Leggi un estratto

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Laurie Halse Anderson
Così leggere
da bucare le nuvole
Traduzione di
Tiziana Lo Porto
Titolo originale:
Wintergirls
Copyright © Laurie Halse Anderson, 2009
All rights reserved
Progetto grafico di collana: Yoshihito Furuya
Progetto grafico di copertina: Adria Villa
http://narrativa.giunti.it
© 2010, 2015 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: settembre 2010
Ristampa
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Anno
2019 2018 2017 2016 2015
A SCOT
Perché accende il fuoco che mi riscalda
mentre fuori imperversa la tormenta. [Persefone] attonita, protese le due mani insieme
per cogliere il bel giocattolo; ma si aprì la terra
dalle ampie strade […] ella getta alte grida […]
Ma nessuno degli immortali o degli uomini
mortali udì la sua voce […]
Inno omerico a Demetra,
traduzione di Filippo Cassola Il Re ordinò che la lasciassero dormire in pace
finché non fosse arrivata la sua ora di destarsi.
Charles Perrault,
La bella addormentata nel bosco, 1696,
traduzione di Carlo Collodi
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Me lo dice così, con le parole che le vengono fuori insieme alle
briciole del muffin ai mirtilli e le virgole che si tuffano nella tazza
del caffè.
Me lo dice in quattro frasi. No, cinque.
Non vorrei ascoltarla, ma ormai è troppo tardi. Le parole s’insinuano dentro di me e mi trafiggono. Quando arriva il momento
peggiore del racconto
… corpo ritrovato nella stanza di un motel, la ragazza era sola…
… mi muro dentro e sbarro le porte. Annuisco come se ascoltassi,
come se comunicassimo, ma non è così e lei non se ne accorge.
Non è bello quando le ragazze muoiono.
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«Non volevamo che te lo raccontassero a scuola o che lo sentissi al
tg». Jennifer s’infila l’ultimo pezzo di muffin in bocca. «Sei sicura
di star bene?»
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Apro la lavastoviglie e m’infilo nella nuvola di vapore che ne
esce. Vorrei poterci strisciare dentro e rannicchiarmi tra una ciotola e un piatto. La mia matrigna Jennifer potrebbe chiudere lo
sportello, girare la manopola su 70°C e farla partire. Il vapore si
gela appena tocca la mia faccia. «Sto bene» mento.
Si allunga a prendere la scatola di biscotti d’avena all’uvetta che
è sul tavolo. «Deve essere orribile». Strappa la linguetta di cartone.
«Anzi peggio. Mi prenderesti un contenitore pulito?»
Prendo una scatola di plastica trasparente con il coperchio dalla
credenza e glieli porgo dal bancone. «Dov’è papà?»
«Aveva una riunione all’università».
«Come l’avete saputo?»
Sbriciola i bordi dei biscotti prima di metterli nella scatola così
sembra che li abbia fatti lei e non comprati.
«Ieri, a notte fonda, ha chiamato tua madre e ci ha dato la notizia. Vuole che tu vada subito dalla dottoressa Parker, senza aspettare il prossimo appuntamento».
«Tu che ne pensi?» chiedo.
«È una buona idea» dice. «Vedo se riesce a riceverti nel
pomeriggio».
«Non ti scomodare». Svuoto la rastrelliera superiore della lavastoviglie. Quando li tocco, i bicchieri entrano in vibrazione e stridono.
Se li prendo in mano, ho paura che si romperanno. «Non ci vado».
S’interrompe e mi guarda. «Cassie era la tua migliore amica».
«Non più. Vedrò la dottoressa Parker la prossima settimana,
come previsto».
«Immagino sia tu a dover decidere. Mi prometti che chiamerai
tua madre e gliene parlerai?»
«Promesso».
Jennifer guarda l’orologio del microonde e urla: «Emma, quattro minuti!».
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La mia sorellastra Emma non risponde.
