Recensioni - Ecologia Politica

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Recensioni - Ecologia Politica
21-01-2002 19:08
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II
Recensioni
A proposito del libro di Giovanni
Franzoni ÒAnche il cielo • di DioÓ
BENI COMUNI
E CREDITO DEI POVERI
di Raffaele Porfidia *
R
ecentemente è uscito un saggio di Giovanni
Franzoni che si intitola significativamente
Anche il cielo è di Dio (Edup, Roma 2000). Ci
si riferisce al cielo inteso sia come atmosfera che come
spazio extra-atmosferico correntemente considerato
come campo aper to alla conquista da par te dell’uomo.
Il titolo è una metafora per dire che l’atmosfera, gli
spazi celesti, l’energia solare e tutto ciò che la natura
mette a disposizione dell’umanità, è patrimonio comune della medesima e non può essere fatto proprio da
alcuno. Anzi Franzoni utilizza un concetto ancora più forte, tratto dalla cultura giuridico-filosofica anglosassone, e dice che è common heritage, cioè eredità di tutti, indivisibile e non privatizzabile. La riflessione può
continuare anche al di là del libro e infatti c’è chi ci pensa - insieme all’autore od oltre l’autore - di aprire un
dibattito pubblico sul bene comune nel secolo ventunesimo.
Si ricorda allora che le Nazioni Unite hanno promosso ed approvato una serie di trattati internazionali per
sancire la non appropriabilità della luna, di altri satelliti, dello spazio esterno alla Terra. Altri trattati riconoscono che i fondali marini - oltre la piattaforma continentale - e l’Antar tide non sono assoggettabili alla
sovranità di un singolo stato, ma costituiscono uno spazio a cui tutti possono accedere nell’interesse comune. Altri negoziati internazionali incominciano a porre al
centro dell’attenzione il problema dell’uso corretto dei
beni comuni come l’atmosfera, nella quale non si può
scaricare, per esempio, ossido di carbonio a piacimento.
Ed ecco il ragionamento di Giovanni Franzoni, il quale ricorda come il filosofo inglese John Locke, nel
secondo dei suoi Trattati sul governo (1690), citando il
Salmo 115,16 della Bibbia: “Dio ha dato la terra all’umanità in comune”, giunse ad affermare che quando si
trae qualcosa dalla natura con il proprio lavoro si può
acquisire la proprietà della cosa ad alcune condizioni:
a) che ne resti altrettanta e di uguale qualità per gli altri;
b) che non sia comunque possibile eccedere fino allo
spreco.
Locke non poteva prevedere che le risorse della Terra fossero esauribili e che, in base ai suoi principi,
avrebbe proprio dominato lo spreco e la distruzione dell’ambiente e della biosfera, ma resta il fatto che sulla
base di tali principi si è ampiamente sfruttata gran parte del mondo.
I criteri di Locke sono accettati criticamente dagli economisti di oggi. Così Rober t Nozick (Anarchy, State and
Utopia, Oxford 1974) obietta che la semplice applicazione del lavoro ad un bene comune non può dare automaticamente il diritto ad acquisirlo in proprietà, ma
occorre la compresenza di alcuni titoli procedurali:
1) un principio di giustizia nell’acquisizione originaria;
2) un principio di giustizia nel trasferimento della proprietà da un soggetto ad un altro;
3) un principio di rettifica se i precedenti principi sono
stati applicati imper fettamente.
Questo terzo principio diventa oggi fondamentale,
perché la disuguaglianza e la pover tà nel mondo moderno non possono che nascere dalla mancata applicazione del principio di giustizia posto alla base delle prime due enunciazioni.
Sempre di più, mentre si restringe fino ad annullarsi
il diritto di acquisire come proprietà par ti del bene
comune, attraverso l’uso senza contropartite da parte
di singoli soggetti - siano imprese industriali nazionali
o transnazionali o enti istituzionali con varie caratteristiche - si sviluppa e mette radici la necessità e la logica di dare campo ad un nuovo sistema che ristabilisca
giustizia nell’utilizzo del bene comune. Da qui trae origine la proposta di creare nuovo diritto internazionale
per regolare l’uso e istituire anche forme di pagamento, una imposta internazionale da destinare alla perequazione dei diritti di par tecipazione allo stesso bene
comune, a favore di chi non può acceder vi anche se ne
avrebbe titolo.
