Relazione Varone 1

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Relazione Varone 1
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CASSINO
DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA E STORIA
UNIVERSITA’ DI NAPOLI
DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA MODERNA
“SALVATORE BATTAGLIA”
“IO ERO, QUELL’INVERNO,
IN PREDA AD ASTRATTI FURORI”
GIORNATA DI STUDI PER ELIO VITTORINI
Cassino, 27 gennaio 2009
ATTI
A CURA DI
TONI IERMANO
GIUSEPPE VARONE
ELIO VITTORINI: LA «VACANZA» NARRATIVA
NEL GROTTESCO NOTTURNO DE LA GARIBALDINA
La linea di forza della letteratura moderna è
nella coscienza di dare la parola a tutto ciò che
nell’inconscio sociale e individuale è rimasto
non detto: questa è la sfida che continuamente
essa rilancia. Più le nostre case sono illuminate
e prospere più le loro mura grondano
fantasmi; i sogni del progresso e della
razionalità sono visitati da incubi.
I. CALVINO, Cibernetica e fantasmi, in Una pietra
sopra
Negli ultimi anni Quaranta mancò nell’attività di Vittorini ogni traccia di
impegno politico, fino al definitivo distacco nel ’55 dal PCI. L’assenza di legami
partitici e di esplicita problematicità politica1, furono probabilmente le cause
del rifiuto della rivista francese diretta da Jean-Paul Sartre, «Les Temps
Modernes», di pubblicare il lungo racconto diviso in sei parti avviato nel
dicembre del ’49, i cui capitoli iniziali apparvero sui numeri 2, 3, 4 e 5 della
rivista fiorentina «Il Ponte» dal mese di febbraio al mese di maggio del 1950 con
il titolo Il soldato e la garibaldina. Nel ’56, abbandonato il progetto pubblicherà
per Bompiani le parti già apparse in rivista con il titolo ridotto a La garibaldina,
contemporaneamente all’altro romanzo inedito Erica e i suoi fratelli, scritto nel
’36 e pubblicato nel ’54 sulle pagine della rivista «Nuovi Argomenti»2.
Vd. a riguardo E. VITTORINI, Le vie degli ex-comunisti, in «La Stampa», 6 settembre 1951.
Nella nota d’autore in appendice al volume che riporta unitamente Erica e i suoi fratelli e La
garibaldina si legge: «Il manoscritto andò perso durante le peripezie della guerra. Ritrovato nel ’53 da
mio figlio Giusto in un pacco di carte e libri che era stato per quasi dieci anni presso dei conoscenti, ha
avuto la sua prima pubblicazione integrale, in luglio del 1954, sulla rivista romana “Nuovi Argomenti”
di Alberto Moravia e Alberto Carocci. […] La seconda delle due storie, La garibaldina, fu scritta tra il
dicembre del ’49 e il maggio del 1950. È stata pubblicata a puntate (solo due dei capitoli centrali, che sono
stati aggiunti in seguito) sulla rivista fiorentina “Il Ponte” di Piero Calamandrei e Corrado Tumiati, nei
numeri di febbraio, marzo, aprile e maggio 1950» (E. VITTORINI, Nota, in Le opere narrative, vol. I,
cit., pp. 565-7). L’edizione Bompiani de La garibaldina consta di 43 capitoli come nell’edizione in
rivista, e di questa conserva anche l’assetto strutturale, tranne alcune rielaborazioni che tendono
a modificarne l’impianto. Non si rinvengono varianti rilevanti, salvo per alcuni capitoli
1
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La vicenda de La garibaldina, parte inattesa di una «saga siciliana» che
avrebbe costituito una ricapitolazione del suo lungo viaggio letterario nella
natura, nella storia e nelle psicologie e linguaggi dei siciliani a mo’ di «romanzo
antropologico»3, che si appoggia al ritmo epico-popolareggiante de Le donne di
Messina, e con proprietà anche maggiore, si svolge in Sicilia nel corso di un
viaggio in treno da Ragusa verso Licata in direzione Terranova, nell’arco di una
sola notte a mezzo secolo dalla battaglia di Calatafimi. Dato il «silenzio di
opposizione» del Nostro nei primi anni ’50, dalla passione ideologica che
informava i precedenti personaggi vittoriniani, come ad esempio la retorica del
Gran Lombardo in Conversazione in Sicilia, si passa al «sorriso sottile», alla
«comica aggressività» della Garibaldina4, un personaggio che consente a
Vittorini di dare sbocco a quella vena umoristica generalmente soffocata nelle
opere precedenti. La vecchia baronessa Leonilde, «Mi-la-ne-se. Di Milano. Di
milleottocento chilometri lontano», aveva riempito la sua pagina di storia
cercando i mille a Genova e a Livorno, a Palermo e a Napoli, fino a che non fu
riportata a Milano dai suoi, quando Garibaldi si decise a fare quello per cui la
«sollecitatrice bambina della spedizione dei Mille»5 lo aveva cercato:
In questo consisteva la sua pagina di storia. Nell’aver spinto Garibaldi a tentare la
liberazione di Roma. Lo disse scandendo sillaba per sillaba come aveva detto ch’era
milanese6.
