The program - San Giuseppe
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The program - San Giuseppe
CINECIRCOLO “ROBERT BRESSON” Brugherio °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°° Mercoledì 2, giovedì 3 e venerdì 4 marzo 2016 Inizio proiezioni ore 21. Giovedì anche alle ore 15 “Per me più che sul ciclismo The Program è una crime story, un film diverso da tutti quelli che ho fatto finora. Armstrong ha rubato sette giri di Francia, come rubare la Gioconda. È un uomo che nella vita ha fatto male e bene, ma il film non lo giudica, non è il mio compito giudicare.” Stephen Frears The Program di Stephen Frears con Ben Foster, Chris O'Dowd, Dustin Hoffman, Lee Pace, Jesse Plemons Gran Bretagna 2015, 103’ °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°° l film è già in corsa, l’inizio è folgorante. Una voce fuori campo ci dice che su quella bicicletta pedalano la fame e i desideri di un sognatore, volato dall’altra parte del mondo a ri(n)tracciare le coordinate del vecchio american dream. Questa è la storia di Lance Armstrong, ovviamente, la storia del ragazzone texano accecato dal sogno di essere il “numero uno del ciclismo su strada”, che da giovane promessa (campione del mondo a soli 22 anni nel 1993) sconfigge un cancro e torna in gara più forte di prima. Un fenomeno. Sette Tour de France vinti consecutivamente, record assoluto, superiorità schiacciante, ma… l’amicizia imbarazzante con il discusso dottor Michele Ferrari e l’ombra del doping lo perseguiterà sempre, sino a schiacciarlo. Siamo proprio sicuri, però, che questo The Program sia solo un fedele biopic? Vediamo. Stephen Frears, si sa, gira ormai con collaudatissimo mestiere: mai un’inquadratura fuori posto, mai un momento di stanca, il film fila via come la corsa perfetta di Lance ai bei tempi (quelli dopati), con le discese in apnea incollati alle sue ruote, i pavè frastagliati che fanno battere i denti, le salite ansimanti e le maglie gialle che si susseguono frame by frame sulle note di una clamorosa colonna sonora pop-rock. Ecco, la straordinarietà del film sta proprio in questa sua doppia anima: da un lato l’andatura costante da fedelissimo biopic (nato da una rigorosa documentazione e da un ottimo montaggio di materiali d’archivio), e dall’altro gli strappi improvvisi sui gustosi rimandi al sistema dei generi hollywoodiani. Il film parte come un action anni ‘80 (la velocità, la fame, il desiderio, la vittoria a tutti i costi!), si trasforma in una crime story dalle venature horror (il dottor Ferrari ha le fattezze di un Nosferatu dei nostri giorni, vero vampiro del film che risucchia il discepolo Lance nel lato oscuro della scienza), fa “tappa” nel sottogenere dei film sul giornalismo di inchiesta (con tanto di reporter del Sunday Times dalla pakuliana etica incrollabile) e infine plana sul Gangster Movie più iconico (Armstrong è dipinto come uno scarface che scala il successo a tutti i costi e ottiene il suo sogno, “the world is yours”, ma in appena sette anni crolla il Mito e crolla l’impero). Insomma tutta l’impalcatura da biopic è istantaneamente adattata a una miriade di umori-di-genere che lo spettatore riconosce, cataloga e rimette in circolo con sommo piacere. Certo ci sono ovvie semplificazioni e forzature, certo sarebbe assurdo pensare che i “fatti” si siano susseguiti con così perfetta consequenzialità… ma qui siamo dalle parti di un ottimo film di intrattenimento. Programmati insieme a Lance, poi, sono gli stessi media. Le telecamere onnipresenti e la Tv-come-vita, i titoloni dei giornali in sovrimpressione e l’ossessione per la pubblicità, il sogno del cinema (…) e infine il continuo riferirsi a un pubblico che lo ascolta. Il Tour de France, allora, diventa il Tour de Lance nella mitologia popolare: la favola dell’atleta che sconfigge il cancro e diviene invincibile, potente