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Articoli sulle guerre in Jugoslavia disponibili dall’archivio online di
Repubblica.
E' GUERRA ALLE PORTE D' ITALIA
15 settembre 1991 — pagina 1
PRECIPITA la situazione jugoslava, dove ormai la guerra civile si sta
consumando dietro il fragilissimo schermo della pretesa legalità
federale. Da ieri l' Armata è scesa direttamente in campo senza più la
finzione di mandare avanti i guerriglieri serbi: ora sono le colonne
corazzate, l' artiglieria, l' aviazione e la marina "regolari" ad attaccare le
milizie croate e a schiacciare il tentativo di indipendenza proclamato a
Zagabria. La sproporzione delle forze è tale da non lasciar adito a dubbi
sull' esito di questa operazione militare. Né si può pensare che, in queste
condizioni, la mediazione europea abbia una qualsiasi "chance" di
riuscita:
lord
Carrington
che
arriva
domani
a
Belgrado
come
rappresentante della Comunità europea troverà un paese sconvolto e un
potere politico che è ormai nient' altro che un simulacro, dominato e
scavalcato dall' Armata e dal leader serbo, Milosevic. I margini di
negoziato sono a questo punto inesistenti. Si poteva pensare fino a ieri
che i serbi si volessero limitare a scorporare la Slavonia a forte
concentrazione serba, prima di accettare una Croazia indipendente. Ma
oggi, dopo l' entrata in campo dell' Armata che sta dilagando verso
Zagabria e verso la costa adriatica, l' obiettivo è evidentemente
cambiato. Si possono formulare due ipotesi.La prima è che la Serbia
voglia assicurarsi non soltanto le regioni che etnicamente rivendica come
proprie, ma anche uno sbocco al mare puntando su Zara e forse sull'
Istria. LA SECONDA è che miri ancora più in alto, spazzando via ogni
velleità indipendentista della Croazia, sostituendo il governo attuale con
uno fantoccio e recuperando il predominio serbo su tutto il territorio
della repubblica "ribelle". Un' azione del genere servirebbe a spegnere,
almeno per il momento, le speranze di indipendenza della Macedonia e
del Kossovo, a mantenere tranquilla e sottomessa la Bosnia e - in
estrema ipotesi - a riportare addirittura la Slovenia sotto la sovranità
"federale" di Belgrado. In ogni caso, la Federazione jugoslava ha cessato
di esistere. Perché, nella prima ipotesi, avremmo una "grande Serbia"
addirittura affacciata all' Adriatico; nella seconda uno Stato unitario
imposto con la forza, un regime militare che non potrebbe che reggersi
sulla dittatura e che susciterebbe inevitabilmente una reazione
pericolosissima di instabilità, di guerriglia etnica e di terrorismo diffuso.
Questo è il quadro, quantomai incerto e drammatico, tanto più per l'
Italia che vede una guerra vera e propria a pochi chilometri dal confine
di Trieste. In queste condizioni le scelte che incombono sulla Comunità
europea e sui suoi singoli membri sembrano obbligate. La prima è di
dichiarare solennemente che l' azione dell' Armata jugoslava e del
governo serbo sono in contrasto con tutti i principi e i trattati ai quali la
stessa Jugoslavia ha aderito. La seconda è di informare Belgrado che, in
queste condizioni, ogni aiuto economico verrà immediatamente sospeso.
La terza è il riconoscimento immediato dell' indipendenza slovena e lo
scambio di ambasciatori. La quarta riguarda direttamente l' Italia: noi
non possiamo essere spettatori passivi di quanto avviene senza prendere
almeno alcune precauzioni elementari e senza esercitare, attraverso tali
precauzioni più che legittime, quel minimo di pressione politica che è
indispensabile in queste occasioni. Occorre che le unità militari italiane
vengano schierate al confine istriano e che non si tratti di uno
schieramento puramente simbolico, ma robusto e concretamente
deterrente. Ad un certo punto, quando saranno più chiari i piani e gli
obiettivi dell' Armata serba, una trattativa dovrà pure aprirsi con l'
Europa perché la Jugoslavia non è in grado di sopravvivere senza il
sostegno della Cee. Mostrare oggi la bandiera ai confini da parte nostra,
può
e
deve
avere
un
effetto
di
annuncio,
a
tutela
dell'
autodeterminazione dei popoli jugoslavi, oggi schiacciati dal rombo dei
cannoni
e
dai
cingoli
dei
carri.
-
di
EUGENIO
SCALFARI
' LA JUGOSLAVIA NON ESISTE PIU' '
19 settembre 1991 — pagina 3
BELGRADO - "I leader delle parti in conflitto ci garantiscono il cessate il
fuoco: siamo costretti a prenderli in parola, ma se ci deluderanno
dovranno essere considerati dei traditori". Il duro commento del
quotidiano Borba, giornale moderato, esprime la frustrazione, il senso di
smarrimento per la serie di "cessate il fuoco" mai rispettati e per una
situazione politica ormai incapace di fermare la tragedia della guerra".
Stipe Mesic - che, almeno formalmente, è ancora presidente federale - è
ancora più netto: non crede che ci siano possibilità di una soluzione
politica negoziata, in una lettera all' Onu scrive che la Jugoslavia "non
esiste più", annuncia che il 7 ottobre, quando scadranno i termini della
moratoria, darà le dimissioni e Slovenia e Croazia proclameranno
definitivamente la loro indipendenza e chiede l' intervento dei caschi
blu. La firma dell' ennesimo cessate il fuoco ha la fragilità di una
situazione profondamente deteriorata, ma questa specie di atto finale
che non permette più ripensamenti e tattiche politiche potrebbe anche
rappresentare la sua forza. Nell' isola di Jgalo i tre leader hanno firmato
con la consapevolezza di una loro improvvisa debolezza. La guerra ha
messo in moto dei meccanismi di radicalizzazione che essi fanno fatica a
controllare e che potrebbero - dice un oppositore serbo - addirittura
minacciare la loro sopravvivenza politica. E' probabilmente verosimile
per Tudjman, molto meno per Slobodan Milosevic, ma anche egli - come
scrive sempre Borba - ha messo in moto un meccanismo di conquiste
territoriali che si sta rivelando un boomerang: dovevano rafforzare
Milosevic al tavolo dei negoziati - scrive il giornale - ma "hanno finito con
l' eccitare gli animi degli estremisti" e hanno avuto come risultato il
sorgere spontaneo di una piccola serie di Stati serbi. E' un fenomeno
continuo che ora si estende anche alla Bosnia Erzegovina. Non ci sono
dunque più solamente le regioni autonome della Krajna, la Slavonia e la
Banja, ma anche le zone "indipendenti" delle piccole "enclave" serbe di
Trebjnie (vicino Dubrovnik), Bosanka Krajna e di Romanija, piccolo paese
vicino Sarajevo: proclamano l' indipendenza, cacciano i croati, nominano
i ministri. E' lo spontaneismo della rivolta che Milosevic è chiamato ora
ad imbrigliare se vuole continuare ad essere il gestore dei destini politici
della Serbia. Il suo bisogno di "normalizzazione" ha avuto ieri un gesto
plateale: un lungo colloquio, il primo, con Milorad Pupovac, leader del
"Fronte democratico serbo" di Zagabria, un intellettuale moderato che
da tempo si batte per cercare una soluzione politica al conflitto etnico.
Il governo croato lo considera un interlocutore valido e credibile ma i
leader serbi della Krajna lo hanno definito un "ustascia" e un "traditore".
E' arrivato a Belgrado viaggiando attraverso l' Ungheria per "ragioni di
sicurezza", per evitare cioè l' incognita di un incontro con le milizie
serbe. Pupovac ha portato a Milosevic una piattaforma moderata che
prevede il rispetto dello Stato croato ma anche l' autonomia politica e
culturale
della
comunità
serba.
Dice
di
aver
trovato
"molta
comprensione", parla di "ottimo colloquio", racconta di aver incontrato
un leader serbo "molto preoccupato sulla situazione generale" e in
particolare sulla "tenuta del cessate il fuoco". "Non so se Milosevic e
Tudjman controllano la situazione - ha detto Pupovac - ma non è questo
il problema: io ho detto a Milosevic che loro hanno il dovere e la
responsabilità di controllare la situazione". Ma per Milosevic - come
scrive Borba - "controllare la situazione significa anche rivedere e
chiarire i suoi rapporti con le Forze Armate che stanno muovendosi in
modo autonomo e con obiettivi considerati poco chiari". Le Forze Armate
hanno "assunto un atteggiamento da arbitro assoluto in un conflitto
interno, perdendo definitivamente il loro carattere di Armata popolare e
la vecchia dimensione di Armata jugoslava: hanno cercato di avere un
ruolo imparziale ma non hanno resistito alla tentazione della loro eredità
ideologica". Ora, scrive sempre il giornale, "non sanno bene cosa fare
mentre si approfondisce il solco tra istituzioni militari e istituzioni civili
e cresce ogni giorno la tensione tra l' esercito e le varie nazioni; i
generali sono in uno stato di profonda confusione e la loro strategia
comincia ad avere una dimensione suicida". Per Borba il loro maggiore
errore è stato quello di accettare il ritiro dalla Slovenia, "legalizzando"
così il principio di ridisegnare i confini della vecchia Federazione. Non si
sa dunque bene chi comandi e quali siano gli obiettivi dei militari.
Obiettivi "ideologici", dice Borba, che presuppongono la "punizione" delle
spinte democratiche e indipendentiste. Oppure, come sostengono alcuni
diplomatici occidentali, solo obiettivi strategici, cioè assicurare alla
Jugoslavia che si sente "aggredita" da tedeschi e italiani, i confini
strategicamente più convenienti e militarmente più difendibili. I
prossimi giorni serviranno a capire quali siano i reali obiettivi dei
militari. Per ora la guerra "economica" tra Serbia e Croazia ha raggiunto
il culmine: telefoni bloccati, traffico aereo e ferroviario del tutto
paralizzato, rifornimenti energetici sempre più problematici, con la
gente che nei negozi di Belgrado comincia a fare incetta di cibo e
rifornimenti vari. - dal nostro inviato PIERO BENETAZZO
L' ARMATA SERBA PASSERA' DA TRIESTE?
05 ottobre 1991 — pagina 15 sezione: POLITICA ESTERA
POTREBBE coinvolgere anche l' Italia l' ultimo tentativo di portare la
pace in Jugoslavia. Ieri all' Aja le fazioni in lotta hanno accettato di
sottoscrivere l' ennesimo documento comune. Ma per rientrare in Serbia,
uomini e mezzi corazzati - ancora bloccati in Slovenia - potrebbero
passare sul territorio italiano, utilizzando il porto di Trieste ed evitando
di attraversare la Croazia ribelle. Palazzo Chigi avrebbe dato l' ok all'
operazione dopo aver avuto il placet dai partner Cee. Ma quando
Francesco Cossiga, ieri a Trieste per presiedere un vertice in Prefettura,
ha dato la notizia della disponibilità italiana al passaggio dei tank dell'
Armata federale, a Trieste è subito esplosa la polemica. Il centralino del
quotidiano Il Piccolo è stato preso d' assalto. Centinaia di telefonate di
protesta di chi non ha ancora dimenticato i quaranta terribili giorni del '
45 (dal primo maggio al dodici giugno) quando alla fine della seconda
guerra mondiale la città subì la brutale occupazione dell' esercito
partigiano di Tito. In prima fila la destra. In un comunicato diffuso poco
dopo il vertice in Prefettura, la locale federazione del Msi minacciava
infatti: "Ci opporremo fisicamente al passaggio dei tank. Non accettiamo
in alcun modo l' ipotesi di veder sfilare i mezzi corazzati con la stella
rossa per le strade della nostra città". Niente affatto sconvolto invece il
presidente della giunta regionale del Friuli Venezia Giulia, Adriano
Biasutti, democristiano: "E' una buona notizia per la Slovenia e,
implicitamente, un primo passo verso il riconoscimento della sua
indipendenza ed un suo sganciamento dalla guerra". Il documento
firmato all' Aja impegna Zagabria a togliere il blocco delle caserme dell'
esercito federale, il governo di Belgrado a "rischierare e raggruppare le
proprie unità in Croazia" con "l' assistenza" degli osservatori della Cee,
Croazia e Slovenia a riconoscere la loro indipendenza solo "al termine di
un processo negoziale condotto in buona fede" e con garanzie per le
minoranze (in particolare quelle serbe in Croazia) che potranno arrivare
anche fino alla concessione di uno "statuto speciale". Tutti escludono
"cambiamenti unilaterali delle frontiere" e accettano l' idea che la
federazione jugoslava sarà trsformata in "associazione a maglie larghe o
alleanza di repubbliche indipendenti e sovrane". "Si tratta di una
dichiarazione della più grande importanza", ha detto il presidente di
turno della Cee, il ministro degli Esteri olandese Hans Van Den Broek.
Giovedì sera si temeva il peggio, cioè che la Conferenza fosse travolta
dal colpo di forza costituzionale attuato a Belgrado. E invece, invitati da
Van Den Broek, venerdì mattina erano tutti all' Aia insieme a lord
Carrington, il presidente della Conferenza. Attorno al tavolo si sono
seduti il presidente croato Franjo Tudjman, quello serbo Slobodan
Miloevic e il ministro della Difesa di Belgrado, generale Velko Kadijevic.
L' accordo - l' ennesimo, ma si spera quello buono - è stato firmato in
sole due ore. Ma cosa accadrà ora sul terreno? Kadijevic ha detto di
essere "quasi certo" che le truppe "seguiranno gli ordini del comando
supremo". Belgrado ha accolto la notizia con una notevole dose di
scetticismo. Sta di fatto che poco dopo aver appreso dell' accordo dell'
Aja ha proclamato la parziale mobilitazione dell' esercito. - FRANCO
PAPITTO dall' AJA DUSAN PILIC da BELGRADO
E' ANCORA GUERRA
06 dicembre 1991 — pagina 18 sezione: POLITICA ESTERA
ZAGABRIA - Protestano, gli italiani di Croazia. Che poi sono gli italiani d'
Istria
e
di
Fiume.
Si
lamentano
che
la
nuova
legge
quadro
"costituzionale" sui diritti e le libertà delle minoranze in realtà favorisca
l' assimilazione; almeno così teme Maurizio Tremul, leader dell' Unione
Italiana. Così, ieri pomeriggio, il vicepremier Zdravko Tomac, membro
del Partito dei Cambiamenti democratici (gli ex comunisti), si è
affrettato a convocare i giornalisti italiani: "Ho appena inviato una
lettera al ministro De Michelis per chiarire ogni malinteso. Mi consta che
la parte italiana ora si senta soddisfatta". Tomac si è difeso, dicendo che
la legge si è ispirata a quella che tutela la minoranza tirolese in Italia. La
Farnesina nota che la legge tutela soprattutto la minoranza serba e
vuole avviare un negoziato a tre con Croazia e Slovenia per la tutela
delle comunità italiane.