Una spregiudicata e mordace ispiratrice dell’eroe di Caprera ai tempi della sua
prodiga bellezza, che incarna un «ideale di individualistico vitalismo»7
realizzato nella pagina di storia «riempita con la sua obbedienza di sposa,
seguendo il consorte nell’esilio tra i cartaginesi di Terranova», volutosi ritirare
come Garibaldi in una specie di Caprera: e per una ventenne di Milano ch’era
vissuta tra i fasti di Parigi, la scelta di seguire il marito in una terra primitiva8,
sostanzialmente diversi. A riguardo vd. R. RODONDI, La Garibaldina, in Note ai testi, in E.
VITTORINI, Le opere narrative, vol. I, Mondadori, “I Meridiani”, Milano 1998, p. 1240.
3 Vd. R. CROVI, I Gettoni, La garibaldina, Diario in pubblico, in Il lungo viaggio di Vittorini. Una
biografia critica, Marsilio, “Gli specchi della memoria”, Venezia 1998, p. 394.
4 Cfr. A. PANICALI, Il silenzioso isolamento, in Elio Vittorini. La narrativa, la saggistica, le traduzioni,
le riviste, l’attività editoriale, Mursia, Civiltà Letteraria del Novecento, Milano 1994, pp. 274, 276.
5 G. GRONDA (a cura di), La Garibaldina, in Per conoscere Vittorini, Arnoldo Mondadori Editore,
Milano 1979, pp. 363-4.
6 Le seguenti citazioni dall’opera sono tratte da La garibaldina, Bompiani, Milano, 1956.
7 S. BRIOSI, Invito alla lettura di Vittorini, Mursia, Milano 1971, p. 80.
8 Si ricorda in proposito che Sebastiano Vittorini, padre di Elio, impiegato delle ferrovie, nel
1914 sarà trasferito a Torrenova di Sicilia, odierna Gela, provincia di Caltanissetta. Oltre ad
essere la linea ferroviaria della nomade famiglia Vittorini e del seienne Elio, sarà
significativamente anche l’ambientazione di uno dei suoi primi racconti, Memorie autunnali.
Tempo di guerra (1928), apparso ne «Il Mattino», 16-17 novembre 1928. Il racconto si apre sulla
città di Terranova, intimamente intrecciata alla campagna, città-mercato che contiene un popolo
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comportava un «sacrificio» che ella nobilitava comparandolo a quello di «“una
romana antica”». A Terranova fa ritorno in una carrozza di riguardo:
C’era un merci che partiva alle 21 verso Torrenova, e un duca con feudo a Donnafugata, un
altro con interessi che si estendevano da Chiaromonte fin giù al mare di Vittoria, un terzo
con un castello a Falconara, avevano ottenuto che una vettura dai velluti rossi venisse
aggiunta al convoglio.
In direzione Terranova viaggia anche il coprotagonista, il giovane Bersagliere
con «licenza di tre giorni», che compare nel romanzo prima dell’anziana donna,
protagonista della seconda parte, dalla quale riceverà una collerica protezione,
per diventarne poi paziente compagno di viaggio e infine «attendente».
«Non l’ho per Terranova il mio biglietto?»
Ma si sentì rispondere qualcosa come se vi fossero due Terranove. Una a cui andava il
treno urlante ch’egli aveva tralasciato di prendere; e una a cui andava quest’altro treno
dalla vettura di velluto.
«Col biglietto da militare bisogna prendere il treno ordinario» gli dissero. «Poi questa è
prima classe e ci vuole il biglietto di prima classe».
