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Belgrado:
quel che resta di Slobodan
Dieci anni dopo la caduta di Milosevic la Serbia è un “altro” Paese.
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BALCANI
Il 25 ottobre scorso è
stata accettata la richiesta per aprire il procedimento per la candidatura all’Ue (a condizione
che vengano arrestati gli ultimi due criminali di guerra latitanti, Mladic e Hadzic).
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te iniziò a protestare. L’opposizione diede un ultimatum
a Milosevic: il 5 ottobre alle 15 ti devi dimettere. Quel
giorno in piazza erano in 500mila, pronti a farla finita
con “Slobo”: prima la folla attaccò il parlamento e successivamente l’odiata tv Rts, principale organo della
propaganda di regime; quindi, a sera, i poliziotti lasciavano le uniformi e si abbracciavano con i manifestanti.
Il 6 ottobre finalmente Slobodan Milosevic passò il po-
tere a Kostunica. Il popolo aveva buttato giù il dittatore.
Dieci anni dopo la Serbia è un altro Paese. Il 25 ottobre scorso è stata accettata la richiesta per aprire il procedimento per la candidatura all’Ue (a condizione che
vengano arrestati gli ultimi due criminali di guerra latitanti, Mladic e Hadzic). Da un anno i cittadini serbi possono viaggiare liberamente nei Paesi Schengen e anche
il problema della secessione del Kosovo non suscita le
paure e gli odi viscerali di due anni fa appena. L’economia non va benissimo, ma come del resto sta avvenendo in tutto il mondo; la disoccupazione (ufficiale) è al
Da un
A FRONTE Una manifestazione in Serbia.
anno i cittadini serbi possono viaggiare liberamente nei Paesi Schengen e anche il problema
della secessione del Kosovo non suscita le paure e gli odi viscerali di due anni fa appena.
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A SINISTRA Veran Matic.
QUI SOTTO Branko Ilic.
PIÙ IN BASSO Una veduta di Belgrado.
L’economia non va benissimo, ma come del
resto sta avvenendo in tutto il mondo; la disoccupazione (ufficiale) è al 19%, ma la situazione è nettamente migliore rispetto al 150%
d’inflazione degli anni Novanta.
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Eppure
la Serbia del dopo Milosevic si trova in una
costante altalena tra voglia di progresso (Ue)
e voglia di tornare indietro (nazionalismo).
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di Cecilia Ferrara
elgrado, 5 ottobre 2000: il giorno in cui la Serbia
diventò democratica, un’imponente manifestazione nella capitale costrinse il padre padrone del
Paese, Slobodan Milosevic, a lasciare il potere. Il pretesto furono le elezioni presidenziali anticipate del 24 settembre del 2000, quando l’opposizione, riunita nella
coalizione Dos (Opposizione democratica serba) capeggiata da Vojslav Kostunica, aveva conquistato più del
50%, ma Milosevic aveva tentato di cambiare il risultato con dei brogli per arrivare a un ballottaggio. E la gen-
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19%, ma la situazione è nettamente migliore rispetto al
150% d’inflazione degli anni Novanta. Eppure la Serbia
del dopo Milosevic si trova in una costante altalena tra
voglia di progresso (Ue) e voglia di tornare indietro (nazionalismo). Per cui il governo riesce a far svolgere il
Gay pride a Belgrado, ma 6mila hooligans ben organizzati, alleati con gli ultranazionalisti, devastano la città
e, due giorni dopo, altri tifosi nazionalisti fermano la
partita Italia-Serbia, valida per le qualificazioni agli Europei di calcio, facendo fare al proprio Paese una figuraccia di risonanza internazionale.
Dunque, più che un giorno di celebrazioni, il 5 ottobre è diventato piuttosto un momento di riflessione e autocoscienza collettiva, per capire quanto del vecchio regime la Serbia si sia portata dietro nell’ultimo decennio.
È il momento di riraccontarsi La favola del 5 ottobre, come titola una serie di trasmissioni televisive di B92. Vero è che al governo di Belgrado è tornato, assieme al Partito democratico, l’Sps, il partito socialista di Milosevic.
Ivica Dacic, oggi apprezzatissimo ministro dell’Interno,
all’epoca era il portavoce dell’Sps. Difficile dunque che
il governo ufficialmente festeggi qualcosa. L’unica memoria condivisa resta la Resistenza partigiana della Seconda guerra mondiale.
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La radio
u uno dei momenti più importanti della mia vi«
F
ta», racconta Veran Matic, direttore di B92, oggi
grande canale radio-televisivo, ma per tutti gli
anni Novanta radio di dura opposizione al regime, chiusa a più riprese. «Non solo per me, ma per la maggioranza dei cittadini serbi che hanno iniziato una vita di gran
lunga migliore di quella che avevano sotto il governo di
Slobodan Milosevic. Il 5 ottobre in sé è stato qualcosa
che doveva accadere come evento collettivo nella nostra
memoria”. E, secondo il direttore di B92, non fu un
evento spontaneo: «Fu preparato a lungo dall’esperienza del movimento studentesco, dell’opposizione, dei
media, delle ong, da almeno 10 anni. Le prime manifestazioni importanti si tennero nel marzo del 1991 e se
allora ci fosse stata più forza nell’opposizione, più unità e più appoggio dall’Occidente, si sarebbe potuto farla finita subito con Milosevic». La comunità internazionale però si decise ad appoggiare l’opposizione a Milosevic solo dopo i bombardamenti del 1999; da allora partì la preparazione alla “rivoluzione”.