- dal nostro inviato LEONARDO COEN
MATTATOIO BALCANICO
06 maggio 1992 — pagina 1
NEL tragico pasticcio jugoslavo è sempre più difficile dividere le ragioni
dai torti. Non ci sono buoni e cattivi nel mattatoio balcanico. Ci sono,
semmai, come ha scritto The Economist, cattivi e pessimi. L' opinione di
tutti gli osservatori è che i pessimi siano i serbi. Ma non cediamo alla
semplificazione, ormai troppo diffusa nella stampa occidentale e in
quella italiana più delle altre, di gettare sulla Serbia del comunista
Slobodan Milosevic tutte le colpe di un conflitto forsennato che ieri,
secondo la cruda descrizione del corrispondente dell' agenzia inglese
Reuter, ha "lastricato di cadaveri" le strade di Sarajevo, capitale della
Bosnia Erzegovina, così come, per mesi e mesi, aveva concimato di morti
le campagne della Croazia. CON la sola eccezione della secessione della
Slovenia, che è stata relativamente rapida e indolore anche perché era
la repubblica etnicamente più omogenea e geograficamente più lontana
dalla Serbia, il lento smembramento della Repubblica federale di
Jugoslavia è stato una somma di errori politico-diplomatici, di vendette
postume e di insensate violenze, per le quali nessuno è esente da
responsabilità, neppure la Comunità europea, incerta e divisa, né gli
Stati Uniti, indifferenti o addirittura conniventi (con Belgrado), né,
infine, le Nazioni Unite, deboli e tardive. Nella lunga guerra di Croazia,
chiarissime erano la mire egemoniche di Slobodan Milosevic, in un
disegno di creare una "Grande Serbia", o le sporche manovre dei capi
dell' esercito federale sia sul terreno che negli alti comandi, o la feroce
vocazione all' eccidio delle milizie serbe. Ma anche là, se i serbi erano i
"pessimi", i croati non erano certo i buoni, nonostante la tendenza
diffusa a descriverli soltanto come vittime di un' aggressione. E' davvero
difficile
considerare
i
leader
della
Croazia
come
impeccabili
democratici, visto che la loro simbologia era mutuata da quella della
Croazia fascista degli Anni Quaranta e che hanno permesso, forse
addirittura sollecitato, che le loro truppe terrorizzassero con ogni mezzo
la minoranza serba. A posteriori, un liberaldemocratico al di sopra di
ogni sospetto, come Ralf Dahrendorf, ha affermato sette mesi fa, in un'
intervista
a
questo
riconoscimento
della
giornale,
comunità
che
la
Croazia
internazionale
non
proprio
meritava
il
perché
il
trattamento delle minoranze non risponde alle regole universalmente
riconosciute. Ora in Bosnia si assiste ad uno scenario simile e si rischia di
ripetere gli stessi errori di valutazione e di reazione. Tutti gli osservatori
concordano che la colpa iniziale e principale di questa seconda guerra di
secessione balcanica è del governo serbo, che ha usato la netta
superiorità bellica dell' esercito federale per sostenere le forze irregolari
serbe nella loro sistematica opera di massacro della maggioranza
musulmana, di distruzione di villaggi, di ostruzionismo e terrorismo verso
gli osservatori internazionali. Ma, come ha scritto uno dei cronisti più
attenti
del
tremendo
"striptease
jugoslavo",
Blaine
Harden
del
Washington Post, "nella repubblica sono in corso simultaneamente due
guerre". Nell' Erzegovina occidentale, dominata dai croati, sono unità
croate ad impegnare in combattimento l' esercito federale. Citiamo dal
Washington Post: "Nell' ex repubblica jugoslavia di Croazia, i cui dirigenti
non hanno fatto mistero del loro desiderio di annettere la regione,
continuano a inviarvi armi e soldati. La Bosnia è diventata così il terreno
di una guerra di mercenari tra la Croazia e la Serbia". A loro volta, le
unità militari della maggioranza musulmana (il conflitto etnico-religioso
bosniaco è tridimensionale, essendo la popolazione della repubblica
divisa tra musulmani, croati cattolici e serbi ortodossi) hanno diretto la
loro brutale violenza contro i civili serbi, uccidendo senza pietà,
distruggendo
abitazioni,
saccheggiando
e
violentando.
Questa
carneficina dura ormai da due mesi, anche se l' Europa sembra averne
preso coscienza soltanto nelle ultime due settimane, tentando, come ha
sempre fatto nella crisi jugoslava, di chiudere le stalle dopo che i buoi
erano scappati, con il risultato di dover dichiarare la propria impotenza.
E sta provocando una delle più grandi tragedie europee degli ultimi
quarant' anni: secondo i dati dell' Alto Commissariato per i rifugiati, il 10
per cento della popolazione è rimasto senza casa e 480.000 persone
stanno muovendosi alla ricerca di siti più sicuri, la più massiccia
migrazione di civili dalla fine della secondo guerra mondiale. E, ancora
una volta, la comunità internazionale si chiede che fare per fermare
questa nuova tragedia balcanica. La risposta più ovvia sono le sanzioni e
le minacce diplomatiche, innanzitutto sul maggiore responsabile, il
governo di Belgrado: rifiutando, ad esempio, il riconoscimento della
nuova "mini Jugoslavia", che la Serbia ha appena formato con il
Montenegro, pretendendo di essere l' erede legittimo della defunta
Repubblica federale. Ma, come insegna l' esperienza, queste e altre
misure (che non potrebbero esimere anche la Croazia) rischiano di essere
totalmente inefficaci. Perché, spiega Robert Badinter, presidente della
Corte costituzionale francese e della Commissione di arbitrato per la
Jugoslavia, "l' insolubilità del conflitto dipende soprattutto dal fatto che
con le guerre di oggi gli jugoslavi consumano le vendette per il passato".
Occhio per occhio, dente per dente. E' davvero questa l' unica legge sulla
quale può fondarsi l' "Europa delle tribù" nata dalle ceneri del
comunismo? - di PAOLO GARIMBERTI
IL NUOVO MEDIOEVO CHE BRUCIA SARAJEVO
16 giugno 1992 — pagina 1
NELLA cronaca sulle rischiose avventure d' un convoglio di soccorsi dell'
Onu, diretto a Sarajevo, pochi giorni fa si leggeva che un ufficiale di
scorta neozelandese avrebbe concluso sfiduciato: "No, non siamo i
benvenuti, qui vogliono solo farsi la loro guerra in santa pace". Altre
cronache descrivono una guerra di tutti contro tutti fra la Drina e la
Miljacka, reggimenti serbo-montenegrini che si chiamano ancora federali
ma operano come corpi di spedizione oltre frontiera, guerriglieri di
Radovan Karadzic, irregolari cetnici, soldatesche bosniache di fede
musulmana, milizie croate, colonne di profughi. E poi, malgrado
qualsiasi tregua, bande di predoni o compagnie di ventura nei villaggi
abbandonati. Medioevo a Sarajevo? Manca soltanto la peste nera.
Nessuno può sapere come finirà il migliaio di soldati dell' Onu che
Boutros Ghali deve mandare a Sarajevo con il compito di presidiare l'
aeroporto, assicurare l' afflusso di viveri e farmaci, sgombrare i feriti.
Con i soli "caschi blu", l' Onu può testimoniare una labile o stabile tregua
in atto, ma non imporre la cessazione del fuoco. Il Consiglio di Sicurezza
spera nell' efficacia della risoluzione 757 approvata il 30 maggio, quella
delle sanzioni contro la Serbia espansionistica di Milosevic, che mediante
l' embargo petrolifero potrà impedire o almeno limitare l' impiego di
aerei e mezzi corazzati. Ma il successo dell' iniziativa, finché non
saranno esaurite le riserve di carburanti, chiederà tempo. CHE ALTRO
fare? Margaret Thatcher si domanda perché, dinanzi ai bombardamenti
su Dubrovnik, neanche una portaerei nell' Adriatico abbia offerto ai
difensori assediati una copertura simile a quella già concessa per
proteggere i curdi nell' Iraq. Theo Sommer, su Die Zeit, ha proposto
rappresaglie contro le basi dalle quali partono le aggressioni dell'
apparato militare di Milosevic. Ma oltre qualche intervento misurato e
circoscritto, non è consigliabile coinvolgere la comunità internazionale in
questa guerra, per molte ragioni. Non c' è un fronte, ma una pluralità di
fronti nel groviglio delle dislocazioni etniche imbastito dalla storia sul
territorio di quella nazione inventata che fu la Jugoslavia, neanche tutta
slava, dopo il crollo dell' impero turco- ottomano e di quello austroasburgico. Il teatro degli eventi è una mappa di guerriglia "a macchie di
leopardo", laddove è inconcepibile un' operazione del genere Desert
Storm. Qualsiasi intervento su larga scala sarebbe un azzardo
avventuroso, una replica mista della doppia esperienza vietnamita e
libanese fra terrorismi e imboscate, provocazioni e ritorsioni, errori e
inevitabili corresponsabilità in massacri e deportazioni, senza la
prospettiva di tirarsene fuori chissà per quanto tempo. E poi, quale
sarebbe la coalizione di forze internazionali pronte a operare come
braccio armato dell' Onu? I vicini d' Europa, italiani o tedeschi e
austriaci, non possono intervenire affatto. Sarebbero accusati d'
espansionismo recidivo, dopo la loro invasione della Jugoslavia nell'
ultima guerra mondiale. Russi, cecoslovacchi e gli altri europei orientali
sono già impegnati a controllare le loro vertenze interetniche.
Americani, britannici e francesi, benché più lontani, sarebbero
legittimati oltreché attrezzati, ma temono che l' intervento potrebbe
soverchiare i limiti dell' impresa umanitaria, valutano i rischi e non
considerano i Balcani come una regione d' interesse strategico. Fra il
Danubio, la Sava e la Drina, dopo tutto non c' è nessun arsenale di armi
chimiche, né un laboratorio di ordigni nucleari. Anche se Slobodan
Milosevic può somigliare a Saddam Hussein, da Belgrado non affiora una
minaccia di missili strategici. Là non c' è neanche il petrolio e non
insorge nei Balcani come nel Golfo Persico nessun problema d' accesso
alle fonti energetiche, una questione che nel mondo contemporaneo ha
lo stesso valore della decisiva "libertà di navigazione" in altri tempi. Ogni
stupore e scandalo, dinanzi a simili considerazioni, sarebbe ipocrita e
futile. Così è la minima logica della Realpolitìk, insopprimibile oggi come
sempre. Anzi, Bush, Major e Mitterrand hanno sicuramente più ragione di
Bismark un secolo fa, quando asseriva che "i Balcani non valgono la vita
d' un solo granatiere di Pomerania". L' Onu e le diplomazie occidentali, è
vero, hanno indugiato troppo a lungo dinanzi alla necessità di
riconoscere nell' espansionismo di Belgrado le responsabilità maggiori d'
una guerra oscena, che non fa prigionieri, che rade al suolo Vukovar e
Sarajevo, che nei bombardamenti su Dubrovnik non ha risparmiato
niente, popolazione, mura normanne, monumenti veneziani. Basta
ricordare che i militaristi della "grande Serbia", negli ultimi tempi, hanno
aggredito tutti. Prima il Kosovo con una spietata repressione, poi la
Slovenia con la fallita offensiva del generale Adzic, quindi la Croazia,
infine la Bosnia. Ma il ritardo dell' Onu, come quello delle diplomazie
occidentali, pare in larga misura spiegabile o inevitabile. Non era
semplice misurare le ragioni e i torti nell' intricato labirinto della
Jugoslavia in sfacelo, fra piani d' annessione o "cantonalizzazione". Per
esempio, dinanzi alle vertenze interetniche di regioni come la Kraijna, la
Banija, la Slavonia, dove neanche i croati erano e sono innocenti.
Oppure, dinanzi al mosaico etnico della Bosnia- Erzegovina, 39,5 per
cento musulmano, 32 serbo e ortodosso, 18,4 croato e cattolico. Non era
semplice neanche prendere decisioni operative, in un contesto che
malgrado tutto non minaccia l' equilibrio internazionale. L' acceso
nazionalismo storico dei serbi può evocare catastrofi e rimane celebre
giacché fu causa occasionale della guerra ' 14-' 18 con l' assassinio a
Sarajevo dell' arciduca Francesco Ferdinando d' Austria per mano dello
studente Gavrili Prinzip, affiliato alla fanatica sètta Ujedinjenie ili Smrt.
Ma oggi non c' è nessuna effigie imperiale da abbattere, né il pericolo di
un' altra guerra mondiale, mentre fra l' altro a Belgrado scendono in
piazza gli studenti pacifisti e i fedeli del patriarca ortodosso Pavle.
Anche se lo scempio al quale gli europei assistono dura da troppo tempo,
non è un' operazione Balkan Storm che può spezzare questa catena di
conflitti. Rimane solo da sperare, o aspettare, che l' embargo totale
decretato dall' Onu affievolisca la bellicosità dei generali di Belgrado e
favorisca l' opposizione crescente al regime di "Slobo" Milosevic. Questo
non esclude che intanto qualche portarei nell' Adriatico, secondo il
consiglio della "dama di ferro", sarebbe forse un segnale conveniente. di ALBERTO RONCHEY
E Putin «premia» il boia di Vukovar
Agli ordini di Milosevic Guidò la battaglia che segnò l' inizio delle guerre
balcaniche. Accusato da Zagabria di aver ucciso un migliaio di civili, è
ricercato dall' Interpol. Il Cremlino l' ha scelto tra i «benemeriti amici»
del popolo russo
Mandato di cattura 2007/15839. «Cognome: Kadijevic. Nome: Veljko.
Sesso: maschile. Data di nascita: 21 novembre 1925 (82 anni). Luogo di
nascita: Glavina Donja, Croazia. Lingue parlate: inglese, serbo.
Nazionalità: serba. Tipo di reati: crimini di guerra. Ordine d' arresto
spiccato per: Bjelovar, Osijek, Vukovar. Se avete notizie su di lui,
avvertite la polizia del vostro Paese». Anzi, no: se navigando nel web
andate a infrangervi sul sito dell' Interpol, sezione Wanted, schiacciate
pure il Canc. Il latitante generale Kadijevic, ultimo ministro della Difesa
jugoslavo, «il boia di Vukovar» che tre giudici croati aspettano di
processare per un migliaio di civili massacrati, non sarà mai estradato.
Fuggito a Mosca tre anni fa, per gentile concessione di Putin è diventato
cittadino russo. Quasi senza dirlo: un breve annuncio dell' agenzia
Novosti, lunedì, il nome nascosto fra 13 altri benemeriti prescelti dal
Cremlino, poi la data del decreto (13 agosto) firmato dal presidente
Medvedev e un grato, succinto, obbligato commento: «Ja istinnyj drug
russkogo naroda», sono un amico sincero del popolo russo. Amico?
Amicone. A Mosca, il generale Kadijevic non ha mai avuto problemi e via
via era segnalato nelle dacie di Dimitri Yazov, il generalissimo dell' era
gorbacioviana, o a casa dei paperoni serbi che sotto Putin si sono fatti
ancora più ricchi, primo fra tutti il fratello dell' ex dittatore Slobodan
Milosevic. Avvistato pure in Florida, ex cadetto di un' accademia Usa,
qualche dubbio l' hanno fatto sorgere anche i suoi rapporti privilegiati
con Washington: durante la guerra in Iraq, Kadijevic sostiene d' essere
stato consigliere militare degli americani nella caccia ai saddamisti
nascosti. Di sicuro, è un esperto di nascondigli. Una volta il Tribunale
dell' Aja provò a convocarlo, solo per testimoniare, e tempo due giorni
lui sparì dall' ultimo domicilio conosciuto. Lo scorso novembre, per bocca
della ministra per la giustizia, Ana Lovrin, il governo croato disse d'
aspettarsi un gesto responsabile dal Cremlino, perché «un mandato d'
arresto internazionale è pur sempre un dovere per ogni Paese».