È in soggiorno con una ciotola di cereali ai mirtilli, ipnotizzata
dalla televisione. Jennifer smangiucchia un biscotto.
«Detesto parlar male dei morti, ma sono contenta che non la
frequentassi più negli ultimi tempi».
Rimetto dentro la rastrelliera di sopra e tiro fuori l’altra.
«Perché?»
«Cassie era un disastro. Avrebbe rovinato anche te».
Cerco il coltello da bistecca nascosto nel cesto dei cucchiai.
Il manico nero è caldo. Nel tirarlo fuori, la lama taglia l’aria, facendo a fette la cucina. C’è Jennifer, che infila biscotti comprati
al negozio dentro un contenitore di plastica perché sua figlia
se li porti a scuola. C’è la sedia vuota di papà, che finge di non
poter proprio fare a meno di andare a queste riunioni mattutine. C’è l’ombra di mia madre, che preferisce il telefono perché
vederci faccia a faccia le ruba troppo tempo e di solito finiamo
per litigare. E in piedi c’è una ragazza che stringe un coltello.
C’è grasso sui fornelli, sangue nell’aria e parole di fuoco impilate
negli angoli. Ci hanno insegnato a non vederlo, a non vedere
niente di tutto questo.
… corpo ritrovato nella stanza di un motel, la ragazza era sola…
Qualcuno mi ha appena strappato le palpebre.
«Grazie a Dio tu sei più forte di lei». Jennifer finisce la sua tazza di
caffè e si toglie le briciole dagli angoli della bocca. Il coltello scivola
nel ceppo portacoltelli con un sibilo.
«Già». Prendo un piatto, grattando via sangue e cartilagine.
Pesa cinque chili.
Lei mette il coperchio sulla scatola dei biscotti. «Nel pomeriggio
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ho un appuntamento. Porteresti Emma a calcio? L’ a llenamento
comincia alle cinque».
«Dove?»
«Richland Park, subito dopo il centro commerciale. Tieni». Mi
passa la tazza pesante, l’impronta del rossetto sul bordo disegna
una mezzaluna insanguinata. La poso sul bancone e tiro fuori i
piatti uno per volta, con le braccia che mi tremano.
Emma entra in cucina e posa la tazza dei cereali vicino al lavello,
ancora mezza piena di latte color mirtillo.
«Ti sei ricordata i biscotti?» chiede a sua madre.
Jennifer agita il contenitore di plastica. «Siamo in ritardo, tesoro. Prendi le tue cose».
Emma arranca verso lo zaino, con le scarpe da ginnastica slacciate. A quest’ora dovrebbe essere ancora a letto, ma quattro giorni
a settimana la moglie di mio padre la accompagna a scuola prima,
per le lezioni di violino e di francese. In terza elementare non si è
più troppo piccoli per arricchirsi, sai com’è.
Jennifer si alza. La stoffa della gonna la stringe così tanto sulle
cosce che le tasche restano aperte. Prova a lisciarsi le pieghe. «Non
lasciarti convincere da Emma a comprarle le patatine prima dell’allenamento. Se ha fame può mangiare una macedonia».
«Devo restare lì e riportarla a casa?»
Scuote la testa. «La riportano i Grant». Prende il cappotto
dalla spalliera della sedia, infila le braccia nelle maniche e inizia
ad abbottonarselo. «Perché non prendi un muffin? Ieri ho comprato le arance, oppure puoi farti un toast o i waffle che ci sono
in freezer».
Perché non posso Perché non mi va un muffin (410 calorie),
non voglio un’arancia (75) né un toast (87), e i waffles (180) mi
fanno vomitare.
Indico la ciotola vuota sul bancone, vicino all’ammasso di botti12
gliette di pillole e alla scatola di cereali ai mirtilli. «Prendo i cereali».
