Raimondo di Sangro e la civiltà degli Incas

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Raimondo di Sangro e la civiltà degli Incas
Non è un caso che il principe Raimondo di Sangro (immagine in alto), Gran Maestro della
massoneria in Napoli nel XVIII° secolo, abbia manifestato un grande interesse per la civiltà degli
Incas, al punto da scrivere un trattato intitolato “Lettera Apologetica” [1] nel quale, oltre a dar prova
della sua erudizione, rivela l’enigma del linguaggio di quel grande popolo, una lingua che ignorava
l’esistenza di un alfabeto, e così facendo penetra nei segreti ancora mai svelati di quella civiltà
interamente consacrata ai misteri della natura e del cosmo, rappresentati nei culti astrali della Luna
e del Sole.
E qui voglio aprire una parentesi che considero necessaria per chiarire le finalità del presente
scritto.
Il principe, come è noto, rappresentava a Napoli quella linea iniziatica e tradizionale che risale alla
scienza e alla sapienza antica, tra cui l’egizia unitamente alla pitagorica ricoprono un ruolo di
primaria importanza. La tradizione egiziana, in epoca moderna, si sviluppò in Italia e in Europa per
merito di Napoleone e soprattutto per merito di quel corpo di scienziati e di studiosi che
accompagnavano Napoleone nella campagna d’Egitto. E’ importante la precisazione “in epoca
moderna” perché in tempi più antichi, in cui a volte il mito si confonde o si sostituisce alla storia, è
certa la conoscenza in Italia della sapienza egiziana.
Ebbene Napoleone espresse tutta la sua ammirazione e rispetto per la grande civiltà egiziana e
permise così al suo seguito, di rispettare, ammirare e successivamente parlare nei loro paesi di
origine delle meraviglie che si presentarono ai loro occhi.
Faccio adesso un salto all’indietro nel tempo e mi trasferisco in America del Sud, continente del
tutto sconosciuto in Europa fino alle prime scoperte risalenti al XVI° secolo. Quale fu il
comportamento dei “conquistadores” spagnoli, i quali erano accompagnati da una folta
rappresentanza di preti e di gesuiti, di fronte ai monumenti ancora intatti, alla lingua e ai costumi e
infine allo stesso popolo inca che incontrarono sulle Ande e sui bacini della foresta amazzonica? Fu
un comportamento di predatori, di “conquistatori”, e come scrive I. Sansone Vagni
“gli ‘zelanti sacerdoti del seicento’ si preoccuparono di distruggere gli ‘archivi’
dei Quipu (i testi sacri e profani studiati da Di Sangro nella sua Lettera Apologetica) e,
smaniosi di cancellare ogni traccia di idolatria, considerarono ingenuamente
i Quipu libri del diavolo”.
Non fu un’azione tanto ingenua, ma un’azione deliberata di odio clericale e di odio colonialista
contro tutto ciò che i conquistatori incontravano di “diverso” e nel caso della civiltà Incas addirittura
superiore alla civilizzazione ispanica, un odio perseguito dagli spagnoli col furore delle armi e del
fuoco. E come se Napoleone, sbarcato in Egitto, avesse detto ai suoi uomini: suvvia, distruggete
tutto, abbattete queste piramidi, cancellate questi geroglifici, sono opera del diavolo e noi, come
cristiani, non possiamo permettere e tollerare la presenza sulla faccia della terra di opere
diaboliche!
Chiarito tutto ciò vediamo quale interesse può avere per noi uno studio come quello del principe
Raimondo di Sangro e soprattutto perché. Sorvoliamo sui modi che permisero al principe di venire in
possesso di scritti e di documenti che lo spinsero a fare questo genere di ricerche. Sappiamo bene
che abbiamo a che fare con un personaggio che non agisce “per caso” e che non scrive per dilettarsi
o per arricchire le biblioteche. Raimondo di Sangro fu mosso da una ragione molto precisa: quella di
scoprire i misteri che si occultavano nei quipu e noi sappiamo che raggiunse il suo scopo.
