento, quella che una volta raggiunta, la persona diventa un essere “veramente umano”, degno di essere tale. L’idea centrale che Nussbaum accoglie è quindi il principio marxiano dell’essere umano in quanto essere libero e dignitoso che modella la propria vita in cooperazione e reciprocità con gli altri. L’elenco delle capacità umane è lungo: vita, integrità fisica, libertà di pensiero, svago, gioco, ed è diretto agli esseri umani in generale, ma con particolare attenzione al mondo delle donne. Nussbaum spiega che in molte parti del mondo le bambine non vengono incoraggiate a giocare; indirizzate come sono ai lavori domestici e alla sedentarietà, non sanno nemmeno come si fa. E’ chiaro a tutti a questo punto che le capacità di cui parla Nussbaum prendono, nella sua teoria, il posto dei diritti in quanto sono imprescrittibili e non possono mai venire eluse a favore di altri vantaggi sociali. Se noi guardiamo ad ogni persona come ad un fine in sé e non come ad uno strumento per soddisfare i bisogni altrui, questa concezione acquista corpo e spessore. 35 Ivi, p. 298. E’ una prospettiva che può aiutare le donne ad uscire dalla “logica del sacrificio”, quella che chiede loro di porre il soddisfacimento dei bisogni dei familiari davanti alla realizzazione del proprio sé. L’approccio secondo le capacità presenta quindi dei vantaggi rispetto all’approccio secondo i diritti e non rischia di essere considerato d’importazione occidentale perché non è legato ad una cultura particolare o ad una tradizione storica delimitata. Nussbaum spiega che se noi parliamo di ciò che le persone sono di fatto in grado di fare e di non fare non diamo nessun privilegio a quella che potrebbe essere un’idea occidentale perché le idee di attività e capacità sono presenti in tutte le culture. Questo approccio inoltre salvaguarda il valore della diversità e dei costumi senza preservare la brutalità di alcune pratiche: la violenza domestica, la monarchia assoluta o la mutilazione genitale36. In quasi ogni paese del mondo, i problemi delle donne sono connessi alla povertà e alla mancanza di sviluppo sociale. La teoria filosofica cerca di risolvere questi problemi consigliando le necessarie soluzioni e si basa su una visione universalista delle funzioni umane strettamente alleata a una forma di “liberalismo politico”. Difendere questo tipo di universalismo è la base valida da cui partire per affrontare il problema delle donne nel mondo e soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Lo scopo del progetto è di fornire la base filosofica ad un esame dei principi costituzionali fondamentali rispettati e fatti rispettare come minimo essenziale richiesto dal rispetto della dignità umana. Si capisce bene, quindi, che il miglior approccio si concentra sulle capacità umane, vale a dire su ciò che le persone sono realmente in grado di fare e di essere, avendo come modello l’idea di una vita che sia vissuta nella dignità per ogni essere umano. Le capacità di cui parla Nussbaum possono diventare oggetto di consenso condiviso tra persone che hanno diverse concezioni globali di ciò che è bene fare. Le capacità in questione dovrebbero essere perseguite da ogni persona individualmente, trattando ciascuno come fine e non come semplice mezzo per fini altri: ci si riferisce quindi ad un principio di capacità individualizzato, basato sul valore della persona intesa come fine. Le donne sono state troppo spesso trattate come mezzi per fini altrui, piuttosto che come fini a pieno titolo, così questo principio rileva, per quanto concerne la vita delle donne, una forza critica particolare. Inoltre l’approccio usa l’idea della soglia di livello per ogni capacità, livello al di sotto del quale si ritiene che un vero funzionamento umano non sia accessibile al cittadino; il fine sociale dovrebbe quindi essere inteso come il modo per far superare questa soglia di capacità ai cittadini e in particolar modo alle donne. 1.5 Il progetto filosofico per l’emancipazione della donna. L’approccio basato sulle capacità è pienamente universale: le capacità in questione sono importanti per ogni cittadino, in ciascun paese, dove ognuno deve essere trattato come un fine a sé. 36 Cfr., Se la tradizione viola i diritti, in “Il Sole 24 Ore”, 17 ottobre, 1999. Il metodo è dunque universalistico come lo sono la tolleranza religiosa, la libertà di associazione e le altre libertà, come lo è il principio di considerare ogni persona come un fine, ma la strategia migliore è quella di formulare norme e diritti universali come un insieme di capacità per il dispiegamento della persona umana e per la realizzazione delle sue sfere di libertà. Nei paesi in via di sviluppo le donne sono importanti per questo progetto in due modi: in quanto persone