scheda di approfondimento Futurismo. Progresso. Volo

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scheda di approfondimento Futurismo. Progresso. Volo
scheda di approfondimento
Futurismo. Progresso. Volo
di Maurizio Scudiero
Ricorre quest’anno il centenario del manifesto di fondazione del Futurismo: non del Futurismo in sé, che era già “in cantiere” da
qualche tempo. Ma, comunque sia, nel febbraio del 1909, a Parigi (ma, in realtà già anticipato su alcuni giornali italiani di
provincia), il prestigioso “Le Figaro” dava spazio, in prima pagina, agli enunciati in forma di manifesto, di Filippo Tommaso
Marinetti, figlio di un facoltoso avvocato italiano, di vocazione poeta e editore della rivista “Poesia”.
Perché il manifesto e perché Parigi?
Il manifesto programmatico fu un mezzo nuovo, ed accattivante per far conoscere le idee del Futurismo. Programmatico in quanto
esso dichiarava “prima” quello che si sarebbe fatto “dopo”. Per il panorama artistico si trattò di un evento del tutto nuovo e
rivoluzionario proprio perché toglieva la “creatività” artistica da quell’aura ancora bohémien dell’artista inteso come colui che
coglie la sua ”ispirazione” nell’atelier, e vi oppose invece un’attitudine del tutto moderna, e cioè quella della “progettualità”.
Ulteriormente innovativo, ancora, perché, mutuando le prassi della pubblicità, questi manifesti (per la precisione “volantini”) erano
distribuiti capillarmente a tutti, cioè non solo agli addetti d’arte, ma anche per la strada, porta a porta, lanciati dal tram, dal
loggione dei teatri, e così via. In questo modo si cercava di dare corpo a quello che diverrà in seguito uno dei cavalli di battaglia del
Futurismo e cioè l’idea di portare l’arte fuori da gallerie e musei, verso la gente, nella vita quotidiana.
La scelta di Parigi, poi, fu un atto strategico per evitare di essere fagocitati dall’art system di allora che era concentrato nella
capitale francese. Là si tenevano i famosi Salòn, e là il mercato dell’arte già si contendeva a cifre notevoli le opere degli
impressionisti, mentre invece, in Italia, quelle dei macchiaioli e dei divisionisti erano alquanto sottovalutate, tranne il “caso
Segantini”, ma proprio (o solo) perché l’artista era vissuto in Svizzera. In sostanza, Marinetti sapeva benissimo che se una proposta
così innovativa, come il Futurismo, fosse stata pubblicata in Italia, qualcuno a Parigi se ne sarebbe appropriato subito, rilanciandola
oltralpe come un’idea sua, con poca possibilità di smentita, specie se proveniente da una nazione come l’Italia, ancorata a vecchi
moduli del Passato. Questo era infatti un altro, tra i vari intenti del manifesto di Marinetti, che appunto voleva con questo suo
nuovo movimento artistico di natura globalizzante, “svecchiare” e riqualificare l’Italia, che di lì a due anni, nel 1911, avrebbe
celebrato i suoi primi cinquant’anni dall’unità nazionale. Futurismo, dunque, come slancio in avanti, verso il Futuro, verso le
innovazioni della tecnica, verso una nuova era dinamica che tagliasse i ponti con tutti i “pesi” del Passato che invece rallentavano
lo sviluppo del paese nel colmare il gap sociale ed industriale rispetto alle grandi potenze europee.
Detto questo, va anche notato come parlando di Futurismo gran parte degli studiosi che hanno affrontato questo tema si siano
sempre soffermati sugli antecedenti letterari, ma in realtà poco sugli evidenti influssi del cosiddetto Progresso che proprio sullo
scorcio tra ‘800 e ‘900 stava avanzando a passo veloce.
Al di là di vari progressi scientifici, forse sin troppo specifici (e di cui diremo più avanti) certamente il fatto più eclatante fu la
“liberazione dalla terra”, ovvero il perfezionamento della tecnologia del volo.
Se sin pensa a quelle scarne quaranta yarde di volo a bassa quota che Orville Wright percorse il 17 dicembre 1903, la prima cosa
che vi può essere associata è una frase ormai storica, ma di ben sessant’anni dopo, e cioè l’esclamazione di Neil Armstrong nel
momento in cui stava per posare il suo piede sulla superficie lunare, il 20 luglio 1969: «Un piccolo passo per l’uomo, un grande
balzo per l’umanità». Certo, si tratta di due situazioni completamente differenti: la prima a pochi metri da suolo terrestre, la
seconda, invece, a circa trecentomila chilometri. Ma quello che va valutato è che la “ricaduta”, non solo tecnologica, del primo
avvenimento fu di una portata eccezionale per tutto il genere umano, mentre la seconda fu essenzialmente di ambito “strategico”,
ed anche psicologico, nel momento in cui si era ancora in pieno clima di “guerra-fredda”. In questo modo, ciò che accadde là, sui
prati di Kitty Hawk nel dicembre 1903, non fu solo la vittoria del “più pesante dell’aria”: non fu, in altre parole, solo un fatto
tecnico-scientifico, proprio perché la sua eco immediata, diffusa in tutto il mondo a mezzo stampa, più o meno velocemente,
innescò una serie di processi in più ambiti dell’attività umana. E uno di questi ambiti fu appunto il settore culturale ed artistico che
accolse la notizia come l’ennesima conquista di un percorso “positivista”, identificato genericamente nel “Progresso”, che già sul
finire dell’Ottocento agitava poeti ed artisti. I toni avevano un ché di epico, eroico, ancora in pieno clima simbolista, e per questo
motivo nei dipinti e nei manifesti murali di fine secolo le “conquiste” del progresso erano ritratte nelle fattezze di conturbanti
bellezze vestite spesso solo di veli trasparenti che le avvolgevano voluttuosamente. Ovvio che, da un punto di vista estetico ed
artistico la dimensione del volo rientrò ben presto in questa visione post-romantica, a volte melodrammatica, che nella pratica si
risolveva nel consueto uso di copiosi cascami floreali tipici dello stile Art Nouveau, che in Italia fu ribattezzato “stile Liberty”. I
risultati, nei termini di manufatti d’arte o di grafica applicata, furono in questo senso più vicini alle suggestioni del Passato, anziché
proiettarsi verso il Futuro, come la portata dell’evento avrebbe richiesto. Non si riusciva, in altre parole, a cogliere
nell’immediatezza lo “strappo” con tutto quello che era stato “prima”, e che la nuova dimensione del volo portava in sé, proprio
perché tutto l’ambiente culturale ed artistico mancava di adeguati “strumenti” di pensiero per giungere al cuore nel “nuovo che
avanzava”.