Kadijevic chiamò la tv serba e replicò che l' Interpol poteva cercarlo
quanto voleva: «A Mosca, il mio status è di rifugiato politico». In realtà,
ad aggiornare la pratica, sono bastati il caso Kosovo e quest' anno di
nuove tensioni balcaniche, con la Russia che guida una fronda filoserba:
«Questa cittadinanza - protesta ora l' ambasciatore croato alla corte di
Putin,
Bozo
Kovacevic
-
rende
quasi
impossibile
processare
il
responsabile dei più atroci crimini di guerra commessi in Croazia».
Riposino senza pace, giustizia è sfatta. Vukovar, novembre 1991, fu il
primo grande massacro dei Balcani. Il primo firmato dai paramilitari
serbi del terribile Arkan. Centinaia di cadaveri, le fosse comuni, gli
stupri, duecento prigionieri ammassati ed eliminati in un ospedale,
donne e vecchi mai più ritrovati. «La Stalingrado croata», episodiochiave d' una guerra d' indipendenza da Belgrado che fra il 1991 e il 1995
fece più di diecimila morti: forse, in tutta l' ex Jugoslavia, nemmeno
Mostar ebbe devastazioni così pesanti. Per il sangue di Vukovar, il
Tribunale dell' Aja ha già condannato quattro fra alti militari e politici.
Vent' anni di carcere. Nell' indifferenza generale, ora si sta processando
Vojislav Seselj, il leader radicale serbo che consigliava Milosevic. E il
generale Kadijevic? Comandante supremo dell' esercito di Belgrado fino
al 1992, fu lo stratega delle guerre in Slovenia e in Croazia. Per i suoi
tentativi di coinvolgere subito l' Onu, allora fu giudicato troppo «molle»
dai turboserbi e a un certo punto venne pure silurato. In verità, dicono i
croati, Kadijevic fu il braccio armato di Milosevic, l' inventore delle Tigri
di Arkan: non poteva non sapere. Lui nega. Scarica la colpa dei massacri
sui sottoposti. «Dormo tranquillo», ha sempre detto. Chissà ora.
Francesco Battistini
CRONACA DI UN MASSACRO
22 gennaio 1992 — pagina 13 sezione: POLITICA ESTERA
ZAGABRIA - Era il paradiso della natura, con quei sedici laghetti collegati
da una serie di fiabesche cascate. Una miniera di valuta pregiata: l' 8%
del turismo jugoslavo. Oggi il parco nazionale di Plitvice è peggio dell'
inferno: l' inferno di una guerra feroce, barbara, senza pietà. Laggiù l'
esercito federale e le bande dei cetnici spadroneggiano incontrollati.
Villaggi incendiati. Razzìe. E massacri. Una regione sventurata Proprio
ieri radio Croazia ha denunciato l' uccisione di sette abitanti di
Smoljanac, uno dei paesi di quella sventurata regione che vanta un triste
primato: il primo "incidente" di questo conflitto infame. Giorno di Pasqua
del 1991. Vittime, due poliziotti croati, sfortunati pionieri di una lunga
serie di agguati, di esecuzioni sommarie, di violenze indescrivibili. La
strategia del terrore, applicata sistematicamente dalle formazioni
cetniche sotto la compiacente protezione dell' armata jugoslava, si è
sviluppata all' inizio in uno dei luoghi più belli e famosi dei Balcani: ed
ora, più pericolosi. Già: perché persino quei 16 meravigliosi laghi,
"tesoro mondiale dell' Unesco", sarebbero stati minati. E la popolazione
croata costretta a fuggire. Ad abbandonare case, terra. Intere comunità
deportate, qualche volta sotto "la protezione dell' esercito". Il quale
lascia spianata la strada dei villaggi e dei paesi rimasti quasi deserti ai
saccheggiatori
cetnici:
"Si
continua
a
sparare,
si
continua
ad
ammazzare", dicono i profughi. Dei vecchi e dei malati che non hanno
potuto scappare, non si ha più notizia. Hanno sparato a Zara lunedì alle
cinque della sera mentre si svolgevano i funerali di tre soldati croati,
caduti oltre la linea del fronte qualche giorno fa. Dal fatidico 3 gennaio,
l' inizio dell' ultima tregua, sono 44 le vittime delle violazioni (tredici
civili, un bimbo), almeno quelle segnalate in territorio croato. L'
inventario delle stragi si precisa e diventa materia giudiziaria, dietro il
macabro elenco s' indovina una ben precisa geografia del terrore: lo
scenario è quasi sempre lo stesso. Un paese mai grande. L' arrivo degli
ufficiali dell' esercito che lanciano ultimatum. Talvolta si scatena un
attacco dimostrativo con carri armati e artiglieria, per "convincere" la
gente a fuggire. Subito dopo, l' esercito cede il passo alle formazioni
irregolari dei cetnici. E' così che si conquista, giorno dopo giorno, la
Croazia che dovrà diventare Grande Serbia. Dalj, in Slavonia orientale,
lungo la frontiera. Primo agosto 1991. I tank del corpo d' armata di Novj
Sad entrano e conquistano la cittadina. I cetnici seguono l' avanzata e
fanno piazza pulita: 22 croati massacrati. Chi sopravvive testimonia e
racconta che i morti sono di più, che ci sarebbe una fossa comune con
altri 18 corpi. Esiste un video agghiacciante che mostra i segni della
strage. L' esercito per una settimana isola Dalj dal resto del mondo. Si
parla di altre centinaia di vittime. Il risultato di questa "campagna" è una
fuga contagiosa della popolazione di orgine croata dagli altri paesi della
regione. Lovinac, nella regione di Lika, vicino Gospic. Cinque di agosto.
Cinque contadini spariscono nel nulla. Li ritrovano dieci giorni dopo,
dentro un fosso. Massacrati. Lovinac era l' unico paese croato in questa
parte della Lika, circondato da villaggi abitati da serbi. Per due mesi i
cittadini di Lovinac restano isolati, ma tengono duro: poi, una notte, in
ottocento prendono la strada del monte Velebit. Un esodo. La loro fuga
diventa leggenda. Kraljevcani, in Banja, 14 agosto. Cinque irriducibili
contadini che non hanno abbandonato le loro case sono ammazzati.
Berak, non lontano da Vukovar, 2 settembre. Alle 8 e 30 i carri armati
federali si infilano su un campo minato dai loro alleati cetnici. La
reazione all' errore è furibonda e selvaggia: mitragliano il villaggio, una
strage di cui ancora non si sa esattamente l' entità: 40 abitanti dispersi.
Cetekovac, vicino Podravska Slatina, lungo la strada che da Bjelovar
porta ad Osijek, 3 settembre. Ventun corpi mutilati orrendamente.
Komarev, sotto Sisak, 26 settembre. Strage mancata: 29 civili feriti dalle
bombe a frammentazione. Non è il solo caso, ma è l' episodio più
clamoroso. Siroka Kula, nella Lika, fine settembre. I cetnici uccidono 10
donne, una bimba e due novantenni. E li bruciano. Esecuzioni in massa
Lovas, Slavonia orientale, 17 ottobre, un paese prevalentemente abitato
da magiari. I cetnici obbligano tutti gli uomini a formare una catena
umana e a camminare sui campi minati. 18 morti, 12 feriti. Bukovac,
Lika, stesso giorno. Sette contadini uccisi e mutilati. Ravno, in
Erzegovina. Fine ottobre: quel che succede è avvolto nel mistero. E' un
paese croato. Il dottore Ejub Ganic, quando finalmente riesce a mettervi
piede, a capo di una commissione, commenta: "E' terribile". I cetnici
hanno fatto cucina nella chiesa cattolica e sull' altare hanno sgozzato i
prigionieri. Esecuzioni in massa Petrinja, oltre il fiume Kupa, il 4
novembre esecuzione in massa di 76 civili. L' 8 novembre stessa sorte per
altri 42. Di questi, massacrati sedici bambini. Klanjec, nel municipio di
Slun, a nord di Plitvice, 11 novembre. Trovati i corpi di venti croati.
Tovarnik, vicino Vukovar. A metà novembre, lungo la strada percorsa dai
tanks serbi diretti alla "Stalingrado croata", vengono giustiziati ottanta
civili. Saborsko, regione di Plitvice. Diciannove vecchi impiccati.
Skabrnje, entroterra di Zara, altra regione nelle mire dei centomila
miliziani di Milan Babic, il presidente della Krajina. Diciannove
novembre. Raid cetnico. Atrocità e nefandezze: 45 vittime, vecchi,
donne, bambini. L' orrore spinge alla fuga migliaia di persone. Vocin,
pochi chilometri da Podravska Slatina. 39 abitanti massacrati ai primi di
dicembre. Corpi carbonizzati. Teste mozzate. Occhi cavati. Siamo ai
primi di dicembre, e finalmente l' opinione pubblica mondiale prende
atto che la guerra dei cetnici, così come quella di chi li arma e protegge,
è una guerra di bestie. Quando il 20 di dicembre si legge che a Bruska,
vicino Benkovac, la famiglia Marinovic (10 persone, 9 croati e un
congiunto serbo) viene sterminata mentre cenava, sono già all' opera le
commissioni internazionali. E Belgrado capisce che non può più "coprire"
i responsabili di simili atrocità. - dal nostro inviato LEONARDO COEN
Belgrado, arrestato criminale di guerra
13 giugno 2003 — pagina 19 sezione: POLITICA ESTERA
BELGRADO - Nonostante l' assedio di una folla ostile, la polizia serba
anti-terrorismo
ha
catturato,
ieri
notte,
il
colonnello
Veselin
Sljivancanin, da due anni latitante. Sljivancanin, membro della
famigerata «trojka di Vukovar», responsabile nel 1991 del massacro di
oltre 200 civili croati in un ospedale, era il terzo grande ricercato dal
Tribunale penale internazionale, dopo i leader serbo-bosniaci Radovan
Karadzic e Ratko Mladic. Dispersi i dimostranti, la polizia è entrata nel
palazzo con tre blindati. Gli agenti hanno arrestato l' ufficiale in
congedo, tornato a Belgrado, a quanto pare, per festeggiare il suo
cinquantesimo compleanno.
Pozzanghere Api e girasoli
14 agosto 2001 — pagina 34 sezione: CULTURA
Vukovar, oggi si cambia mondo, si va in Serbia sotto un cielo basso, quasi
tedesco. Campi di girasole giallo elettrico, coperti da milioni di api. Il
sole ci sveglia presto, il Danubio ci dà la direzione: Novi Sad, la città
magica delle cento etnie e dei grandi ponti abbattuti. Novi Sad e la
fortezza di Petrovaradin, a picco sul grande fiume d' Europa. Altan
spinge in silenzio, la riva destra è lungo un tavolato regolare. Voli, una
trentina di metri sopra il fiume, ma ogni tanto precipiti in una valletta
scavata da torrenti che qui, sposandosi col Danubio, conquistano il rango
di affluenti. In fondo alla discesa, villaggi dimenticati, acquattati sulla
confluenza, stretti da strapiombi cariati e pieni di uccelli. La gente ci
saluta, qualcuno vede dall' abbigliamento che siamo italiani e ci dice
buon viaggio nella nostra lingua, poi risaliamo sul tavolato con rampe
brevi e durissime, fino al dieci per cento. Il vento dice che sta per
piovere, odore dolciastro di fieno bagnato, lontano c' è la Serbia con la
Fruska Gora, un mondo segreto di colline e monasteri ortodossi. Lassù,
dieci anni fa, uno sconosciuto ufficiale di nome Ratko Mladic si preparò
all' assedio di Sarajevo comandando i tiri sulla Croazia. Ormai piove
forte; la frontiera di Ilok è vicinissima. Non ci fermiamo, Emilio e
Francesco, ciclisti esperti, insistono che semmai è tempo di accelerare
per non raffreddare i muscoli. Il confine è vuoto, la dogana croata ci
controlla con sufficienza, poi è il ponte, lunghissimo, un ponte grigio, da
guerra fredda, da scambi di spie in un libro di Le Carré. Vola sopra un
Danubio anch' esso grigio con smagliature color malva, improvvisamente
lento. «Benvenuti in Jugoslavia» sta scritto in cirillico davanti ai
container della polizia serba, scalcagnati, quasi sudamericani. Non c' è
una tettoia, sotto il diluvio aspettiamo i passaporti con calma già
islamica. Di colpo, ci cade addosso tutta la trasandatezza serba dopo l'
attivismo dei croati. Le lingue dei due popoli sono quasi la stessa cosa,
ma il nome del pane, per esempio, cambia, e in quel cambiamento c' è
già l' Oriente. Non si dice più «Kruha», la parola dura da cui nacque in
Italia il nomignolo «crucchi», per definire i soldati dell' AustriaUngheria,
affamati e allo sbando dopo la rotta del Piave. Si dice «Hleb», un nome
che non sa più di disciplina e fatica, ma di dolcezza e benedizione.
Pioggia pannonica, la strada è orribile, piena di fango. I camion ci
sfiorano, ma quando piove così il ciclista non se ne accorge. Si chiude in
un guscio psicologico che lo protegge, entra in un tunnel. Buca, buca con
acqua, acqua con nascosta buca: è una LiegiBastogneLiegi che ci
trasforma in piccoli Learco Guerra, coperti di fango dalla testa ai piedi.
All' inizio Altan evita le pozzanghere ma poi, chissenefrega, il bambino
che è in lui prende il sopravvento e la bici le centra tutte con gioia
primordiale. Ormai siamo lanciati, la corsa è una migrazione, un
romanzo di Crnjanski, uno sfondamento armato dietro ai turchi in rotta
verso Belgrado. Si va in un' aureola d' acqua e il nostro andare è una
riabilitazione di uno sport che ha ucciso la leggenda, sputtanandosi per
troppo denaro. Davanti, Emilio, con l' occhio del campesino che mastica
coca. Dietro, Altan, silenzioso, criniera argento come un Re Leone nella
savana, sogna le sue floride dee madri. In mezzo, il pazzo che li segue,
alla ricerca dei luoghi di Danilo Kis, lo scrittore un po' folle di questa
terra di zingari, acque e violini. Il tunnel d' acqua finisce, comincia la
periferia di Novi Sad, con case orrende di emigranti e nuovi ricchi, vie di
mezzo tra mausolei staliniani e Gasthaus tedesche. Ma poi comincia la
città magica, le guglie a meringa, le bellezze a spasso come puledri.
