i rastrellamenti della popolazione

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i rastrellamenti della popolazione
I RASTRELLAMENTI DELLA POPOLAZIONE
Con il mese di novembre si intensificano sul paese i distruttivi e indiscriminati
cannoneggiamenti degli Alleati, che provocano devastazioni nelle varie zone, con
numerosi feriti e morti tra la popolazione. Gli Alleati utilizzano anche la terribile bomba
Shrapnel, che il Vocabolario della Lingua Italiana Zingarelli 2006 così definisce: “Granata
contenente pallette e una piccola carica che, azionata da una spoletta a tempo, esplode a
una prestabilita altezza dall’obiettivo proiettando le pallette a guisa di altrettanti proiettili”.
La situazione ora è particolarmente drammatica e insostenibile per i numerosi civili
presenti in paese. In tutti vi è la consapevolezza che purtroppo la guerra sarà lunga e
logorante, senza sviluppi favorevoli, nel breve termine, per l’uno o l’altro esercito.
L’inverno si avvicina e il fronte ristagna. Gli Alleati sono impantanati nella piana del
Garigliano, a ridosso del paese; pur con i loro poderosi mezzi distruttivi e la schiacciante
superiorità di uomini e mezzi, non sono in grado di fiaccare l’accanita resistenza dei
tedeschi e travolgere la loro fortificata barriera difensiva. Le Autorità italiane e tedesche si
rendono conto che la popolazione non può rimanere in prima linea a tempo indefinito,
poiché la sua ostinazione a restare potrebbe risolversi in uno sterminio, considerando il
possente apparato distruttivo messo in campo dall’esercito alleato. Infatti, gli
angloamericani perseguono solo i loro fini strategici e non riducono i cannoneggiamenti,
pur sapendo che molta gente è presente in paese e non è stato completato il suo
allontanamento.
La tragica situazione in cui versano gli abitanti è attentamente esaminata dal governo
della Repubblica sociale italiana e dal comando militare tedesco, al fine di prendere gli
opportuni provvedimenti per trasferire d’autorità i civili dalle zone di prima linea e
sistemarli nelle località dell’Italia, a nord della linea Gustav. Le Autorità elaborano un
articolato piano di sgombro della popolazione. A tale proposito, Annibale Folchi7, nel suo
libro La fine di Littoria. 1943-1945, cita alcune iniziative assunte:
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una disposizione del Ministero dell’Interno – Ispett. Servizi Guerra – Uff. Ass.,
circolare prot. N. 26179/349-1 del 4 dicembre 1942 XXI, oggetto:
“Norme sulla disciplina dello sfollamento e assistenza alle popolazioni sfollate”;
-
una nota inviata al Ministero dell’Interno dal generale Plenipotenziario
dell’esercito germanico in Italia.
Si trascrive questa nota, come riportata nel predetto libro di Annibale Folchi.
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Roma, 16 gennaio 1944
Al Ministero dell’Interno
Roma
oggetto: Misure per lo sfollamento
della provincia di Littoria
Cira (sic) la nota del 30.1.1943 di codesto Ministero, si comunica che la situazione militare richiede,
nell’interesse della popolazione stessa, che la zona d’operazione venga sgombrata. Lo sfollamento di Fondi e
Castelforte è già stato preavvisato al prefetto e ai Podestà dal comando Militare del luogo. Quindi tanto il
prefetto, quanto i podestà hanno avuto tutto il tempo di disporre per il suddetto sfollamento. Fino a tanto che
le circostanze lo permettono si cerca di lasciare un termine abbastanza largo per l’attuazione degli
sfollamenti. Tuttavia non si può sempre evitare che le disposizioni si riflettino (sic) uno (sic) improvviso
sfollamento.
Per il generale Plenipotenziario
Il Capo dell’Amministrazione
N. B.: Trattasi di una copia tradotta.
Le note, riportate da Annibale Folchi, dimostrano chiaramente che le autorità civili e
militari italiane e tedesche hanno esaminato attentamente il piano di sgombro della
popolazione dalla zona di guerra e hanno preso dei provvedimenti, che si esamineranno
successivamente,
per
la
sua
sistemazione
soprattutto
nelle
località
dell’Italia
Settentrionale. Il trasferimento della popolazione di Castelforte, disposto d’autorità, è
particolarmente impegnativo e pericoloso per la consistenza numerica dei cittadini da
evacuare e per la vicinanza alla linea del fronte, in cui sono in atto da qualche mese
continui e cruenti scontri. Infatti, durante le operazioni di sgombro di una moltitudine di
persone, si possono verificare improvvisi cannoneggiamenti e incursioni aeree, con grave
rischio per i rastrellati, poiché per l’esodo è utilizzata la strada Castelforte-Coreno
Ausonio, di circa Km 10, punto nodale, in pieno territorio di guerra, nonché le stazioni
ferroviarie di Ceprano, Ferentino e Priverno Fossanova, sottoposte a incursioni aeree
abbastanza frequenti.
A Castelforte i grandi rastrellamenti di massa si compiono il 23 novembre, il 2 e 26
dicembre 1943. Dopo si attuano solo improvvise e limitate catture fino ad aprile 1944, non
potendo i tedeschi occuparsi, con regolarità, dell’allontanamento della popolazione, poiché
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sono impegnati a fronteggiare, con l’arrivo della primavera, l’imminente e sanguinoso
scontro finale con le forze alleate.
Duilio Ruggiero, scrupoloso ricercatore e attento cronista della storia di Castelforte,
all’epoca dei fatti era un giovane ventunenne, ed è stato testimone di molti tragici episodi
riportati nel suo documentato libro L’urlo e il silenzio. Così descrive l’attuazione del primo
rastrellamento di massa della popolazione:
23 novembre 1943. Sin dalle prime ore del giorno violenti acquazzoni si sono abbattuti sulla zona. Agli
scrosci della pioggia si alternano violente grandinate. I lampi e i tuoni sono accompagnati da continue
raffiche di mitra delle SS, che dall’alba, sistematicamente stanno rastrellando tutte le località di Castelforte.