Nasce in tal modo l’idea di un Fondo per la perequazione del debito e per lo sviluppo, alimentato da questa
tassazione internazionale e gestito dalle Nazioni Unite.
Lo stesso Fondo potrebbe ricevere anche altri apporti, come le ricadute dei debiti condonati ai Paesi in via
di sviluppo. Oppure il gettito di una futura imposta come
la Tobin Tax, o ancora altre opportunità, come vere e
proprie royalties che potrebbero essere riconosciute a
livello globale nei confronti di non pochi Paesi del Sud.
Il riconoscimento del diritto a par tecipare al bene
comune sarebbe già un passo avanti rispetto alla pura
e semplice remissione. Il diritto internazionale nasce
essenzialmente da Trattati e Convenzioni internazionali. E’ dunque una gestazione difficile e le radici prime
sono proprio nei rappor ti di politica internazionale che
continuamente si formano e si consolidano. Però proprio la formazione del diritto trova alimento e ragion
d’essere nella consapevolezza diffusa di ciò che viene
inteso come giusto.
Creare diritto internazionale significa dunque creare
una dottrina condivisa su determinati argomenti, che a
livello di rappor ti internazionali verranno trasformati in
deliberazioni condivise.
* Presidente dell’ARCO
(Associazione per la Ricerca e la Comunicazione)
NB - Sul tema dei beni comuni, si terrà a Roma il 9-10 marzo p. v.
un convegno promosso dalla Fondazione internazionale Lelio
Basso, con la partecipazione dell’ARCO e di altre organizzazioni.
Domenica 27 gennaio 2002
CAS-2•mens01
ÒStati
canagliaÓ
PERCHÉ
L’AMERICA?
di Simonetta Cossu
Q
uesto interrogativo è al centro di un libro intitolato
Rogue State, di William
Blum, Zed Books, London 2001,
sottotitolo “una guida all’unica
superpotenza mondiale”. La tesi
centrale - espressa già nel titolo - è
che l’unico stato canaglia esistente
sono gli Usa. L’A par te dalla premessa che gli americani non riescono a capire perché l’11 settembre
sia capitato proprio a loro e che le
spiegazioni fornite dall’establishment statunitense non sono loro di
grande aiuto. “Siamo sotto tiro perché abbiamo la leadeship mondiale” (Consigliere alla sicurezza Sandy
Berger nel 1998, dopo il bombardamento di due ambasciate americane in Africa). “Ce l’hanno con noi non
per quel che facciamo, ma per quel
che siamo, e cioè il paese più potente e laico del mondo” (Richard
Haass, del Brookings Institution). “I
terroristi odiano gli Usa, Israele e chi
è considerato nemico dell’Islam”
(Thomas Friedman sul New York
Times). “Ci accusano di terrorismo,
ma noi siamo invece pacifisti e
democratici” (Presidente Clinton,
nel 1998). Pretendere che i terroristi siano mossi soprattutto dalla
gelosia per questo grande paese o
dall’odio che la sua potenza genera,
sostiene l’A, significa ignorare le
responsabilità che questo paese si
è assunto intervenendo in modo violento in tutte le parti del mondo, tra
cui: l’abbattimento di 2 aerei libici
nel 1981; il bombardamento di Beirut nel 1983 e 84; gli aiuti militari e
di intelligence a entrambi i contendenti nella quella Iran-Iraq 1980-88;
il bombardamento della Libia del
1986; l’abbattimento di un aereo
passeggeri iraniano nel 1988; i continui bombardamenti e le sanzioni
contro l’Iraq dopo la guerra del
Golfo; il bombardamento di una fabbrica di medicinali in Sudan nel
1998; il sostegno indiscriminato ad
Israele; la forte presenza militare in
Arabia Saudita. Interventi che agli
occhi di molti fanno apparire gli Usa
come il grande Satana. E inoltre c’è
il problema del doppio standard,
che consiste nel chiudere gli occhi
di fronte al terrorismo quando sono
in gioco gli interessi nordamericani,
politici o economici. Nel febbraio
2000, ad esempio, gli Usa di Clinton
fecero fallire la proposta di una conferenza internazionale contro il terrorismo avanzata dai 119 Paesi non
allineati del Terzo mondo, con la
motivazione che “non ne avrebbero
tratto alcun beneficio pratico”.