Non si trattava infatti solo del Volo.
Da qualche anno l’ambiente scientifico era più che mai attivo. Nel 1892 Heinrich Rudolf Hertz aveva pubblicato le sue ricerche sul
telegrafo senza fili (Untersuchungen über die Ausbreitung der Elektrischen Kraft) poi perfezionate da Marconi nel 1896, mentre
Hendrik Antoon Lorentz nel 1893 aveva annunciato la teoria dell’elettrone (La Théorie electromagnetique de Maxwell et son
application aux Corps Mouvant). Quindi, nel 1895 Wilhelm Conrad Röntgen aveva scoperto l’uso de raggi X (Ueber eine Neue Art
von Strahlen), mentre del 1897 era stato l’annuncio, come si conveniva alle ricerche scientifiche, della scoperta del cinematografo
ad opera dei fratelli Lumiére, peraltro già attivo dal 1895 (Notice sur le Cinématographe), e, nello stesso anno anche quello dei
raggi catodici, ad opera di Joseph John Thomson (Cathode Rays). Proprio allo scoccare del nuovo secolo, nel 1900, Max Planck
aveva pubblicato la sua teoria dei Quanti (Zur Theorie des Gesetzes der Energieverteilung im Normalspectrum), e infine in quello
stesso 1903 del primo volo, Henri Bequerel pubblicava i suoi studi sulla radioattività (Recherches sur une Propriété nouvelle de la
Matiére... ou Radioactivité de la Matiére) e Marie Curie quelli sul Radio (Recherches sur le Substances radio-actives). L’anno
seguente, gli stessi fratelli Wright pubblicavano sul “Journal of the Aeronautical Society” di Londra il resoconto dei loro primi voli
(The Experiments of the Brothers Wright) e infine, per compiere un salto al 1916, Albert Einstein relazionava il mondo scientifico
sulla sua teoria della relatività (Die Grundlage der allgemeinen Relativitätstheorie).
Venendo a questo punto all’Italia, Mario Morasso sin dai primi del 1900 aveva pubblicato vari studi sul “nuovo aspetto meccanico
della vita contemporanea”. Insomma, i segnali di uno scarto brusco in avanti nella storia, non solo scientifica, del genere umano
erano molti. Ed è appunto in questa congiuntura, crogiolo di varie tensioni scientifiche e culturali, che avviene un fatto
determinante, di natura estetica ma con modalità espressive del tutto nuove che si andranno a proiettare ben oltre l’ambito artistico:
il Futurismo, del quale quest’anno ricorre il centenario del lancio internazionale del manifesto di fondazione, appunto avvenuto a
Parigi il 20 febbraio del 1909.
Ideato dal poeta Filippo Tommaso Marinetti con l’intento di “svecchiare” la cultura italiana del primo ‘900 fu, all’inizio, un
movimento poetico, di lì a poco anche artistico, ed in seguito globale. La parola d’ordine era lo “slancio” verso il futuro (appunto)
e, conseguentemente, il “taglio netto” con il passato. In questa semplice equazione risiedono dunque gli elementi peculiari e
d’indirizzo dell’attività futurista. Amore per le nuove tecnologie, per l’aspetto meccanico della vita, per la conquista della velocità,
per la libertà dei costumi, per la liberazione dalla sintassi, in letteratura, e dalle regole della prospettiva, in pittura. Inoltre, odio per
tutto ciò che rappresenta il passato e le istituzioni che lo conservano e lo rappresentano, quali i musei, le biblioteche e le
accademie.
Con queste premesse si comprende immediatamente come solo i futuristi potessero cogliere appieno le istanze di modernità insite
non solo nella nuova sfida del volo, ma, genericamente, della scienza in senso lato. Infatti, quando, all’inizio degli anni Dieci,
Marinetti “lanciava” i suoi primi proclami teorici e programmatici, i manifesti futuristi, le manifestazioni della fase pionieristica
dell’aviazione erano già divenute popolari anche in Italia, richiamando sui prati di periferia delle principali città, ma spesso anche
sulle case ed i campanili dei centri storici, migliaia di curiosi che con il naso all’insù ammiravano quelle prime, incerte, evoluzioni
di apparecchi realizzati in legno di balsa, cartone e pelle. Infatti, dopo i voli dimostrativi di Delagrange, nel 1908, erano sorti un
po’ dappertutto vari “concorsi” aerei, ovvero raduni con dimostrazioni ed evoluzioni definite “acrobatiche”: a Brescia nel 1909, a
Milano, Verona, Firenze e Palermo nel 1910, a Torino nel 1911, solo per citarne alcuni. Così quei primi, traballanti, aeroplani ben
presto soppiantarono anni e anni di tradizioni aerostatiche, e in un attimo i grandi e policromi palloni alla “Montgolfier” furono
spediti in cantina. Tuttavia il Futurismo forse non era completamente pronto in questo slancio verso il cielo e verso il futuro, nel
senso che in un primo momento tutto questo fervore aviatorio filtrò nel Futurismo quasi esclusivamente nell’ambito letterario,
rimanendone invece la pittura pressoché indenne da ogni influenza, forse perché troppo impegnata, all’epoca, nella definizione di
uno stile “proprio”. Il Futurismo, infatti, nel suo bruciare tappe e tempi, spesso lanciava troppo avanti il sasso delle sue
provocazioni, o delle sue invenzioni. Tra queste, appunto, la pittura futurista che fu annunciata ben prima che uno stile futurista
vero e proprio fosse stato delineato sulla tela. E, di fatto, la prima stagione futurista, che va dal 1909 al 1915, da un punto di vista
pittorico fu essenzialmente Boccioni-centrica, nel senso che la prorompente personalità di Umberto Boccioni ne condizionò
pesantemente uno sviluppo più polifonico.