Lei lancia un’occhiata all’armadietto dove ha attaccato con lo
scotch la mia dieta. È arrivata insieme alle carte di dimissione dalla
clinica quando mi sono trasferita qui, sei mesi fa. L’ ho portata giù
in cucina tre mesi dopo, per i miei diciott’anni.
«È troppo poco per colazione» dice cautamente.
Potrei mangiare la scatola intera Probabilmente non riuscirò
nemmeno a finire la ciotola. «Ho lo stomaco sottosopra». Apre di
nuovo la bocca. Esita. Un alito di fiato mattutino intriso di caffè
attraversa in volo la cucina immobile e m’investe. Non dirlo – non
dirlo.
«Fiducia, Lia».
L’ ha detto.
«È questo il problema. Soprattutto adesso. Non vogliamo…»
Se non fossi così stanca, ficcherei le parole fiducia e problema
nel tritarifiuti e lo lascerei acceso tutto il giorno.
Tiro fuori dalla lavastoviglie una ciotola più grande e la metto
sul bancone. «Io. Sto. Bene. Ok?»
Lei sbatte le palpebre due volte e finisce di abbottonarsi il cappotto. «Va bene. Ho capito. Allacciati le scarpe, Emma, e fila in
macchina». Emma sbadiglia.
«Aspetta». Mi chino ad allacciare le scarpe di Emma. Doppio
nodo. Alzo lo sguardo. «Non posso continuare ad allacciartele io,
lo sai. Sei troppo grande».
Lei ridacchia e mi stampa un bacio sulla fronte. «Sì che puoi,
scema». Mentre mi alzo, Jennifer fa due passi incerti verso di me.
Aspetto. È una falena pallida e rotonda, impiastricciata di fondotinta troppo chiaro, attrezzata per la giornata con la sua valigetta
da banchiere, borsetta e telecomando per aprire il suo SUV in leasing. Svolazza nervosa. Aspetto. È il momento in cui dovremmo
abbracciarci o baciarci o fare finta di farlo.
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Si stringe la cintura in vita. «Ascolta… oggi tieniti impegnata.
Ok? Cerca di non pensare troppo».
«Ok».
«Saluta tua sorella, Emma» incita Jennifer.
«Ciao, Lia». Emma saluta col braccio e mi fa un sorrisetto ai
mirtilli. «I cereali sono buonissimi. Puoi finire la scatola se vuoi».
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Verso troppi cereali (150) nella ciotola, galleggiano nel latte al due
per cento di grassi (125). La colazione è ilpastopiùimportantedellagiornata. La colazione farà di me una campionesssssa.
… Quando ero una ragazza vera, con due genitori e una casa e
niente lame lucenti, la colazione era fatta di muesli con sopra fragole fresche, che mangiavo sempre leggendo un libro appoggiato
alla ciotola della frutta. A casa di Cassie mangiavamo waffles con
sopra lo sciroppo d’acero genuino, non quella schifezza che fanno
col mais, e leggevamo i passaggi più divertenti…
No. Non posso. Non voglio pensare. Non voglio guardare. Non voglio contaminarmi con i cereali ai mirtilli né con i muffin né tanto
meno con ruvidi pezzi di toast. Lo sporco e gli errori del passato
sono scivolati via, lontano da me. Dentro sono color rosa brillante,
sono pulita. Vuoto è bello. Se sei vuoto, sei più forte.
Ma devo guidare.
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… L’ anno scorso guidavo, coi finestrini aperti, la musica a palla,
il primo sabato di ottobre, planando verso gli esami di fine anno.
Guidavo io così Cassie poteva passarsi la seconda mano di smalto
sulle unghie. Eravamo sorelle segrete con un piano per il dominio del mondo e tante opportunità che ci scoppiettavano intorno
come bollicine di champagne. Cassie rideva. Io ridevo. Eravamo
la perfezione.
Avevo fatto colazione? Certo che no. Avevo forse cenato la sera
prima o pranzato o altro?