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Qualcuno ha ricordato che in occasione del pellegrinaggio a
Rio de Janeiro del gesuita Bergoglio, nel mezzo della folla, fra i tanti cartelli che osannavano al papa,
se n’è visto uno dove c’era scritto “Atahualpa vive”. (A sinistra un’immagine dell’Imperatore
Inca) Di certo chi innalzava quel cartello non poteva essere né un nostalgico né un rivoluzionario,
perché con quelle due semplici ma intense parole egli si proponeva di comunicare, non solo alla folla
ignara e immemore, ma a tutto il mondo che il ricordo dell’Impero del Sole di cui Atahualpa era stato
il tragico ultimo imperatore, non si era spento.
Con questa certezza nel cuore che fa ben sperare, esaminiamo le conclusioni cui era pervenuto il
principe napoletano, dopo gli accurati studi dei quipu incas.
“…l’uso che i Peruani facevano dei loro Quipu per comunicare a distanza con i loro
Inca, – scrive Raimondo di Sangro nella “Lettera Apologetica” – o ricever da essi le
notizie più importanti per il buon governo politico e militare. Ordinariamente si
trovavano disposti di quarto in quarto di lega cinque o sei giovani corridori, i quali si
proteggevano dalle intemperie del clima sotto capanne apposta costruite: ciascuno di
essi doveva fare la sua corsa e raggiungere i messaggeri che venivano loro incontro ai
quali passavano il messaggio che dovevano poi consegnare. Alcune volte questo
messaggio era recapitato a voce ma per gli affari più gravi si usavano i “Quipu”, i quali
funzionavano come tante cifre per spiegare i propri sentimenti a coloro i quali erano
indirizzati; questi corrieri erano chiamati “Chasqui”, cioè “Cambi”, perché venivano
cambiati ogni quarto di lega. Non vedete in tutto questo nelle loro capanne le nostre
Poste, nei loro “chasqui” i nostri corrieri e finalmente nei loro Quipu le nostre lettere?”.
Ma in che cosa consistevano questi “Quipu”? Essi consistevano in una cordicella lunga trenta
centimetri e più, dalla quale penzolavano altri spaghi più piccoli di vari colori inframmezzati a
intervalli regolari da nodi (Quipu). Si è dimostrato, senza ombra di dubbio che queste cordelle
venivano anche adoperate per registrazioni numeriche secondo un sistema decimale. Inoltre, uno
spago con uno spazio, che rappresentava lo zero, permetteva di contare sino a diecimila e anche
oltre. Probabilmente ogni colore della lana adoperata nei “Quipu”, corrispondeva ad un ben preciso
significato, ma come sostiene lo scrittore tedesco Victor Wolfang Von Hagen, vissuto circa due secoli
dopo il principe Raimondo di Sangro e dalla cui opera abbiamo tratto alcune di queste informazioni, i
“Quipu” nascondevano ben altri significati.
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“Ma accanto a questi dati statistici, i colori verde, azzurro, bianco, nero e rosso e lo
spessore dei fili potevano, si ritiene, esprimere significati più complessi o addirittura,
secondo alcuni, idee astratte”.
Non è escluso che scrivendo queste parole l’autore tedesco pensasse proprio a Raimondo di Sangro
che due secoli prima di lui aveva indagato sul carattere filosofico e magico di questa scrittura ed
aveva avuto il merito di riscoprire, attraverso le sue conoscenze, non solo l’antico linguaggio Inca,
ma la parte iniziatica di esso, cioè la cosa più importante che era nascosta ai più.
Ai “Quipu” di grado superiore don Raimondo dedicherà la seconda tavola illustrativa dei Simboli dei
“Quipu” e una poesia inca i quali furono ricostruiti dal principe come un grande Iniziato, il che fa
supporre (ma non è solo una supposizione) che egli doveva essere al corrente del significato segreto
dei “Quipu” che gli spagnoli avevano pubblicamente bruciato. Sicuramente alla furia devastatrice
dei “conquistadores” qualcosa è sfuggito e per merito delle insondabili e misteriose vie della
Provvidenza quella scrittura che celava i misteri del culto del Sole degli Incas sbarcò a Napoli.
