Repubblica - Articoli
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Articoli sulle guerre in Jugoslavia disponibili dall’archivio online di Repubblica. E' GUERRA ALLE PORTE D' ITALIA 15 settembre 1991 — pagina 1 PRECIPITA la situazione jugoslava, dove ormai la guerra civile si sta consumando dietro il fragilissimo schermo della pretesa legalità federale. Da ieri l' Armata è scesa direttamente in campo senza più la finzione di mandare avanti i guerriglieri serbi: ora sono le colonne corazzate, l' artiglieria, l' aviazione e la marina "regolari" ad attaccare le milizie croate e a schiacciare il tentativo di indipendenza proclamato a Zagabria. La sproporzione delle forze è tale da non lasciar adito a dubbi sull' esito di questa operazione militare. Né si può pensare che, in queste condizioni, la mediazione europea abbia una qualsiasi "chance" di riuscita: lord Carrington che arriva domani a Belgrado come rappresentante della Comunità europea troverà un paese sconvolto e un potere politico che è ormai nient' altro che un simulacro, dominato e scavalcato dall' Armata e dal leader serbo, Milosevic. I margini di negoziato sono a questo punto inesistenti. Si poteva pensare fino a ieri che i serbi si volessero limitare a scorporare la Slavonia a forte concentrazione serba, prima di accettare una Croazia indipendente. Ma oggi, dopo l' entrata in campo dell' Armata che sta dilagando verso Zagabria e verso la costa adriatica, l' obiettivo è evidentemente cambiato. Si possono formulare due ipotesi.La prima è che la Serbia voglia assicurarsi non soltanto le regioni che etnicamente rivendica come proprie, ma anche uno sbocco al mare puntando su Zara e forse sull' Istria. LA SECONDA è che miri ancora più in alto, spazzando via ogni velleità indipendentista della Croazia, sostituendo il governo attuale con uno fantoccio e recuperando il predominio serbo su tutto il territorio della repubblica "ribelle". Un' azione del genere servirebbe a spegnere, almeno per il momento, le speranze di indipendenza della Macedonia e del Kossovo, a mantenere tranquilla e sottomessa la Bosnia e - in estrema ipotesi - a riportare addirittura la Slovenia sotto la sovranità "federale" di Belgrado. In ogni caso, la Federazione jugoslava ha cessato di esistere. Perché, nella prima ipotesi, avremmo una "grande Serbia" addirittura affacciata all' Adriatico; nella seconda uno Stato unitario imposto con la forza, un regime militare che non potrebbe che reggersi sulla dittatura e che susciterebbe inevitabilmente una reazione pericolosissima di instabilità, di guerriglia etnica e di terrorismo diffuso. Questo è il quadro, quantomai incerto e drammatico, tanto più per l' Italia che vede una guerra vera e propria a pochi chilometri dal confine di Trieste. In queste condizioni le scelte che incombono sulla Comunità europea e sui suoi singoli membri sembrano obbligate. La prima è di dichiarare solennemente che l' azione dell' Armata jugoslava e del governo serbo sono in contrasto con tutti i principi e i trattati ai quali la stessa Jugoslavia ha aderito. La seconda è di informare Belgrado che, in queste condizioni, ogni aiuto economico verrà immediatamente sospeso. La terza è il riconoscimento immediato dell' indipendenza slovena e lo scambio di ambasciatori. La quarta riguarda direttamente l' Italia: noi non possiamo essere spettatori passivi di quanto avviene senza prendere almeno alcune precauzioni elementari e senza esercitare, attraverso tali precauzioni più che legittime, quel minimo di pressione politica che è indispensabile in queste occasioni. Occorre che le unità militari italiane vengano schierate al confine istriano e che non si tratti di uno schieramento puramente simbolico, ma robusto e concretamente deterrente. Ad un certo punto, quando saranno più chiari i piani e gli obiettivi dell' Armata serba, una trattativa dovrà pure aprirsi con l' Europa perché la Jugoslavia non è in grado di sopravvivere senza il sostegno della Cee. Mostrare oggi la bandiera ai confini da parte nostra, può e deve avere un effetto di annuncio, a tutela dell' autodeterminazione dei popoli jugoslavi, oggi schiacciati dal rombo dei cannoni e dai cingoli dei carri. - di EUGENIO SCALFARI ' LA JUGOSLAVIA NON ESISTE PIU' ' 19 settembre 1991 — pagina 3 BELGRADO - "I leader delle parti in conflitto ci garantiscono il cessate il fuoco: siamo costretti a prenderli in parola, ma se ci deluderanno dovranno essere considerati dei traditori". Il duro commento del quotidiano Borba, giornale moderato, esprime la frustrazione, il senso di smarrimento per la serie di "cessate il fuoco" mai rispettati e per una situazione politica ormai incapace di fermare la tragedia della guerra". Stipe Mesic - che, almeno formalmente, è ancora presidente federale - è ancora più netto: non crede che ci siano