Vanno con quella speciale andatura slava, eretta e caracollante. Dicono
ai signori delle pulizie etniche: avete ucciso per nulla, la razza mista è la
migliore. Con lo sguardo, ti porgono un' ovvietà: in una terra di machos
in continua fregola bellica, la salvezza sta nella donna, nel grande
matriarcato danubiano. Ci guardano con curiosità. Siamo irriconoscibili,
talmente coperti di fango che una piccola zingara non osa chiederci
elemosine. Ci guarda come paralizzata. Pensa: strani questi ricchi che
amano lo sporco, non ne ho mai visti prima. Smontiamo, le bici sono
incrostate di limo, la mia pesa il doppio perché l' acqua ha inzuppato
sacche e vestiti. La stanza d' albergo diventa uno stenditoio di fortuna,
con mutande e calzini appesi dalle finestre al bagno. Tutto è molto
comico, anche perché nel frattempo è uscito un gran sole. Il regista
Zelimir Zilnik, che ci porta a cena, ride di cuore di questo nostro andare
a Oriente mentre tutta la Jugoslavia tenta di sfuggirgli. «Sretan put
italiani, dobri ljudi», ci saluta con un calice di rosso lo scrittore
Aleksandar Tisma. Buon viaggio italiani brava gente. -paolo rumiz
La prima sfida della nuova Serbia contro i fantasmi del passato
27 dicembre 2000 — pagina 10 sezione: POLITICA ESTERA
PER TRE MESI le diplomazie europee hanno offerto alla Serbia di
Kostunica riconoscimenti internazionali, finanziamenti sull' unghia e un
sostegno entusiasta. Quest' apertura di credito illimitato è stata saggia e
bene ha fatto l' Italia a distinguersi per benevolenza fin dal primissimo
minuto. L' ex opposizione probabilmente non avrebbe vinto in misura
così larga se l' Unione europea e la stessa Nato non avessero sottolineato
in ogni modo all' elettorato serbo i vantaggi cospicui che avrebbe
ricavato voltando le spalle a Milosevic. Ma annichilito il vecchio regime e
insediato un governo democratico, ora sarebbe giusto porre fine alla
luna di miele e avvertire Belgrado che non potrà più attendersi
trattamenti di favore assoluto. D' ora in poi sia la nuova Serbia a
dimostrare nei fatti d' essere realmente nuova. La questione è se e in
che modo la Serbia farà i conti con il proprio passato. Riflettere sulle
proprie colpe non è più di moda in Europa, figuriamoci tra gli slavi del
sud, che per tutto il Novecento si sono sistematicamente assolti per i
massacri di cui, oltre ad essere vittime, furono anche protagonisti. Chi
rilegga le corrispondenze di John Reed dai Balcani durante la prima
guerra mondiale, ritroverà la stessa disponibilità alla "pulizia etnica" che
i nazionalismi ex jugoslavi riproposero nell' ultimo decennio. Questa
spaventosa ripetitività della storia non è obbligata da culture proclivi
allo sterminio, come in genere ritiene l' opinione pubblica europea, ma
dal fatto che nell' ex Jugoslavia lo sterminio in sé non è mai stato
sanzionato, se non con uno sterminio opposto e simmetrico. Il risultato
che è gli slavi del sud hanno una consapevolezza vivida dei crimini subiti,
ma nessuna o scarsa dei crimini di cui sono stati responsabili. Quanto più
atroci le violenze commesse, tanto più stentoreo il vittimismo difensivo
che cerca di occultarle agli altri e a se stessi. La Serbia si è liberata di
un nazionalismo che condivideva con quello croato le colpe maggiori. Ma
se in futuro non troverà il coraggio per sanzionare i crimini, non sarà mai
un compiuto stato di diritto, e cioè non sarà autenticamente una
democrazia liberale. Come arrivare a quest' ammissione di colpa, ecco il
problema. In un' intervista recente Kostunica ha alluso ai crimini
commessi durante l' era di Milosevic, di cui avvertiva, disse, il peso
morale. La sua è stata una sortita coraggiosa e senza precedenti: ma non
ha
avuto
seguiti.
Permangono
ostacoli
obiettivi.
Se
Belgrado
ammettesse, per esempio, che Milosevic organizzò, finanziò e armò le
milizie del generale Mladic, con l' obiettivo di spaccare la Bosnia e
spartirla con la Croazia di Tudjman, si condannerebbe a pagare i danni di
guerra, verosimilmente una somma astronomica. Inoltre la traiettoria
del vecchio regime intereseca le traiettorie personali di non pochi tra i
leader dei 18 partiti che formano il cartello dell' ex opposizione (per
esempio il generale Perisic: durante la guerra bosniaca comandava la
piazza di Mostar). Infine la nuova maggioranza in genere avversa l' idea
di consegnare Milosevic al Tribunale dell' Aja, per una questione di
principio e per il fondato timore che la Serbia risulti arbitrariamente l'
unica, grande responsabile della carneficina nell' ex Jugoslavia. Si
preferirebbe processare Milosevic a Belgrado. E non per ciò che avvenne
a Vukovar, in Bosnia, in Kosovo: per malversazioni, annuncia il futuro
primo ministro serbo, Zoran Djindjic. Questa sarebbe una via d' uscita
davvero singolare. Una condanna che consegnasse Milosevic alla galera
forse esaudirebbe un certo senso etico, ma non è questo che serve alla
Serbia se vuole fare i conti con il proprio passato. La storia dell' ex
Jugoslavia nell' ultimo decennio non è esattamente la vicenda di una
tangentopoli del Levante. Le malversazioni - una colpa da cui peraltro
non sembrano immuni alcuni partiti dell' ex opposizione, amministratori
allegri di municipi serbi - sono un dettaglio nella carriera politica di
Milosevic. E Milosevic non fu l' unico colpevole di quanto avvenne. Si
potrebbe perfino sostenere che, almeno all' inizio, egli fu ciò che il suo
popolo gli chiedeva d' essere. Sia la nuova Serbia a trovare il modo più
opportuno per guardarsi allo specchio. Ma lo trovi. E' nel suo interesse.
Ha il favore dei venti, un presidente saggio, un' Europa bendisposta. Ha
esordito nel migliore dei modi, con una vittoria elettorale larga seguita
da una decisione apprezzata: Belgrado ha rimosso i due comandanti dell'
esercito in Montenegro e disciolto la brigata para- militare costituita l'
anno scorso, quando Milosevic pareva sul punto affidarsi alle armi per
riprendere il controllo della repubblica gemella. Adesso il presidente
montenegrino, Djukanovic, non ha più alcun pretesto per paralizzare il
vertice federale o per chiedere solidarietà in Occidente. Altrettanto
saggia è stata in queste settimane la condotta di Belgrado nella valle di
Presevo, occupata da milizie di un secessionismo albanese che con
queste avventure sta dilapidando il credito di cui godeva in Europa. La
Nato ora potrebbe rinegoziare l' armistizio che chiuse la guerra del
Kosovo, per venire incontro alle necessità di sicurezza di Belgrado nella
zona-tampone. L' Alleanza non considera più la Serbia il nemico, ruolo
che in qualche modo potrebbe essere trasferirsi alla guerriglia albanese.
In altre parole, saggezza e coraggio politico pagano. La nuova Serbia
dimostri le stesse qualità anche nel misurarsi con la propria storia. - di
GUIDO RAMPOLDI
Stupri di gruppo e torture pianificò la pulizia sessuale
14 ottobre 2000 — pagina 17 sezione: POLITICA ESTERA
GIRAVA per Foca con la bomba legata alla cintola. Se i militari della Sfor
volevano incontrarlo non avevano che passare la mattina in uno dei tre
caffé sul piazzale della stazione, il "Mercur", il "Passager" e il "Krsma".
Janko Janjic, 43 anni, era lì con i suoi amici, temuto e riverito da tutti.
Se passava, cauta, una pattuglia di francesi delle truppe di pace (che
controllano il sudest della Bosnia) Janko si alzava la t-shirt per far
vedere la bomba: non mi prenderete vivo, era il messaggio che era allo
stesso tempo una minaccia: anche voi rischierete la pelle. Nel ' 97 offrì
di raccontare i crimini che aveva commesso alla Cbs. "Per 5.000 marchi
(5 milioni in lire) vi racconto tutto. Come gli ho tagliato la gola, come li
ho uccisi e gli tolto gli occhi. Mi potete registrare", aveva detto con
tracotanza a un reporter che nascondeva una piccola camera. Foca, una
piccola città sulla Drina a 70 chilometri a sudest di Sarajevo, fu la prima
in cui i serbi attuarono il loro piano di massacri contro i loro concittadini
musulmani, che fino al ' 92 erano stati la maggioranza della popolazione.
Il piano era semplice: uccidi il tuo vicino e stupra le donne. Tutto
perfettamente organizzato, hanno raccontato le vittime al Tribunale
dell' Aja. "C' era un gruppo che uccideva e uno che stuprava". I
musulmani furono colti di sorpresa. Tanto incredibile sembrava che i
vicini massacrassero così brutalmente i propri vicini che a Sarajevo,
quando arrivarono le prime donne scampate ai massacri e agli stupri, e
raccontarono che cosa succedeva a Foca, anche i bosniaci musulmani
stentarono a crederle. Intere famiglie furono massacrate mentre
guardavano la tv dopo cena. Nella cittadina tutti si conoscevano. C'
erano due fabbriche tessili e un paio di segherie dove lavorava l' intera
popolazione. Il 6 agosto del ' 92 - ha raccontato la testimone "Fws 87" (l'
identità delle testimoni è tenuta protetta dal Tribunale)- sei cetnici, tra
i quali il suo fidanzato e un vicino di casa entrarono nel suo
appartamento e in quelli di altre vicine e le arrestarono. In tutto 12
donne e 6 bambini. Lei e altre 6 donne furono portate in un centro
sportivo vicino alla stazione di polizia. Il suo primo stupratore fu uno che
lei conosceva, un operaio alla fabbrica di calzini.Le puntò il fucile al
petto e le disse: ora ti stupro e se gridi ti uccido. Poi tutti gli altri
violentarono le donne a turno. Fu solo l' inizio. Quattordici giovani donne
musulmane come lei, dai 15 ai 30 anni, furono tenute come schiave a
Foca dagli 8 incriminati per più di un anno, in un incubo di stupri,
sevizie, violenze di gruppo, bordelli per i bulli di paese che si erano
trasformati in miliziani. Le più giovani furono tenute in un bordello
riservato ai "Cacciatori di Vukovar", una truppa d' assalto e poi vendute
nel ' 93 a soldati montenegrini. Janko Janjic, meccanico, era il
vicecomandante delle truppe paramilitari. Era accusato, insieme ad altri
7 tra poliziotti e paramilitari di Foca, di genocidio e stupro dal Tribunale
dell' Aja. La tragedia delle donne di Foca è stata considerata un caso
emblematico dai giudici dell' Aja, che hanno definito formalmente per la
prima volta lo stupro un crimine di guerra e contro l' umanità. "Questo è
un processo su donne e ragazze, alcune di appena 12 anni, che furono
sottoposte a atrocità inimmaginabibili. Trattate come bestie e stuprate
dai loro aguzzini. Quello che le donne musulmane di Foca dovettero
subire fu loro inflitto a causa della loro appartenenza a un' etnia, alla
loro religione, e al loro essere donne", disse il procuratore Dirk Ryneveld
all' apertura del processo contro 3 degli 8 accusati il 3 marzo di quest'
anno. Secondo le stime europee, le donne stuprate in Bosnia sono state
20.000, il governo bosniaco parla di 50.000. Fino al ' 99 gli 8 incriminati
avevano vissuto tranquilli a Foca, nonostante la presenza della Sfor che
in teoria aveva il compito di arrestare i criminali di guerra. Nei cinque
anni passato dall' accordo di Dayton, che dava diritto ai profughi di
tornare nelle case da cui erano stati espulsi, nessuna famiglia
musulmana ha fatto ritorno nella cittadina. Qualche centinaio di famiglie
si è ristabilita nei villaggi vicini ma a Foca nessuno ha osato rimetter
piede, terrorizzato dai criminali che giravano liberi per la città. Nel
gennaio del ' 99 i francesi della Sfor uccisero Gradan Gagovic, ex capo
della polizia di Foca e primo nella lista degli incriminati. Nel tentativo di
sottrarsi all' arresto Gagovic aveva cercato di forzare con la macchina il
posto di blocco. Dopo la sua morte una folla di cittadini inferociti
avevano dato l' assalto alla sede della polizia civile dell' Onu ferendo
gravemente 5 poliziotti e devastando i locali. L' ufficio della polizia Onu
dovette essere evacuato per diversi mesi. Altri due, Radomir Kovac e
Zoran Vukovic, furono arrestati qualche tempo dopo mentre un terzo,
Dragoljub Kunarac, si è consegnato volontariamente al Tribunale dell'
Aja. Tutti si sono dichiarati innocenti. Tre restano ancora in libertà.
Anche Janjic ha tentato di far esplodere la bomba che teneva alla
cintola ma è morto nell' esplosione. - di VANNA VANNUCCINI
LA SERBIA RITORNA IN EUROPA
06 ottobre 2000 — pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA
LA Serbia è rinata ieri nelle piazze di Belgrado. Una Serbia che
temevamo non ci fosse più. Ma che alla prova estrema - letteralmente al
bivio tra la vita e la morte - ha riscattato i dieci anni più oscuri della sua
storia. Non sappiamo come si concluderà la parabola dell' ormai ex
presidente jugoslavo. Ma il suo popolo lo ha rinnegato, con la rabbia
disperata di chi sentiva di non avere altra scelta. Con Kostunica e contro
Milosevic è scesa in campo una nazione che nelle guerre di Croazia,
Bosnia e Kosovo è stata associata agli orrori più bassi. Ora tutti sappiamo
che la Serbia non era solo né soprattutto Mladic e Karadzic, e nemmeno
Milosevic. La storia giudicherà le responsabilità della nazione serba e dei
suoi capi nelle guerre di successione jugoslava, giunte forse al termine.
Dopo la morte di Tudjman che ha riportato la Croazia nel consesso civile,
l' agonia politica di Milosevic ci permette di sperare che stia per
chiudersi l' orribile parentesi di sangue che da Vukovar a Pristina ha
sconvolto i Balcani. CON l' atto supremo della rivolta contro il maggiore certo non l' unico - responsabile di quelle tragedie, i serbi hanno
cominciato a ricostruire il sentiero interrotto che un giorno li
congiungerà all' Europa. Una sorpresa, per chi non aveva conosciuto la
Belgrado vivace, cosmopolita e filoccidentale di prima della guerra. Il
sacrificio di migliaia di giovani mandati a morire in guerre tanto feroci
quanto inutili, la diaspora di almeno mezzo milione di cittadini in fuga
da un paese ridotto a buco nero, il coraggio di pochi onesti oppositori
che non hanno mai accettato le lusinghe del regime - tutto questo
sembrava inutile. Fino a ieri, quando è esplosa incontenibile la ribellione
contro il voto prima truccato e poi sequestrato da Milosevic. Certo, non
è il caso di illudersi che l' imminente resa dell' ormai ex presidente
jugoslavo significhi la fine della questione balcanica. Colpi di coda del
regime non sono impossibili. Quanto alla "Serbia libera" evocata da
Kostunica deve ancora strutturarsi e decidere che cosa fare di se stessa.
E non tutti nei Balcani stanno festeggiando. A cominciare dagli estremisti
kosovari e montenegrini che avevano in Milosevic uno straordinario
nemico/complice, che per il solo fatto di esistere schierava la Nato al
loro fianco. Come reagiranno adesso che restano soli a rivendicare la
loro indipendenza? Quanto a Kostunica, non sarà un interlocutore di
comodo. A differenza di Milosevic, interessato anzitutto al potere suo e
della sua famiglia, egli ha a cuore l' interesse del suo paese. E' un
nazionalista a tutto tondo, per quanto democratico. Ci vorrà ancora
qualche tempo per misurarne le intenzioni e le capacità. Ma da ieri si
può ricominciare a sperare. Non è poco, in un paese e in una regione
apparentemente senza prospettive. La sconfitta dell' ex "volpe dei
Balcani" ha una dimensione nascosta quanto decisiva. Fondamentale per
il successo dell' opposizione è lo sgretolamento del regime, il cui perno è
rappresentato dai centomila poliziotti speciali del ministero dell'
Interno, dotati di un budget sei volte superiore a quello delle Forze
armate. Enormi crepe si sono aperte anche fra i pretoriani. Senza di
loro, Milosevic non può sopravvivere. Queste forze non erano deputate a
proteggere solo la famiglia dell' ormai ex padrone della Serbia e i suoi
alleati, molti dei quali vivevano da tempo con le valigie in mano. Erano
la punta di lancia delle bande che hanno imperversato in Serbia nell'
ultimo decennio. Nel campo governativo, ma anche in quello di alcuni
veri o presunti leader dell' opposizione (Djindjic, Draskovic), dopo le
guerre e le sanzioni è difficile discernere tra politica e criminalità
organizzata. La scena jugoslava è occupata da gruppi di potere più o
meno legati alle mafie russe o ucraine, che negli ultimi anni si sono
combattuti senza esclusione di colpi per il controllo dei traffici
(sigarette, droga, prostituzione). Una lunga scia di attentati che dall'
assassinio del capo dei servizi segreti serbi nel caffè Mama Mia (1997),
fino a quelli di Arkan e del ministro della Difesa Pavle Bulatovic, ha
stretto Milosevic nel cerchio di sangue che lo sta soffocando. Milosevic è
in una morsa. Da una parte, la rivolta popolare. Dall' altra, il regime in
liquefazione. Due braccia di una tenaglia alla quale Milosevic non sembra
poter sfuggire. Tempi e modi di questa fine di regno saranno dettati
dalla volontà di un popolo che non ha più nulla da perdere, ma
soprattutto dalla velocità con cui la più intima cerchia di potere
abbandonerà un capo ormai finito. Subito dopo la sconfitta elettorale,
infatti, anche i più servili fra gli uomini di Milosevic avevano allacciato
discreti contatti con il fronte delle opposizioni, trattando salvacondotti e
garanzie. Poteva funzionare in una logica da colpo di palazzo. Non a
rivoluzione popolare in corso. Da oggi si riaprono tutti i giochi politici.