In ambito letterario, invece, la fantasia dei futuristi si concesse più e più volte al brivido del volo. Vari furono, ad esempio, i
riferimenti aviatori nelle opere di F.T. Marinetti. Primo tra tutti Le Monoplane du Pape (L’Aeroplano del Papa), edito nel 1912 per
il quale l’autore s’ispirò al raid Parigi-Roma di André Beaumont, dell’anno precedente. Il romanzo era in realtà un’opera
irredentista, anti-austriaca, ed anticlericale, nella quale egli immaginava di volare sopra l’Italia per sollevare la popolazione contro
l’Austria, che bombardava poi dall’alto. Non pago, rapiva poi il Papa per andare a gettarlo nell’Adriatico, realizzando così lo
“svaticanamento” dell’Italia. Nel 1914, ancora Marinetti, nel suo Zang Tumb Tuuum, in assoluto il primo libro parolibero, inserì
una “carta sincrona dei suoni, rumori, colori, immagini, odori, speranze, voleri, energie e nostalgie”, tracciata dall’aviatore Y.M.
sul cielo di Adrianopoli durante la guerra bulgaro-turca del 1912. Un altro grande scrittore futurista, Paolo Buzzi, già nel 1909
titolò Aeroplani i suoi “canti alati”, e qualche anno dopo, nel 1915, pubblicò L’Ellisse e la Spirale dove descrisse, in stile
parolibero, il volo di possenti squadroni aerei. Luciano Folgore ne Il Canto dei Motori, del 1912, esaltò ulteriormente il nuovo
aspetto meccanicistico dell’epoca moderna, mentre Enrico Cavacchioli in Cavalcando il sole, del 1914, raccontò invece di una
lunga e “perigliosa” fuga in aeroplano. Quanto al mito della Velocità, l’iconografia prodotta dai pittori futuristi della prima
generazione fu sostanzialmente “terrena”, greve, ben radicata al suolo. I soggetti favoriti erano infatti di volta in volta la velocità di
un treno, di un tram, di un’automobile, di una bicicletta, o persino di un cavallo, soggetto ben poco futuribile. Insomma, a dispetto
del loro ruolo di innovatori ed iconoclasti essi erano ancora legati al vecchio secolo, all’Ottocento, cioè al secolo della “velocità
terrestre” (treno e vapore ed automobile), mentre, invece, il Novecento sarà appunto il secolo dell’aria e dello spazio:
dall’aeroplano al viaggio sulla Luna.
E’ in questo contesto che avviene il felice incontro, quanto mai opportuno, dell’arte del manifesto con la nascente “arte del volo”
che portava con sé nuove suggestioni ed un senso epico e di sfida verso nuovi orizzonti di progresso tecnologico. Il manifesto, da
parte sua, poteva offrire un eccezionale canale per la diffusione e la conoscenza del nuovo mezzo di trasporto, e, al tempo stesso,
un valido alleato nel dare corpo ad un “mito della modernità” e ad una “mistica aerea” per una nuova stagione di conquiste e
scoperte che si rifacevano idealmente a quelle dei grandi navigatori dei secoli precedenti.
Si venne così a creare una miscela particolare che infiammò, non solo letteralmente, le folle che accorrevano sempre più numerose
alle manifestazioni aeree (i “concorsi”, come allora erano definiti), sia per scoprire le nuove “macchine volanti”, ma anche per
vedere da vicino gli impavidi eroi del cielo, novelli navigatori solitari in un mare di nuvole inesplorate.
Dunque, come accennato più sopra, nel momento in cui l’arte del volo aveva bisogno di un adeguato supporto visivo e
promozionale, il manifesto si trovò nella condizione ideale, non solo tecnica ma anche di qualità artistica, per soddisfare
quest’esigenza.
Quanto alle fonti d’ispirazione di questi primi manifesti a soggetto aviatorio, il periodo anteguerra è legato all’evento in sé, alla
singola manifestazione aerea, alla dimostrazione cittadina, mentre, nel dopoguerra, si va invece a determinare una stretta
connessione tra la crescita di un’aeronautica militare e civile e le motivazioni di propaganda di un regime che vede nel grande
fascino del volo e delle sue imprese che appassionano le folle anche un formidabile alleato per una contemporanea crescita del
consenso politico, mascherato dietro a generali motivi di “orgoglio e primato italiano”. Da un punto di vista stilistico, invece,
mentre la produzione d’anteguerra è ancora gravata da accenti simbolisti, da connotazioni epiche, e dall’eredità dell’Art Nouveau,
nel dopoguerra si assiste ad un veloce rinnovamento lessicale, con una graduale adesione agli stilemi del Futurismo, che si rivelano
funzionali alla tematica aerea, adesione che diverrà più palese nel corso degli anni Trenta. Diagonalismi, per “dinamizzare” le
composizioni, nuovo design del lettering, accostamenti cromatici spesso azzardati, prospettive audacissime a forte impatto
tridimensionale: sembrava insomma che il manifesto aeronautico volesse colpire gli osservatori con un “pugno nell’occhio”, per
citare il titolo di una rivista di grafica pubblicitaria dell’epoca. Per meglio comprendere, basterà un veloce sguardo alle immagini
pubblicate. Ad esempio, nei primissimi manifesti, dopo i voli di Delagrange del 1908, il soggetto preminente è la “macchina
volante”: di volta in volta il Voisin, il Curtiss o il Bleriot. Poi, una volta “provato” che l’aereo è affidabile, il concetto stesso di
quelle prime dimostrazioni viene a cadere, e l’attenzione si sposta sull’uomo, sul “pilota”, e sulla sfida, come il volo sopra al
Sempione del 23 settembre 1910 nel quale perde la vita l’aviatore peruviano Geo Chavez, proprio quando era quasi giunto a
destinazione, a Domodossola. L’incidente destò grande impressione nell’opinione pubblica italiana, tanto che il poeta Giovanni
Pascoli gli dedicò un’ode. Ma già l’anno dopo, per il cinquantenario dell’unità d’Italia fu organizzato un raid, una gara aerea, da
Parigi a Torino, via Roma, cui parteciparono dodici aviatori e che fu vinta dal francese Beaumont, su Bleriot. Aldo Mazza ne
realizzò il manifesto accostando una forte citazione neoclassica, in primo piano, a simboleggiare il grande passato dell’Italia, con i
nuovi mezzi di locomozione moderna.