possibilità di una soluzione politica negoziata, in una lettera all' Onu scrive che la Jugoslavia "non esiste più", annuncia che il 7 ottobre, quando scadranno i termini della moratoria, darà le dimissioni e Slovenia e Croazia proclameranno definitivamente la loro indipendenza e chiede l' intervento dei caschi blu. La firma dell' ennesimo cessate il fuoco ha la fragilità di una situazione profondamente deteriorata, ma questa specie di atto finale che non permette più ripensamenti e tattiche politiche potrebbe anche rappresentare la sua forza. Nell' isola di Jgalo i tre leader hanno firmato con la consapevolezza di una loro improvvisa debolezza. La guerra ha messo in moto dei meccanismi di radicalizzazione che essi fanno fatica a controllare e che potrebbero - dice un oppositore serbo - addirittura minacciare la loro sopravvivenza politica. E' probabilmente verosimile per Tudjman, molto meno per Slobodan Milosevic, ma anche egli - come scrive sempre Borba - ha messo in moto un meccanismo di conquiste territoriali che si sta rivelando un boomerang: dovevano rafforzare Milosevic al tavolo dei negoziati - scrive il giornale - ma "hanno finito con l' eccitare gli animi degli estremisti" e hanno avuto come risultato il sorgere spontaneo di una piccola serie di Stati serbi. E' un fenomeno continuo che ora si estende anche alla Bosnia Erzegovina. Non ci sono dunque più solamente le regioni autonome della Krajna, la Slavonia e la Banja, ma anche le zone "indipendenti" delle piccole "enclave" serbe di Trebjnie (vicino Dubrovnik), Bosanka Krajna e di Romanija, piccolo paese vicino Sarajevo: proclamano l' indipendenza, cacciano i croati, nominano i ministri. E' lo spontaneismo della rivolta che Milosevic è chiamato ora ad imbrigliare se vuole continuare ad essere il gestore dei destini politici della Serbia. Il suo bisogno di "normalizzazione" ha avuto ieri un gesto plateale: un lungo colloquio, il primo, con Milorad Pupovac, leader del "Fronte democratico serbo" di Zagabria, un intellettuale moderato che da tempo si batte per cercare una soluzione politica al conflitto etnico. Il governo croato lo considera un interlocutore valido e credibile ma i leader serbi della Krajna lo hanno definito un "ustascia" e un "traditore". E' arrivato a Belgrado viaggiando attraverso l' Ungheria per "ragioni di sicurezza", per evitare cioè l' incognita di un incontro con le milizie serbe. Pupovac ha portato a Milosevic una piattaforma moderata che prevede il rispetto dello Stato croato ma anche l' autonomia politica e culturale della comunità serba. Dice di aver trovato "molta comprensione", parla di "ottimo colloquio", racconta di aver incontrato un leader serbo "molto preoccupato sulla situazione generale" e in particolare sulla "tenuta del cessate il fuoco". "Non so se Milosevic e Tudjman controllano la situazione - ha detto Pupovac - ma non è questo il problema: io ho detto a Milosevic che loro hanno il dovere e la responsabilità di controllare la situazione". Ma per Milosevic - come scrive Borba - "controllare la situazione significa anche rivedere e chiarire i suoi rapporti con le Forze Armate che stanno muovendosi in modo autonomo e con obiettivi considerati poco chiari". Le Forze Armate hanno "assunto un atteggiamento da arbitro assoluto in un conflitto interno, perdendo definitivamente il loro carattere di Armata popolare e la vecchia dimensione di Armata jugoslava: hanno cercato di avere un ruolo imparziale ma non hanno resistito alla tentazione della loro eredità ideologica". Ora, scrive sempre il giornale, "non sanno bene cosa fare mentre si approfondisce il solco tra istituzioni militari e istituzioni civili e cresce ogni giorno la tensione tra l' esercito e le varie nazioni; i generali sono in uno stato di profonda confusione e la loro strategia comincia ad avere una dimensione suicida". Per Borba il loro maggiore errore è stato quello di accettare il ritiro dalla Slovenia, "legalizzando" così il principio di ridisegnare i confini della vecchia Federazione. Non si sa dunque bene chi comandi e quali siano gli obiettivi dei militari. Obiettivi "ideologici", dice Borba, che presuppongono la "punizione" delle spinte democratiche e indipendentiste. Oppure, come sostengono alcuni diplomatici occidentali, solo obiettivi strategici, cioè assicurare alla Jugoslavia che si sente "aggredita" da tedeschi e italiani, i confini strategicamente più convenienti e militarmente più difendibili. I prossimi giorni serviranno a capire quali siano i reali obiettivi dei militari. Per ora la guerra "economica" tra Serbia e Croazia ha raggiunto il culmine: telefoni bloccati, traffico aereo e ferroviario del tutto paralizzato, rifornimenti energetici sempre più problematici, con la gente che nei negozi di Belgrado comincia a fare incetta di cibo e rifornimenti vari. - dal nostro inviato PIERO BENETAZZO L' ARMATA SERBA PASSERA' DA TRIESTE? 