che soffrono diffusamente per acute carenze di capacità ma anche come persone la cui situazione fornisce un test interessante per questo e per altri approcci basati sempre sulla possibilità di risolvere i propri problemi. Questo progetto dovrebbe concentrarsi con crescente interesse sui bisogni urgenti e sugli interessi delle donne nei paesi in via di sviluppo, il cui materiale concreto e il cui contesto sociale devono essere ben compresi, dialogando, colloquiando e discorrendo con le stesse. Questo impegno internazionale richiede che l’attenzione rimanga puntata sui temi internazionali, quali la discriminazione sul lavoro, la violenza domestica, le molestie sessuali e la riforma della legge contro lo stupro, temi centrali sia per le donne di tutti i paesi del mondo. Tuttavia Nussbaum spiega che la filosofia femminista aggiunge nuovi argomenti al suo programma per avvicinarsi in modo produttivo ai paesi in crescita: la fame, la malnutrizione, l’alfabetizzazione, il diritto di proprietà della terra, il diritto di cercare lavoro fuori dalle pareti domestiche, il matrimonio infantile e il lavoro minorile. Alcuni di questi temi sono fondamentali per inquadrare con un approccio filosofico anche la vita delle donne povere nei paesi più ricchi. In generale, sembra più che giusto che i problemi delle lavoratrici povere, sia nei paesi in via di sviluppo che in quelli già sviluppati, debbano trovarsi sempre più al centro della scena e che i problemi peculiari delle donne appartenenti alla classe media debbano lasciare loro il campo. Nussbaum sottolinea quanto sia importante un’impostazione fortemente universalista, impegnata a rispettare norme culturali di giustizia, di eguaglianza, di diritto che siano allo stesso tempo sensibili alla specificità locale e ai molti modi in cui le circostanze disegnano non solo le possibilità di scelta ma anche le convinzioni e le preferenze. Partendo dal presupposto che c’è bisogno di norme universali nell’ambito delle politiche dello sviluppo, Martha Nussbaum esprime la fondamentale importanza della libertà politica di ogni individuo - “questa libertà non deve essere mai negata” - e sottolinea inoltre il fatto che le culture sono terreno di dibattito e di contestazione del relativismo culturale sostenendo che ci sono modalità di vita più adeguate alla dignità di un essere umano. Nel discorso sono definiti tre tipi di capacità (fondamentale, interna e combinata) e insieme è elaborata una teoria su come le capacità cui aspiriamo dovrebbero essere considerate valide per ogni singolo individuo e d’accordo con l’idea del livello di soglia, forniscono una base per l’elaborazione dei principi costituzionali che i cittadini hanno diritto di pretendere dai loro Governi. Martha Nussbaum esprime un principio molto importante “Ogni persona deve essere trattata come un fine” mettendo le capacità di ogni singolo individuo al posto dei diritti “[…] non si possono violare le capacità centrali per perseguire altri tipi di vantaggi sociali”37. L’attenzione della studiosa americana, infine, è interamente concentrata sull’India, un paese estremamente povero che occupa il 138° posto tra le 175 nazioni elencate dall’indice 37 M. C. Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, cit., p. 113. dello sviluppo umano dello Human Development Report del 199738. L’India è uno dei paesi al mondo con il maggior numero di differenze interne al mondo e il più intenso numero di pluralità, pur essendo la più grande democrazia del mondo, con una ricca tradizione scritta, nella quale sono elencati tutti i diritti fondamentali dell’uomo. E, nonostante ciò, la situazione femminile è tutt’oggi un tema molto difficile da analizzare. L’India non ha mai concepito l’uguaglianza sessuale e le femministe che hanno sempre lottato, spesso anche contro leggi che costituivano una vera e propria barriera alla piena uguaglianza sessuale, hanno ottenuto gradi progressi, ma le conquiste più importanti si devono ancora conseguire. La Costituzione Indiana è un documento molto favorevole alle donne e il diritto a non essere discriminati in base al sesso è garantito dalla lista dei diritti fondamentali; nonostante tutto, le donne subiscono gravi ineguaglianze a dispetto di una promettente tradizione costituzionale. Molto attenta alla realtà in questione, Nussbaum prospetta un progetto filosofico il cui scopo è quello di elaborare una particolare teoria filosofico-normativa focalizzata in particolar modo su casi reali e su fatti empirici che possono aiutarci a identificare i caratteri salienti che una teoria non dovrebbe mai cancellare o ignorare. Le donne che vivono nei Paesi in via di sviluppo, e in questo caso in India, sono severamente limitate dalla loro mancanza di istruzione, una