Si giunse così alla prima guerra mondiale dove l’aereo giocò un ruolo importantissimo, e l’Italia ne comprese appieno le
potenzialità, tanto che nel corso del conflitto furono costruiti in Italia circa 12 mila velivoli e 24 mila motori: uno sforzo bellico che
vide il paese superare la produzione di Austria, Russia e Stati Uniti. Ma l’immaginario collettivo non si nutre solo di numeri, e
quindi la guerra produsse anche i primi eroi dell’aria. Uno per tutti: Francesco Baracca, che cadde sul Montello nel giugno del
1918 dopo aver abbattuto 34 aerei nemici. E poi l’impresa di Gabriele D’Annunzio, che con una squadriglia di sette aeroplani
Ansaldo (la “Serenissima”) il 9 agosto 1918 volò nel cielo di Vienna lanciando migliaia di manifestini che causarono danni morali
ben maggiori di quelli che avrebbero potuto infliggere le poche bombe trasportate da quei traballanti velivoli.
Finita la guerra, si avviò un rinnovamento generale, non solo nella società ma anche nelle arti. Nei manifesti dei primissimi anni
Venti, mentre il dato simbolico ed allegorico veniva a cadere, permaneva ancora un senso narrativo e didascalico che poneva
l’accento sulla sfida di velocità tra aereo ed aereo o con altri mezzi, come il motoscafo o l’automobile. Ne sono validi esempi il
manifesto realizzato per il 1° Circuito di Brescia, del 1921, di Aldo Mazza, e quello di Mario Borgoni, per la Grande Settimana di
Idroaviazione di Venezia, del 1922.
Prese l’avvio in quel periodo anche una serie di imprese solitarie di aviatori italiani, di record di velocità, altezza, e distanza, che
crearono un mito aereo italiano circondato da un’aura d’invincibilità, e delineando anche l’idea di un’aviazione che primeggiava
nel mondo e che veicolava l’idea di uno stato potente e moderno. Il regime fascista, che dal 1922 reggeva le sorti del paese, intuì
subito le potenzialità del settore e già dal 1923 istituì l’Arma Aeronautica quale arma indipendente dall’esercito, un provvedimento
che la vedeva seconda solo all’inglese Royal Air Force, istituita nel 1918.
Nel 1925 sorprese tutti il raid di Francesco de Pinedo che con l’Idrovolante S 16 percorse 55 mila chilometri attraverso l’Asia e
l’Australia sino al Giappone e ritornò trionfalmente a Roma, dove ammarò sul Tevere. Due anni dopo, nel 1927, fu istituito anche
il Ministero dell’Aeronautica (che sostitusce il precedente Commissariato dell’Aeronautica creato nel 1923), con funzioni non solo
militari, ma anche di sviluppo dell’aviazione civile e di promozione per diffondere una cultura aeronautica ed attrarre le giovani
generazioni all’arruolamento.
E’ in questo clima che cresce la seconda generazione di futuristi, nata cioè all’insegna della “liberazione dalla terra”. Fedele Azari,
Fortunato Depero, Gerardo Dottori, Benedetta, Tato, Tullio Crali, Renato Di Bosso, Verossi, chi più chi meno, si ritrovarono
spesso a volare, a “spiralare” sopra le città, a riplasmare la loro “visuale” del mondo. Il loro taglio con il passato fu,
simbolicamente, il volo di D’Annunzio su Vienna, nel 1918. La loro prima ispirazione, appunto le imprese degli aviatori italiani, da
Laureati, a Ferrarin, a De Pinedo, a Balbo, che nel corso degli anni Venti mietono record su record, da quello di velocità, a quello
di altezza, a quello della distanza. Il loro teorico, Fedele Azari, autore del manifesto Teatro Aereo Futurista, del 1919, pittore,
aviatore, tombeur de femmes e pioniere dell’aviazione civile italiana. E se da una parte bisognerà attendere la fine degli anni Venti
perché l’idea di “aeropittura” abbandonasse la sua posizione periferica per divenire il vero cuore, motore, e di lì a poco anche il
nuovo volto del Futurismo alla soglia dei vent’anni dal manifesto di fondazione, già nel corso del decennio vari segni premonitori,
una sorta di fil rouge, mostrano già una generale adesione all’epica del volo: a iniziare dal Ritratto psicologico dell’Aviatore Azari
che Fortunato Depero dipinge a Torino nel 1922 dopo aver volato a lungo sulla città con lo stesso Azari e Franco Rampa Rossi.
Affianca, incoraggia ed aiuta questi giovani artisti attratti dal fascino del volo il pioniere dell’aviazione italiana Gianni Caproni.
Nato ad Arco, in Trentino, ha studiato alla Scuola Reale Elisabettina di Rovereto, trovandosi sui banchi fianco a fianco con Depero,
Luciano Baldessari, Fausto Melotti, Adalberto Libera ed altri futuri protagonisti dell’avanguardia italiana del ‘900. E Gianni
Caproni comprende immediatamente che solo il Futurismo, in virtù del suo DNA, può entrare in sintonia e “sentire” il battito e lo
spirito di un motore aereo, di una cabrata, di un’impennata, di una vite. Tutta l’altra pittura, al confronto è didascalica, narrativa, se
non fotografica. E questo perché solo il Futurismo ha compreso, fra le tante, che la possibilità di un “nuovo punto di vista” che non
fosse quello terreno, è anche la possibilità non solo di un nuovo “senso della visione”, ma anche di un “nuovo stato d’animo e di
pensiero”. Dunque è un clima nuovo quello che percepiscono i futuristi che, per poter poi dipingere gli “stati d’animo del volo”,
quegli stati d’animo li devono provare sulla loro pelle. E sia la sensazione psicologica che “filtra” poi nella loro pittura, quella
sensazione che è propriamente la “percezione psico-fisica del distacco dalle contingenze terrene”, sia la nuova angolazione visiva
della terra, dall’alto ed in movimento, sono due connotazioni specifiche della pittura futurista di quegli anni che conferiscono alle
loro opere quel pathos che manca invece alla pittura di genere, sia pure di tema aeronautico.
