La fragilità dei giovani nella società dei consumi
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La fragilità dei giovani nella società dei consumi
In collaborazione con Arcidiocesi di Lucca 14 aprile 2007 La fragilità dei giovani nella società dei consumi Incontro con Miguel Benasayag per il Gruppo “Stili di vita” Introduzione di Don Bruno Frediani Abbiamo organizzato questo incontro, volendo offrire agli operatori che lavorano tra i giovani la possibilità di riflettere e di socializzare le conoscenze. La Provincia e il CeSDoP hanno avviato recentemente un percorso di riflessione sul tema del disagio giovanile e degli stili di vita; ed è in questo contesto che è nata l’idea di questo incontro, come una riflessione da proporre al gruppo “stili di vita”. Miguel Benasayag è di origine argentina. In Argentina ha partecipato al movimento contro il regime militare, è stato in prigione per alcuni anni e successivamente è arrivato a Parigi, dove lavora come psicologo ed insegnante universitario. Ha scritto diversi libri, molti dei quali tradotti in italiano. Noi l’abbiamo invitato per parlarci del suo libro “L’epoca delle passioni tristi”. Quando l’abbiamo letto, ne siamo rimasti colpiti ed abbiamo pensato che Miguel fosse una persona che ci avrebbe ben aiutato a comprendere la situazione dei giovani e della società in cui essi vivono. Intervento di Miguel Benasayag Questo incontro ci consentirà di scambiare idee e opinioni, visto che siamo tra colleghi, tra persone che lavorano nello stesso ambito. La caduta della fede nel progresso Per quanto riguarda le problematiche psicopatologiche che sono più vicine al lavoro sociale, penso che la crisi che stiamo attraversando sia identificabile come una rottura rispetto all’elemento centrale del mito antropologico che reggeva la nostra società, ovvero la fede nella forza del progresso e nelle sue capacità illimitate. E’ difficile parlare della crisi della cultura in termini globali, perché si rischia di essere troppo riduttivi. Possiamo comunque essere d’accordo sul fatto che ciò che si è rotto, come già detto, è la fiducia in quello che possiamo definire il mito del progresso. La nostra società si è bruscamente risvegliata da questo sogno del progresso con il trauma della complessità del reale. Leibniz distingueva tra quello che è logicamente possibile e ciò che è com-possibile: il possibile è tutto ciò che non comporta contraddizione logica nel volerlo realizzare, il com-possibile è quello che può essere composto rispetto alla realtà complessa. Usciamo da un periodo in cui ci dicevamo che la pace era un obiettivo logicamente possibile e che perciò avremmo raggiunto; allo stesso modo pensavamo che anche eliminare l’ingiustizia sarebbe stato un obbiettivo logicamente possibile. Sappiamo che alcuni di questi sogni di giustizia hanno partorito mostri di ingiustizia, sappiamo che il sogno di vincere la malattia ha fatto emergere nuove malattie. Siamo quindi testimoni di un periodo in cui quello che era stato soppresso emerge con forza: pensavamo che la luce potesse vincere definitivamente sulle ombre, ma purtroppo in molti casi è l’oscurità che sembra prevalere…ma non vogliamo e non possiamo cedere al pessimismo che ci circonda. La domanda che ci poniamo è la seguente: come possiamo lottare ed educare ad una idea di giustizia, senza costruire un modello destinato a deludere e senza cedere alla disperazione? Il problema dell’autorità e del fallimento Il problema è che la gioventù, non solo dei paesi occidentali, è in un certo senso figlia di un fallimento. Non possiamo affrontare i problemi associati alla violenza o alle dipendenze come se fossero meramente tecnici. Oggi in Francia negli ambienti della pedo-psichiatria si parla spesso del problema dell’autorità, perché ci sono grosse difficoltà nel presentare ed imporre qualsiasi tipo di autorità, forse perché dal punto di vista antropologico l’autorità si basa sull’anteriorità, ovvero sul fatto di poter mostrare un percorso fondante per l’autorità stessa. Come diceva Michel Foucault l’autorità non è un concetto secondo cui un soggetto la possiede e l’altro la subisce, è piuttosto una situazione nella quale entrambi i soggetti sono totalmente concordi e consapevoli, accettando le due facce della medaglia che la nozione di autorità inevitabilmente