carenza questa riconducile in parte proprio al loro medesimo sesso. Questo è uno dei maggiori problemi che caratterizza la condizione sociale delle donne indiane; infatti in particolari regioni del paese la popolazione è divisa in specifiche caste e alle donne prive di una buona condizione sociale viene negata la possibilità di accedere ai programmi di promozione sociale organizzati dal Governo per le classi inferiori39. Le donne hanno raramente la possibilità di accedere ad un’educazione formale e di qualificarsi professionalmente. In realtà nemmeno agli uomini è concessa questa possibilità, ma se mai in famiglia questa opportunità viene data a qualcuno, è quasi certamente a un membro maschile e per molti motivi: i maschi hanno maggiori opportunità economiche, di solito le entrate delle figlie appartengono alla famiglia acquisita e non alla famiglia natale e in alcune zone del paese è considerato vergognoso dipendere dalle proprie figlie. Recentemente, il Governo si è mosso con fermezza incoraggiando l’istruzione femminile attraverso un sistema di mense gratuite, anche se ormai si è diffusa in tutto il Paese un’alfabetizzazione pressoché universale tra gli adolescenti di entrambi i sessi. In India la maggior parte delle donne soffre a causa di generali problemi di povertà, causati dal loro essere donne, ma soffrono ancora di più per difficoltà dovute a discriminazione sessuale. Ci sono molti casi diffusi di donne ostacolate da matrimoni precoci, di ragazze sposate relegate a ruoli esclusivamente domestici, con mancanza di istruzione e di formazione per accedere a occupazioni utili. Molte di loro, pur essendo molto intelligenti e piene di risorse, non hanno avuto la possibilità di accedere ad un lavoro più qualificato, perché analfabete. 38 Questo rapporto prende in considerazione tre componenti: longevità (misurata in base all’attesa di vita alla nascita); conoscenza (misurata in termini di scolarizzazione degli adulti e degli anni di scuola frequentati); livello economico ( usando la formulazione di Atkinson per l’utilità delle entrate, che presume ci siano profitti ridotti con l’aumentare delle entrate). 39 L’India è un Paese in cui le donne sono formalmente uguali agli uomini, con gli stessi diritti politici e, formalmente, con le stesse opportunità sociali di lavoro (la discriminazione sociale è vietata dalla stessa Costituzione indiana). Alle donne che vivono in India non è mai concesso di apprendere nuove tecniche sul lavoro, anzi richieste di questo genere non vengono mai prese in considerazione40, sono costrette a vivere in un mondo in cui le donne sono profondamente dipendenti dagli uomini e dove proprio questi ultimi spesso prendono le loro responsabilità con leggerezza. Molti uomini seguono un comportamento piuttosto deprimente: alcolismo e violenza domestica sono problemi abbastanza diffusi e reciprocamente collegati in maniera tale da aver costretto alcune regioni ad adottare leggi proibizionistiche contro il consumo di alcolici, in risposta alla pressione di gruppi femminili. Queste donne hanno un’unica colpa, quella di essere nate in India piuttosto che in Europa o negli Stati Uniti. La loro condizione di povertà offre loro poche opportunità di educarsi, di formarsi e di trovarsi un impiego accettabile che permetta loro di guadagnarsi da vivere. Per capire la loro storia è importante conoscere la condizione gandhiana che ha dato vita negli anni a svariati e molteplici movimenti e a diverse associazioni di donne. Attualmente sono sorte associazioni di lavoratrici autonome, (Self employed Women’s Association – SEWA), che hanno come scopo quello di migliorare le condizioni di vita delle donne in India attraverso il credito, l’istruzione e il sindacato. Indubbiamente tutti questi particolari fattori, caratterizzano la vita interiore di ogni donna indiana, in modo non sempre comprensibile per un estraneo. D’altra parte la loro vita non differisce molto da quella di molte ragazze che vivono in paesi poveri del mondo poiché le aspirazioni fondamentali che accompagnano la crescita umana sono comuni a tutte le donne del mondo, per quanto difficile sia capire l’influenza del contesto su scelte e aspirazioni. Solo l’intenso desiderio di alcune di essere indipendenti, economicamente autosufficienti, spingono loro a ricercare competenza, padronanza e controllo, sforzi comuni alle donne di molte parti del mondo. L’organismo che lavora è lo stesso ovunque, con lo stesso bisogno di cibo e di cure, quindi non sorprende che una lavoratrice indiana sia paragonabile ad una lavoratrice europea o americana e non sorprende che non abbia una consapevolezza completamente diversa o un’identità estranea, per quanto diverse siano le circostanze in cui i suoi sforzi