Questo clima nuovo che agitava le arti fu percepito anche dai grafici e cartellonisti che iniziarono a conferire ai manifesti un nuovo
slancio compositivo e nuove valenze simboliche. Un valido esempio è un manifesto del 1927 di Mario Sironi, già futurista della
prima ora nel 1914, realizzato per il Raduno d’Ali all’aeroporto di Cinisello, presso Milano, che fu un’importante manifestazione
perché vi parteciparono non solo i privati ma anche vari reparti della Regia Aeronautica e dove vi fu il primo lancio collettivo di
paracadutisti in Italia. Nel porre al centro di un’enorme stella un solitario aereo in velocità, Sironi chiudeva così la stagione del
“manifesto descrittivo” ed avviava una nuova fase fatta di evocazioni, suggestioni e allegorie.
Da questo momento in poi il manifesto si muove tra le necessità della propaganda, da una parte, e quelle della nascente aviazione
civile, dall’altra.
A chiudere il decennio con un’altra svolta epocale ci pensa F.T. Marinetti che con l’articolo Prospettive del volo e Aeropittura,
pubblicato da “La Gazzetta del Popolo” di Torino del 22 settembre 1929, va a coagulare tutti questi sintomi in un vero e proprio
manifesto programmatico. In seguito il testo fu più volte ripubblicato, anche come prefazione ai cataloghi delle mostre itineranti
che dovevano promuovere l’Aeropittura, con l’aggiunta di altri punti teorici e delle firme di Balla, Benedetta, Depero, Dottori,
Fillia, Prampolini, Somenzi e Tato, insomma dello stato maggiore del Futurismo del momento. Ma la forza propositiva di questo
documento teorico non risiedeva certo nelle firme a supporto quanto nei punti programmatici che andavano a scardinare il senso
tradizionale della visione con proposte di un tecnicismo così analitico che era appunto il frutto delle effettive esperienze di volo
degli artisti. Per riassumere, i primi quattro punti del manifesto (nella versione più completa del 1931) vertono sulle mutevoli
prospettive visive offerte dal volo, del tutto nuove e rivoluzionarie rispetto a quelle terrestri proprio per questa continua
modificazione dei punti di vista che costringono il pittore a ulteriori sintesi e trasfigurazioni. Nei successivi cinque punti si analizza
il tipo di visione, affermando che «tutte le parti del paesaggio appaiono al pittore: schiacciate, artificiali, provvisorie, appena
cadute dal cielo». Esse inoltre «accentuano agli occhi del pittore in volo i caratteri di: folto, sparso, elegante, grandioso». Si
afferma inoltre che «ogni aeropittura contiene il doppio movimento dell’aeroplano e della mano del pittore». Il risultato finale
dovrebbe poi condurre ad «una nuova spiritualità plastica extraterrestre». Ecco, specie in quest’ultima definizione si può cogliere
uno dei principali elementi d’interesse del manifesto. L’Aeropittura, in altri termini, è il risultato di un’acquisita nuova sensibilità
visiva. La terra è osservata dall’alto e, cosa ancora più interessante, è osservata “dinamicamente”, dunque in una continua
successione di visioni mutevoli. Tutto ciò il pittore deve poi riversare sulla tela, ma aggiungendovi inoltre anche il “senso” di una
nuova coscienza spirituale quale risultante psico-fisica dell’affrancamento dalla “pesantezza” della condizione terrestre. E’ qui fin
troppo evidente come queste proposizioni teoriche siano ben lontane da qualsiasi accento ideologico o politico, anzi esse mostrano
un’urgenza, una pulsione, verso la ricerca di una “ulteriore” dimensione che ad un certo punto non sarà più né terrena, né aerea, ma
propriamente cosmica. Si tratta di una nuova connotazione che, nello “strappo” dalle contingenze terrene, si scopre una vocazione
anche mistica e “spirituale”, che sfocerà di lì a poco nell’Arte Sacra Futurista che vede il torinese Fillia in prima linea. Ma questa è
un’altra storia.
Ritornando ancora al Manifesto dell’Aeropittura, sarà interessante leggere alcuni degli esempi di possibili visioni che sono
proposte:
«Il decollare crea un inseguirsi di V allargantisi. Il Colosseo visto a 3000 metri da un aviatore, che plana a spirale, muta di forma
e di dimensione ad ogni istante e ingrossa successivamente tutte le facce del suo volume nel mostrarle... Nelle virate, il punto di
vista è sempre sulla traiettoria dell’apparecchio, ma coincide successivamente con tutti i punti della curva compiuta, seguendo
tutte le posizioni dell’apparecchio stesso... Queste visioni roteanti si susseguono, si amalgamano, compenetrando la somma degli
spettacoli frontali…».
Il grande ventaglio operativo di queste proposizioni fu accolto con entusiasmo dalla terza generazione di futuristi. In breve tempo il
termine Aeropittura divenne sinonimo e sostitutivo del Futurismo stesso, e ben presto crebbero anche l’Aeropoesia, l’Aeroplastica,
e l’Architettura aerea.
Tornando all’arte del manifesto, nel corso degli anni Trenta si muove sia in ambito propagandistico sia promozionale per la
nascente aviazione civile.
Al primo genere appartengono alcuni dei migliori manifesti italiani in assoluto, quindi non solo di stretto soggetto aviatorio, come
le varie edizioni del Giorno dell’Ala e come la lunga serie dedicata alla Crociera Aerea del Decennale del 1933, la trasvolata in
formazione verso l’America del Nord che ebbe un’eco ben maggiore di quella del 1931 verso Rio de Janeiro. Per l’evento furono
impegnati artisti come Marcello Dudovich, Umberto Di Lazzaro e Luigi Martinati. Quest’ultimo, in particolare, ha realizzato i
manifesti forse più suggestivi della serie: il primo, con lo stormo dei potenti Savoia Marchetti sullo sfondo del volto del duce, e
l’altro con un singolare e prospetticamente audacissimo ponte aereo tra il Vittoriano, a Roma, ed i grattacieli di Manhattan, a New
York. La trasvolata oceanica del 1933 fu un’impresa epica per quel tempo: sino ad allora l’Atlantico settentrionale era stato
traversato solo da aerei solitari e perciò l’impresa, oltre ad ottenere accoglienze trionfali negli Stati Uniti, fu commentata alla radio
da Charles Lindbergh, protagonista del volo solitario New York-Parigi nel 1927, e dall’aviatrice transoceanica Amelia Earhart.