Sistematosi con innocenza in una carrozza di prima classe di un treno di
riguardo, i ferrovieri-ombre lo avrebbero fatto scendere a Donnafugata, dove
l’indomani avrebbe dovuto prendere il convoglio che aveva evitato a Ragusa
per «viaggiare comodo». Questo sarebbe accaduto se non fosse intervenuta la
baronessa Leonilde, che «si fece avanti, lenta e solenne, piuttosto ampia, ma
come se fosse, in qualche modo, a cavallo», accompagnata dall’alano Don
Carlos — sorta di gattopardesco Bendicò ante litteram — che spaventava il
giovane soldato, espediente narrativo per una prima altera ostentazione della
«signora baronessa»:
Un soldato che può fermare gli eserciti! E hai paura del mio alano, soldato? Vero che non
abbaia, ma nemmeno morde. Non è buono a nulla… Se tu fossi stato al mondo
cinquant’anni fa avresti suonato la tromba sotto Calatafimi.
Tarpata dentro una nera ragnatela di scialli e veli, e appesantita da monili al
collo, con l’imponente cane sempre al suo fianco, la cui ammessa presenza nello
scompartimento avrebbe costituito di per sé la concessione al giovane, impone
il silenzio ai due ossequiosi ferrovieri:
vasto, costituito da contadini, braccianti, marinai e pastori, uniti da fatti circostanziati e
condizioni che li accomunano. Al racconto sottende una visione della memoria che procede per
associazioni e immagini, preludendo lo stile più maturo delle ultime opere, e in particolar modo
de Le città del mondo.
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E questo innocente che aveva la benevolenza di piegare il capo al vostro sopruso! L’ho
detto ch’è pronto per essere offerto in sacrificio. Glie l’ho letto in faccia… non può
viaggiare con questo treno? Lo scandalo nazionale ch’è questo treno avrebbe spinto
Garibaldi, se fosse vivo, ad andarsene anche da Caprera in segno di protesta, e voialtri
parlate di biglietti in regola. Ma se mai questo treno sarà stato utile in tutta la sua storia lo
sarà stato stanotte che rende un servizio a un povero soldato…
La sua collera non reclama il rispetto per la presunta condizione nobiliare, che
le deriva dal matrimonio di sua figlia con un barone, piuttosto manifesta il
retaggio di un’esperienza umana vissuta ai limiti dell’audacia e del
leggendario, che ne fa un personaggio estremamente affascinante e privo di
retorica:
«Baronessa un corno!» la vecchia esclamò. «Quando volete adularmi ricordatevi che ho
vestito un uniforme ma questi titoli da bigotta teneteveli per chi ne ha la faccia. E tirate
invece fuori il biglietto del soldato che mi accompagna».
La baronessa, accogliendo l’innocente e contenuto giovane nel suo
scompartimento gli offre la sua protezione, e attraverso la provocazione
dall’alto della sua invulnerabilità inizia a sollecitarlo alla vita, elevandosi così a
simbolo di una disperata e superba vitalità che sembra trovare nel racconto
autobiografico della sua esistenza la cifra di una terapia che può giovare a
entrambi, per la pusillanimità di lui e l’irrequietudine di lei:
Niente che mai succeda nemmeno qui. Tu vai a Milano e non vi succede più niente. Torni
in Sicilia e non vi trovi niente che vi succeda. A Giarratana niente, a Ragusa niente, e lo
stesso qui, e a Terranova. I tempi in cui succedevano le cose sono finiti. Stop. Basta. Finiti
con la tua giovinezza, o meglio con la tua infanzia, poiché in fondo non eri che una
bambina nel ’69.
Parigi, Milano e Torrenova; la guerra a cavallo, e quel musone d’un treno notturno: passati
i tempi in cui accadeva qualcosa, ed ora non altro che stazioni da passare, bicocche di
stazioni da passare […]
Vittorini sembra instillare in ogni accorta parola un significato umano più alto
che trascende la loro stessa estrinseca bellezza, imprigionando in ognuna di
esse una forza di rammemorazione e di vitalità, che fanno della scrittura un
autentico momento di riappropriazione delle ragioni più semplici della vita,
della lotta per essa contro una ritorsione possibile di una «umanità troppo
umana» portatrice di ubbie che conducono all’immobilità9.
È il tempo in cui Vittorini tenta di superare l’ostacolo della maniera,
rappresentato dai risultati ottenuti in Conversazione in Sicilia e Uomini e no,
Si è fatto riferimento a E. VITTORINI, Svevo come Stendhal. “Una vita” come “Le rouge et le noir”,
in Diario in pubblico. Autobiografia di un militante della cultura, Bompiani, Milano 1999, pp. 16-9.