Molti sono stati colti nel sonno e svegliati dalle urla dei tedeschi e dagli spari delle loro armi. Colonne di
persone, scortate dai tedeschi, scendono dai sentieri e dai rivoli delle montagne che circondano l’abitato di
Castelforte e di SS. Cosma e Damiano. Sono donne, uomini, bambini con sacchi sulle spalle di quel poco che
sono riusciti ad afferrare in fretta sotto gli sguardi truci e le armi spianate dei tedeschi. Pianti, strilli, richiami
si elevano dai gruppi di gente spinti con i calci dei fucili dai militi delle SS.
Poi prosegue descrivendo il panico e il trambusto determinati dalla cattura delle
persone per strada, mentre tentano di mettersi in salvo o di raggiungere la propria
abitazione. I tedeschi non consentono a nessuno di raccogliere il necessario per affrontare
il trasferimento. Nel raggruppare i rastrellati non tengono conto della composizione dei
nuclei familiari o del grado di parentela. Molte famiglie, per tale motivo, sono
scompaginate, accentuando in loro il dolore e la disperazione per la brutale separazione: i
figli da una parte e i genitori dall’altra, la moglie in un gruppo e il marito nell’altro. I
soldati tedeschi, che sono coordinati dalle famigerate SS (Schutz-Staffel = “sezione di
sicurezza”), durante le operazioni di rastrellamento sono brutali, spietati e violenti; non
parlano l’italiano e cercano di farsi capire a gesti e con ordini impartiti nella loro lingua,
con tono perentorio e minaccioso, con le armi spianate e pronti a far fuoco. Alla minima
titubanza a eseguire i loro comandi, che la gente stenta a comprendere, non esitano a
percuotere gli sfortunati, senza considerare se si tratti di bambini, donne, vecchi, o,
addirittura, di persone inabili. In caso di tentativo di fuga sono capaci di falciare, con un
colpo di fucile o una raffica di mitra, lo sventurato. Con i soldati tedeschi si notano alcuni
civili italiani, forse militi della Repubblica sociale italiana.
Durante l’intera giornata catturano circa quattromila persone, che conducono a Coreno
Ausonio, centro di prima raccolta, utilizzato per lo smistamento nelle varie stazioni
ferroviarie, ove sono pronti i treni con carri merci o bestiame. I rastrellati di Suio, radunati
in località Capo di Ripa, sono condotti verso il Rio Grande, ove si trovano gli altri catturati
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nelle località montane di Ortali, Siola, Pozzari e Tamburriello. Il gruppo, così formato,
attraverso il colle Pagliarello raggiunge la località Arole, nei pressi del cimitero di SS.
Cosma e Damiano, per essere condotto a Coreno Ausonio.
Francesco Di Paola così racconta gli avvenimenti accaduti il 23 novembre 1943, data
del primo grande rastrellamento di massa:
La pioggia scrosciante e a dirotto aveva costretto gran parte della popolazione a rientrare in paese.
Scendendo dai monti, la gente non poteva immaginare che ad accoglierla ci fossero i soldati tedeschi
coordinati dalle SS. I soldati avevano preventivamente bloccato ogni via di fuga; con i camion pronti
attendevano la popolazione per deportarla nel Nord dell’Italia. Un fiume di gente scendeva sotto una pioggia
torrenziale accompagnata da improvvisi scrosci di grandine.
Sembrava che Iddio avesse abbandonato queste sue creature, uomini, donne, bambini, lacerati, stremati e
avviliti, che erano prese come bestie e caricate sui camion. La popolazione, umiliata nell’orgoglio e col cuore
afflitto, subiva rassegnata e impotente questo avverso destino. I soldati tedeschi, impietosi e arroganti, pieni
di odio e di furore teutonico, offendevano questa marea umana, dicendo sprezzanti: italiani, scheiß
(“merda”)!
Nel frattempo, le artiglierie alleate effettuavano un massiccio bombardamento sul
paese.
Il 23 novembre 1943 – ricorda Antonio Ragonese – avevamo trascorso la notte stando completamente
svegli a causa di un continuo e intenso bombardamento. Io sentivo le granate sibilare su di noi, ma per
fortuna andavano a esplodere su Tamburriello, una località più distante, a circa un chilometro da noi, in cui
era acquartierato un consistente distaccamento tedesco. Albeggiava appena, quando un grande trambusto e
un vocio concitato ci fece uscire fuori; ci trovammo davanti tre tedeschi minacciosi, con le armi spianate. Il
mio primo pensiero corse al fucile da caccia di mio nonno. E fu un vero miracolo se i soldati non rovistarono
nell’interno della casella: mio nonno sarebbe stato fucilato sul posto, e forse anch’io, perché in possesso di
un’arma in zona di guerra! Fummo spintonati verso un angolo dell’uliveto, dove già vi erano uomini e donne
di ogni età. Non ricordo se vi erano altri bambini o bambine. Tra quelle persone notai il signor Rosindo
Saltarelli, calzolaio, un tipo simpatico e spiritoso, soprannominato Ciocchero, il quale era assieme alla madre
che non riusciva a camminare. Il gruppo dei rastrellati era costituito di circa una cinquantina di persone; fu
fatto scendere attraverso la mulattiera, in direzione del paese, deviando verso località Pozzariello, dove si
trovava la grotta di don Marco. Fu proprio vicino alla grotta, nella tarda mattinata, che si scatenò una
violentissima grandinata; cadevano chicchi di una grandezza mai vista: sembravano delle piccole patate! Ci
riparammo, non tutti purtroppo, in quella grotta provvidenziale, solo per un po’. Nella grotta c’era del fieno.
Un amico del nonno, indicando me, gli disse: “Lui, lo lasciamo qui, nascosto nel fieno, in modo che possa
avvertire le nostre famiglie della cattura”.
Io gli risposi: “Vado dove va Tat’Antonio”.