Un discorso a parte, pur nell’ambito della propaganda, va riservato ai manifesti che pubblicizzavano i corsi per piloti della Regia
Accademia Aeronautica Italiana: una lunga serie realizzata da Alberto Mastroianni, allora grafico ed oggi scultore di fama
internazionale.
All’ambito commerciale, appartengono invece i manifesti pubblicitari, come nel caso del Cioccolato Ali d’Italia, che prese
l’ispirazione dalla prima crociera atlantica verso il Brasile, ma soprattutto per l’aviazione civile che vide la sua nascita nel 1926 con
la Società Italiana Servizi Aerei che avviò un collegamento di idrovolanti fra il golfo di Trieste ed il Po a Torino. Nello stesso anno
iniziarono i voli anche la compagnia di Navigazione Aerea di Genova, che collegava Genova con Palermo, Napoli e Roma e la
Società Aereo Espresso Italiana, che invece volava da Brindisi verso Atene e Istanbul. In seguito, con gli anni Trenta, gran parte
delle compagnie aeree private confluì nella Società Aerea Mediterranea che, nel 1934, a sua volta fu assorbita dalla neo costituita
Ala Littoria, di Roma, fondata su un azionariato statale, che diede vita al primo network nazionale ed a varie destinazioni verso
l’estero, e che alla fine degli anni Trenta operava sulle Linee Atlantiche con il sud America. Infine, a Milano, a Linate, sorsero le
Avio Linee Italiane, in gran parte con capitale Fiat, che operavano collegamenti con Roma, l’Inghilterra, la Francia e l’Albania.
Singolare, a questo proposito, la grafica del manifesto per la rotta Milano-Ancona-Bari-Tirana, con una serie di simboli delle città
servite sovrapposti alla sagoma di un aereo stilizzato.
Su un ulteriore piano si pongono poi i manifesti realizzati per varie manifestazioni relative al volo. Da quelli per i Saloni
aeronautici, dove si presentavano le novità tecnologiche, i nuovi aerei e le nuove soluzioni aerodinamiche, a quello di Sironi per il
1° Congresso della Stampa Aeronautica, realizzato per il Ventennale della rivista “L’Ala d’Italia” nel 1939. Chiude il panorama
sul manifesto relativo al volo la tematica cinematografica, che peraltro si è spesso intrecciata con la propaganda di regime proprio
nell’intento di creare, tramite l’identificazione con l’eroe “italiano” dei cieli, un eroe ovviamente “positivo”, anche il consenso con
l’arma aeronautica e dunque con lo stato fascista.
Parlando ancora di Aeropittura, nel corso del decennio 1930-1940, il dato forse più interessante fu l’ampia e variegata evoluzione
d’indirizzi e di stili, che avvenne proprio in seno alla stessa corrente aeropittorica, cioè una serie di tendenze che F.T. Marinetti
andò a riassumere in un’articolata premessa alla mostra degli aeropittori pubblicata nel catalogo della III Quadriennale romana, del
1939, nella quale presentava un’Aeropittura «stratosferica cosmica e biochimica, che si allontana da ogni verismo e che esprime il
senso umano e terreno della metamorfosi che l’uomo contiene nel suo slancio stratosferico», e il cui principale interprete fu
Prampolini. A questa aggiunse un’Aeropittura «essenziale, mistica, ascensionale, simbolica... che riduce i paesaggi visti dall’alto
alla loro essenza e spiritualizza aeroplani e volatori fino a ridurli a puri simboli», per la quale indicò Fillia (Luigi Colombo) e
Diulgheroff.
Un’altra tendenza fu individuata nell’Aeropittura «trasfiguratrice, lirica, e spaziale che armonizza sistematicamente il paesaggio
italiano imbevendolo di appassionate velocità aeree, estraendone tutti i misteriosi fascini e tutte le suggestioni letterarie» e nella
quale si cimentarono principalmente Gerardo Dottori e Benedetta (pittrice, scrittrice e moglie di Marinetti). Infine fu definita
un’Aeropittura «sintetica e documentaria» tramite la quale furono realizzati «paesaggi e urbanismi visti dall’alto e in velocità».
Giunti a questo punto, e per semplificare, possiamo affermare che la produzione aeropittorica può essere definita in due grandi
tendenze. Quella “cosmica”, da una parte, per la quale l’aeroplano è solamente il “mezzo” per acquisire un nuovo senso della
visione e quindi sviluppare una sensibilità cosmica, staccata dalle contingenze terrene (e che spesso si evolve in trasfigurazioni
spirituali).
Dall’altra, invece, si può individuare una tendenza “documentaria”, nella quale l’aeroplano diviene invece il “soggetto” ritratto
(spesso con indulgente verismo) in una varietà di situazioni di volo. E se nella prima metà degli anni Trenta le due tendenze furono
grossomodo in equilibrio, con l’inizio della seconda metà del decennio, la scomparsa di Fillia ed il coinvolgimento bellico
dell’Italia, dapprima in Africa e quindi in Spagna, si andò via via consolidando sempre più il dato documentaristico e spettacolare,
grazie anche alle accattivanti visioni di Tato, Crali, Ambrosi, Di Bosso e Verossì.
Contemporaneamente, si registrò un generale cambiamento, un restringimento del campo d’azione delle dinamiche culturali, e in
ogni caso nei confronti di tutta la società civile italiana.
Da questo momento in poi gli artisti non poterono più esimersi da un plateale appoggio politico. Anche l’Aeropittura dovette
allinearsi e, di pari passo con gli sviluppi politici della nazione, sempre più drammatici, si giunse all’Aeropittura di Guerra. Il
lirismo cosmico, l’abbandono mistico furono via via soppiantati da un manierismo rude, descrittivo, essenziale, funzionale alla
necessità di documentare situazioni di guerra aerea, spesso di bombardamento, e quasi sempre con manifeste intenzioni dottrinali.