comporta. Nei confronti dei giovani che educhiamo o che curiamo non possiamo comportarci posizionandoci al di fuori del fallimento, come se non fossimo coinvolti, perché il fallimento riguarda anche noi, ci tocca direttamente. Non possiamo trattare le persone che abbiamo in cura come se loro fossero in crisi e noi ci posizionassimo all’esterno. Siamo entrambi, anche se in posizioni diverse, coinvolti dalla stessa crisi. Viviamo un periodo fortemente minacciato dalla tentazione autoritaristica, perché come in qualsiasi periodo in cui il principio di autorità si diluisce, sale la tentazione di imporla con la forza. L’epoca di Dio, quella dell’uomo…e quella del neoliberismo Vorrei citare ancora Foucault, secondo il quale le società erano ordinate e regolamentate in base al concetto di Dio, mentre l’uomo e la creazione si posizionavano su un altro livello. Foucault diceva che dopo l’epoca di Dio sarebbe arrivata l’epoca dell’uomo, nella quale l’uomo sarebbe diventato il proprio messia, portatore della propria promessa. Un uomo che arriva ad astrarsi dalla realtà diventando lui stesso artefice del suo destino. Oggi potremmo dire, pensando ancora a Foucault, che viviamo nell’epoca successiva a quella dell’uomo, perché non sappiamo ancora chi prenderà il posto che prima è stato di Dio e poi dell’uomo stesso; un posto che oggi è occupato dalle forze cieche del neoliberalismo. Durante l’epoca di Dio si diceva che l’uomo era mosso da una forza divina; nell’epoca dell’uomo è l’uomo stesso ad essere il motore di qualunque cosa; oggi si afferma che l’economia è più importante dell’uomo. Ed in quest’ultima visione l’uomo è come una foglia trascinata da una tempesta (l’economia neoliberista), ed è questa forza, questa tempesta che aspira a diventare il soggetto egemone. Quando parliamo della medicina si dice che deve essere al servizio dell’uomo e non all’economia, ma sappiamo bene che così non è. La stessa cosa vale per l’educazione: i programmi scolastici non sono infatti più costruiti intorno a concetti e valori umanistici, ma intorno all’economia, per far sì che i giovani diventino economicamente produttivi. A cosa servirà, ci si chiede, ognuno di questi giovani? Tutti saranno chiamati a giustificare la propria esistenza in termini di utilità economica. Nell’ambito della creazione artistica avviene lo stesso processo: anche in questo campo il concetto imperante di utilità economica avanza. Spesso siamo tentati di combattere questa offensiva economicista sostenendo che tutto deve ruotare intorno all’uomo. Ma seguendo questa via è impossibile resistere a questa offensiva; pertanto dobbiamo individuare le nuove strutture ed i nuovi sistemi che ci aiuteranno nel processo di resistenza. Ciò che potrà prendere il posto dell’uomo, che non sia la barbarie neoliberista, sarà forse una figura mista, un sistema nel quale si creerà una nuova armonia con la natura e intorno alla solidarietà. Non è infatti più concepibile un uomo separato dalla natura e non è più sostenibile una visione antropocentrista della società. La nuova “figura mista” Questa figura mista deriva dai lavori che sto portando avanti, lavori che si prefiggono lo scopo di capire in che modo la costruzione individuale è una storica, di comprendere il processo che ha costituito l’umanità. Lavoriamo su questo tema in ottica antropologica, sociologica ma anche neurofisiologica, in base alla neurofisiologia della percezione. Quello che si cerca di capire è il modo in cui si costruiscono la coscienza dell’essere come individuo ed i miti fondatori di una cultura. L’epoca dell’uomo è caratterizzata dal fatto che l’individuo è l’entità centrale, e l’umanità è composta da individui. In questa visione la struttura genera una coscienza che pensa e ordina al corpo - inteso come corpo sociale o individuale - quello che deve fare. L’epoca dell’uomo era dominata dalla coscienza cartesiana che parte dall’uomo per comprendere il reale, successivamente ci si basa sul concetto che la coscienza è un elemento estremamente periferico nella percezione che l’uomo ha del reale. Nella composizione mista di cui parlavo prevale l’esigenza di accettare che la separazione dell’unità non può passare dall’uomo, che viene percepito come un elemento di inclusione nel paesaggio e nella realtà. Tutto questo implica che quando si parla