e amico di tutte le star. Insomma un “eroe”. Le sue evidentissime bugie (“negare! Negare sempre!”) devono restare nell’ombra, pertanto, perché a tutti conviene così, perché lo show deve continuare. (…) Siamo in pieno Tour de Lance, dicevamo: dalla terribile malattia al fatale incontro con Ferrari; dal programma per raggiungere la prestazione perfetta alle milionarie donazioni per la ricerca sul cancro; dall’EPO in siringa che produce “il volo” verso sovrumane vittorie al virus morale che contagia gli altri giovani discepoli (straordinario il personaggio di Floyd Landis, pennellato in poche sequenze dai boschi sperduti della Pennsylvania sino alla Francia dei record)… tutto frullato insieme in un ritmo scorsesiano da goodfellas sportivo dopato al punto giusto. Sino alla fatale discesa. Sì perché è proprio quando il suo mondo immaginario crolla con enorme fragore che l’incredibile interpretazione di Ben Foster fa intravedere tutto il dolore represso di un personaggio spietato ma tragico. Un vuoto emotivo non più colmabile con le salite da scalare o le maglie gialle da indossare, un vuoto tutto contemporaneo che ora tocca a noi spettatori riempiere di pensiero: “io gli dico solo quello che vogliono sentirsi dire. Nulla di più”. Almeno su questo, Lance, non ha detto una bugia. Pietro Masciullo – Sentieri Selvaggi Si contano sulla punta di poche dita i film sul ciclismo, in parte perché è uno sport prevalentemente europeo, in parte perché è considerato - a ragione o a torto - meno cinegenico di altri, come la boxe o l’automobilismo. A Stephen Frears, però, non interessava tanto fare un film sulle gare in bici, quanto piuttosto sullo scarto (ben presente nello sport) tra ciò che appare e ciò che è reale e sulla manipolazione dell’opinione pubblica.(…) Poche altre storie autentiche si prestavano allo scopo quanto quella dell’ascesa e caduta di Lance Armstrong(…). Inoltrandosi dietro le apparenze più edificanti, Frears ci mostra il campione come un uomo carismatico ma ossessionato dalla vittoria, bugiardo, freddo e calcolatore, incline alla collera e alle minacce contro chi (in particolare i gregari che gli tiravano la volata) solo accennasse a opporsi alla sua volontà.(…) Lo schema drammatico prevede un deuteragonista nel personaggio di David Walsh, il cronista sportivo che indaga sul caso di dopaggio nella convinzione che il suo dovere professionale sia difendere l’integrità del ciclismo. Alcuni critici stranieri hanno espresso giudizi tiepidi sul film, che sarebbe povero di emozioni e di un punto di vista forte limitandosi ad allineare avvenimenti e gare ciclistiche svoltisi nel corso di vent’anni. È lecito non essere d’accordo. Si può riconoscere, certo, che Frears (pur usando una regia dinamica nelle sequenze di corsa) faccia prevalere la dimostrazione sull’emozione. Però ciò avviene in base a un partito preso ben consapevole e il suo è un film quasi didattico, che si dovrebbe mostrare nelle scuole per far comprendere i meccanismi della produzione di miti (sportivi e no) e la loro funzionalità all’ideologia dominante. Armstrong (ottimamente interpretato da Ben Foster) e il suo entourage li conoscevano benissimo (“do’ alla gente quello che la gente vuole” confessa cinicamente il protagonista). Salvo che a volte, come ci ricorda la canzone di Leonard Cohen sui titoli di cosa, la maschera cade e allora Everybody knows , tutti sanno. Roberto Nepoti – La Repubblica (…) per fortuna qualcuno non si accontenta della leggenda ma cerca, e a poco a poco trova, le prove del Grande Inganno. Trascinando nella polvere quel campione di impostura che Frears e i suoi attori (poderoso Ben Fosters, un Kevin Spacey su due ruote) giocano apertamente sul filo dell’iperbole, anche grazie a uno stile insieme freddo e survoltato che dà le vertigini. Come tutta questa storia incredibile ma vera. E