«Tutto si svolse molto più velocemente e meglio di
quanto ci aspettassimo – prosegue Matic – con manifestazioni pacifiche e senza vittime. L’errore più grande fu
quello di non aver preparato una strategia del “cosa fa-
re dopo”, il che, con una coalizione composta da 18 entità, risultò problematico”. Chiediamo che cosa sia rimasto oggi del 5 ottobre. «Il valore più significativo dei
cambiamenti democratici consiste nell’aver messo fine
alla possibilità di guerre. Ad esempio: ci sono ancora incidenti nel Nord del Kosovo? Sotto Milosevic sarebbero verosimilmente sfociati in una guerra o in una forte
repressione. È molto importante che la Serbia sappia che
la guerra non può più accadere».
L’omicidio del premier Zoran Djindjic nel 2003, da
parte di agenti dell’Unità operazioni speciali (polizia paramilitare creata ai tempi di Milosevic), secondo Matic
ha spazzato via gran parte delle energie del 5 ottobre,
mentre i governi successivi di Vojslav Kostunica hanno
riportato indietro il Paese, “flirtando” con il nazionalismo e frenando sul cammino europeo della Serbia. E come vede la Serbia tra dieci anni? «Dipende a che velocità alcune cose verranno risolte. Se ce la faremo a consegnare Ratko Mladic e Goran Hadzic al Tribunale dell’Aja, allora andrà meglio; se velocemente riusciamo ad
avviare dei veri colloqui riguardo al Kosovo, allora andrà meglio; se velocemente entriamo in un processo di
integrazione europea e iniziamo accordi con l’Europa,
allora ci possiamo aspettare che tra dieci anni saremo
nell’Ue».
Il ragazzo
no dei protagonisti dei cambiamenti in Serbia fu
il movimento giovanile Otpor (resistenza), nato
nel 1998: provocazione, non violenza e utilizzo
della comunicazione di massa. Otpor fu in gran parte finanziato dall’estero e divenne un modello esportabile
per altre rivoluzioni “di velluto”, senza spargimenti di
sangue. I ragazzi serbi, si racconta, sono andati in Georgia o in Ukraina ad addestrare i loro colleghi. Oggi molti di loro sono nel governo o fanno i consulenti per grandi aziende o per organizzazioni internazionali. Ma l’inizio fu quello di giovani stanchi di guerra e di bugie che
non volevano più stare a guardare. «Mi ricordo la mia
prima azione», racconta Branko Ilic, che fu premiato da
Mtv nel 2000 con il Free your mind award. «Dovevo
mettere la bandiera di Otpor dietro Seselj (leader dei radicali ora sotto processo all’Aja, NDR) mentre teneva un
discorso all’università. Ma non la misi bene e quindi la
bandiera gli cadde in testa. In pratica nessuno vide niente dell’azione, ma io mi sentii molto male perché due
giorni dopo picchiarono il mio amico di Otpor Srdjan
Popovic». Branko era giovanissimo allora – compiva 21
anni il 5 ottobre del 2000 – e diventò una delle figure più
in vista del movimento. «Ero pronto a tutto», dice. Dopo i bombardamenti il movimento diventò grande, Bran-
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ko Ilic fu arrestato centinaia di volte, in un paio di occasioni tenuto in prigione per qualche giorno, ma sempre
poi rilasciato. Lui stesso pensa che qualcuno abbia deciso di usare la mano morbida nei suoi confronti, che lo
abbia protetto. Otpor in ogni caso iniziò ad allargarsi a
macchia d’olio, a fare azioni sempre più clamorose, a suscitare emulazione.
Dopo le elezioni “rubate”, Otpor fu parte del movimento che preparò la grande manifestazione del 5 ottobre,
facendo campagna per tutta Serbia. «Mi ricordo che quel
giorno mi avevano dato il compito di stare di fronte alla tv di Stato Rts: sapevo che era pericoloso, ma era il
giorno decisivo. Poi guardo il calendario e vedo che è il
mio compleanno e penso: super, o muoio o vinco, il giorno del mio compleanno». Branko, che si era totalmente
identificato in Otpor, racconta che il 6 ottobre si sentì
quasi disperato perché, nel momento in cui l’obiettivo
che il movimento si era preposto era stato finalmente
raggiunto, si doveva iniziare a pensare a cosa fare dopo.