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In quel momento il mio pensiero, però, andò a mama [mamma], immaginando il profondo dolore che
avrebbe provato non trovandoci. La mia decisione era irrevocabile: non lasciare il nonno! Intanto, qualcuno
era riuscito a fuggire, tra questi anche Rosindo con sua madre in braccio. A guerra finita, parlammo
dell’accaduto più volte. Riprendemmo il cammino a piedi, oltrepassando Rio Grande, in direzione di SS.
Cosma e Damiano. Proseguimmo, sempre a piedi, verso Coreno Ausonio, dove giungemmo nel tardo
pomeriggio. Passammo la notte nella chiesa, dove ci fu dato del pane scuro dell’esercito tedesco, il cui odore
mi faceva vomitare. L’indomani mattina, ammassati su camion militaricoperti con teloni mimetici, ci
condussero a Ceprano, uno dei punti di raccolta per i rastrellati. Io ero sempre a fianco del nonno.
Giungemmo a destinazione nella tarda mattinata. Era una giornata di sole. Subito dopo il nostro arrivo, ci fu
una breve incursione aerea degli Alleati, con lancio di alcune bombe, non più di quattro o cinque. Si
determinò un grande scompiglio e un fuggi fuggi generale. Nel parapiglia accadde un fatto sorprendente e
fortunato per noi: incontrammo e abbracciammo zio Michele, zia Carmela e il figlioletto Antonio, di appena
quattro anni; con loro c’era anche il signor Espedito Ronzitti, persona perbene e simpatica. Lo zio Michele si
ricordò che di Ceprano era un suo caro amico con il quale aveva frequentato il corso allievi carabinieri,
mettendosi alla sua ricerca. La fortuna lo aiutò: lo rintracciò subito e si salutarono calorosamente, come due
vecchi amici. Questi ci condusse tutti a casa sua, ove mangiammo a sazietà pane e ricotta. Passammo la notte
in un magazzino, dormendo sul fieno. Il 25 mattino, era ancora buio, con il signor Espedito come guida,
poiché conosceva perfettamente quella zona, avendovi lavorato per alcuni anni alle dipendenze di un’azienda
elettrica, riprendemmo la strada per Castelforte, eludendo sapientemente le postazioni dei tedeschi. Il giorno
26, nel tardo pomeriggio, rientrammo a casa, ove tra l’incontenibile contentezza di nonna Letizia Gagliardi,
di mia madre e delle mie due sorelle Letizia e Maria, ci ristorammo con un pignato de fasuri [pignatta di
fagioli] e pane di granoturco.
Nel citato libro, Duilio Ruggiero descrive un altro massiccio rastrellamento, coordinato
sempre dalle SS, il 2 dicembre 1943. Anche in questa operazione è interessata la zona di
Suio; ma è l’ultima volta che i tedeschi vi si recano per tale operazione. Suio è una
frazione a ridosso della linea di fuoco ed è un importante punto strategico; per i tedeschi
non è cosa agevole effettuarvi l’evacuazione degli abitanti, poiché gli Alleati vi compiono
spesso attacchi per occuparlo. Difatti, non passa molto tempo che questo centro, con
l’offensiva sferrata dalle truppe inglesi il 17 gennaio 1944, è liberato, cessando così le tristi
vicissitudini degli abitanti.
Nel pomeriggio accade un tragico episodio che dimostra, in modo eloquente, la
malvagità e la brutalità dei tedeschi nel compiere i rastrellamenti dei civili. Si riporta uno
stralcio della testimonianza di Arduino Di Tano, raccolta dall’alunno della quinta classe
elementare, Domenico Perrino, inserita nella ricerca scolastica Ricordi di guerra.
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Un mio amico, Antonio Polidoro, al passaggio dei rastrellati, fu sorpreso dalle SS e costretto a seguire la
colonna, ma nei pressi dell’edificio scolastico di via Risorgimento, visto il cancello spalancato e sicuro di
non essere visto dai tedeschi, scappò per trovare scampo nei locali della scuola. Antonio era giunto ai piedi
della scuola. Tre gradini e sarebbe entrato se non ci fosse stato un soldato tedesco a presidiare il sentiero che
da Santa Maria scende nella località Ortali, a 50 metri circa in linea d’aria dalla scuola. Purtroppo il tedesco
vide Antonio e all’avvertimento fece seguire una scarica di mitraglietta e, a questa, una risata sarcastica e
cinica. Il nostro sgomento fu grande, fummo tutti pervasi dal terrore a cui seguì un profondo silenzio. Solo
quando scesero le ombre della notte, qualcuno uscì impaurito dal suo rifugio. Poco tempo dopo una signora
di nome Celeste portò una brutta notizia: Antonio è stato ucciso da quella mitraglietta. Senza attendere che
calasse il buio più profondo, con alcuni amici forniti di pala, zappa, e poche tavolette, scavammo una fossa,
poco distante dal punto in cui fu colpito il povero Antonio. E demmo così sepoltura al suo martoriato corpo.
Fortunatamente, quel giorno accade anche un episodio tragicomico, terminato bene,
senza conseguenze per i protagonisti, rimasto indelebilmente impresso nella memoria di
Leonida D’Aprano, all’epoca un ragazzo decenne. Egli rammenta che la sua famiglia,
come le altre di parenti e amici, dopo il rientro in paese dalla montagna, si era rifugiata
nella casa di Antonio Di Mambro (Mast’Antonio), di fronte alla Chiesa di San Rocco. La
scelta era stata determinata dal convincimento che essa potesse offrire un sufficiente riparo
in caso di cannoneggiamento proveniente dalla pianura, perché protetta da altre abitazioni.