Anche nell' opposizione, dove c' è urgente bisogno di facce nuove e
fresche intorno all' onesto Kostunica. Per l' Occidente, è il momento
della discrezione. L' opposizione ha fatto sapere a europei e americani
che il miglior modo di aiutarla è tenere un profilo basso. Kostunica non è
e non vuole sembrare il nostro uomo a Belgrado. Non dimentichiamo che
la Serbia è pressoché unanime contro la Nato. E non solo a causa dei
bombardamenti o delle sanzioni, che oltre a colpire la povera gente
hanno prolungato artificialmente la vita del regime, offrendogli un alibi.
Lo stesso Kostunica ripete a ogni occasione che il Tribunale dell' Aja non
ha alcun titolo per giudicare Milosevic. Perfino l' inviato speciale dell'
Onu nei Balcani, Dienstbier, si era spinto fino a proporre l' immunità per
l' ex leader di Belgrado in cambio delle sue dimissioni, ipotesi
fermamente respinta dalla signora Del Ponte. A sciogliere questo nodo
potrebbe essere domani il popolo serbo. Sempre che non voglia seguire i
suoi genitori in un' estrema pulsione suicida, del resto coerente al suo
percorso politico, l' ex uomo forte di Belgrado potrebbe finire un giorno
davanti a un tribunale del suo paese. I serbi si stanno guadagnando in
queste ore il diritto di decidere sull' uomo che, insieme a molti altri, li
ha portati alla rovina. - di LUCIO CARACCIOLO
NOI E QUELLA GUERRA
19 marzo 1997 — pagina 40 sezione: SPETTACOLI E TV
LA guerra di Bosnia è finita già da qualche tempo. E' ampiamente
possibile che ricominci, ma sarà un' altra storia, una nuova storia,
peggiore della precedente. Così l' ex Jugoslavia è uscita dalle
conversazioni. Le rare volte che capita di riparlarne, si ascolta sempre l'
antico ritornello. "Una guerra rimasta indecifrabile". "Una guerra che i
media hanno distorto, semplificato, occultando una realtà ben più
complessa". "Una guerra di cui mi sono disinteressato, perche non ci ho
capito nulla e di certo i giornali non mi hanno aiutato a vederci chiaro".
"Un susseguirsi di cartine pasticciate, divise in due o tre diverse tonalità
di grigio, ma quella certo non era una spiegazione". In queste frasi-tipo e
nelle loro infinite variazioni si riassume il senso comune sul conflitto che
per quattro anni, dall' estate 1991 all' estate 1995, ha insanguinato l' ex
Jugoslavia. Sono frasi che ci accomunano tutti: o le abbiamo
pronunciate, o le abbiamo ascoltate, o le abbiamo subite. Il carniere, il
bel film di Maurizio Zaccaro recensito ieri da Irene Bignardi, parla di
questo. Non tanto della guerra, quanto di noi di fronte a quella guerra.
Noi consumatori d' informazione, noi europei, ma soprattutto noi
italiani, che dell' ex Jugoslavia siamo i distratti vicini, gli ignoranti
dirimpettai, i visitatori in barca a vela o vestiti da caccia. I protagonisti
del film sono appunto gli ultimi vacanzieri, fuori tempo massimo.
Quando scoprono che la vacanza è finita il riflesso è scappare, molto
prima, molto più di capire che diavolo stia accadendo. Il tentativo di
comprensione arriva dopo, troppo tardi, nel mezzo della battaglia,
quando l' unica cosa che conta ormai è salvarsi. Si salveranno, anzi
saranno salvati, senza capirci niente. Nel linguaggio basico della
sopravvivenza
balcanica
-
"problema",
"nema
problema"
-
loro
diventeranno un problema aggiuntivo. "Ho un problema", dice Rada
quando si rivolge ai suoi consanguinei in cerca di una via d' uscita dalla
città per i tre italiani. Anche questo è allegorico di una verità più vasta:
avremmo potuto forse essere d' aiuto, in qualche modo, e invece siamo
stati solo una complicazione in più. Buoni, per carità, come il
personaggio di Renzo, che respinge la tentazione di rispondere al fuoco.
Forse così buoni da risultare inutili, anzi d' impiccio. In apparenza Il
carniere si compiace nella tesi dell' incomprensibilità della guerra ex
jugoslava. Il film finisce e non sappiamo nemmeno in che città s' è svolta
la vicenda. Potrebbe essere Sarajevo, Vukovar, Osjek. Non sappiamo chi
spara e chi risponde al fuoco. Non sappiamo a quale nazionalità
appartengano i personaggi slavi che ci sfilano davanti, se siano serbi,
croati, musulmani. Ci aggrappiamo alla domanda del protagonista a
Rada: "Ma tu, da che parte stai?". Però non c' è risposta. Ma questa è solo
apparenza. In realtà, Il carniere è chiarissimo e dice quanto basta per
capire. C' è chi spara e chi soccombe. Chi inquadra nel mirino e chi
fugge. Il cecchino e il profugo. Il miliziano e il civile. Questo è tutto quel
che occorre sapere. La guerra della ex Jugoslavia è stata tra chi l' ha
voluta e chi non l' ha voluta. Tra gli "idioti" appostati sulle colline - così li
chiamava nelle sue cronache da Sarajevo assediata Zlatko Dizdarevic - e
le persone normali come lui, come voi, come me. Questo era tutto. Non
era difficile capire. Bastava volerlo. Bastava saper guardare. Come
impara a fare il personaggio interpretato da Leo Gullotta, unico eroe
positivo in questo film sull' amarezza di un' occasione perduta. -Pietro
Veronese
STORIE DI VITE SPEZZATE PER SEMPRE
13 maggio 1996 — pagina 10 sezione: MONDO
SARAJEVO - Un autobus preceduto da una camionetta bianca dell' Alto
commissariato dell' Onu per i profughi (Unhcr) ha cercato sabato di
rompere le barriere psicologiche che ancora bloccano in Bosnia i rapporti
tra serbi, musulmani e croati. Per due volte ha collegato il sobborgo di
Ilijdza, sotto controllo governativo, e quello serbo di Lukavica. Da oggi il
servizio sarà regolare, quattro volte al giorno. E' la prima di cinque linee
speciali in tutta la Bosnia con le quali l' Alto commissariato cerca di
smuovere le acque di una partizione del paese che resiste a tutte le
razionalizzazioni degli accordi di Dayton. Lo Unhcr ha l' incarico di
riportare a casa i due milioni e mezzo di profughi e di sfollati prodotti
dalla guerra. Ma le cose vanno a passo di lumaca, quando vanno. Finora,
secondo le stime dei tecnici, solo 70 mila persone sono tornate alle loro
case, in prevalenza in zone controllate dalla propria etnia. Il mezzo
milione di rientri per la fine del 1996, resta una chimera: "Era una cifra
di lavoro, saranno molti di meno", ammette l' alto commissario Sadako
Ogata che in questi giorni ha fatto un lungo viaggio di perlustrazione in
Bosnia: "Si tratta di piccoli passi, ma si va avanti. Il vero problema è di
superare il fattore paura, che ancora blocca la gente". La paura e le
minacce fanno sì che la ' libertà di movimento' sanzionata dal trattato di
pace funzioni sia praticamente inesistente (o meglio, esista solo per gli
stranieri). "Senza libertà di movimento - ammette un collaboratore della
Ogata - non ci può essere ritorno di profughi e sfollati interni, non ci
potranno essere le elezioni". "Noi abbiamo fatto quanto possibile - dice il
comandante delle forze internazionali, l' ammiraglio Leighton Smith abbiamo creato le condizioni, ma per attuarla serve la volontà politica
delle parti". E la volontà manca non solo in casa dei serbi, ma anche dei
croati: pur cittadini della stessa ' federazione' i musulmani possono solo
attraversare il territorio dei comuni croati, senza fermarsi. L' Alto
commissariato tappa i buchi come può. Cerca di organizzare ' visite
guidate' alle case rimaste in campo avverso. Lancia gli autobus della
pace. Ha un programma di emergenza per 70 milioni di dollari che
dovrebbe fornire a chi torna a casa il materiale essenziale (legno, chiodi,
materassi, tegole) per rimettere in sesto almeno un paio di stanze. Ma è
attivo da pochi giorni e ancora in pochi osano toranre a casa. Molti serbi prima di tutto - sembrano non pensarci proprio. SOLO ROVINE DOVE
UN TEMPO C' ERA BRCKO BRCKO - Il sindaco Bahor ha la casa, o quello
che ne resta, nel centro del ' cratere' . In mezzo a quella fascia di
desolazione lunare che per diversi chilometri circonda Brcko, la città che
controlla lo strategico ' corridoio della Posavina' dove per quattro anni si
è combattuto senza tregua. Migliaia e migliaia di case annerite e minate,
in una fascia di distruzione che nessun progetto di ricostruzione
internazionale sembra poter rigenerare. Ma tra queste rovine qualcuno,
come Huso Bahor, comincia a ritornare. Il suo villaggio, Dizdarusa, è
tecnicamente in territorio serbo, ma protetto da un posto di controllo
dell' esercito americano il sindaco ha deciso di tentare la sorte con altri
cinquanta concittadini. "Tutto è pronto, ma non possiamo far niente
senza materiale. Ce lo hanno promesso. La gente comincia a non
credermi più". Intanto il sindaco Bahor, fa da ponte ai profughi serbi che
vogliono andare a rivedere le loro case dall' altra parte. Li accompagna
personalmente per indurli a tornare per sempre. DI NUOVO A JAJCE
DOPO UN ESILIO DURATO QUATTRO ANNI JAJCE - Skiljan Meho è tornato
a casa dopo quattro anni. Era dovuto andare via, scacciato con i suoi
vicini dall' avanzata serba. A ottobre Jajce è tornata sotto il controllo
della Federazione croato-musulmana. O, per meglio dire, sotto il
controllo croato. Benché non prevista dagli accordi, la sedicente
Repubblica di Herceg-Bosna si fa sentire pesantemente: poliziotti in
divisa blu come a Zagabria, con lo stesso atteggiamento da padroni del
mondo che hanno i colleghi di Zagabria. Un tempo questa città di
vecchie case abbarbicate su una rocca era a maggioranza musulmana.
Ora le famiglie musulmane ufficialmente autorizzate a rientrare sono
200 (in un accordo inter-federazione), ma solo un centinaio hanno
veramente potuto farlo. Tra queste quella di Skiljan Meho, 53 anni, che
con nove persone ha stipato due stanzette fatiscenti dove l' acqua
penetra dappertutto. "Mi sento rinato", dice mentre cerca di raddrizzare
qualche chiodo arrugginito. "Io sono pronto a fare tutto da solo, ma non
c' è il materiale". Il materiale ci sarebbe, ma il sindaco croato pretende
che l' Alto commissariato dell' Onu aiuti una famiglia croata per ogni
famiglia musulmana. Ma lo Unhcr non accetta ricatti: "Non si può fare l'
aiuto umanitario sottoponendolo a condizioni - dice un funzionario
esasperato - Così non si fa l' integrazione". L' ultima cosa che i croati
della ' Herceg-Bosna' vogliono è proprio l' integrazione. IL DRAMMA DEI
BALCANI NELLE MILLE FERITE DEL VECCHIO JOZEF DOBOJ - La ' libertà di
movimento' in Bosnia ha il passo riluttante di Amanda, la nipotina di
Jozef Zier. A sei anni e mezzo avanza tra i blindati e gli sbarramenti del
posto di blocco svedese trascinata per mano dalla mamma. Lo sguardo
intenso, le labbra serrate, Amanda si appresta a rivedere i nonni:
praticamente degli sconosciuti dopo quattro anni di guerra. Sulla
famiglia di nonno Jozef la storia dei Balcani si è accanita con tutti i suoi
drammi e i suoi paradossi. Di origine ceca, con madre tedesca, quest'
uomo piccolino di 59 anni ha sposato una serba, che ora lavora per l'
esercito di Radovan Karadzic. Insieme hanno avuto due maschi e una
femmina. Il primo figlio ha perso un braccio nell' esercito serbo. L' altro
è stato gravemente ferito nel 1991, a Vukovar con i croati. La figlia
aveva sposato un musulmano che allo scoppio della guerra di Bosnia è
andato dall' altra parte con la famiglia, ha combattuto per il governo di
Sarajevo ed è morto sulle colline qui intorno. La pace di Dayton ha solo
cominciato a rimarginare le ferite della famiglia Zier. Ha fermato i
combattimenti, ha fatto allontanare le truppe, vietato i posti di blocco e
proclamato il diritto di ogni bosniaco di andare dove vuole e di tornare a
casa. Ma una cosa è la proclamazione di un diritto, altra è esercitarlo.
Jozef Zier, per esempio, non si azzarda a varcare quella che i
diplomatici hanno eufemisticamente ribattezzato ' Linea inter-entità' e
che è ancora, a tutti gli effetti, una frontiera tra due mondi che non si
parlano e continuano il loro conflitto con altri mezzi. Proprio in questa
zona di importanza strategica nelle ultime tre settimane ci sono stati
incidenti anche gravi (due morti) con gruppi di musulmani che cercavano
di tornare a vedere le loro case, accolti a sassate e a fucilate dai serbi.