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cercando una struttura nelle intenzioni più ampia e sostenuta da un linguaggio
meno evocativo delle conquiste precedenti; una scrittura, dunque, lontana sia
dal neorealismo di Uomini e no sia dall’allusività simbolica del Sempione, che
resta nella sua godibilità un libro-Conversazione10.
Anche in questo breve romanzo, come nei precedenti, Vittorini sembra
conservare i presupposti della conversazione e del viaggio in treno: il treno che
fa da scenario a tutta la prima parte del libro (capp. I-XXI) è una variante dei
treni di Piccola borghesia, Conversazione in Sicilia e de Le donne di Messina; ne La
garibaldina i treni diventano due, uno nero di rumorosi logori viaggiatori, l’altro
un convoglio-merci dotato di una comoda vettura di prima classe dai velluti
rossi, in cui regna un imbarazzante silenzio. Si assiste a un dialogo recitativo
notturno che «acquista calore e furia inventiva, s’infittisce di riprese
contrappunti e rilanci, tocca un’urgenza eccentrica di composizione sempre più
pronta a sciogliersi in musica»11. La baronessa però tradisce le aspirazioni di
dialogo e di riunione più consone ai personaggi vittoriniani, per cui la
comunicazione diviene sempre più impossibile e si risolve in monologhi e tirate
teatrali. Ciò che fa la Garibaldina, infatti, è monologare alla presenza del
bersagliere, e solo sporadicamente e in oblio dei due ferrovieri, senza
consentirgli di intervenire.
Neh, soldato?... Diciamoglielo insieme alla Leonilde… Non era che una bambina
quando riempì col suo nome una pagina di storia.
Al principio narrativo, dunque, si sostituisce quello figurativo e gli eventi
anziché essere raccontati si sgranano sulla scena seguendo una narrazione che è
analoga a un copione teatrale12.
In quest’ultima astratta prosa pubblicata in vita, come ne Le donne di Messina
e più tardi nel postumo Le città del mondo, si ravvisa l’interesse del Nostro a
ridurre la funzione del protagonista nel tentativo di legare un destino
individuale ad una collettività pressoché indefinita, che vive una Sicilia che
appare a volte quella di sempre, altre volte negata dei suoi contorni più usuali.
[…] io scrivo procedendo dal particolare al generale, e non dal generale al particolare
[…] Ora so soltanto che sarà un romanzo piuttosto lungo, che sarà pieno di Sicilia ma
Cfr. A. CADIOLI, Elio Vittorini, in Tra prosa d’arte e romanzo del Novecento (1929-1960). Appunti
di lettura, Arcipelago Edizioni, Milano, 1989, pp. 149-50.
11 Vd. R. BERTACCHINI, Figure e problemi di narrativa contemporanea, Cappelli, Bologna 1960, p.
239.
12 Vd. A. PANICALI, op. cit., p. 281.
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anche di tutto il resto del mondo, e che sarà pieno di cose della vita di tutti in ogni età
dell’esistenza […]13.
Ciononostante, in questa brillante e chiassosa kermesse, con la quale il
siracusano affronta con l’attesa di stravolgerle tematiche care al romanzo
naturalista — nobiltà feudale, vita del villaggio, generazione risorgimentale,
contrasti sociali nelle campagne, ecc. — i due personaggi perdurano con una
loro autonomia. Come scrive la Gronda «sono in una zona ancora di gioco, di
festa, di farsa i primi tentativi vittoriniani di legare destini individuali a più
vasti movimenti di massa, gli stessi che in quel periodo prendono spazio nelle
Donne di Messina e che poco più tardi si accamperanno nelle Città del mondo»14.
Restano riconoscibili, come il giovane soldato alla stazione motteggiato dalla
folla che tuona «Il soldato va alla guerra. Mangia male Dorme in terra», o nella
contesa della Garibaldina con i villici quando i treni, abitati dai revenant dei
libri precedenti, si raggiungono; così come nelle parti IV e V in paese tra gli
spiriti curiosi o in piazza tra i mietitori in rivolta.