Egli così rievoca l’episodio:
Nel pomeriggio del 2 dicembre si sparge la voce che è in atto il rastrellamento della popolazione da parte
dei tedeschi. Il figlio di Mast’Antonio, Filiberto, per evitare la nostra cattura, propone di nasconderci sulla
volta della vicina chiesa, che si può raggiungere attraverso un cunicolo stretto, collocato a metà altezza del
campanile. Il locale è angusto e completamente buio ed è necessario illuminarlo un po’ per poterci orientare
e sistemarci alla meglio. A tale scopo, alcuni di noi portano dei rudimentali lumini a olio. In pratica sono dei
bicchieri contenenti uno strato d’acqua e uno d’olio, su cui galleggia un luminello. Siamo tutti rannicchiati
nel massimo silenzio per non richiamare l’attenzione dei soldati. Dalla strada, davanti alla chiesa,
provengono grida imperiose e incomprensibili dei tedeschi e il brusio, i pianti e i lamenti dei rastrellati. A
questo punto un bimbo, di cui non ricordo il nome, figlio di amici, balbettando chiede alla mamma
dell’acqua. La poveretta non ha acqua e gli dice di stare zitto e di non farsi sentire dai soldati. Il bimbo
insiste e piagnucola. La sete è irrefrenabile ed egli comincia a strillare e a piangere forte. È impossibile
chetarlo! La situazione si fa tragica. Nel gruppo si determina il panico. La madre è sconfortata e non sa come
calmarlo; vive la situazione con un senso di colpa: il pianto del figlio può farci sentire dai tedeschi con la
conseguente cattura di tutti. Infatti, i soldati, sentendo il pianto, possono facilmente individuare il nostro
nascondiglio e rastrellarci. A qualcuno del gruppo balena un’idea, forse dettata dalla disperazione: dargli da
bere l’acqua del lumino!
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Una persona, che ha vicino a sé un lumino, lo prende, vi toglie l’olio e il luminello e lo porge alla madre.
Il bimbo beve e, sorprendentemente, si calma. Il frastuono del corteo dei rastrellati si affievolisce sempre più.
La cattura è evitata!
In base alla ricerca effettuata da Duilio Ruggiero, le vittime civili dei tentativi di fuga,
durante i rastrellamenti e nelle altre circostanze, sono state ben 51! Il comportamento dei
tedeschi, durante le operazioni di rastrellamento della popolazione, è inspiegabilmente
violento e disumano, assimilabile a quello che adottano nei confronti dei prigionieri di
guerra. Eppure, tutto sommato, loro svolgono una operazione umanitaria, cioè di
allontanamento dei cittadini dalla zona di guerra, per sistemarli nelle zone di Roma e nelle
località dell’Italia del Nord!
Intanto, il tempo passa tristemente, tra stenti, distruzione e morte, determinati dai
giornalieri bombardamenti, e tra le angherie e le prepotenze di gran parte dei soldati
tedeschi, tranne alcuni polacchi, ungheresi, slavi, che dimostrano una certa compassione e
sensibilità per i problemi e i disagi della popolazione.
È tempo di Natale. L’atmosfera natalizia è irreale e triste; gli abitanti sembrano dei
fantasmi che si aggirano tra le macerie e le case, che via via mostrano sempre più gli
evidenti segni dei cannoneggiamenti subìti. Per le strade si vedono pattuglie di soldati,
qualche carro armato, automezzi che trainano cannoni di medio calibro; sono ben
mimetizzati con reti, teli e grossi rami verdi, per eludere l’intercettazione da parte degli
Alleati. La linea del fronte è così vicina che il loro movimento può essere facilmente
scorto con i cannocchiali. Questi mezzi, quando si accostano a una casa, esplodono alcuni
colpi di cannone e subito si allontanano o si rifugiano negli appositi scantinati predisposti
nelle vicinanze, all’interno dell’abitato. La zona, puntualmente, dopo qualche minuto, è
oggetto di un intenso bombardamento da parte dell’artiglieria alleata. La risposta degli
Alleati è sempre esagerata e devastante; infatti, martellano sempre pesantemente tutta la
zona da cui partono i colpi. I tedeschi, per nulla intimoriti, ripetono la loro strategia per
disorientare il nemico; infatti, utilizzano un’altra postazione per compiere i loro tiri di
artiglieria, per evitare di essere colpiti dal fuoco di reazione e per dare una dimostrazione
della loro consistenza di forza. È un giocare al gatto e al topo, con conseguenze distruttive
per l’abitato e funeste per i cittadini. I castelfortesi, prudentemente, si tengono a dovuta
distanza dalle abitazioni che di solito sono utilizzate come schermo per i pezzi d’artiglieria
itineranti.
Di tanto in tanto, in paese, che presenta un aspetto spettrale, si vede qualche persona
che cammina con circospezione per le strade deserte, per evitare di imbattersi con i
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tedeschi. Si esce di casa solo per necessità: per recarsi dai parenti, fare una commissione o
procurarsi del cibo. Purtroppo, data la scarsità delle derrate, è difficile che si possa trovare
qualcosa da comprare: si può solo praticare il baratto. L’incontro con i tedeschi è sempre
da evitare, poiché sono imprevedibili e spesso di cattivo umore.
Mancano pochi giorni al Natale e non si vive l’emozione e l’atmosfera tipica di questa
ricorrenza, sempre molto sentita. È un periodo drammatico, senza prospettive, foriero solo
di sofferenze e lutti per la popolazione ormai giunta ai limiti della sopportazione. Si
auspica ardentemente solo la fine immediata della guerra. Si vive l’atmosfera di un Natale
di guerra, triste, anzi tristissima, come mai verificatosi nella storia di Castelforte!
Eppure durante la notte di Natale accade qualcosa di incredibile, di inconsueto, di
fantastico, in una zona di prima linea, in cui i contrapposti eserciti sono impegnati in
giornalieri scontri sempre più distruttivi e sanguinosi. Quotidianamente i soldati utilizzano
i loro strumenti di morte per ammazzare, distruggere, devastare l’ambiente naturale e ciò
che l’uomo ha costruito nel corso della sua storia. È come giocare alla guerra, con la
serietà del lavoro. Il loro compito consiste semplicemente nel battere l’avversario, senza
preoccuparsi delle conseguenze del terribile gioco per la popolazione, che peraltro subisce
anche maltrattamenti e violenze. In questa situazione i contendenti non provano alcun
senso di colpa, perché le regole impongono a ciascuno di compiere scrupolosamente il
proprio dovere per sconfiggere il nemico. I combattenti sono determinati e sorretti da una
forte ideologia che giustifica il loro comportamento nelle azioni che compiono. Del resto, i
soldati si limitano a eseguire solamente gli ordini impartiti e assolvere i compiti chiesti.