La macchina davanti alla nostra frenò, il semaforo giallo diventò rosso. La mia infradito sfiorava il pedale. Non sentivo più
la punta dei piedi. Scarabocchi neri mi si attorcigliavano su per
la spina dorsale e mi avvolgevano gli occhi come una sciarpa di
seta. La macchina davanti a noi scomparve. Il volante, il cruscotto,
spariti. Niente più Cassie, né semaforo. Che avrei dovuto fare per
porre fine a tutto questo? Cassie urlò al rallentatore.
::Marshmallow/air/esplosione/bag::
Quando tornai in me, il medico del pronto soccorso e un poliziotto
erano lì davanti preoccupati. L’ automobilista contro cui ero andata
a sbattere stava urlando al cellulare.
Avevo la pressione di un serpente. Il cuore era affaticato. I polmoni avevano bisogno di riposo. Mi conficcarono un ago nel braccio, gonfiandomi come fossi un palloncino, e mi portarono in un
ospedale accompagnata da infermieri dagli occhi di ghiaccio che
annotavano tutti i dati negativi. A penna. Ero in trappola.
Mamma e papà corsero dentro, per una volta l’uno accanto
all’altra, felici che non fossi morta. Un’infermiera passò il referto
a mia madre. Lei lo lesse e spiegò la situazione disastrosa a mio
padre e poi litigarono, una lite che venne giù come una colata di
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fango che si allargava fin sopra le lenzuola e poi si allontanava
verso l’ingresso.
Ero stressata/ossessiva/maniaco/non-depressiva/non-bisognosa di attenzioni/non-bisognosa di disciplina/bisognosa di riposo/
bisognosa/colpa tua/colpa tua/colpa/colpa. Impressero il marchio
a fuoco della loro guerra su una ragazza pelle e ossa.
Fecero qualche telefonata. I miei mi costrinsero ad andare al
all’inferno sulla collina New Seasons…
Cassie scappò, come al solito. Neanche un graffio. L’ assicurazione avrebbe più che coperto il danno, e lei ci avrebbe ricavato
una macchina rimessa a nuovo e delle casse nuove per lo stereo. Le
nostre madri si fecero una chiacchierata, ma sul serio ci passano
tutte le ragazze e tu che hai intenzione di fare? Cassie rimandò gli
esami e si fece fare la manicure in un salone di bellezza, l’Enchanted
Blue, mentre io venni rinchiusa e le mie vene riempite di goccioline
di acqua e zucchero…
Lezione imparata. Per guidare ci vuole la benzina.
Niente cereali ai mirtilli di Emma.
Tremo mentre verso quasi tutta la poltiglia nella pattumiera e
poso la ciotola sul pavimento. I gatti di Emma, Kora e Pluto, zampettano lentamente attraverso la cucina e infilano la testa dentro la
ciotola. Disegno una faccetta con una grossa lingua su un post-it,
ci scrivo sopra GNAM GNAM, EMMA! GRAZIE! e lo schiaffo
sulla scatola dei cereali.
Mangio dieci uvette (16), cinque mandorle (35) e una pera verde (121) (= 172). I bocconi mi scivolano giù per la gola. Mangio
le mie vitamine e gli stupidi semini che impediscono al mio cervello di esplodere: uno lungo viola, uno grosso bianco, due rosso
papavero.
Li mando giù tutti con l’acqua calda.
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Speriamo facciano effetto alla svelta. La voce di una ragazza
morta mi aspetta al telefono.
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Arrampicarmi di sopra richiede più tempo del solito.
Dormo in fondo al corridoio, in un posticino ancora arredato
come la stanza degli ospiti. Pareti bianche. Tende gialle. Il divano letto resta sempre aperto, la scrivania viene da un mercatino
dell’usato. Jennifer non fa che offrirsi di comprarmi mobili nuovi,
ridipingere la stanza o mettere la carta da parati. Le ho detto che
non so ancora cosa farò. Probabilmente dovrei cominciare a svuotare le pile di scatoloni impolverati.