Zier resta abbarbicato al volante della sua vecchia Zastava a un metro
dal filo spinato svedese, mentre un soldato armato di tutto punto
accompagna Amanda all' incontro con i nonni. Tra un paio d' ore, dopo
baci e abbracci che la bambina accoglie con fastidio, Amanda e sua
madre torneranno a casa nel territorio della Federazione croatomusulmana. I nonni nella Repubblica serba. "Vorremmo che venisse con
noi, ma ha il suo lavoro...", spiega sconsolato Jozef. E lei? "Io? Io non
andrò mai dall' altra parte. I serbi non vogliono vivere con i musulmani. I
musulmani vogliono prendersi tutta la Bosnia, ecco perché dicono di
andare da loro". ' MA NOI SERBI NON POSSIAMO PIU' VIVERE CON I
MUSULMANI' SOKOLAC - I profughi del campo di Sokolac sono i più
recenti. In gran parte si tratta di serbi fuggiti tra febbraio e marzo dai
quartieri di Sarajevo passati sotto il controllo del governo bosniaco. Con
la voce rotta dal pianto le donne ricordano le case perdute, tutta una
vita bruciata nella fuga. Praticamente con le stesse parole che si odono
nei campi profughi abitati dai musulmani, ma con una differenza
fondamentale: i serbi non vogliono tornare indietro. Nel piccolo
prefabbricato svedese che condivide con la figlia e con la nipotina,
Snezana Bjielica non ha dubbi: "I serbi non possono vivere con i
musulmani. O non ci sarebbe stata una guerra. Se tornassimo da loro non
avremmo niente di nostro, le nostre chiese le nostre scuole. I nostri
bambini sarebbero costretti a imparare l' Islam". Anni di convivenza con i
laici musulmani di Sarajevo non contano nulla. GLI SCAMPATI DI
SREBRENICA CUI NESSUNO RIVOLGE LA PAROLA URANDUK - Devila con
altre sei donne e dieci bambini uno stanzone pieno di letti a castello di
legno e di stufette economiche. E' l' aula di una scuola a quindici
chilometri da Zenica, dove sono accampate duecento persone, in
massima parte sfuggite la scorsa estate ai massacri di Srebrenica e di
Zepa, le ' sacche' musulmane della Bosnia Orientale. Avvolte nei
fazzoletti e nelle grandi gonne delle contadine musulmane, ancora
sperano di tornare a casa, ma il realismo politico dice che questo non
succedera. Devila è più fortunata, è più giovane (34 anni, due figli) e
viene da un paese della Bosnia occidentale caduto in mano ai serbi. Il
marito, fatto prigioniero e ' regalato' dai serbi ai croati, è stato a lungo
in ospedale psichiatrico. Devila è già tornata per le feste del Bairam a
visitare le tombe di famiglia. "Ma nessuno dei vicini di un tempo mi ha
rivolto la parola - dice ora sconsolata - mi piacerebbe tornare a casa, ma
non credo che sia possibile". -MARIO TEDESCHINI LALLI
ATROCITA' CONTRO I SERBI, INCRIMINATI
23 marzo 1996 — pagina 16 sezione: MONDO
L' AJA - Il Tribunale internazionale per i crimini di guerra nella ex
Jugoslavia ha per la prima volta messo formalmente in stato d' accusa
quattro persone sospettate di delitti nei confronti della popolazione
serba di Bosnia. Dei quattro - due dei quali sono stati arrestati all' inizio
della settimana uno a Monaco di Baviera e l' altro a Vienna - tre sono
musulmani di Bosnia e uno è un croato-bosniaco. Un portavoce della
Corte ha precisato che tra le incriminazioni pronunciate ieri vi è quella
nei confronti di Zejnil Delalic, arrestato a Monaco e comandante di una
unità dell' esercito musulmano-bosniaco che internò nel maggio del 1992
circa 250 serbi della cittadina di Konjic nel campo di concentramento di
Celebici, dove almeno 14 di essi furono uccisi e altri violentati e
torturati. Le altre incriminazioni riguardano il comandante del campo di
Celebici, Zdravko Mucic, un croato-bosniaco arrestato lunedì a Vienna, e
i suoi collaboratori Hazim Delic e Esad Landzo, musulmani e a tutt' oggi
latitanti in Bosnia, dove peraltro le autorità di Sarajevo hanno dato al
Tribunale assicurazioni circa la loro cattura ed estradizione. Il portavoce
del Tribunale ha detto che queste "non sono certo le ultime
incriminazioni" di persone sospettate di crimini nei confronti dei serbi e
ha notato che la Corte agisce contro i criminali di guerra "senza badare
alla loro nazionalità". Anche una quinta persona - un serbo bosniaco
identificato come Goran Lajic, a sua volta arrestato a Norimberga il 18
marzo scorso e il cui nome già figurava nella lista dei primi 53
incriminati - sarà quanto prima estradato dalle autorità tedesche all' Aja
per essere processato. Nella lista delle persone finora incriminate
figurano anche il capo politico e quello militare dei serbi di Bosnia,
Radovan Karadzic e Ratko Mladic, ma in Olanda sono finora detenuti solo
due dei ricercati, mentre altri due ufficiali serbi in prigione all' Aja sono
in attesa di una decisione della Corte circa la loro incriminazione. Ieri,
intanto, l' ambasciatrice degli Usa all' Onu, Madeleine Albright, è apparsa
profondamente turbata nella conferenza stampa che ha tenuto dopo
aver visitato una fossa comune a Branjevo, dove si ritiene che almeno un
migliaio di musulmani siano stati massacrati e sepolti dai serbi nel luglio
dell' anno scorso. "Lo spettacolo più disgustoso, orribile che un essere
umano possa vedere - ha detto la Albright -. Sono abituata alle ossa, ma
non mi ero mai trovata tanto vicino a ossa umane, vertebre, pezzi di
cranio. Poi c' era un corpo ancora in decomposizione. Sono davvero
sopraffatta dall' orrore per tutto questo e perché uomini hanno potuto
far questo ad altri esseri umani innocenti", ha detto la diplomatica,
sottolineando l' urgenza di perseguire i criminali di guerra. Branjevo è
nel cuore del territorio controllato dai serbi bosniaci, a 80 chilometri
dalla base aerea di Tuzla, quartier generale del contingente Usa
impegnato nella forze di pace Nato. Durante la visita della Albright, i
serbi hanno schierato 200 soldati delle truppe speciali per prevenire che
si ripetessero contestazioni contro la diplomatica come quelle di
mercoledì a Vukovar.
CACCIA ALLE FOSSE COMUNI
04 febbraio 1996 — pagina 13 sezione: MONDO
SARAJEVO - L' incriminazione dei responsabili dei massacri e degli altri
crimini di guerra e la loro punizione è una condizione indispensabile per
l' avvio del processo di riconciliazione e di ricostruzione del paese e di
una società civile, ha affermato il nuovo ministro degli Esteri della
Bosnia Jadranko Prlic nella sua prima dichiarazione dopo aver assunto l'
incarico. Prlic ha sostenuto che la giustizia dovrà perseguire non soltanto
coloro che sono materialmente responsabili di questi crimini, ma anche
"coloro che li hanno resi possibili indipendentemente dalle parti
belligeranti". "Credo anche - ha detto ancora il ministro - che se
qualcuno di loro ha svolto o svolge tuttora un incarico politico dovrebbe
annunciare pubblicamente di essere pronto a lasciare questo incarico nel
caso il Tribunale dell' Aja producesse delle accuse nei suoi confronti",
aggiungendo che per quanto riguarda il dicastero degli Esteri tutti i
funzionari in servizio verranno attentamente scrutinati. Proseguono
frattanto le indagini sulle fosse comuni dove sarebbero stati occultati i
resti di migliaia di vittime delle pulizie etniche in tutta la ex Jugoslavia.
Le ricerche fino ad ora limitate al territorio bosniaco si sono infatti
estese anche alla Croazia dopo l' annuncio della scoperta di tre fosse a
Ovcara, nei pressi di Vukovar, nella Slavonia orientale ancora sotto
controllo serbo, che risalirebbero al 1991. Altri luoghi di recente
segnalazione sono quelli in prossimità di Omarska, Vitovlje e Manjaca. In
alcuni casi le vittime sarebbero state gettate nei laghi e nelle forre. Le
autorità della Repubblica serba di Bosnia hanno fatto sapere che non
porranno nessun ostacolo a queste indagini nel loro territorio e in
particolare nella miniera di Ljubija e nell' intera regione di Prijedor.
Tracce di fosse comuni, delle dimensioni di venti metri quadrati,
sarebbero state rinvenute anche tra Banja Luka e Mostar. Un funzionario
delle Nazioni unite dell' ufficio interessato ad accertare la sorte delle
persone disperse è atteso oggi alla guida di una missione che dovrà
visitare Ovcara e Glogova per verificare l' esistenza di queste fosse e
assistere allo scavo di altre due fosse che sono state identificate nella
zona di Jajce. Dopo le prime notizie trapelate il mese scorso con le
rivelazioni
dei
massacri
subiti
soprattutto
dalla
popolazione
di
Srebrenica, vi è stato un susseguirsi di nuove denunce e secondo le stime
più recenti vi sarebbero oggi non meno di due o trecento fosse comuni,
ed è una cifra che viene ritenuta per difetto. Le responsabilità di questi
crimini, inizialmente addossate solo alla parte serba, vengono ora estese
sia ai croati che ai musulmani anche se in dimensioni inferiori. La Nato
aveva cercato di tenersi fuori da questo problema sostenendo che il
mandato delle forze dell' Ifor era limitato all' esecuzione militare degli
accordi di Dayton. Le crescenti pressioni dell' opinione pubblica
internazionale e in particolare del Congresso americano hanno ora
convinto l' ammiraglio Leighton Smith ad intervenire garantendo
quantomeno
la
protezione
dei
luoghi
già
identificati
da
ogni
manomissione per cancellare ogni prova dei crimini. Per questa
operazione si pensa di utilizzare anche le unità della polizia
internazionale in via di costituzione. Le reticenze e le resistenze dell'
ammiraglio americano si spiegano d' altra parte con il disagio delle
autorità militari, a cominciare dal generale Janvier, che al tempo delle
stragi facevano capo all' Unprofor e che oggi vengono implicitamente
messe sotto accusa per non aver impedito quantomeno i massacri che
fecero seguito, lo scorso anno all' occupazione di Srebrenica e di Zepa.
Un capitolo, questo, della guerra in Bosnia che qualcuno forse
preferirebbe non riaprire e al quale in modo molto sfumato può aver
fatto riferimento il ministro Prlic. - VLADIMIRO ODINZOV
PACE NEI BALCANI, L' AMERICA HA FRETTA
11 novembre 1995 — pagina 10 sezione: MONDO
DAYTON - Nell' Ohio suonano i tamburi della pace. Il segretario di Stato
Warren Christopher è tornato qui ieri per assistere alla firma dell'
accordo sulla federazione croato-bosniaca, il primo risultato ufficiale e
tangibile del negoziato apertosi undici giorni fatra i presidenti delle
repubbliche ex jugoslave nella base aerea Wright-Patterson. L' intesa
prevede l' immediata riunificazione di Mostar, la città medioevale a circa
cento chilometri da Sarajevo, spaccata in due dai croati e dai musulmani
dopo la tremenda battaglia di due anni fa; ma è soprattutto il muro
maestro di una confederazione tra le due parti, che sarà la base del
futuro assetto della Bosnia. Ora, ha detto Christopher salutando questo
parziale successo del negoziato, la federazione "ha il potere per
governare realmente" con la creazione di istituzioni politiche ed
economiche comuni. In Croazia, invece, rullano i tamburi della guerra.
Secondo osservatori delle Nazioni Unite sul posto, alcuni plotoni della
cosiddetta "Brigata tigre", un corpo d' èlite dell' esercito croato, stanno
marciando verso la Slavonia orientale, l' ultimo pezzo di Croazia in mano
serba non riconquistato dai croati nelle vittoriose offensive-blitz della
primavera (nella Slavonia occidentale) e dell' estate (in Krajina). La
Slavonia orientale è una regione ricca, agricola e petrolifera, con
accesso al Danubio, quindi di grande importanza strategica. Il presidente
croato Franjo Tudjman ha promesso di riprendersela con le armi se,
entro novembre, non sarà raggiunto un accordo per la restituzione
pacifica. Una ipotesi d' intesa sulla carta esiste, è stata elaborata nei
giorni scorsi dall' ambasciatore americano a Zagabria Peter Galbraith e
dal
negoziatore
Onu
Thorvald
Stoltenberg:
prevede
un
periodo
transitorio di due anni, in cui la Slavonia resterebbe sotto mandato delle
Nazioni Unite prima di tornare alla Croazia. Quale dei due suoni è
autentico, e quale è falso? I rumori di guerra che arrivano qui dalla
Croazia sembrano più tattici che reali. Le unità della "Brigata tigre" in
marcia verso la Slavonia sono poche: gli osservatori Onu parlano di 350
uomini, il 10 per cento della forza della brigata. Ciò fa pensare che
Tudjman abbai, anche per motivi interni, ma non abbia intenzione di
mordere. Per il presidente croato lanciare un' offensiva in questo
momento sarebbe pura follia. La conferenza di pace fallirebbe
completamente e l' orologio della crisi balcanica tornerebbe indietro di
mesi. E, in questo momento, non è certo Tudjman, tantomeno il
presidente bosniaco Alija Izetbegovic, ad essere in difficoltà nell'
estenuante negoziato nella base aerea di Dayton. Sotto pressione è,
piuttosto, il presidente serbo Slobodan Milosevic. Due giorni fa, sulla sua
testa è arrivata la decisione del tribunale dell' Aja di rinviare a giudizio
tre ufficiali dell' esercito serbo per crimini di guerra commessi durante la
battaglia per la conquista della città croata di Vukovar, nel 1991.