I dialoghi notturni della Garibaldina e del soldato concorrono innanzitutto
ad offrirci un’immagine misteriosa della «vecchia signora» al contempo
affettuosa e irascibile, ma soprattutto paladina, dai suoi soliloqui mitica ed
eroica. La narrazione, costituita con la massima intenzionalità dai modi del
dialogo, della definizione simbolica e del parossismo lirico, trova uno slancio
maggiore con l’arrivo dei due alla «città addormentata», ora chiamata Gela,
«dopo secoli che si chiamò […] Terranova». Dalla parte IV del romanzo prevale
la visione di una Sicilia immobile, un «teatro delle ombre» segnato da una
disperazione ancestrale e da un torpore interrotto dallo scampanio che sembra
salutare l’arrivo della Garibaldina. Cosicché «essi guardarono la buia città che
aveva parlato dalla sua cima di bronzo». Si affacciava intanto l’ipotesi che la
Garibaldina non avesse alcuna carrozza, e che non ci fosse nessun Cuordileone
a guidarla, per far accompagnare il suo protetto a casa, come gli aveva
assicurato durante il viaggio in treno. Il soldato mostra un certo risentimento,
così la baronessa, intenta ad inveire contro il barone suo genero che non le
aveva mandato la carrozza che lei stessa pagava, disse al giovane di non
rinnegare la fortuna «proprio mentre camminava allato di chi ne aveva in
Dalla risposta a una domanda relativa all’appena finito di pubblicare in rivista Il soldato e la
garibaldina (in Confessioni di scrittori: Interviste con se stessi, a cura di L. Piccioni, Torino, ERI, 1951.
pp. 102-6), episodio del romanzo a cui aveva iniziato a lavorare all’inizio del ’50, La garibaldina,
per il quale gli sarebbero occorsi cinque o sei anni per terminarlo, ma che, come abbiamo
accennato, rimase incompiuto. Spia di un lavoro più vasto ma interrotto sono oltretutto le
pagine del [Seguito «Garibaldina»], riportate nell’edizione Mondadori (“Meridiani”) alle pp.
1131-63. Vd. Note ai testi, pp. 1244-8, per l’intreccio tra La garibaldina e il postumo Le città del
mondo.
14 G. GRONDA, op. cit., p. 367.
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pugno i fili». Lo strano destino del giovane bersagliere, chiamato dalla vecchia
Innocenzo, è di essere stato raggiunto dalla fortuna imbattendosi nella
baronessa, diventandone suo lacchè, meritando così di andare in carrozza fino
ai suoi «barconi». Questo non avviene, e a lui, che aveva scelto di non portare
neanche un «pacchettino», tocca di portare le valigie della padrona su per il
«polveroso stradale». Nonostante i malcontenti, però, si trovano conciliati di
fronte alla città informe.
Sempre più nella taratura narrativa vittoriniana acquista rilievo una
dimensione onirica che fa da sfondo all’insolita personificazione femminile,
reduce da «Mentana», «Calatafimi» e dallo «sbarco a Marsala», dalle qualità
quasi divinatorie. Contrariamente al mondo che abita, la Garibaldina appare
viva e pronta a chissà quali battaglie, inquieta ed energica, al contrario dello zio
Agrippa, in una terra immutabile.
Diceva al giovane:
«[…] continuerò a far qualcosa per te anche poi» soggiunse. «Posso continuare. Per me
non vi è niente che può succedere, e per te invece sì. Per te può cambiare. Io posso fare in
modo che qualcosa cambi per qualcuno, e voglio farlo.»
Tra atmosfere ferme e sottilmente inquietanti, dalla stazione al paese «un pezzo
salirono senza che dicessero niente, con la linea dei sei lumi che non era più
tanto in alto, e con informi case che già si distinguevano dietro, per le loro
finestre nere, per le loro porte nere…», lungo un pendio che il soldato compie
appesantito dalle valigie della Garibaldina ansimante. Poi si mossero «andando
dall’oscurità della piazza verso la luce della via principale che passava di
fondo». La scena parimenti drammaturgica del breve romanzo Il Sempione
strizza l’occhio al Frejus, nel quale in una mesta casa ai limiti della città
industriale su un piano di simboli assoluti è trasposta la vita del proletariato
ambrosiano, è qui spostata alle soglie di una «città buia», imprecisata, con
«porte spalancate tutte nere di vuoto, o porte e finestre chiuse come se lo
fossero, nere di secoli su secoli», che ricorda gli antri in cui Silvestro, in
Conversazione in Sicilia, entrava a seguito della madre Concezione:
E ancora scendemmo per il fosso nero della strada, del tutto fuori dal sole ormai, del
tutto nell’ombra, con tintinnìo di campane da capre e rumore di torrente, e freddo: e
ancora entrammo in luoghi di buio e odor di pozzo, buio e odor di buio, o buio e fumo
[…]15.