Il telefono mi aspetta in cima alla pila dei vestiti sporchi, nel
punto esatto in cui è atterrato quando l’ho scagliato contro il muro
domenica mattina, di buon’ora, perché il suo continuo squillare mi
stava facendo diventare matta ed ero troppo stanca per spegnerlo.
… L’ ultima volta che mi chiamò fu sei mesi fa, quando ero uscita
dall’ospedale per la seconda volta. L’ avevo chiamata quattro o cinque volte al giorno, ma non mi rispondeva né richiamava, finché finalmente si decise a farlo. Mi disse di ascoltarla, che non ci avrebbe
messo tanto. Io ero la causa di ogni male, disse Cassie. Un’influenza
negativa, una nube tossica. Mentre io venivo rinchiusa, i suoi genitori l’avevano trascinata da un dottore che le aveva fatto il lavaggio
del cervello e l’aveva imbottita di pillole e parole vuote. Aveva bi17
sogno di andare avanti con la sua vita, di ridefinire i suoi confini,
questo disse. Io ero la ragione per cui saltava la scuola e andava
male in francese, la causa di tutto ciò che era cattivo e pericoloso.
Sbagliato. Sbagliato. Sbagliato.
Io ero la ragione per cui non era scappata via al primo anno di
liceo. Io ero la ragione per cui non aveva ingoiato una boccetta di
sonniferi quando il fidanzato l’aveva tradita. L’ ascoltavo per ore
quando i suoi genitori le urlavano dietro e cercavano di infilarla
a forza in un ruolo che non le si addiceva. Riuscivo quasi sempre
a capire cosa scatenasse le sue crisi. Sapevo quanto facesse male
essere la figlia di gente che non riesce a vederti, nemmeno se gli
stai davanti e batti i piedi. Ma ricordarsi di tutto questo era troppo
complicato per Cassie. Era più facile per lei scaricarmi un’ultima
volta. Trasformò la mia estate in un periodo di desolazione. Quando iniziò la scuola, nei corridoi faceva finta di non vedermi, con le
sue nuove amiche appese al collo come collanine di carnevale. Mi
cancellò dalla sua esistenza.
Poi è accaduto qualcosa. Tra sabato notte e domenica mattina, mi
ha chiamato.
Logicamente non ho risposto. Mi stava chiamando perché era
ubriaca o per farmi qualche scherzo. Non le avrei permesso di
fregarmi diventando di nuovo sua amica per poi essere scaricata
ancora una volta.
… corpo ritrovato nella stanza di un motel, la ragazza era sola…
Non ho risposto. Non ho ascoltato i suoi messaggi ieri. Ero così
arrabbiata che non riuscivo nemmeno a guardare il telefono.
Mi sta ancora aspettando.
Mi siedo sulla montagnetta dei pantaloni del pigiama e delle
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felpe da lavare e cerco il telefono. Lo apro. Cassie ha chiamato
trentatré volte, la prima telefonata è delle 23.30 di sabato.
ASCOLTA MESSAGGI
«Lia? Sono io. Chiamami».
Cassie.
Secondo messaggio: «Dove sei? Richiamami». Cassie.
Terzo: «Non sto scherzando. Overbrook. Ho davvero bisogno
di parlarti».
Cassie, due giorni fa, sabato.
«Chiamami».
«Ti prego, ti prego, chiamami».
«Senti, mi dispiace sono stata una stronza. Per favore».
«Lo so che stai ascoltando i messaggi».
«Dopo puoi pure arrabbiarti con me, ok? Ma adesso ho sul serio
bisogno di parlarti».
«Avevi ragione, non era colpa tua».
«Sei la sola con cui posso parlare».
«Oddio».
Dall’1.20 alle 2.55 ha provato a chiamarmi quindici volte.