Stavolta, Milosevic non può fingere di non avere responsabilità, come ha
sempre fatto sostenendo di non controllare i serbo-croati o i serbobosniaci. I tre ufficiali erano, nel ' 91, inquadrati in quella che si
chiamava ancora Armata federale jugoslava e uno di loro, l' allora
colonnello Mile Mrksic è tuttora certamente nell' esercito della Serbia,
anzi è stato addirittura promosso generale e avrebbe un comando in
Montenegro. Il presidente serbo, dunque, è vicinissimo all' avviso di
reato per crimini di guerra e potrebbe evitarlo soltanto se annunciasse la
decisione di consegnare i tre ufficiali. Per i negoziatori americani la
decisione del tribunale dell' Aja apparentemente è stata una brutta
notizia perché Milosevic è il pilastro dell' accordo di pace che stanno
trattando qui a Dayton. In realtà, è un formidabile strumento di
pressione sul presidente serbo. Negli ambienti vicini alla trattativa si ha
l' impressione che gli americani tengano Milosevic appeso ad un filo
perché sono in possesso di prove molto più dirette del suo
coinvolgimento in reati di guerra. Quattro giorni fa, la Casa Bianca ha
deciso di vietare alla corte internazionale di giustizia l' accesso a
documenti segreti sulle atrocità commesse nella ex Jugoslavia. La
ragione, citata dal portavoce di Clinton, è "l' interesse della sicurezza
nazionale". E' facile supporre che i documenti riguardino Milosevic e che
l' "interesse della sicurezza" americana sia oggi di non indebolire
ulteriormente il presidente serbo. Ma è altrettanto facile supporre che
Richard Holbrooke, negoziatore duro e senza scrupoli alla Kissinger,
abbia fatto un discorsetto a Milosevic del tipo: "Presidente, o lei accetta
le nostre proposte di pace o noi mandiamo quei documenti alla corte di
giustizia". E' la tattica del bastone e della carota, che gli americani
usano con gli ex jugoslavi dal primo giorno: ieri l' altro, hanno
parzialmente sospeso le sanzioni alla Serbia per permettere forniture di
gas per riscaldamento, poiché l' inverno nei Balcani è arrivato molto
precocemente. Le proposte americane sono contenute in undici
documenti, rielaborate da quelle iniziali per tenere conto delle richieste
delle varie parti. Il loro insieme forma la bozza del tanto sospirato
trattato di pace nei Balcani dopo quattro anni di feroce conflitto. L'
intero dossier è stato consegnato giovedì pomeriggio alle tre delegazioni
ex jugoslave, che avranno alcuni giorni per studiarlo e riflettere. Ma non
troppi: "Le nostre non sono proposte da prendere o lasciare. Però il
tempo delle contrattazioni sta finendo e sarebbe ora che venissero prese
decisioni vere e definitive, ha detto un assistente di Holbrooke. - dal
nostro inviato PAOLO GARIMBERTI
' SERBI CRIMINALI DI GUERRA'
10 novembre 1995 — pagina 15 sezione: MONDO
WASHINGTON - Il Tribunale sui crimini di guerra nella ex Jugoslavia
punta dritto su Belgrado. Un mandato di cattura internazionale è stato
spiccato ieri contro tre ufficiali dell' allora esercito jugoslavo, per
crimini commessi durante l' assedio della città croata di Vukovar, nel
1991. La notizia, destinata a complicare le già difficili trattative sulla
Bosnia, è giunta poche ore prima dell' annuncio di un primo, parziale
successo del ' conclave' di Dayton. Nella base aerea dell' Ohio, dove da
giorni sono chiusi i maggiori rappresentanti di Bosnia, Croazia e Serbia, è
stato raggiunta un' intesa per l' applicazione del vecchio accordo sulla
Federazione musulmano bosniaca. Un prerequisito per arrivare al più
complesso accordo a tre con i serbi. L' intesa è stata siglata ieri e sarà
formalmente firmata oggi alla presenza del segretario di Stato
americano Warren Christopher e del presidente croato Franjo Tudjman
che si sono precipitati in Ohio. Secondo alcune indiscrezioni, nei prossimi
giorni potrebbe essere raggiunto anche l' accordo sulla Slavonia
orientale, la regione croata (quella di Vukovar, appunto) occupata dai
serbi nel 1991. Resta, invece, ancora lontano l' accordo generale sulla
struttura della Bosnia e sui rapporti tra le due ' entità' che la
comporranno: la federazione croato-musulmana e la repubblica serba. E'
su questo dossier che potrà avere influenza l' annuncio di ieri del
tribunale dell' Aja. Il tribunale dell' Onu aveva già incriminato il leader
politico e quello militare dei serbi di Bosnia, Radovan Karadzic e Ratko
Mladic, e in questi giorni a Dayton si cercava un modo per ottenere l'
accordo dei serbi senza cedere sulla questione di principio. Gli
americani, per esempio, premono perché sia proibito agli incriminati e
condannati del tribunale dell' Onu di candidarsi alle prossimi elezioni in
Bosnia. I tre ufficiali incriminati ieri sono il generale Mile Mrksic, il
maggiore Veselin Sljivancanin e il capitano Miroslav Radic. Facevano
parte della Divisione delle Guardie che partecipò al sanguinoso assedio di
Vukovar, ' la Stalingrado croata' . Sono accusati di aver rastrellato circa
400 persone dall' ospedale della città: malati, personale medico e
paramedico, nonché militari e poliziotti croati che vi si erano rifugiati. I
prigionieri furono maltrattati e malmenati e almeno 261 furono poi
fucilati e sepolti in una fossa comune. E' la prima volta che il tribunale
internazionale arriva a toccare direttamente l' esercito serbo-jugoslavo e
ciò metterà ancor più in difficoltà il presidente Slobodan Milosevic. Il
generale Mrksic sarebbe, infatti, ancora in servizio e si troverebbe
attualmente in Montenegro. Gli altri due ufficiali, invece, avrebbero
combattuto negli anni scorsi nei ranghi delle milizie serbe di Krajina,
sconfitte ad agosto dalla offensiva croata. Ora si troverebbero rifugiati
da qualche parte in Serbia. Quanto all' accordo croato-musulmano, esso
dovrebbe prevedere la libera circolazione di beni e persone, il ritorno
alle proprie case di alcuni profughi (ma le indiscrezioni parlano di sole
cento famiglie) e la liberalizzazione della città di Mostar, ancora
drasticamente divisa in due parti, come la Berlino della guerra fredda.
OSJIEK DEVASTATA DAI MORTAI DEI CETNICI
13 settembre 1991 — pagina 8 sezione: MILANO
ZAGABRIA - Un' altra giornata di durissimi combattimenti in
Slavonia: almeno 11 persone sono morte nella regione a causa dei
bombardamenti
di
artiglieria,
che
sono
stati,
secondo
gli
osservatori, i più violenti dall' inizio del conflitto. Osjiek, la
cittadina assediata dai miliziani serbi e dall' Armata federale, è
stata colpita da ben 144 granate di mortaio dei ' cetnici' che, per
più di due ore, hanno effettuato un tiro devastante. Non si conosce
il numero delle vittime ma fra esse sono stati segnalati molti civili.
Diverse case della città sono state distrutte o gravemente
danneggiate. Bombardamenti sono stati effettuati anche dall'
esercito federale, la cui artiglieria pesante ha martellato le posizioni
tenute dalla guardia nazionale croata nei pressi di Vukovar.
Continua intanto la lotta per il possesso dell' autostrada che collega
Zagabria a Belgrado. Presso il nodo stradale di Okucani, a poca
distanza del confine fra la Croazia e la Bosnia-Erzegovina, teatro
già da diversi giorni di duri combattimenti, sono stati sparati
diversi colpi di artiglieria e armi automatiche fra i reparti armati
delle opposte fazioni. Fonti della minoranza serba, riprese dalla
agenzia ufficiale Tanjug, hanno affermato che i ' cetnici' hanno
ucciso "diversi soldati croati". A Vinkovci vi sarebbe stato un
attacco di carri armati federali. La televisione Zagabria ha riferito
che a Kostajnica, sempre in Slavonia, le milizie croate hanno subito
7 morti e 30 feriti ad opera dell' artiglieria federale e dei mortai dei
guerriglieri serbi. Altri due membri della guardia nazionale sono
stati uccisi a Topusko, 80 chilometri a sud della capitale croata.
Secondo l' agenzia di stampa croata Hina, i reparti di Zagabria
hanno avuto 2 morti e 4 feriti anche a Sisak, 60 chilometri dalla
capitale della Repubblica. Su tutto il fronte della Slavonia, la
guardia nazionale croata sta predisponendosi ad una difesa ad
oltranza. I villaggi nei pressi di Osjiek sono stati fortificati. Sono
state erette numerose barricate, mentre in diversi punti sono state
piazzate delle mine anticarro. Diverse batterie di cannoni antiaerei
leggeri sono state piazzate in prossimità degli svincoli stradali e
presso altre installazioni di importanza strategica. Sull' altro fronte,
quello dalmata, i croati hanno avuto tre morti vicino alla città di
Sebenico, nel corso di scontri e bombardamenti presso una
fabbrica di alluminio, che è stata gravemente danneggiata. Alija
Izetbegovic, presidente della Bosnia-Erzegovina, ha chiesto ieri che
venga creata una zona demilitarizzata fra i confini interni della
Federazione. Il leader bosniaco vuole evitare l' estendersi del
conflitto nella sua Repubblica. Essa è abitata da musulmani, serbi e
croati. Izetbegovic teme che, se la guerra toccasse questa regione,
possano saltare i fragili equilibri che mantengono la pace fra le
diverse etnie della Repubblica. Mercoledì, ma si è saputo solo ieri, è
stato aperto il fuoco contro un elicottero che si avvicinava a
Okucani. A bordo c' erano l' inviato speciale della Comunità
Europea Henry Wijnaendts, il generale Andrija Raseta e altri ufficiali
croati. Nessuno è stato ferito ma l' elicottero è stato danneggiato.
Ad aprire il fuoco - secondo Jo Van Der Valk, un funzionario Cee a
Zagabria - sarebbero state due guardie della milizia croata. Quando
è atterrato, l' elicottero, ha detto, perdeva carburante. Il ministero
della Difesa jugoslavo ha affermato che un velivolo militare
ungherese ha violato di recente lo spazio aereo federale ed ha
accusato il governo di Budapest di aver chiuso gli occhi su un
traffico di armi fra l' Ungheria e la Croazia. La notizia è stata riferita
dal quotidiano Borba che riporta un comunicato dei vertici delle
forze armate. In esso si accusa Budapest anche di aver favorito, non
denunciandolo, un trasporto illegale di un carico di armi che, a fine
agosto, attraverso l' Ungheria, sarebbe stato trasportato in Croazia.
Esso sarebbe servito per equipaggiare i reparti della guardia
nazionale di Zagabria. Alla frontiera italo-jugoslava un' automobile
che trasportava fucili e munizioni è stata fermata mercoledì sera
dalla guardia di Finanza. Le armi, che erano nascoste sotto il sedile
posteriore della vettura, sono un fucile a pompa calibro 12 di
fabbricazione statunitense, una pistola calibro 9 austriaca e
numerose cartucce. Il conducente della vettura, un cittadino
svizzero di origine croata, è stato arrestato. Secondo quanto reso
noto dagli inquirenti la famiglia di origine dell' arrestato abiterebbe
in una zona contesa dalle milizie ' cetniche' e dalla guardia
nazionale croata.
IN CROAZIA E' GUERRA, DECINE DI MORTI
27 agosto 1991 — pagina 11
BELGRADO - In Jugoslavia è ormai guerra aperta tra l' esercito
federale
e
la
Croazia
ribelle.
L'
armata
federale
è
scesa
massicciamente in campo a fianco dei "cetnici", gli oltranzisti serbi
armati contro la milizia di Zagabria. "Non intraprendiamo azioni
offensive - dice l' alto comando - ci limitiamo a rispondere al
fuoco". Ma da due giorni ormai una vera e propria battaglia
campale infuria per il controllo di Vukovar, cittadina strategica della
Slavonia. Carri armati e reparti d' artiglieria bombardano da ore i
militari croati assediati; in appoggio all' offensiva federale sono
intervenuti anche cacciabombardieri dell' aviazione, e motovedette
della
flottiglia
fluviale
del
Danubio
cannoneggiano
la
città
assediata. "E' cominciata la guerra per la liberazione di Vukovar",
hanno detto più volte radio e tv di Belgrado in apertura dei loro
notiziari. Incalza radio Zagabria: "Dall' alba è in corso contro
Vukovar un attacco di proporzioni mai viste finora; i morti sono
decine, o forse centinaia". I civili in fuga Si combatte anche in altre
città croate, e gli scontri hanno investito per la prima volta anche la
repubblica della Bosnia-Erzegovina. "La guerra infuria in Croazia",
titola ormai ogni dispaccio dell' agenzia di stampa federale
"Tanjug". La popolazione civile tenta disperatamente la fuga dalle
zone degli scontri, e molti sono certi di lasciare per sempre le loro
case. La battaglia infuria nel triangolo tra Vukovar, Borovo Selo e
Borovo Naselje. Dal suo esito dipende il controllo della frontiera tra
le repubbliche e dei nodi di comunicazione verso Zagabria, la
capitale croata. La città di Vukovar, che ha cinquantamila abitanti, è
completamente circondata dai carri armati federali. I morti sono
decine da ambo le parti, dice la "Tanjug". La guardia croata ha
ricevuto l' ordine di combattere fino all' ultimo uomo. Le notizie
dalla prima linea si fanno di ora in ora più allarmanti: sono almeno
quindici, secondo fonti locali, i mezzi corazzati federali distrutti dai
miliziani croati. Guardie di Zagabria armate di bazooka sono
appostate agli ingressi della città, e fronteggiano i tank di Belgrado.
Gli assediati affrontano anche attacchi dal cielo: a più riprese, i
cacciabombardieri
"Galeb
2"
di
costruzione
nazionale
dell'
aviazione federale hanno attaccato Vukovar, Vinkovci e i villaggi
vicini. I cacciabombardieri hanno usato i cannoni di bordo, hanno
lanciato bombe a frammentazione e missili aria-terra per le loro
incursioni. "Hanno colpito l' ospedale di Vukovar - ha detto per
telefono a radio Zagabria un medico della città - l' ingresso
principale e due sale operatorie sono distrutte". Anche una centrale
elettrica è stata investita dai raid. I miliziani croati si sono difesi
con mitragliatrici e missili antiaerei, e due "Galeb" - uno domenica,
il secondo ieri - sono stati abbattuti. Vukovar è l' epicentro della
battaglia, ma i combattimenti si estendono a macchia d' olio nella
regione. Pesanti bombardamenti di carri armati e aerei hanno
colpito Ilok, un' altra cittadina sul Danubio, più a sudest. Si parla di
almeno quattro morti in scontri in altre zone della Croazia; decine
di colpi di mortaio sono caduti anche su Okuni e Novska, appena
120
chilometri
da
Zagabria.
Reparti
armati
cetnici
hanno
bombardato con i mortai i villaggi di Borovo Naselje e Nustar, da
dove per tutta la giornata si sono sentiti echeggiare i sordi colpi
delle granate. Fonti di un ospedale regionale hanno detto che sei
persone sono state uccise, e venti ferite, nel corso di combattimenti
a Beli Manastir, a nord di Osijek e non lontano dalla frontiera
ungherese. La guerra infuria anche più a sud: il villaggio di Kijevo, a
cento chilometri dal porto adriatico di Spalato, è stato colpito da
bombe
a
frammentazione,
probabilmente
lanciate
dai
cacciabombardieri federali, e la milizia croata locale sta erigendo
barricate nelle strade per prepararsi ad affrontare i carri armati.
Negoziato difficile L' estensione della battaglia fa apparire sempre
più improbabile una ripresa del negoziato tra le repubbliche per
una soluzione politica della crisi. Ieri il ministro della Difesa croato,
Milan Brezak, ha accusato l' esercito di essere completamente
coinvolto nell' offensiva. Il presidente croato, Franjo Tudjman,
aveva lanciato nei giorni scorsi un ultimatum alle autorità federali
chiedendo il ritiro delle forze armate nelle caserme entro il 31
agosto. Sulla sponda opposta, il vice presidente federale Branko
Kostic, considerato molto vicino alla Serbia e responsabile della
commissione federale per il controllo di una tregua ormai fallita, ha
lanciato ieri durissime accuse al governo tedesco. Kostic ha
criticato le posizioni espresse dal cancelliere Kohl e dal ministro
degli esteri Genscher, che si sono detti pronti a riconoscere subito
l' indipendenza di Slovenia e Croazia se l' armata federale e le
milizie serbe non arresteranno il massacro. Queste dichiarazioni,
ha detto Kostic senza mezzi termini, "ricordano gli ultimatum
lanciati dalla Germania prima dei due conflitti mondiali; abbiamo
conosciuto gli effetti dei loro interventi, e ne conserviamo un
ricordo sgradevole. Condanniamo i tentativi di internazionalizzare
la crisi jugoslava portati avanti da Germania e Croazia, tentativi che
possono aprire grandi rischi per il nostro paese ma anche per l'
Europa". - DUSAN PILIC
UN INFERNO DI BOMBE SULLA STALINGRADO CROATA
01 settembre 1991 — pagina 3
Vukovar, nel racconto dei cittadini che ancora non la tradiscono,
per orgoglio di bandiera o per disperazione, è una città spettrale,
morta, raggelata. E' il simbolo della resistenza croata, dell' odio
etnico, della memoria storica che si risveglia oggi, dopo quarant'
anni di finto letargo. C' è il silenzio della paura in Slavonia, ai
confini con Voivodina e Serbia, c' è il rumore dei mortai, il crepitio
violento delle armi serbe, il rombo lugubre degli aerei federali. L'
albergo "Dunav", un grande palazzo stile socialismo reale, è in
posizione "strategica": vista sul Danubio, il fiume della civiltà che
ogni giorno, da queste parti, si tinge di sangue e porta qualche
cadavere. L' altra riva è già Serbia. Dall' altra riva sparano e non
sembrano intenzionati a fermarsi. Gli edifici attorno, facciate
Jugendstil che rimandano ad altri tempi, sono quasi tutti sventrati,
devastati dai continui, ossessivi bombardamenti. Il "Dunav" è
rimasto in piedi, le camere vuote, senz' acqua, senza elettricità,
pieno solo di soldati e giornalisti. Quando, nella notte di venerdì, è
scoppiato l' inferno, Milovan, addetto alla reception, era al suo
posto. Ha guardato dalla finestra, racconta: "Hanno sparato dal
Danubio, dalle due navi piazzate a Borovoselo, la roccaforte serba.