e la sua consapevolezza affondino le radici. Allo stesso modo il corpo che viene percosso è in un certo senso lo stesso ovunque così come sono concrete le circostanze di violenza domestica in ogni società. Sono invece piuttosto numerosi i casi di discriminazione sessuale sul posto di lavoro e in India le donne vittime di discriminazione non sono sempre in grado di organizzarsi per combattere le disuguaglianze. Attualmente la situazione sta cambiando, infatti, molte donne aderenti alla SEWA (Self employed Women’s Association) si alfabetizzano abbastanza rapidamente, appena scoprono che le impiegate e le organizzatrici sindacali, grazie al loro livello d’istruzione, hanno potuto migliorare le loro condizioni d vita. Presa visione preliminarmente in senso generale di tutti i fattori inerenti alla situazione generale delle donne in India, e chiarite le idee sulla collocazione geografica di questo immenso Paese, sulla sua organizzazione politica, sulle sue diverse forme di religione, sulla sua lunga tradizione che costituisce un peso, in alcuni casi molto forte, bisognerebbe successivamente passare ai casi specifici e ben determinati inerenti alla situazione reale delle donne, in particolare quelle povere che vivono in questo variegato continente. 40 Le piccole industrie in India sono considerate attività artigianali e quindi i lavoratori non sono protetti da alcun sindacato: tutti i lavoratori sono mal pagati, ma le donne, in particolare, subiscono svantaggi specifici. Le molteplici differenze e le diverse situazioni che caratterizzano la vita dell’intera popolazione indiana, creano enormi distanze e rappresentano a volte pesanti divari tra la nostra e la loro cultura. Non esiste al mondo paese con un simile elenco di differenze: casta, religione, classe, ricchezza, origine regionale); inoltre, a tutti questi elementi sono da aggiungere altri fattori molto importanti: l’enorme povertà in cui versa il Paese; la legge che solo nella scrittura apparentemente tutela i diritti delle donne; le svariate difficoltà dei lavoratori e delle lavoratrici; le diverse forme di discriminazione sessuale, le molteplici pressioni e gli infiniti ostacoli che le donne sono costrette ad affrontare per accedere ad un minimo di formazione e ad occupazioni utili. In molte zone del Paese la donna non solo è privata del diritto all’educazione e alla formazione ma è ostacolata e discriminata anche e soprattutto sul posto di lavoro. Le condizioni di vita in India sono in genere lungi dall’essere uguali a quelle del mondo occidentale, infatti le donne si trovano chiaramente di fronte ad ostacoli sempre maggiori. Il rapporto tra i sessi non ha raggiunto la parità e questo dato si evince dai primi rilevamenti statistici all’inizio del Novecento. Le donne, infatti, si trovano in una situazione del tutto svantaggiata rispetto agli uomini, un esempio riguarda la salute e l’alimentazione. Gli esperti in problemi sanitari e nutrizionali attribuiscono in genere questo rapporto disuguale alla diversa alimentazione tra ragazzi e ragazze e alla diversa cura della salute. La differenza tra uomini e donne in India si estende anche all’ambito dell’istruzione sebbene tutti gli Stati indiani abbiano leggi che sanciscono uno scarso rapporto con la realtà. Molte regioni mancano completamente di scuole di qualsiasi genere e in alcune aree rurali il grado l’alfabetizzazione femminile è bassissimo e solo recentemente è stato introdotto un emendamento costituzionale che renderebbe il diritto all’istruzione un diritto fondamentale sottoposto a sanzione41. Nonostante l’istruzione sia una responsabilità dello Stato, in India l’istruzione elementare è molto carente, specialmente per quanto riguarda le donne, anche se in piccoli Stati la situazione sta cambiando, dopo oltre cento anni di intervento pubblico che ha coinvolto sia lo Stato sia i cittadini in generale, basato su una lunga e notevole tradizione educativa. In alcune parti del paese si sono organizzati programmi di istruzione per adulti e molte organizzazioni non governative si sono occupate di programmi educativi e di programmi di formazione per donne lavoratrici. Attualmente, un aspetto di grande interesse legato alla disuguaglianza di genere e che rappresenta per l’India una profonda piaga sociale è il lavoro minorile. Nonostante le pressioni esercitate da parte di istituzioni straniere, di interventi politici nazionali e di enti nazionali ed internazionali, il governo indiano è sempre rimasto sempre in disparte perché tante famiglie riescono a sopravvivere proprio grazie allo sfruttamento minorile. Le condizioni dei minori hanno spinto molte organizzazioni private e associazioni non governative a prendere una posizione nei confronti del lavoro minorile allo scopo di aiutare i bambini e i ragazzi ad acquisire competenze e capacità e far apprendere loro come operare cambiamenti sociali. Un esempio che Nussbaum prende in considerazione riguarda un gruppo di ragazze che passavano la giornata a pascolare capre nel Bihar, in India, e alle quali con l’aiuto di speciali organizzazioni è stata impartita l’istruzione elementare che le ha 41 Si tratta dell’emendamento 83 che deve essere inserito nella sezione dei Diritti fondamentali della Costituzione come articolo 21°. aiutate ad acquisire concetti nuovi di risparmio per acquistare un proprio gregge, diventando in questo modo autonomo e autosufficienti nell’ambito lavorativo. 