Sono convinti che, compiendo il loro dovere, sono pure meritevoli di encomio e additati ai
giovani come fulgido esempio da imitare. Quelli che si distinguono per eroismo, per l’alto
senso del dovere e per il comportamento valoroso, durante le cruente azioni di guerra,
dimostrando di essere veri e valorosi soldati, sono decorati con Medaglie e Croci di
Guerra, anche alla Memoria. Eppure, alcuni di questi soldati sono capaci di compiere gesti
gentili, impensabili in guerra. Infatti, durante la notte di Natale, di quel triste 1943, a
Castelforte accadono alcuni straordinari e commoventi episodi, riportati da Duilio
Ruggiero nel suo libro L’urlo e il silenzio. Sono azioni struggenti, che toccano il cuore,
compiute istintivamente per ricordare il messaggio d’amore e di speranza della natività.
Anche dove dominano l’odio, la morte e la distruzione, dove la pietà è morta, è possibile il
risveglio, sia pure isolato, delle coscienze abbrutite dagli orrori della guerra. Nella
situazione in cui sono accaduti, questi episodi contrastano col regolamento, il codice di
guerra e i doveri del soldato. Possono intendersi anche come protesta pacifica per
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affermare la dignità dell’uomo e ribadire il risveglio della coscienza anche in quelle
situazioni in cui egli perde la sua umanità e agisce guidato da impulsi bestiali. È l’invito a
ritrovare quei valori universali, assopiti nella coscienza di ciascuno, che consentono agli
uomini, diversi per razza, religione, cultura, di convivere pacificamente, pur nella
diversità. La valenza del messaggio è forte, perché lanciato in una zona di guerra, dove si
combatte, dove gli uomini quotidianamente si ammazzano anche in coincidenza con la
ricorrenza più significativa del cristianesimo.
Il parroco, don Saverio Treglia, nel suo diario ha annotato un episodio riportato da
Duilio Ruggiero, che si trascrive:
La notte del Santo Natale […] echeggiò inaspettatamente in una improvvisa tregua del
cannoneggiamento un festoso scampanio. Un tedesco (forse polacco) per obbedire alla voce dell’anima, alla
voce di Dio, era andato sul campanile della Chiesa Parrocchiale di San Giovanni Battista, già mezzo
diroccato e pericolante, e attaccato alla corda delle campane aveva voluto ricordare in quel modo la nascita
di Gesù Bambino. Quella voce sonora, festosa, dopo tanto tempo che non si faceva sentire più, aveva
colmato di gioia, di commozione gli sventurati che, isolati dal mondo, vivevano, minuto per minuto, la loro
immeritata tragedia. Perché la guerra? Perché distruggersi e distruggere con tanta malvagia? Perché seminare
tanti lutti?”.
Duilio Ruggiero riporta pure una breve testimonianza di Nicola Casale, il quale
riferisce che “la notte di Natale i tedeschi suonano, con un piano sottratto alla famiglia
Rossi, a SS. Cosma e Damiano, la notissima Stille Nacht di Gruber, direttamente in piazza.
Ancora Duilio Ruggiero, citando Giulietta Sandri, scrive che nella frazione di Ventosa,
don Giovanni, un prete sfollato da Gaeta, la mattina del giorno di Natale, “ha detto messa
alla chiesa diroccata del paese” e che nella notte stellata [giorno precedente] “giungono da
Castelforte gioiosi scampanii che echeggiano per tutta la valle”.
Quello scampanìo, che rompe il lugubre silenzio e risuona durante la notte di Natale,
dalla collina alla piana del Garigliano, fino a dissolversi nello spazio, commuove
certamente cittadini e soldati che lo ascoltano. È una nota gentile in mezzo a tanta
devastazione! Ormai le campane tacevano da tempo, dall’inizio delle ostilità tra i due
eserciti, che peraltro avevano determinato anche la interruzione delle varie funzioni
religiose per motivi di sicurezza. Tutti si rendono conto che si tratta di un evento
eccezionale e insolito in quella situazione di guerra.
Le ostilità quella notte cessano per un tacito accordo. Si rispetta una tregua non
concordata. Il suono di quella campana, che la popolazione e i soldati non ascoltavano da
qualche tempo, è come il melodioso e struggente canto intonato dal leggendario cigno
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reale prima di morire. Quella notte di Natale si ode l’ultimo suono di quella campana.
Poco dopo, essa cadrà frantumata e sepolta sotto le macerie del campanile e della Chiesa
parrocchiale di San Giovanni Battista, rasi al suolo dalle quotidiane gragnole di granate
provenienti dalla pianura. Al loro posto resterà solo un desolante spazio vuoto, vicino alla
torre medievale, che pur ferita, rimarrà in piedi a vegliare, sino alla fine, il cumulo di
macerie di Castelforte, su cui aleggia un alito di morte! Di quello scampanio della
indimenticabile notte di Natale resterà solo il ricordo e l’emozione nella testimonianza di
don Saverio Treglia e dei pochi superstiti. Il messaggio lanciato da quello scampanio
purtroppo sarà inascoltato, come tutti i messaggi di pace. L’indomani, i sanguinosi scontri
tra tedeschi e Alleati subito riprendono con immutato vigore e continueranno per altri
cinque interminabili mesi! Anzi, trascorso il giorno di Natale, il 26 dicembre 1943
(domenica), per la popolazione di Castelforte, è un’altra triste e indimenticabile giornata:
si attua il terzo e ultimo grande rastrellamento in massa. Se ne aveva sentore: in paese, da
qualche giorno, si vedevano in giro i terribili e crudeli soldati delle SS accompagnati da
forestieri, civili non del luogo, forse “repubblichini”. La loro presenza non è rassicurante,
fa presagire solo sventure ed eventi dolorosi.