Poi: «Ti preeego, Lia-Lia». Farfugliava.
«Sono tristissima. Non ce la faccio più».
«Chiamami. È un disastro».
Ancora due chiamate.
3.20, farfugliando ancora di più: «Non so cosa fare».
3.27. «Mi manchi. Mi manchi».
Seppellisco il telefono in fondo alla pila di vestiti e m’infilo una
felpa più pesante prima di andare in macchina. L’ inverno arriva
presto nel New Hampshire.
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Sono superpuntuale ma finisco in mezzo a un ingorgo. Al volante delle macchine intorno ci sono delle vacche grasse e dei tori
muggenti. Avanziamo a dieci all’ora. Io posso andare più veloce di
così. Freniamo. Ruminano e muggiscono nei loro telefoni, finché
la mandria non si rimette in movimento e avanza di nuovo. Venticinque all’ora. Non so andare così veloce.
A un certo punto tra Martins Corner e la Route 28, mi metto a
piangere. Accendo la radio, canto con tutto il fiato che ho in gola,
la spengo di nuovo. Prendo a pugni il volante fino a farmi male e a
ogni chilometro piango più forte. La pioggia scende sul mio viso.
… corpo trovato nella stanza di un motel, la ragazza era sola…
Che ci faceva lì? A che pensava? Avrà sofferto?
Non c’è motivo di chiedersi perché, anche se tutti se lo staranno
chiedendo. Io lo so perché. La domanda più difficile è: “perché
no?”. Non posso credere che abbia finito le risposte prima di me.
Devo correre, volare, battere le ali così forte da non sentire
niente al di là del battito del mio cuore. Pioggia, pioggia, pioggia
che mi sommerge.
È stato facile?
Non prendo scorciatoie, non mi dimentico di svoltare all’alimentari all’angolo, non mi perdo, nemmeno di proposito. Arrivo a scuola col pilota automatico; in ritardo per loro, in anticipo per me.
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Gli ultimi pullman sono appena partiti dall’ingresso principale.
Scendo dall’auto e la chiudo.
Il vento implacabile di novembre mi spinge contro l’edificio. La
neve pungente viene giù a spirale dalle nuvole di glassa sopra di me.
La prima neve. Magica. Tutti si fermano e alzano gli occhi. Il gas
di scarico del pullman si congela in una nuvola che non fa uscire
il rumore dello scappamento. Gela anche il portone della scuola.
Buttiamo indietro la testa e spalanchiamo la bocca.
La neve scivola nelle nostre bocche di zombi fra unto, imprecazioni e pezzi di tabacco, e scende tra tutto quello che abbiamo
dentro. Per un istante non siamo bocciature agli esami e preservativi rotti e temi copiati; siamo matite e pranzi al sacco e arriviamo
così in alto che con le scarpe da ginnastica buchiamo le nuvole.
Per un respiro tutto sembra migliore.
Poi si scioglie.
Gli autisti dei pullman avviano i motori e la nuvola congelata si
dissolve. Tutti si trascinano avanti. Non si rendono conto di cosa
sia appena accaduto. Non se lo ricordano già più.
Mi aveva chiamato.
Torno in macchina, entro, accendo il riscaldamento e mi asciugo
la faccia sulla maglietta. 7.30. Emma ha appena finito francese e
sta tirando fuori il violino. Passerà troppo tempo a impeciare l’archetto e troppo poco ad accordarlo. Il Concerto d’Inverno è tra
poche settimane e ancora non sa i pezzi. Dovrei darle una mano.
Cassie è all’obitorio, credo. Stanotte ha dormito lì in un cassetto
di metallo, con gli occhi che si abituavano al buio.
Jennifer ha detto che faranno un’autopsia. Chi le toglierà i vestiti? Le faranno un bagno, degli sconosciuti la toccheranno? Potrà
vederli? Piangerà?
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