Non entrò nell’estabilishment, cercò di portare avanti
una ong per continuare la “resistenza”, ma il progetto
non ebbe successo. Oggi Branko è un deluso, è tornato
al suo paesino natale, Arilje, lavora in un negozio e va a
Belgrado solo per dare gli esami di Legge, studio che sta
portando a termine. Non crede molto nella nuova Serbia, pensa che la rivoluzione vera, quella che cambierà
le coscienze, debba ancora arrivare.
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I minatori
azarevac è una cittadina a circa 60 km a sudest di
Belgrado: ci rechiamo là per capire che cosa è
successo il 5 ottobre 2000, perché secondo molti la spallata decisiva al regime fu data dai minatori della vicina Kolubara, la più grande miniera di carbone della Serbia che, allora come oggi, fornisce il 70% dell’energia del Paese. Incontriamo Aleksandar Karic e Zoran Lucic, due ingegneri che furono al centro della rivolta dei
minatori, membri del Partito democratico. Allora, chi si
opponeva a Milosevic era in netta minoranza a Kolubara. La miniera contava tra i 18 e i 20mila addetti, era sempre stata un bacino di voti per il Partito socialista e per
dieci anni vi aveva regnato la più assoluta pace sociale.
Il racconto è appassionante. Il 29 settembre il Dos, che
aveva vinto le elezioni cinque giorni prima, ma a cui Milosevic aveva negato la vittoria, si accorda con i “suoi”
Aleksandar “Aca” Karic e Zoran “Luco” Lucic. «Noi per
primi siamo rimasti sorpresi di come siamo riusciti a
bloccare un’intera miniera». Nel pomeriggio decidono
di fermare gli impianti e, alle 6, in una ventina si dividono tra i due giacimenti più importanti: la vicina Tamnava e Polje b (Campo b), il più grande, distante una ven-
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A SINISTRA Aleksandar “Aca” Karic e Zoran “Luco” Lucic.
AL CENTRO Il trasporto del carbone.
A DESTRA Estrazioni minerarie.
tina di chilometri. «Avevamo un ottimo rapporto con i
minatori – dice Luco – e parlavamo di come la vita fosse peggiorata, di come le cose andassero male in Serbia.
Quando abbiamo chiesto loro di bloccare la miniera,
dunque, è come se se lo aspettassero».
In quei giorni di occupazione di Kolubara ci furono
vari tentativi di far ripartire la miniera. Il primo fu da
parte del presidente dell’Sps di Lazarevac, Milovan Zunic, che si presentò con i crumiri, ma in quell’occasione il capo locale della polizia si rifiutò di intervenire con
la forza. Il secondo fu il 2 ottobre, quando arrivarono i
media, dipingendo i minatori come delinquenti che
mettevano in ginocchio il Paese. «Se ripenso a quei momenti – dice Aca – mi viene subito in mente il titolo I
minatori uccidono i bambini delle maternità. Quello fu
un momento difficile, ma avevamo l’appoggio totale dell’opposizione».
Aleksandar Karic, assieme a Boris Tadic (n.2 del Parito democratico) e Nebojsa Covic (presidente dei socialdemocratici) e ad altri 11 minatori, fu accusato di “sovversione dell’ordine costituito”, ma il procuratore generale non emanò mai l’ordine di arresto.
Il peggio accadde il 4 ottobre, quando arrivò Bosko Buha, alto ufficiale della polizia, con una squadra antiterrorismo «armata fino ai denti». Buha non usò mezzi termini, disse ai minatori: «Avete un quarto d’ora di tempo per lasciare il posto di lavoro». I minatori si consul-
tarono e decisero di restare. «Ci siamo detti – racconta
Luco – se entrano ci sediamo a terra con le mani sopra
la testa e quel che succede, succede». Nel frattempo però operava, non controllata dal regime, Radio Lazarevac
che lanciò l’allarme. Da Lazarevac e dai paesi vicini, Valjevo, Obrenovac, iniziò ad arrivare gente in difesa dei
minatori. C’è chi dice 50mila persone. Buha, dopo qualche contrattazione, decise che non si poteva intraprendere uno scontro con la popolazione civile e se ne andò.
La notte del 4, da Kolubara, minatori e cittadini partirono tutti per Belgrado. Loro già sapevano che il regime
era finito.
E dieci anni dopo? «Siamo rimasti molto stupiti che
nessuno abbia proposto nulla, un concerto, un festeggiamento – dice Luco – e che in pochi si siano ricordati di
Kolubara». Ma per quanto riguarda la Serbia è un’altra
cosa. «Sì, sappiamo che molti si lamentano perché c’è
la crisi, le condizioni di vita non sono quelle che vorremmo. Certo, anch’io vorrei un’auto nuova se potessi.
Ma il punto è che oggi possiamo viaggiare liberamente
senza visti, Belgrado è una città internazionale e stiamo
facendo i nostri passi verso l’adesione all’Ue».
Il 5 ottobre, dicono a Lazarevac, non sarebbe stato possibile senza il 29 settembre e senza una lotta durata una
settimana. Ed è forse per questo che qui si respira ancora un po’ di quell’energia positiva, di quando tutto era
ancora possibile.
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