In un dialogo surreale di silenzi si stagliano sulla via allucinanti e intrecciati
pettegolezzi, fantasime di un contesto angoscioso scevro di ogni oggettivazione
15
E. VITTORINI, Conversazione in Sicilia, BUR, Milano 1999, p. 240.
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che non sia intima e personale trasfigurazione, capace di presagire una
inquietante sensazione di corruzione e di morte, riflesso della decadente società
nobiliare dell’isola, profusa nello spazio e nel tempo anziché nel carattere e
sulla bocca dei personaggi:
I muri erano di polvere che si screpolava. Il vento, quando soffiasse con la forza del
maestrale, poteva sollevarne delle facciate, gialla della creta o sabbia ch’era stata. Perciò
le case, anche se avevano grandiosità di palazzi, apparivano informi. Coi contorni logori,
con gli angoli smussati, con le cornici mangiucchiate. Tali da far pensare che
cambiassero aspetto sotto le intemperie.
L’infastidente brusio che accoglie in sua assenza l’arrivo della donna dal nord
ingigantisce la sua trionfante e pressoché leggendaria figura, tinta dei colori del
mito. Esce momentaneamente di scena alla ricerca di un aiutante, in quanto
scossa da un anonimo rumore di porta che sbatte, e viene ora dalla genteombre ai balconi, alle finestre lungo la via del corso, ricordata, vilipesa,
aggredita e talvolta difesa a seconda dell’idea che di essa avevano maturato
durante la sua assenza. Come per ‘Ntoni de I Malavoglia, in mezzo alla strada
del paese tutto nero «cominciarono ad udirsi certi rumori […] delle voci che si
chiamavano dietro gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le strade buie.
Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi»16. A
subire i curiosi eccitati maldicenti sarà il bersagliere che «udiva bisbigli un po’
da ogni parte, rumori soffocati, come se tutto lungo il corso, da balconi, da
finestre, vi fossero persone a spiare sussurrando tra loro»: si entra in uno stato
di trasognamento alla ricerca dei «viaggiatori del cielo», come Gastone
Bachelard chiamava i personaggi volanti del funambolico Chagall. Il soldato,
già contrariato dall’assenza della vecchia signora che gli impediva l’indomani
di «alzarsi presto per la prima giornata», è pungolato dalla voce nell’ombra che
lo avverte di come la «mattacchiona […] finisce col prendersi gioco della
gente», «solo perché non succede più nulla in questo mondo e bisogna pur
passare il tempo». La voce è di Niccodemo, lo spirito burlone al balcone in
kimono e col ventaglio, che lo mette in guardia e lo sprona ad andarsene, che
annuncia l’ingresso in scena di altre voci che lo assecondano o lo smentiscono,
e agitandosi parla di Romeo, l’accattone che la baronessa avrebbe trovato, di
Galante, la guardia notturna di pietra e con il passo di fantasma, fino a che
prorompe Eufemia nel mormorio del «dissenso», e lo stesso Niccodemo,
burlatosi del giovane soldato per un certo colpo che non gli è riuscito con la
Leonilde, scompare. Ma delle copiose e flebili voci che erano state di consenso e
di dissenso nei riguardi delle delazioni del professore in kimono, il «soldato ne
rideva», al punto da renderlo ben disposto a proseguire con le valigie fin dove
16
G. VERGA, I Malavoglia, Mondadori, Milano, 1993, p. 271.
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la signora avrebbe voluto, fino ai Cappuccini, a Caposoprano, se non altro per
l’incongruenza delle accuse, che per la loro contraddittorietà tendevano ad
escludersi l’un l’altra17. Tutta la folla dei balconi, fino alla voce «tredicesima», lo
aveva trattato da «“allocco maltese”» per la sua «dabbenaggine». E le voci che
continuavano a ripetere «soldato», con la stessa indignazione ch’era stata del
«treno urlante», lo fecero sentire trapiantato in una «città straniera»18. La scena
cambia con il rientro della donna, al quale corrisponde una brusca interruzione
del brontolio: né il facchino Leonardo, né Romeo, come nessuno dei mietitori, si
presenta per aiutarla con i suoi bagagli, poiché aveva con sé un soldato.
Quando il bersagliere fa ritorno, sommariamente contento dell’esperienza,
dopo aver gradito con imposizione dalla signora il calice di marsala e il biscotto
dal sapore di naftalina consumati nella sala da pranzo con i mobili coperti da
fodere bianche — simulacri di un mondo in declivio, sospeso in un tempo
immobile — ricominciano i «psst» passando per quel «pettegolo di un corso», e
mentre si rischiara incontra alcuni mietitori che gli riservano, per la sua giubba,
la stessa reticenza dei loro simili.