Il rastrellamento inizia intorno alle 13:00 da piazza Muraglia, vicino al Municipio, per
investire l’abitato in direzione ovest, fino a SS. Cosma e Damiano. Man mano che si
formano gruppi consistenti di rastrellati, in pieno giorno, per evitare l’intercettazione da
parte degli Alleati, che possono aprire il fuoco su di loro, li indirizzano verso Capo di
Ripa, alveo di Rio Grande, Ortali, Pagliarello, strada per Coreno, località Arole, nei pressi
del cimitero di SS. Cosma e Damiano. In questa località si radunano tutti i rastrellati, i
quali con camion o a piedi sono condotti a Coreno Ausonio e alloggiati nella chiesa
parrocchiale, in attesa di essere avviati alle stazioni ferroviarie di Ceprano, Ferentino e
Priverno Fossanova, ove sono pronti i treni con carri merci o bestiame. Durante la sera,
invece, i rastrellati raggiungono la località Arole percorrendo la strada Castelforte, SS.
Cosma e Damiano, bivio di Ventosa, Coreno Ausonio. L’operazione di sgombro dura sino
a tarda sera, con centinaia e centinaia di cittadini rastrellati.
Ezio D’Aprano, che all’epoca aveva poco più di otto anni, nei suoi Ricordi d’Infanzia,
così descrive il rastrellamento della sua famiglia:
La sera del 26 dicembre siamo tutti riuniti in cucina, accalcati intorno al fuoco per riscaldarci alla fioca
luce della fiamma. Improvvisamente si sentono violenti colpi al portone di casa, provocati dai calci dei fucili,
dalle spallate e dalle pedate dei soldati tedeschi, i quali irrompono con le armi spianate, gridando e
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gesticolando; ci cacciano fuori con i soli abiti indossati al momento, senza consentirci di prendere un
cappotto o uno scialle. Nella strada principale, adiacentealla nostra casa, vi sono decine e decine di donne,
vecchi e bambini, che sono controllati da soldati tedeschi armati. Inquadrati, ci fanno percorrere la strada in
direzione di SS. Cosma e Damiano. Camminiamo nella completa oscurità, attenuata da un lieve bagliore di
luce lunare. La strada è in salita. Attraversiamo questa località, continuando sempre a salire. La strada si
inerpica sempre più. Le persone anziane e le donne fanno fatica a camminare. Giunti al bivio per Ventosa, ci
fanno imboccare la strada che conduce a Coreno Ausonio, distante circa dieci chilometri da Castelforte.
Proseguiamo attraverso un valico abbastanza stretto, delimitato dal colle di Ventosa e dai colli Ceschito e
Crisano. Qui il vento aumenta di intensità. Per vincere la sua resistenza camminiamo piegati in avanti. A
qualche vecchio vola il cappello, che il vento trasporta lontano, e i soldati non consentono nemmeno un
tentativo di recupero. Arriviamo a notte inoltrata a Coreno Ausonio, dove ci sistemano nella chiesa
parrocchiale. Io per la stanchezza mi addormento su una panca. All’alba, ci fanno uscire dalla chiesa e
caricati su camion, ci portano alla stazione ferroviaria di Priverno Fossanova. Io sono così assonnato che non
mi rendo conto di cosa accada intorno a me; quando esco dal torpore, mi ritrovo su un carro merci di un
lungo convoglio trainato da una locomotiva a vapore.
Tutti i rastrellati di Castelforte e delle zone limitrofe, dal centro di smistamento di
Coreno Ausonio, sono trasferiti dai tedeschi con camion nelle stazioni ferroviarie di
Ceprano, Ferentino e Priverno Fossanova, ove è possibile allestire treni con carri merci o
bestiame per il loro trasporto a Roma e nel Nord dell’Italia. I soldati effettuano la vigilanza
dei rastrellati fino alle predette stazioni; al momento della partenza dei convogli affidano
la responsabilità del loro trasferimento al personale di assistenza italiano.
A causa dei limitati mezzi di trasporto disponibili e dell’interruzione della rete
ferroviaria, spesso, il trasferimento degli sfollati alle stazioni di partenza avviene in
ritardo. Per tale motivo, sono costretti a sostare nella chiesa di Coreno Ausonio, nelle
stazioni ferroviarie e persino nei carri merci, per alcuni giorni, senza cibo, in condizioni
igieniche indescrivibili, che peggiorano col passare dei giorni a causa della mancanza di
adeguate strutture di accoglienza per le moltitudini di persone da assistere e per
l’insufficienza dei mezzi di trasporto.
Quando si parte, gli sfollati sono sistemati in carri merci o bestiame con i pianali
ricoperti di abbondante paglia per consentire loro di distendersi sul pavimento per
attenuare il disagio determinato dall’assenza di sedili e panche. Tutti i passeggeri, per
limitare l’indolenzimento delle membra e i fastidiosi dolori della schiena, del bacino e
degli arti, dovuto alla posizione seduta per terra, si appoggiano alle pareti del carro o si
sdraiano sul pianale con la testa reclinata su un fagotto, un sacchetto, una borsa o sulle
ginocchia dei propri congiunti.