di giustizia non ci si può limitare all’accezione sociale, perché questo concetto va al di là dall’uomo e dell’elemento individuale. La tristezza e l’emergenza Il concetto di tristezza l’ho preso da Spinoza che non parla di passioni tristi come un sentimento che porta alla malinconia, ma piuttosto alla perdita di potenza. La nostra epoca è caratterizzata dalle passioni tristi, nel senso che ci sentiamo sempre più incapaci di cambiare la realtà che ci circonda, il fatalismo prevale e le persone sentono che non riescono a controllare la loro vita. Nessuno può dire “non voglio ammalarmi”, perché se arriva una epidemia può toccare chiunque; nessuno può dire “farò in modo di non perdere il lavoro”, perché non è difficile essere licenziati. Le persone hanno quindi la percezione di avere perso il controllo sulla propria vita. Come psicanalista, quando ricevo giovani e giovanissimi pazienti, sento dire da loro che sono costretti a vivere in una situazione di costante emergenza, sono chiamati a reagire in modo immediato. Quindi le persone hanno la percezione del fatto che manca il tempo vivere e sono costretti a vivere solo ed unicamente reagendo a stimoli e pericoli che arrivano dall’esterno. Negli ambulatori di pedopsichiatria francesi ci si è resi conto che il 75-80% delle nuove patologie derivano da una crisi sociale e non da altre cause. Quello che constatiamo è che la crisi sociale si manifesta nel corpo delle persone. Uscire dall’emergenza utilitaristica Nella creazione della linea di resistenza che fronteggia la crisi si passa attraverso la presa di coscienza del fatto che il primo elemento che è andato distrutto è il legame che esisteva con la società, con i nuclei familiari e con se stessi. Per quello che mi è dato di sapere, quando si ha a che fare con queste realtà complesse, è necessario prendere coscienza del fatto tali problemi vanno al di là di fatti meramente tecnici. Bisogna far capire alle persone che è necessario uscire dall’emergenza per riappropriarsi del tempo di vivere e di pensare. Questa urgenza è l’immediata conseguenza di una concezione utilitaristica della realtà, in cui tutto ciò che è presente deve avere una utilità, qualsiasi tipo di intervento e di azione deve essere fatto con uno scopo preciso. Tale utilitarismo è solo apparentemente razionale, perché quello che sta alla base di questo concetto è irrazionale ed è fondato sulla nozione di sacrificio, che porta a rinunciare a tutto quello che non è produttivo, utile, ecc. Quando si prende la decisione di chiudere un ambulatorio o di disattivare una linea ferroviaria, perché non sono realtà redditizie, si attua un comportamento di tipo sacrificale, introducendo nella società un elemento negativo che alla lunga avrà un impatto economico ben maggiore rispetto al costo del servizio che è stato sacrificato. Quando parlo di resistenza, la prima cosa da fare è arrestare un modo di vivere basato sull’emergenza e sull’urgenza utilitaristica, cercando invece di riflettere sui circuiti che sono alla base del nostro lavoro. E forse proprio negli aspetti che sembrano meno significativi possono esserci elementi di grande importanza. Resistere significa anche lottare, ma lottare è sempre più facile di quanto non lo sia creare. Ho vissuto la prima parte della mia vita in Argentina, per 12 come membro della resistenza alla dittatura militare, e per 4 anni e mezzo sono stato in carcere come oppositore politico. Oggi invece vivo e viviamo nella società moderna neoliberale, una condizione in cui la resistenza è sicuramente meno dura, ma più difficile, perché l’esigenza non è solo la lotta, ma anche la creazione di qualcosa. Quale legame? Il problema è che molti insegnanti hanno la tendenza a costruire la propria azione sul legame, e la difficoltà sta nel fatto che molti ragazzi percepiscono questo tentativo di allacciare un legame come un pericolo. Questo perché il legame è percepito nella nostra società come una catena che ci impedisce il volo. Anche in amore un legame troppo stretto è visto come patologico. Nel rapporto d’amore o nel rapporto con la famiglia, spesso si confonde il legame con il rapporto d’amore immediato. Ma c’è molta differenza tra i due concetti! Faccio un esempio concreto: avevo una paziente che aveva adottato due bambine cilene, a cui, mi aveva detto, non voleva