Il principe stesso risponde nella sua “Lettera” a questi interrogativi rendendo noti i nomi dei due
religiosi che a fine ‘500 diedero notizia in alcuni loro scritti dei “Quipu” ed ai quali il principe attinse
per illustrare la composizione dei “Nodi”, il loro significato e il loro uso. I nomi di questi erano il
padre spagnolo Gioseffo Acosta che al seguito di Pizarro aveva appreso la lingua “Quechua” e al suo
ritorno in Spagna aveva scritto una “Historia de los Indios” e, chiamato a Corte, “…insegnava ai
giovani principi di sangue reale e ai nobili la storia e la cronologia a mezzo dei Quipu…” e padre
Biagio Valera autore di una “Histories des Incas”.
Raimondo di Sangro si servì di alcuni stratagemmi letterari per sfuggire agli occhi vigili della
Inquisizione e rendere evidenti ai soli iniziati gli alti insegnamenti che si occultavano nella
“scrittura” Inca, ma ricorda che Padre Valera
“…trovò tra i Quipu un’intera Canzoncina in versi di quattro sillabe che egli chiamava
Spondaici e serve a far vedere il costume che essi avevano di filosofare intorno alle
Meteore, come sono il Tuono, il Fulmine, la Grandine, la Neve, la Pioggia”.
Il principe Raimondo ha sottolineato che alcuni fenomeni meteorologici altro non sono se non
metafore espresse in linguaggio alchemico e ha posto in rilievo il valore altamente iniziatico di
questa “Canzoncina” Inca. Questa “canzoncina” apparentemente ingenua celava cose come
l’Immortalità e quei versi, all’apparenza un’ingenua filastrocca, ne suggerivano il mezzo per attuarla
iniziaticamente.
Qualcosa di simile ai Versi d’Oro di Pitagora che concludono una serie di prescrizioni da seguire
durante l’esistenza, con la pratica dell’ immortalità.
La Canzoncina dedicata a una giovane donna (una metafora anche questa?) se letta in chiave
alchemica contiene un messaggio iniziatico. Essa promuove il riscatto morale e spirituale della
Donna come essere divino apportatrice di Luce. E’ possibile un parallelo con il culto di Iside in Egitto
o con quello della “Grande Madre” in Grecia e a Roma?
E’ certamente possibile che anche il culto Solare Inca abbia tramandato l’antico concetto della
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“Grande Madre” (Pachamama) nei propri culti ed è su questi piani, anche se non sempre manifesti,
che si sviluppa il trattato di Raimondo di Sangro dedicato alla civiltà Inca. Infatti la poesia Inca che
don Raimondo riporta nella sua “Lettera Apologetica” è dedicata alla Figlia del Re Inca,
presumibilmente la Vergine del Sole (una sacra Vestale?) la “Nusta”. La “Nusta” voleva significare
l’Eletta. Essa era scelta dall’Imperatore Inca tra le figlie dei Curacas (alti funzionari dell’Impero),
non poteva essere profanata e, dotata di alcuni privilegi, era destinata a particolari servizi religiosi.
Per concludere, i roghi peruviani accesi dai gesuiti, non erano bastati a cancellare una così grande
civiltà e dobbiamo essere grati al genio immortale del principe Raimondo di Sangro se queste verità
sono pervenute sino a noi e se permetteranno agli studiosi di saperle mettere a frutto risvegliandole
dal sonno secolare in cui giacciono con il fine supremo e sublime di restituire il grande continente
latino-americano al suo antico splendore.
Roberto Sestito
[1] Le citazioni e i riferimenti presenti in questo articolo sono tratti dal libro di I.Sansone Vagni,
RAIMONDO DI SANGRO PRINCIPE DI SAN SEVERO, Bastogi 1992.
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