Colpi di cannone. Noi siamo corsi nel bunker, al buio. Ore terribili.
C' hanno attaccato dal fiume, da terra, dal cielo. Viviamo ormai
come braccati, chiusi nei rifugi. Non vediamo un giornale da dieci
giorni. L' Esercito federale è riuscito a tagliarci i cavi della
televisione croata. Ci vogliono prendere per stanchezza, per
sfinimento. Ma noi abbiamo fatto quasi l' abitudine a tutto questo,
sappiamo di sfiorare la morte ma vogliamo lottare. Questa non sarà
mai Serbia, mai". Da quei battelli da combattimento appostati
dietro un' isoletta verso Novi Sad, a BorovoSelo, a Opatovac, sono
piovuti sulla città già umiliata, duecento colpi di cannone. Hanno
fatto tre morti e venti feriti, dicono le agenzie. Bagliori inquietanti
nella notte della paura che pochi testimoni hanno visto. La vita, se
di vita si può parlare, scorre nei sotterranei. Girare per le strade
significa rischiare di finire in mezzo al fuoco dei carriarmati che
stanno appostati a decine nella foresta di granoturco attorno alla
città oppure significa essere trapassati dai kalashnikov nascosti
dietro ogni angolo. Una guerra crudele contro cinquantamila
abitanti, il 44 per cento croati, il 36 per cento serbi, il resto
magiari, ruteni, slovacchi, cechi, sassoni. Gente che parla la stessa
lingua, veste alla stessa maniera, ma è entrata giocoforza nella
spirale dell' odio. Il bollettino militare porta notizie impossibili da
verificare. Morti, feriti, distruzione. L' inferno quotidiano di
Vukovar, che qualcuno ha già chiamato "la Stalingrado sul
Danubio", ieri è arrivato alle undici, mentre la poca gente rimasta a
patire tentava di procurarsi un po' di cibo, un litro di latte, un filone
di pane, camminando fra i calcinacci, i vetri, i mattoni di un centro
ormai distrutto. "Non ce l' aspettavamo - dice Milovan - sono stati
quindici minuti di fuoco intenso". Azione coordinata da terra e dal
cielo. Serbi ed esercito insieme per distruggere, accusano i croati. A
Vukovar si bombarda tutto, le case, le scuole, l' ospedale, la chiesa.
Sul numero di oggi del quotidiano Vecernji List sono pubblicati i
nomi dei bambini rimasti feriti nell' ultimo agguato: Milica, cinque
anni, Vlatka, sei anni, Ledran, sette anni, Sasa, dieci anni, Davor,
dieci anni. "Questi bambini gridano per la pace", urla a un
giornalista italiano la direttrice dell' ospedale Vesna Bosanska. Ma
la pace, a Vukovar, (tradotto in italiano: "città del lupo"), è un
concetto astratto. Le strade sono tutte minate, il fiume è
pericoloso, impercorribile. Ad ogni posto di blocco della Guardia
Nazionale, i soldati ripetono lo stesso avviso: "Si spara". Artiglieria
pesante, bombardieri, granate, i razzi dei caccia. Ieri due giornalisti
croati sono stati raggiunti da una pioggia di proiettili mentre
viaggiavano in macchina. E' andata bene, non li hanno feriti. Ma
anche l' auto, crivellata dai colpi, apparirà oggi sul quotidiano di
Zagabria. Le sirene d' allarme suonano in continuazione. E la gente
corre nelle cantine. Trema al buio, aspetta il silenzio, poi esce, poi
torna a rintanarsi al primo boato, in una catena di crudeltà senza
fine. Ai bambini, quelli che se ne sono potuti andare, hanno
raccontato che a Vukovar faceva caldo, che andavano in vacanza.
Gli altri, gli adulti come Milovan, rimangono. I croati non vogliono
andarsene dalla loro città-simbolo. I serbi proprio per questo la
vogliono a tutti i costi. L' esercito federale li aiuta, dà il colpo di
grazia. Non è l' unico posto maledetto. A pochi chilometri, nel
triangolo infernale della Slavonia, c' è Borovo Selo, quartier
generale dell' offensiva serba. Le immagini degli operatori televisivi
regalano altra violenza. Il Danubio divide i nemici, poco più di
duecento metri. L' artiglieria dei croati è appostata fra i cespugli, i
cecchini serbi sono pronti a colpire. Ieri, si son sentiti i boati di un'
improvvisa battaglia, poco prima che un battello per i rifugiati e i
feriti attraversasse il fiume per portarsi in Serbia. Ventitre feriti,
dice il solito tam tam incontrollato. Borovo Selo è un altro paese
spettrale, svuotato. Restano gli uomini a combattere "in nome della
Serbia". Pochi chilometri più in là c' è Borovo Naselje, controllata
dalle forze fedeli a Zagabria. Il Danubio è a portata di fuoco. "Sono
pronto a morire - dichiara un serbo alla stampa - ma non prima di
essere riuscito a uccidere dieci croati". Ore e ore di silenzio
innaturale. Le sparatorie, i bombardamenti, arrivano sempre all'
improvviso. Al calar della sera aumenta la paura. "Ogni giorno è
difficile - dice Milovan - oggi ci hanno bombardato per quindici
minuti. Domani chissà...". - a l
L' IMPOTENZA EUROPEA
22 novembre 1991 — pagina 1
DAVANTI alle rovine di Vukovar, agli eccidi e ai massacri, l' Europa
consuma un' altra vergogna. E quel che è peggio, fa fatica ad
accorgersene, chiude gli occhi, continua a baloccarsi su che fare,
quando farlo, con chi farlo, come se quei territori acquitrinosi dei
Balcani dove si spara e si muore fossero un' Europa minore,
fastidiosa, opportunamente lontana dalle capitali dove si disegna il
mondo del futuro. Il dramma è proprio questo: i bambini e gli
uomini trucidati a Vukovar erano parte viva di quelle generazioni
per le quali la caduta del Muro significava un' alba di libertà. CHE
COSA hanno avuto, mentre le opinioni pubbliche sembrano
annoiate da questa guerra che non mostra in tv il buon generale
Schwarzkopf in lotta contro il cattivo Saddam? Il paradosso è che se
l' Europa fosse stata ancora divisa, se Usa e Urss ancora segnassero
il confine del Bene e del Male, non ci sarebbe stata guerra in
Jugoslavia, le superpotenze non l' avrebbero permessa. Ma viviamo
in un' epoca nuova anche se non è detto che sia meno terribile
della precedente. Ieri impauriva l' equilibrio pacifico fondato sulla
minaccia dell' olocausto nucleare, oggi la guerra serbo-croata o un'
altra analoga in Urss o altrove innesca tensioni nuove che non
sappiamo ancora dominare. Il semplice fatto che la Jugoslavia
faccia parte dell' Europa non implica che l' Europa sia davvero in
grado di porre fine alla guerra civile che dilania quel Paese. La
Comunità europea è una realtà commerciale e culturale, ma non ha
una politica estera comune e men che meno una struttura militare
con cui poter operare. Allora? Resta spazio solo per l' indignazione,
per la protesta che muore lì perché non esistono strumenti concreti
per operare? Non è così. Il dramma jugoslavo è lo scontro di
nazionalità represse prima da un impero e poi da un' ideologia
totalitaria, è l' esplosione a pochi anni dal nuovo millenio di
problemi che l' Europa occidentale ha affrontato e in parte risolto
quasi un secolo fa: per questo serbi e croati dovrebbero poter
contare sulla solidarietà culturale e politica di paesi che in fondo
giocano la loro leadership sulla capacità di offrire un' alternativa
concreta e praticabile alla guerra. Dunque tocca all' Europa
intervenire, anche se la crisi jugoslava non coinvolge la sovranità di
altri stati, anche se croati e serbi sembrano animati da odii
devastanti. I mezzi possibili sono tre: la trattativa, le sanzioni, l'
intervento armato. Secondo l' Economist, i primi due sono
inefficaci, il terzo è troppo pericoloso. Il primo, la trattativa, va
avanti da mesi e non ha condotto a niente. La conferenza dell' Aja è
a un punto morto, per mancanza di buona fede da una parte e dall'
altra ma anche perché tra i dodici europei non c' è comunanza di
idee. La Germania, diventata il padrino della causa croata in Europa,
ha alimentato le ambizioni di Zagabria e le apprensioni di molti
europei; la Serbia ha sfidato le incertezze comunitarie creando la
politica del fatto compiuto: firmava all' Aja documenti in cui
condannava la violazione delle frontiere con la forza e nelle stesse
ore attaccava le regioni croate abitate in prevalenza dai serbi. La
debolezza politica dell' intervento comunitario sta nel fatto che i
dodici hanno preteso di salvaguardare la Jugoslavia, senza
riconoscere esplicitamente né le mire aggressive della Serbia né il
rifiuto croato di tutelare i diritti delle minoranze serbe entro i suoi
confini: cioè la Cee ha difeso una cosa che i contendenti già
consideravano morta, l' unità statale jugoslava, mentre i suoi stati
più forti (Germania e Francia) o più vicini al terreno di scontro
(Italia) non rinunciavano a perseguire determinate mire nazionali
nella crisi. L' inefficacia della trattativa sponsorizzata dalla Cee ha
anche motivazioni europee. Le sanzioni non sembrano produrre
granché. Anzitutto perché non ci sono. La Cee finora ha soltanto
sospeso gli accordi di cooperazione con le repubbliche jugoslave,
poca cosa in concreto, chiedendo all' Onu di imporre l' embargo
sulle
vendite
petrolifere.
Ma
l'
Onu
bloccherà
davvero
gli
approvvigionamenti energetici? I principali fornitori della Serbia
sono l' Urss e la Libia e fino a pochi giorni fa Mosca affermava
pubblicamente che non avrebbe aderito a queste sanzioni: più che
gli scontri in corso, il Cremlino teme un intervento dell' Onu in
affari che egli giudica ' interni allo stato jugoslavo' , evidentemente
un pericoloso precedente per un non improbabile scontro tra due
repubbliche ex- sovietiche. Sotto la pressione occidentale Mosca
sembra adesso tornare sui suoi passi. Resta il fatto che il petrolio,
come le armi, può continuare ad arrivare anche in presenza di
altisonanti dichiarazioni di embargo. Senza contare che le manovre
in corso dell' esercito federale rivelano chiaramente che la nafta per
i motori diesel dei carri armati c' è e in abbondanza. Il terzo
strumento possibile a disposizione della Cee è l' intervento. Non l'
intervento armato per imporre la pace: quale stato europeo
manderebbe i suoi soldati a combattere a Vukovar, a morire per
serbi e croati? Ad ogni buon conto, i governi hanno una scusa
perfetta a portata di mano: non c' è il presupposto legale per un
intervento simile a quello che sconfisse Saddam. La Jugoslavia non
ha aggredito un altro Stato, non c' è un diritto internazionale
violato da ripristinare: quanto accade è lo scontro tra due
repubbliche che rivendicano una il diritto all' autodeterminazione, l'
altra la tutela delle sue genti: diritti che chiamano in causa il
singolo Stato interessato, non la comunità internazionale. In altre
parole, per la comunità degli Stati, i morti di Vukovar non sono una
base legale che permetta alcunché oltre la condanna o l'
esecrazione. Tuttavia, se un intervento militare europeo per
imporre la pace è impossibile, la Comunità può tentare di garantire
il rispetto di una tregua una volta che il cessate il fuoco sia imposto
e rispettato. Ora, ben diciotto ne sono stati dichiarati e tutti sono
stati violati. Ma è certo che una forte iniziativa politica europea
fondata su pressioni per la tregua, sanzioni commerciali e l' invio di
caschi blu sul terreno, diretti a garantire il rispetto del cessate il
fuoco, renderebbe assai più difficile a serbi e croati di usare le
milizie e l' esercito come strumenti di provocazione permanenti. C'
è un nuovo problema: i serbi vorrebbero i caschi blu a dividere i
contendenti sul terreno, riconoscendo cioè le conquiste fatte sul
campo; i croati invece lungo le frontiere originali tra Serbia e
Croazia.
Una
missione
del
genere
comporterà
alti
rischi,
probabilmente morti e feriti tra i corpi della pace. E' un puzzle. E la
scommessa politica con cui deve fare i conti la Cee. Con un rischio
aggiuntivo. La Germania, rompendo gli indugi comunitari, ha
chiesto la convocazione del consiglio di sicurezza dell' Onu; l' Italia
parla di riconoscere Croazia e Slovenia qualunque cosa faccia la
Cee. La bufera, lungi dal placarsi nei Balcani, rischia di spostarsi
sopra Bruxelles. - di PIETRO JOZZELLI
LE ACCUSE DI AMNESTY ' SONO TUTTI COLPEVOLI'
26 novembre 1991 — pagina 9
ROMA - Negli ultimi quattro mesi, tutte le parti coinvolte nella
guerra civile jugoslava hanno violato le disposizioni del diritto
umanitario che proibiscono l' uccisione e la tortura nei confronti
delle popolazioni civili che non prendono parte ad un conflitto. E'
questa la denuncia che è stata fatta ieri a Roma da parte dalla
sezione italiana di Amnesty International. L' organizzazione
umanitaria ha affermato, in un comunicato, che tra le diverse
migliaia di persone uccise nel corso della guerra civile in Jugoslavia
vi sono molti civili non combattenti. "Ci sono stati una serie di
incidenti ben documentati dai media e da fonti ufficiali che hanno
dimostrato chiaramente l' uccisione deliberata di civili, il ferimento
di militari che si erano arresi e la tortura dei prigionieri". Amnesty
osserva che è difficile verificare la fondatezza di tutte le denunce,
ma l' organizzazione ritiene che siano numerosi gli episodi in cui
sono stati deliberatamente uccisi civili inermi, e torturati soldati
fatti prigionieri. Tra gli incidenti riportati nel comunicato di
Amnesty vi è quello avvenuto nel villaggio croato di Cetekovac,
dove un gruppo di paramilitari serbi ha fucilato cinque donne
anziane e ucciso a coltellate un vecchio di 65 anni. Poco tempo
dopo, 13 soldati federali che si erano arresi ed avevano consegnato
le armi sono stati uccisi a Karlovac da un' unità speciale della
polizia croata. Più recentemente Amnesty è stata informata di gravi
violazioni dei diritti umani nella zona di Vukovar. Un soldato
volontario serbo ha detto di aver visto i federali uccidere a fucilate
più di 80 membri della Guardia nazionale croata, alcuni dei quali
erano stati disarmati dopo essersi arresi. L' organizzazione ricorda
nel dossier dedicato alle violazioni dei diritti umani durante il
conflitto jugoslavo numerosi casi di tortura, tra cui quello di un
prete cattolico e di due suore da parte di paramilitari serbi,
avvenuto nei locali della polizia a Titova Korenica, il 14 ottobre
scorso. I soldati dell' armata federale, che dovevano scortare i tre
religiosi affinché presenziassero ad una sepoltura, li avevano in
seguito rimessi alla volontà della milizia serba.