Come su di un palcoscenico il crescente notturno confluisce nella luce di
un giorno invaso dalla folla di villani grottescamente vitali, resi in chiave
melodrammatica come intonazione della mitologizzazione di una Sicilia
invasata da mille garibaldini, mille pupi o “moschettieri”, a riprova di quanto
Vittorini nella costruzione del romanzo avesse ininterrottamente mantenuto
intatte movenze e libertà da lirico. In piazza vi sono altri mietitori, «sarchiatori»
o «calabresi», con le mani in tasca e vestiti come pirati. Giunto tra loro il
bersagliere si trova istigato da Romeo, con intorno i «neri ceffi dei mietitori […]
dall’aria di gente accanita o che è già oltre l’accanimento, già nella noia». Al
Questo procedimento narrativo tende a maggiorare il carattere fantastico del personaggio
della Garibaldina, leggendario nel suo racconto autobiografico, anguillare e indefinibile nelle
dicerie.
18 L’austerità della Garibaldina, così come la “dabbenaggine” del soldato, appaiono come modi
differenti di rispondere a sollecitazioni esterne che hanno la stessa matrice nella iniquità e nel
bieco individualismo della collettività. Un senso di incomunicabilità sembra prevalere
nell’esigenza di altruismo verso il giovane indifeso da parte della signora, al quale affida,
significativamente, compiti come quello di uditore. Mentre una indifferente insubordinazione,
insita nella ricezione sociale della sua professione, sembra essere la ragione dell’accettazione da
parte del soldato di diventare un attendente per meritare una sorta di protezione, e ancora, per
poter uscire dalla sua indolenza grazie alle sollecitazioni del prossimo. Ambedue i casi
potrebbero diventare perciò trasfigurazione simbolica di uno stato d’animo dello scrittore, nel
tempo storico della realizzazione del romanzo dissestato da una condizione di solitudine
intellettuale, derivata dal logoramento di quel progetto collettivo quale era stato il
«Politecnico», e in particolar modo dal silenzio di quegli amici a cui non chiedeva soltanto di
ritornare ad essere collaboratori, quanto di rispondere alle sue sollecitazioni e insieme di
sollecitare, per non sentirsi straniero in un mondo a cui sente di appartenere; vale a dire, la
Garibaldina da una parte, il soldato dall’altra.
17
10
centro della piazza avviene l’animato epilogo, per il quale tutti i personaggi si
riuniscono: i mietitori di Giovinazzo — il mietitore dall’alta statura che aveva
afferrato il bersagliere per la giubba — e quelli di Tremestieri, l’uomo a cavallo
con la carabina, la guardia notturna Galante, il giullare Romeo. I villici, agitati
da quest’ultimo volevano punire il soldato, perché, essendosi essi rifiutati di
aiutare un «morto di fame» solo perché prediletto dalla loro padrona,
pensavano di essere stati licenziati. A questo punto Leonilde ricompariva sul
suo «cavallo bianco e nero che dava testate per aria coi mietitori intorno», in
tutto il suo splendore di vecchia senza alcun residuo di giovinezza, reclutando
manodopera tra i villani che avevano assediato il suo protetto, confutando la
tesi del licenziamento e rammentando che quelli di Marzapane e Dardanello li
aveva visti andare pei campi già alle quattro e trenta. Non più dunque
un’immagine come di santa trasportata su un carro, coperta da veli neri ornati
da corone e fregi cultuali.
Alle prime luci la baronessa rivelerà la sua superficie informe, naturale,
svelandosi una proprietaria terriera riverita-odiata dai suoi braccianti affamati.
Nonostante la luce dell’alba la farà apparire al bersagliere nella sua vecchiezza,
non più mascherata dalla notte, la nobile cavallerizza, la «vecchia gatta con gli
stivali», l’agraria a cavallo «infagottata in panni da uomo» conserverà
comunque una sua brillantezza, perché personificazione di una nuova, geniale
immagine di donna, che se trova in Zobeida del Garofano rosso, in Concezione
di Conversazione in Sicilia o nella madre del Sempione strizza l’occhio al Frejus le
prime incubazioni, sarà da confrontare altresì con le altere figure femminili del
successivo universo vittoriniano, come ad esempio l’Odeida de Le città del
mondo. In quest’ultimo è la Signora delle Madonie, una vecchia egoista e
presuntuosa feudataria, terrore dei contadini e dei parenti, incline a difendere
disperatamente i suoi valori individuali nonostante inaspettati slanci
democratici verso le leghe contadine, ad avere maggiori affinità con la vecchia
baronessa, al punto da far pensare che anziché una derivazione possa essere
una autentica riproposizione. All’alba, dunque, con lo splendore della
strepitosa Leonilde negli occhi del soldato che va cantando «Tu sei — la stella /
Di noi — soldà», sullo sfondo di un retroscena confuso si conclude, nel tumulto
del coro che esce dai silenzi della notte ad acclamare la benevolenza della
vecchia, la vicenda che aveva preso inizio tra la folla strepitante della stazione
di Ragusa.