sinistramente esemplare. Fabio Ferzetti – Il Messaggero Stephen Frears è un abilissimo narratore di storie, un grande affabulatore, uno che racconta personaggi e mondi facendoti entrare lì dentro con tutte le scarpe. La grande forza di The Program, un film che se lo si guarda con distanza critica, o semplicemente a distanza, non ha nulla di sconvolgente o innovativo, sta tutta lì. Lì e, ovviamente, nella storia che racconta. Che si tratti della Parigi del Settecento, dell'ambiente dei feticisti del vinile, dei backstage di un albergo di lusso o di Buckingham Palace, Frears dà sempre l'impressione di non aver bazzicato altri ambienti di quelli che racconta: e il Tour de France non fa eccezione. The Program ricrea un mondo, quello del ciclismo, con impressionante verosimiglianza; riassume in 103 agili minuti di durata una vicenda, anche complessa, che è andata dai primi anni Novanta al 2012, riuscendo a dare conto della prospettiva di Lance Armstrong come di quella del giornalista David Walsh (autore del libro sul quale il film è basato, “Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong”), e dando spessore anche a personaggi apparentemente solo di contorno come il dottor Michele Ferrari o il ciclista Floyd Landis. (…) più The Program precipita dentro i dettagli della storia di Armstrong e dello specifico del ciclismo – con i dettagli sul doping, le tappe del tour, il senso dei ciclisti per il branco e il branco dei giornalisti sportivi che rigetta chi non ulula alla luna con lui - , più diventa chiaro che, a Frears, di Armstrong e del ciclismo in quanto tali non frega un fico secco. La narrazione di Frears è epica e archetipica, e come tutte le narrazioni epiche e archetipiche è universale, capace di essere letterale ma anche di parlare di grandi temi. E i grandi temi di The Program sono quelli della verità e dell'inganno, declinati ad hoc in un mondo e una società dove le regole dei media e quelle dello star system (che è business e niente più) sembrano voler abbattere ogni distinzione, enfatizzare l'effimero, consolidare le apparenze secondo le regole più basilari delle esigenze dello spettacolo e del profitto. A Frears, insomma, interessa la truffa, il silenzio interessato e omertoso di chi l'ha coperta o avallata ignorandola, la lotta di chi ha lottato invano per smascherarla e le motivazioni per cui il coperchio sul vaso di Pandora è saltato. Federico Gironi - Comingsoon Tutto il clamore suscitato da Lance Armstrong, si basa un'enorme abbaglio nel quale quasi tutti sono scivolati, forse anche un po' volontariamente perché l'idea della rinascita e dalla successiva affermazione fisica di un ex malato di cancro è la bugia che tutti vorremmo sentire, il miracolo a cui tutti vorremmo assistere. Stephen Frears costruisce un film che non mira a distruggere l'icona dello sport ma cerca di mostrarne le sfaccettature fatte di abissali differenze, dall'arroganza alla volontà di far nascere la Livestrong, l'organizzazione benefica per la lotta contro il cancro. Tutto il film sembra muoversi tra un equilibrio costante tra il bene e il male, senza che sia il regista a far pendere l'ago per una o l'altra parte, lasciando allo spettatore il compito di trarre le sue conclusioni. Dall'impianto narrativo asciutto, la pellicola si concentra sul "programma" e le sue conseguenze, lasciando che ogni altro elemento graviti intorno alla vicenda principale, mostrando parallelamente le ricerche di Walsh per far venire a galla la verità. L'intero film è molto giocato sui primi piani di tutti i protagonisti, con la fotografia di Danny Cohen che rende i colori intensi ma che allo spesso tempo li vela rendendoli sabbiosi, ai quali il regista contrappone inquadrature di dettagli o campi lunghi delle corse ciclistiche riprodotte con cura ed originalità visiva. Manuela Santacatterina – Movieplayer