Il risultato fu una serie di opere che dichiaravano in sorta di un’eclettica, truculenta, koinè, il loro debito alle necessità della
propaganda. Si era al preludio del massimo coinvolgimento nella celebrazione dell’ideologia del regime (come accade usualmente
in ogni periodo totalitario). La supremazia positivista dell’uomo sui cieli, soggetto privilegiato della prima fase aeropittorica,
lasciò dunque spazio alla celebrazione di quei mezzi aerei che, dal cielo, portavano invece la morte. Forse gli aeropittori, nel clima
del generale isolamento culturale e dunque nella mancanza di strumenti critici appropriati, non avevano colto quest’ulteriore
aspetto, in tutta la sua tragica valenza, e credevano piuttosto che il loro supporto potesse sortire una vaga, quanto improbabile,
forma di Artecrazia. Così, nel giro di pochi anni si trovarono invischiati nella Nuova Estetica della Guerra, un manifesto
pubblicato nel 1940, di lì a poco seguito dal Manifesto della pittura di bombardamento, del 1941.
E questo ci porta a concederci un pensiero finale anche alla questione dell’adesione ideologica del Futurismo al fascismo. Si tratta
di un equivoco di fondo che bisogna puntualizzare subito proprio perché una lettura frettolosa degli avvenimenti ha determinato
un’altrettanto frettolosa etichettatura sul tipo “futurismo=fascismo” che è stata la principale causa della “scomunica” ideologica di
gran parte della critica italiana verso il futurismo sino a pochi anni fa (ma alcuni “zoccoli duri”, disinformati e recidivi, resistono
tuttora...).
Niente era più errato, in quanto il movimento di F.T. Marinetti, per via della sua composizione eterogenea, fatta di correnti
artistiche ed ideologiche a volte anche in contrasto tra loro, non aveva di fatto un’ideologia definita, a parte le dichiarazioni di
propaganda, e di circostanza, utili solo a garantirgli una qualche tranquillità e sopravvivenza con il regime. D’altra parte esso si
distingueva dalle altre correnti artistiche per via di una «nuova maniera di vivere e considerare la vita» e, «piuttosto che
un’estetica, tendeva ad essere una morale». Il Futurismo era perciò un’attitudine verso la vita, anziché una vera e propria
ideologia, quella stessa attitudine nella quale il primo fascismo affondò le sue radici. Un’attitudine che proveniva, come ha
suggerito Renzo de Felice, da una «comune condizione di disagio psicologico, morale, culturale e sociale che l’aveva prodotta:
disagio e protesta che con la prima guerra mondiale furono accentuati da ulteriori valenze politiche e rivoluzionarie...». In breve,
sia il futurismo che il fascismo mossero dal medesimo contesto di dissenso sociale mentre, a sua volta, il primo fascismo fece
propria la carica rivoluzionaria e sovversiva del futurismo. La stessa esaltazione della violenza, da parte dei futuristi, era il risultato
di una “posa” letteraria piuttosto che di una convinzione ideologica e politica. La carica sovversiva del futurismo originava non
solo dai “dettati” marinettiani (delineati secondo il background filosofico e politico dell’autore), ma anche dalle “ricadute”
politiche e sociali proprie alle singole vicende dei primissimi futuristi, per la gran parte provenienti dagli ambienti socialisti ed
anarchici. Anche per questa ragione il primo periodo futurista si guadagnò, da parte della critica di sinistra, l’appellativo di
“eroico”.
Ora, questa grande congerie creativa che va invece sotto l’etichetta di “Secondo futurismo”, sia durante che dopo la prima guerra
mondiale si muoveva “accanto” ai coinvolgimenti politici di F.T. Marinetti che cercava di realizzare il suo “Programma minimo
futurista” lungo una linea iniziata con il suo Proclama agli elettori futuristi (1909), cui seguì il Programma politico (1913) per
giungere al Manifesto del partito politico futurista (1918) che postulava rivendicazioni repubblicane e anticlericali!
«I futuristi – osservava E.R. Tannenbaum nel suo libro “L’Esperienza futurista” – con la loro vasta congerie di nazionalismo,
populismo e modernismo, speravano che il nuovo regime avrebbe incoraggiato le nuove tendenze culturali, oltre che a risollevare
le sorti della classe politica liberale». L’adesione futurista al “nazionalismo militante”, all’inizio e durante gli anni
dell’Interventismo (1914/15), in seguito con l’avventura fiumana di D’Annunzio (1919), ed eventualmente anche la nascita del
partito fascista, erano visti, dunque, come la possibile “via”, per l’avanguardia italiana, alla realizzazione della sua “anima
rivoluzionaria”. Infatti, come ci ricorda ancora Tannenbaum, «molti legionari Fiumani aderirono al movimento fascista dopo il
1920 credendo che avrebbe fatta la rivoluzione» .
Solo in quest’ottica possiamo allora comprendere la grande adesione al fascismo da parte di artisti e letterati: un fatto che mancò
completamente nella Germania nazista. Inoltre, mentre questa convergenza tra futurismo e fascismo (maturata nel 1918-1919) è
ben nota, molto meno lo è la “rottura”, avvenuta nel maggio 1920, quando Marinetti e i futuristi uscirono dai “Fasci di
Combattimento” ed aprirono ai socialisti, come protesta contro il passo indietro di Mussolini rispetto alle posizioni antimonarchiche ed anticlericali, considerate da Marinetti come un “programma minimo” da realizzare. In quello stesso anno Marinetti
pubblicava Al di là del comunismo, forse il più anarchico dei suoi scritti, nel quale esaltava l’arte come alternativa alla politica, e
spingeva ancora oltre i limiti dell’utopismo estetico, rifiutando definitivamente ogni coinvolgimento politico. Con questo
importante saggio egli anticipava quella “separazione” di competenze («l’arte ai futuristi, la politica a Mussolini») che di lì a pochi
anni (1929) ne propiziò invece il riavvicinamento. Infatti, una volta che il fascismo fu al potere, agli artisti fu “chiesto” di
occuparsi solo di problemi estetici. Così Marinetti fu costretto ad accontentarsi di una posizione marginale, e dovette rinunciare ai
suoi progetti totalizzanti per garantire la sopravvivenza del movimento. Una volta che gli artisti furono “normalizzati” il regime,
comunque, optò per una politica di tolleranza. «In pratica – nota ancora E.R. Tannenbaum – l’impegno del regime per un
totalitarismo culturale e intellettuale era soprattutto organizzativo: una volta che un artista o uno scrittore si fosse inserito
nell’appropriata istituzione fascista, era relativamente libero di produrre ciò che voleva» .