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Il viaggio è lungo, interminabile e particolarmente scomodo. A bordo non vi sono
servizi igienici, manca l’acqua e l’illuminazione. Per far filtrare un po’ di luce si deve
tenere socchiuso il portellone del vagone, accentuando così il tormento del freddo, già
intenso. Se si chiude il portellone, anche di giorno, si sta al buio completo, se il carro non è
dotato di finestrini collocati in alto. Alcuni accendono dei fuochi dentro secchi e bacinelle
per ottenere della brace e riscaldarsi un po’ le mani intirizzite. Il fumo acre e intenso,
emesso dalla locomotiva azionata a carbone, durante l’attraversamento delle numerose e
lunghe gallerie disseminate lungo il percorso, invade il vagone, toglie il respiro ai
viaggiatori e copre i loro volti di fuliggine. Il treno, di tanto in tanto, effettua delle fermate
di servizio nelle stazioni per consentire agli sfollati di ristorarsi, sgranchirsi, bere, lavarsi,
soddisfare i propri bisogni personali e procurarsi un po’ di cibo. Durante il viaggio non è
distribuito il rancio o il cibo, eccetto qualche galletta o filone di pane. La fame è
irrefrenabile e affligge tutti, specialmente i bambini, che non riescono a contenerla,
lamentandosi e piangendo senza interruzione. Quando il treno si ferma in stazione, per la
sosta di servizio, gli sfollati, dopo aver provveduto al soddisfacimento dei propri bisogni,
si disperdono per la campagna circostante per raccogliere legna e tutto ciò che può essere
utile durante il viaggio; alcuni si riversano nelle strade dell’abitato per elemosinare
qualcosa da mangiare.
A Roma molte famiglie scendono e non proseguono il viaggio verso il Nord, poiché
possono essere alloggiate nei centri di raccolta allestiti nella caserma Lamarmora in
Trastevere, nella caserma Vespucci in Santa Croce in Gerusalemme, presso l’ex
stabilimento della Breda sulla via Casilina, a Cesano di Roma, o presso parenti e amici.
Alcune famiglie sono autorizzate a fermarsi anche in altre città, se possono trovare una
adeguata sistemazione, ove rimangono sino al termine della guerra. Gli altri sfollati
proseguono il viaggio per il Nord, destinati prevalentemente alle località dell’Emilia
Romagna, Lombardia, Veneto e Friuli, ove sono state predisposte strutture di accoglienza.
Il viaggio procede sempre lentamente a causa delle lunghe soste nelle stazioni, per dare
la precedenza ad altri convogli e per le interruzioni della linea ferroviaria dovute ai
bombardamenti.
Damiano Ciorra, pur essendo piccolo a quell’epoca, conserva in modo nitido il ricordo
di alcuni significativi episodi, in particolare il rocambolesco viaggio verso il Nord senza i
genitori, fino alla definitiva sistemazione. Egli è rastrellato la mattina presto, in località
Pozzariello, assieme alla nonna Paolina Di Spirito e alla sorella minore Giuseppina. Non è
sicuro della data di cattura, ma ritiene che sia avvenuta il 23 novembre 1943. È condotto
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insieme a tanti altri, a piedi, fino alla località Arole e da qui, con camion tedeschi, a
Coreno Ausonio, nella chiesa parrocchiale. Dopo due o tre giorni di bivacco nella chiesa,
ridotta a un letamaio, tutti i rastrellati sono trasferiti, sempre con camion, prima a Ceprano
e poi alla stazione ferroviaria di Ferentino; qui sono sistemati in carri merci nell’attesa
della partenza. Rimangono stipati nel carro assegnato per circa una settimana, in
condizioni igieniche indescrivibili e patendo la fame e il freddo. Dei genitori non avrà
notizie per molto tempo. Per fortuna vi è la nonna, che amorevolmente si prende cura di lui
e della sorellina! Il personale civile italiano, per quanto si prodighi per assicurare
l’assistenza in stazione e durante il viaggio, non può limitare le atroci sofferenze della
moltitudine di sfollati per la mancanza di mezzi e di cibo. Il viaggio verso il Nord procede
lentamente. La destinazione sembra lontanissima per le continue soste del treno dovute
alle interruzioni della linea ferroviaria. Ricorda che a Roma alcune famiglie scendono per
essere sistemate nelle apposite strutture di accoglienza o presso parenti. Finalmente il treno
giunge a Mestre dopo alcuni giorni e vi effettua una lunga sosta; poi prosegue per Treviso.
Sembra che questa località sia la loro sistemazione definitiva. Invece, qui sono solo
ospitati precariamente presso il locale campo sportivo, nell’attesa della definitiva
destinazione nelle località di Padova, Treviso e Rovigo. La sua famiglia, assieme ad altre
tre o quattro, è destinata a Castelnovo Bariano, in provincia di Rovigo. Finalmente, nel
mese di maggio 1944 il nucleo familiare si ricompone con l’arrivo del padre e della madre.
La famiglia Ciorra, finalmente riunita, soggiorna in provincia di Rovigo fino a tutto il
1948, quando rientra a Castelforte.
Anche Leonida D’Aprano, rastrellato con la famiglia la sera del 26 dicembre 1943, è
trasferito a Coreno Ausonio e alloggiato nella locale parrocchia. L’indomani, all’alba, con
camion è portato a Priverno Fossanova e ospitato nella storica Abbazia fino a sera; poi,
condotto alla stazione ferroviaria, è fatto salire su un carro merci di un lungo convoglio
trainato da una locomotiva a vapore, diretto a una destinazione del Nord, come tutti i
rastrellati castelfortesi. Dopo circa un paio di giorni di viaggio, verso mezzogiorno, il treno
su cui viaggia compie una fermata alla stazione di Prato per una normale sosta di servizio.