L’esile trama, sostenuta da un linguaggio dai connotati propri della formaConversazione che sarà costitutivo poi de Le città del mondo, dato da un registro
medio-basso di grande efficacia narrativa costruito sull’immediatezza, da una
straordinarietà sonora e figurativa, provocatoria e introspettiva oltre che
realistica, ha in se tutti quegli elementi più propriamente vittoriniani, quali il
ritorno al primitivo, il ricorso preminente alla conversazione e il viaggio, che
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caratterizzerà buona parte della produzione narrativa del siracusano, in
controluce alla sua particolare esperienza biografica19.
I protagonisti, più che apparire come portavoce di due mondi lontani,
sembrano essere essenzialmente complici di una vicenda che finisce per
rappresentare soltanto se stessa. Simboleggiano due mondi che non si
incontrano ma si sfiorano, perché, parafrasando Verga, era «qualcosa di più
sottile e di più forte che li separava. Era la vita in cui vivevano e di cui erano
fatti»20. Nonostante non si tratti di una letteratura di intrattenimento,
l’introduzione innovatrice rispetto a Conversazione «di un popolo abbietto oltre
al nobile»21 — pur non mancando brevi rimandi all’arretratezza del Sud e alle
disperate condizioni dei lavoratori — non implica alcun impegno nell’avviare
una nuova «questione del meridionale» o quant’altro affine22, poiché le
situazioni di ingiustizia e di privilegio affiorano letterariamente nella
consapevolezza della loro immutabilità, sotto forma di allegoria.
Nelle pagine di questo piccolo capolavoro della letteratura italiana del
Novecento, emerge con aitante dissimulazione l’immediato riflesso della
delusione della vicenda del «Politecnico», che generò con molta probabilità una
sorta di «vacanza» della tensione morale e civile del Nostro, occlusa dalla scelta
del fantastico solo in apparenza alieno ai problemi del presente.
Giuseppe Varone
A soli sedici anni, dal malcontento per gli studi tecnici e probabilmente dallo stimolo delle
prime serie e disordinate letture nella preclusa biblioteca paterna o in quella arcivescovile di
Siracusa, sarà spinto ad usufruire degli spettanti biglietti gratuiti ai familiari dei ferrovieri per
visitare Milano, Firenze, Roma e Bologna, frequentandole di giorno e viaggiando di notte per
evitare gli alberghi, precoce preavviso di una insofferenza alla sicilitudine che lo vedrà futuro
cittadino del continente oltre che instancabile amante del viaggio.
20 G. VERGA, Di la del mare, in Tutte le novelle, vol. I, Mondadori, Milano, 2003, p. 331.
21 E. VITTORINI, Conv[ esazione in Sicilia ] e dopo (schema autobiografico), in Le due tensioni. Appunti
per una ideologia della letteratura, a cura di Dante Isella, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 68.
22 All’ottobre del ’45 risale Questione meridionale. Il tutto e le parti, in «Il Politecnico», n. 2; del
novembre del ’45 Questione meridionale. L’oppresso è un oppressore e Questione meridionale. L’uomo
come mezzo, ivi, n. 9; del dicembre del ’45 Questione meridionale. I nomadi del latifondo e Questione
meridionale. Il canto delle ruote, ivi, n. 12. Anche ne La garibaldina accade ciò che si rinviene nelle
opere precedenti del siracusano: «L’astratto furore del Silvestro di Conversazione in Sicilia — ad
esempio — è quello dell’uomo che sente la tragedia della storia ma può muoversi solo al
margine di essa, parteciparvi solo liricamente; e certo non più integrato nella realtà storica è
l’Enne Due di Uomini e no, per quanto maneggi bombe e frequenti riunioni» (I. CALVINO, Il
midollo del leone, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Mondadori, Milano 1995, p. 7).
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