1.6 Verso uno sviluppo sociale. Qualunque tentativo di migliorare la qualità della vita delle donne in India deve fare i conti con quella dura realtà economica, ma in alcune regioni, malgrado la povertà, sono stati compiuti grandi passi in avanti ed enormi progressi che hanno apportato importanti sviluppi in molti settori. Ad esempio, sono state create scuole secondarie per ragazzi con all’interno mense scolastiche, attirando così l’attenzione delle famiglie che hanno ritenuto economicamente più vantaggioso mandare i loro figli a scuola piuttosto che farli lavorare. I programmi e le proposte innovative che riguardano in questo caso l’istruzione rappresentano la spinta verso il cambiamento sociale del Paese e queste idee sono un aiuto utile e vantaggioso per le famiglie più povere che vivono in condizioni estremamente difficili. Prigioniere di questa difficile situazione non facile, le donne indiane sono condannate ad affrontare molti altri ostacoli per ottenere piena e pari cittadinanza. Il matrimonio infantile, sebbene illegale, è una realtà comune, specialmente in alcuni Stati dove è ormai una tradizione42 e le leggi che lo proibiscono vengono ignorate. In alcune regioni le bambine già sposate all’età di otto, nove anni hanno già la consapevolezza di essere mogli bambine e questa consapevolezza caratterizza i loro atteggiamenti verso l’istruzione, l’abbigliamento e in particolare il gioco poiché si rifiutano di godere la loro infanzia. In alcuni casi, l’atteggiamento protettivo delle famiglie nei confronti della castità delle proprie figlie esaspera la situazione così che alle bambine è raramente permesso di giocare all’aperto. Cambiare la vita delle donne in India è una dura battaglia da conquistare e solo il tempo, la costanza e la voglia di cambiare da parte delle giovani ragazze potrebbero far diventare realtà l’abbandonare per sempre una pressante tradizione. In questa era di violenza bisognerebbe sostenere fortemente la non violenza, impegnandosi nella battaglia per la difesa dei diritti umani, soprattutto delle donne e dei bambini. Il rispetto dei diritti civili è, infatti, il presupposto basilare di un sistema democratico. Per diritti civili s’intende l’insieme delle garanzie, delle libertà e degli strumenti forniti alla gente perché possa partecipare alla vita politica e sociale di un Paese. La libertà di espressione è il diritto civile più importante anche perché in essa è compresa la libertà di pensiero, di opinione, di professione religiosa e politica, cioè tutto quello che è alla base di una democrazia derivante dal modello dell’antica polis greca. In India questi diritti vengono continuamente calpestati e quando si vuole indicare un aspetto negativo di questo Paese si fa riferimento, soprattutto, alla condizione delle donne e dei bambini. L’istruzione che è l’unico strumento che i vari Stati Nazionali hanno realmente potuto usare a favore delle donne, non ha ancora raggiunto gli obiettivi previsti. Il matrimonio 42 Il matrimonio infantile è comune in molte zone dell’India. J. F. Burns in un articolo dal titolo Il matrimonio infantile è popolare in molte parti dell’India pubblicato sul “New York Times” nel 1998 prende in esame un gruppo di matrimoni infantili in Rajasthan concentrando la sua attenzione su una cerimonia in cui la sposa aveva quattro anni e lo sposo dodici. Per la legge l’età minima è di diciotto anni per le donne e ventuno per gli uomini. rappresenta attualmente per la donna l’unica via di uscita che le consente di sopravvivere dato che la società le nega occasioni di lavoro e inserimento pari a quelli degli uomini. E’ meglio, dunque, che una bambina impari, stando a casa, a fare la moglie e la madre, piuttosto che andare a scuola dove le insegnerebbero cose che nulla hanno a che fare con quello che sarà il suo ruolo futuro. Non migliore è la condizione dei bambini che sono costretti a lavorare per tentare di risollevare le sorti della propria famiglia. Sfruttati, maltrattati e senza istruzione, i bambini nascono con un destino già scritto e tutt’altro che roseo.