più bene. Le risposi che il voler bene o meno non rimette in discussione il legame. Spesso si ha la percezione che quando esiste un legame di solidarietà, ciò indica la presenza di un problema. Quando una persona è forte si pensa invece che non abbia bisogno di legami. Quindi è necessaria un’opera educativa diversa, perché se educhiamo basandoci sul legame, c’è il rischio che questa venga percepita come una pressione, come un tentativo di violenza: l’altro diventa infatti un ostacolo, un qualcosa che tenta di frenarci. Anche noi quando viviamo un periodo problematico abbiamo la percezione di non essere più noi stessi; questo è il motivo per cui i legami vengono spezzati e messi in discussione. Il desiderio e le voglie Quando si parla di desiderio e di potenza non bisogna mai mettersi nei confronti delle persone con le quali interagiamo, nella posizione di colui che sa. Il problema è di chiedersi da dove passa il desiderio e la potenza in ogni persona…e a noi non rimane che metterci in ascolto. E’ importante accompagnare la persona che seguiamo facendogli capire che il desiderio è diverso dalla semplice voglia. E’ vero che le voglie, nella maniera in cui ci vengono presentate dalla pubblicità e dai mass-media, sono un fenomeno immediato ed evidente. Nella voglia c’è quindi un aspetto di immediatezza; il desiderio è invece un lavoro di ricerca molto lungo e non sappiamo mai veramente cosa desideriamo. Non possiamo ad esempio desiderare un auto, né una persona, perché il desiderio è il frutto di una composizione nella quale entrano in gioco diversi elementi. Quindi più un giovane è soggetto a voglie, meno è libero e meno vive, perché è prigioniero dell’immediatezza. Un altro elemento che dobbiamo riuscire a capire è che più siamo catturati dalle voglie, meno siamo singolari. “L’uomo senza qualità” In alcune popolazioni sudamericane l’educazione inizia con una lunga fase di attesa: si aspetta che il bambino faccia capire in quale direzione si svilupperà, verso dove emergeranno le sue affinità elettive; in questo caso l’attenzione è posta sulle affinità e non sulle competenze. A proposito di competenze, nel romanzo di Musil “L’uomo senza qualità”, questa tipologia umana è decritta (l’uomo senza qualità appunto) come un essere vuoto ma specializzato. Fare filosofia in un liceo significa aiutare i ragazzi a non cadere nella trappola della ricerca delle loro competenze, ma piuttosto nell’attesa che i loro desideri emergano. La clinica del legame Penso che esista quella che chiamiamo “clinica del legame”. Ad esempio quando una famiglia si trova in difficoltà, non è perché un membro è psicotico, ma perché in quella famiglia esiste una psicosi. Seppur in modo diverso tutti possiamo essere toccati dal problema di avere in famiglia una persona psicotica…e non penso proprio che un fratello possa dire “non mi interessa se mio fratello è psicotico”. Qui il legame c’è, ed è giusto che ci sia. Possiamo però dire che se un legame è imposto, questo non è un vero legame, perché deve essere una costruzione condivisa, non unilaterale. Nella società attuale il bambino vede il suo insegnante come una persona molto lontana da ciò che desidererà essere. In questo caso entrambi si trovano in una situazione problematica, fino ad arrivare legittimamente a chiedersi cosa è che li unisce, perché si trovano insieme in quel luogo. Spesso gli insegnanti in questo tipo di situazione “armano” i ragazzi di competenze affinché siano in grado di sopravvivere nella società. Quindi per l’insegnante la difficoltà sta nel fatto che deve accettare il fatto di non sapere ed esprimere con amore e tolleranza il proprio dubbio rispetto a quel legame; non può in sintesi far finta di sapere in quale modo questo legame si crea. LA TRASCRIZIONE DELL’INCONTRO NON E’ STATA RIVISTA DAL RELATORE Miguel Benasayag (Buenos Aires, 1953), fiolosofo e psicoanalista argentino, vive e lavora a Parigi. E' autore di numerosi libri, tra cui "Utopie et liberté" (1986) e "Penser la liberté" (1991). In traduzione italiana sono già usciti "Scommessa d'amore" (Bologna 1996), con Dardo Scavino, "Il Mito dell'individuo" (Milano 2001), "Per una nuova radicalità" (Milano 2004), "Contro il niente. ABC dell'impegno" (Feltrinelli 2005), "Il mio Ernesto Che Guevara. Attualità del guevarismo" (Centro Studi Erikson 2005).