Qui egli è protagonista di una triste e divertente avventura, che evidenzia la bontà e la
solidarietà dei cittadini di Prato nei confronti di un piccolo profugo. All’improvviso scatta
l’allarme aereo. Gli sfollati sono sorpresi per quella incursione aerea in una zona così
lontana dal fronte da cui provengono, ove a proprie spese avevano fatto una notevole
esperienza degli effetti dei bombardamenti; sono terrorizzati e presi dal panico. In stazione
si determina un fuggi fuggi generale. Egli, ragazzo di dieci anni, con l’esperienza acquisita
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in territorio di guerra, sa come fronteggiare la situazione; con passo svelto esce dalla
stazione in cerca di un riparo. Dopo aver percorso un tratto di strada, si gira per verificare
se i familiari lo seguono. Vede la madre Antonietta, il fratello Ezio e lo zio materno Ineldo
Giuliano, che seguono distanziati. Quando si rigira, dopo qualche minuto, non li vede e
nota che il cancello della stazione è chiuso. Torna indietro, ma il personale ferroviario, che
blocca l’uscita e l’entrata, gli dice che il treno è ripartito immediatamente per evitare il
pericolo dell’incursione aerea e lo invita ad allontanarsi dalla stazione. Appiedato e
disperato per la partenza dei familiari, vaga senza meta per il piazzale della stazione. È
spaesato, confuso, scoraggiato e con lo sguardo assente. È pure vestito in modo goffo,
insolito per un ragazzo della sua età. Indossa una giacca da uomo, un paio di pantaloni alla
zuava, adattati alla sua statura, calza scarpe rotte e sdrucite. In quelle condizioni non può
passare inosservato. Un giovane, che percorre il piazzale in bicicletta, lo nota, si avvicina e
gli pone delle domande per capire chi sia e perché si trovi lì; risponde alle sue domande e
lo commuove. Questi lo conduce a casa sua. Durante il tragitto passa davanti a tanta gente,
che si era riversata nelle strade per l’allarme. Molte persone si incuriosiscono e si
interessano alla sua storia di sfollato e, mosse a compassione, gli infilano nel taschino della
giacca monete e banconote. È così frastornato da tanta attenzione e così soprappensiero
che non coglie il significato di quei gesti e non ringrazia neppure. Quando arrivano a casa
del giovane, i genitori si informano del motivo della presenza di quel ragazzo smarrito e
confuso. Anche loro si commuovono e, data l’ora del pranzo, gli chiedono se vuole la
minestra. Il piccolo sfollato non ha mai sentito il termine minestra, ma intuisce che si tratta
di cibo. Ha una fame da lupo e annuisce, senza proferire parola. Appena si siede a tavola,
gli presentano un piatto caldo di pasta e patate, che non mangiava da mesi, e lo divora in
un baleno. Ricorda ancora, sempre divertito, che a Prato la pasta e patate è la minestra.
Cessato l’allarme, quel giovane, come un angelo custode, lo accompagna alla stazione. Il
treno, su cui erano lui e i familiari, è ripartito da un pezzo. In stazione per fortuna ritrova
dei compaesani, una ventina circa, appiedati come lui, e si rincuora. Quel cortese e gentile
giovane, di cui non ha mai saputo il nome, rimane con lui fino al momento
dell’allestimento di un treno, con un paio di carrozze, su cui salgono tutti gli appiedati, per
raggiungere la stazione di fermata di quello degli sfollati. Infatti, dopo circa un’ora, in una
stazione vicina, avviene il ricongiungimento con i familiari, che erano ripartiti disperati e
angosciati a causa di quella improvvisa separazione determinata dall’allarme aereo.
Rasserenatosi dopo la sua disavventura, si ricorda che i cittadini di Prato gli avevano
infilato qualcosa nel taschino della giacca: vi trova ben 65 lire, una discreta somma
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all’epoca! Quel denaro è stato provvidenziale per la sua famiglia, poiché ha consentito alla
madre di affrontare per qualche mese le prime spese di sistemazione nella località di
destinazione, San Matteo di Viadana (Mantova).
Come è stato in precedenza affermato, le famiglie degli sfollati, che non si sono
fermate a Roma o nei paesi attraversati durante il viaggio, sono condotte e sistemate in
diverse località dell’Italia Settentrionale. In base anche alle testimonianze raccolte nel già
citato Ricordi di guerra, gli sfollati castelfortesi sono stati accolti nelle seguenti località
del Nord Italia, ove sono rimasti sino al termine della guerra: Altivole (TV), Asolo (TV),
Boretto (RE), Brescello (RE), Casaleone (VR), Castelmassa (RO), Castelnovo Bariano
(RO), Cesano di Roma, Chiappano (VI), Gonzaga (MN), Mantova, Marcarìa (MN), Mason
Vicentino (VI), Montagnana (PD), Narni (TR), Ostiglia (MN), Padova, Quistello (MN),
Roma, Rovato (BS), Rovigo, San Benedetto Po (MN), San Martino dell’Argine (MN),
Saonara (PD), Viadana e la sua frazione di San Matteo (MN), Treviso, Villimpenta e la sua
frazione di Pradello (MN). Certamente gli sfollati castelfortesi sono stati trasferiti anche in
altre località del Nord Italia, ma non è possibile individuarle tutte: sono trascorsi diversi
anni e molti protagonisti sono scomparsi o non sono in grado di fornire utili indicazioni
per i vuoti di memoria; inoltre, molti dei loro figli, che all’epoca erano in tenera età,
conservano solo pochi e vaghi ricordi di quel periodo.
In queste località, ricadenti nel territorio della Repubblica sociale italiana,
perl’accoglienza e la sistemazione degli sfollati, sono state impartite precise disposizioni
dal Ministero dell’Interno, per attivare forme di assistenza mediante gli enti comunali di
assistenza, trasformati, per l’occasione, in Assistenza fascista, come risulta dalla copiosa
documentazione conservata nell’Archivio Storico Comunale di Viadana (MN),
gentilmente messa a disposizione da quel Comune.
Gli sfollati castelfortesi, invece, che sono riusciti ad attraversare la linea del fronte,
dagli Alleati sono stati trasferiti in varie località del Sud dell’Italia, dopo la prima
accoglienza a Sessa Aurunca: Bolognetta (PA), Caltanissetta, Carbone (PZ), Caserta,
Castrovillari (CS), Cittanova (RC), Corigliano Calabro (CS), Cosenza, Fagnano Castello
(CS), Maratea (PZ), Matera, Mondragone (CE), Mussomeli (CL), Napoli, Palermo,
Pisticci (MT), Sala Consilina (SA), Salerno, S. Maria Capua Vetere (CE), Sessa Aurunca
(CE), Siderno (RC).
Riportato in: D’Aprano Ezio, Affetti dispersi. La popolazione di Castelforte tra guerra e
dopoguerra 1943-1944, Herald Editore, Roma, 2007, pagg. 64-80
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