In questo contesto s’inserisce anche la definizione di quello che poi sarà classificato come “Stile del Ventennio” che non fu così
lineare come si crede perché seguì propriamente le vicende istituzionali del fascismo nelle sue varie fasi di consolidamento.
All’inizio, ad esempio, nei primi anni Venti, il fascismo era ancora un coacervo di tendenze: da quelle nazionaliste a quelle più
propriamente rivoluzionarie se non sovversive. Un po’ lo specchio del “futurismo di dopoguerra” nel quale Marinetti ammetteva
artisti di tendenza artistica e politica le più diverse. Si veda il caso dei futuristi “di sinistra”, come Piero Illari direttore della rivista
«Rovente» che fu presente a Livorno alla nascita del Partito Comunista Italiano; si veda l’opera ed il pensiero di Vinicio Paladini
ed Ivo Pannaggi, ai limiti del costruttivismo, si pensi a Franco Rampa Rossi, ed a tanti altri futuristi con evidenti addentellati a
sinistra. E del resto, le istanze rivoluzionarie di rinnovamento artistico e sociale e politico ed anche anticlericali, erano
propriamente l’anima del Futurismo cosiddetto eroico cui, suo malgrado, anche il fascismo è debitore nella sua componente più
rivoluzionaria. Logico, dunque, che in quei primi anni di potere, quando il fascismo non era ancora “statalizzato”, vi siano state
innegabili convergenze con la poetica futurista, i cui stilemi “dinamici” ed il cui cromatismo, rosso acceso e “sovversivo”, ben si
addicevano al primo programma culturale elaborato da Mussolini. Di lì a poco, però, una volta consolidato il potere, il regime non
poté più permettersi di “avere in casa” un’arte rivoluzionaria, cioè destabilizzante e dunque alla lunga potenzialmente pericolosa
per la sua stessa sopravvivenza. Sorse perciò la necessità di un’arte “funzionale al regime” che ne sancisse cioè il suo
consolidamento istituzionale, un’arte pacata, greve, statica e celebrativa. Ed è appunto in quest’ottica che Mussolini, in un discorso
pronunciato all’Accademia di Perugia nel 1926, se ne uscì con l’affermazione, contraddittoria, che l’arte dell’Italia fascista doveva
essere «tradizionalista e moderna». Insomma un’antinomia di termini che vedeva la sua origine in una questione allora ancora
irrisolta: ovvero se accettare le proposte di rinnovamento dei futuristi, oppure rivolgersi verso una rivalutazione della cultura
neoclassica, ed in particolare del monumentalismo della Roma Imperiale, il cui fascino in termini di immagine sollecitava non poco
le mire di grandeur del regime. Fu poi, nel 1932, la Mostra della rivoluzione fascista, a sancire l’affermazione di una serie di valori
(e di stilemi ad essi correlati): monumentalismo romano, lettering cubitale ed architettonico, effetti scenografici, colorismo rude e
segno rozzo, cioè (nelle intenzioni) virile. Insomma l’affermazione del movimento antagonista del futurismo, e cioè il Novecento
di Margherita Sarfatti, con le sue componenti di «coralità» socializzante, e del quale il principale cantore era Mario Sironi, già
futurista della prima ora.
Il Novecento, dunque, piuttosto che il Futurismo, fu appunto funzionale agli scopi promozionali e di propaganda del regime, ai
grandi cicli pittorici e decorativi negli edifici pubblici, ai quali Marinetti rispose «lanciando» qualche anno dopo (1934) la sua idea
di decorazione d’avanguardia, e cioè la Plastica Murale, che però si rivelò fin troppo «sperimentale», appunto troppo
d’avanguardia per un gusto ormai già sempre più ingessato nel «cupo» stile dei novecentisti, e forse anche perché troppo «aperta»
tramite l’apporto di Prampolini, alle suggestioni internazionali, soprattutto all’area del purismo francese.
Insomma, nonostante il regime fascista sia ormai consolidato, i futuristi rimangono comunque dei “non allineati”, nel senso di una
pluralità di posizioni ideologiche e politiche al loro interno.
E’ per questo che Mino Somenzi, dalle colonne dell’organo ufficiale del movimento («Futurismo»), può scrivere all’inizio del
1933 che il «Futurismo è una forma d’arte e vita; il fascismo una forma politica e sociale: cose diametralmente opposte». Gli farà
quasi subito eco Paolo Buzzi affermando: «Estrema sinistra! C’è un solo futurismo: quello di estrema sinistra». Di lì a poco,
all’inizio della seconda metà del decennio, con il coinvolgimento bellico dell’Italia, dapprima in Africa e quindi in Spagna, si
registra un generale cambiamento, un restringimento del campo d’azione delle dinamiche culturali, e comunque nei confronti di
tutta la società civile. Da questo momento in avanti gli artisti impegnati sul fronte delle commesse pubbliche non potranno più
esimersi da un appoggio politico.
Anche il futurismo si dovrà allineare, e di pari passo con gli sviluppi politici della nazione, sempre più drammatici, si giungerà,
come detto, all’Aeropittura di Guerra.
Ma si era alla quarta generazione di futuristi, giovani nati alla fine degli anni Dieci o all’inizio del Venti, per i quali il regime era la
normalità di tutta una vita vissuta “inquadrati”: dagli otto ai quattordici anni Balilla, dai quattordici ai diciotto Avanguardisti e dai
diciotto ai ventuno Giovani Fascisti al motto di “libro e moschetto, fascista perfetto”. Per non dimenticare i “figli della Lupa”.
Furono pochi anni di grande sbandamento, del resto condivisi con gran parte della nazione.
Produssero decenni di “purgatorio” critico, ben al di là della riabilitazione di Novecento, e di Sironi, certo ben più compromessi
con il regime degli aeropittori. Così, per parlare, serenamente di Futurismo e Aeropittura abbiamo dovuto attendere gli anni ’90 del
secolo scorso.