05 ottobre 1991 — pagina 15 sezione: POLITICA ESTERA POTREBBE coinvolgere anche l' Italia l' ultimo tentativo di portare la pace in Jugoslavia. Ieri all' Aja le fazioni in lotta hanno accettato di sottoscrivere l' ennesimo documento comune. Ma per rientrare in Serbia, uomini e mezzi corazzati - ancora bloccati in Slovenia - potrebbero passare sul territorio italiano, utilizzando il porto di Trieste ed evitando di attraversare la Croazia ribelle. Palazzo Chigi avrebbe dato l' ok all' operazione dopo aver avuto il placet dai partner Cee. Ma quando Francesco Cossiga, ieri a Trieste per presiedere un vertice in Prefettura, ha dato la notizia della disponibilità italiana al passaggio dei tank dell' Armata federale, a Trieste è subito esplosa la polemica. Il centralino del quotidiano Il Piccolo è stato preso d' assalto. Centinaia di telefonate di protesta di chi non ha ancora dimenticato i quaranta terribili giorni del ' 45 (dal primo maggio al dodici giugno) quando alla fine della seconda guerra mondiale la città subì la brutale occupazione dell' esercito partigiano di Tito. In prima fila la destra. In un comunicato diffuso poco dopo il vertice in Prefettura, la locale federazione del Msi minacciava infatti: "Ci opporremo fisicamente al passaggio dei tank. Non accettiamo in alcun modo l' ipotesi di veder sfilare i mezzi corazzati con la stella rossa per le strade della nostra città". Niente affatto sconvolto invece il presidente della giunta regionale del Friuli Venezia Giulia, Adriano Biasutti, democristiano: "E' una buona notizia per la Slovenia e, implicitamente, un primo passo verso il riconoscimento della sua indipendenza ed un suo sganciamento dalla guerra". Il documento firmato all' Aja impegna Zagabria a togliere il blocco delle caserme dell' esercito federale, il governo di Belgrado a "rischierare e raggruppare le proprie unità in Croazia" con "l' assistenza" degli osservatori della Cee, Croazia e Slovenia a riconoscere la loro indipendenza solo "al termine di un processo negoziale condotto in buona fede" e con garanzie per le minoranze (in particolare quelle serbe in Croazia) che potranno arrivare anche fino alla concessione di uno "statuto speciale". Tutti escludono "cambiamenti unilaterali delle frontiere" e accettano l' idea che la federazione jugoslava sarà trsformata in "associazione a maglie larghe o alleanza di repubbliche indipendenti e sovrane". "Si tratta di una dichiarazione della più grande importanza", ha detto il presidente di turno della Cee, il ministro degli Esteri olandese Hans Van Den Broek. Giovedì sera si temeva il peggio, cioè che la Conferenza fosse travolta dal colpo di forza costituzionale attuato a Belgrado. E invece, invitati da Van Den Broek, venerdì mattina erano tutti all' Aia insieme a lord Carrington, il presidente della Conferenza. Attorno al tavolo si sono seduti il presidente croato Franjo Tudjman, quello serbo Slobodan Miloevic e il ministro della Difesa di Belgrado, generale Velko Kadijevic. L' accordo - l' ennesimo, ma si spera quello buono - è stato firmato in sole due ore. Ma cosa accadrà ora sul terreno? Kadijevic ha detto di essere "quasi certo" che le truppe "seguiranno gli ordini del comando supremo". Belgrado ha accolto la notizia con una notevole dose di scetticismo. Sta di fatto che poco dopo aver appreso dell' accordo dell' Aja ha proclamato la parziale mobilitazione dell' esercito. - FRANCO PAPITTO dall' AJA DUSAN PILIC da BELGRADO E' ANCORA GUERRA 06 dicembre 1991 — pagina 18 sezione: POLITICA ESTERA ZAGABRIA - Protestano, gli italiani di Croazia. Che poi sono gli italiani d' Istria e di Fiume. Si lamentano che la nuova legge quadro "costituzionale" sui diritti e le libertà delle minoranze in realtà favorisca l' assimilazione; almeno così teme Maurizio Tremul, leader dell' Unione Italiana. Così, ieri pomeriggio, il vicepremier Zdravko Tomac, membro del Partito dei Cambiamenti democratici (gli ex comunisti), si è affrettato a convocare i giornalisti italiani: "Ho appena inviato una lettera al ministro De Michelis per chiarire ogni malinteso. Mi consta che la parte italiana ora si senta soddisfatta". Tomac si è difeso, dicendo che la legge si è ispirata a quella che tutela la minoranza tirolese in Italia. La Farnesina nota che la legge tutela soprattutto la minoranza serba e vuole avviare un negoziato a tre con Croazia e Slovenia per la tutela delle comunità italiane. - dal nostro inviato LEONARDO COEN MATTATOIO BALCANICO 06 maggio 1992 — pagina 1 NEL tragico pasticcio jugoslavo è sempre più difficile dividere le ragioni dai torti. Non ci sono buoni e cattivi nel mattatoio balcanico. Ci sono, semmai, come ha scritto The Economist, cattivi e pessimi. L' opinione di tutti gli osservatori è che i pessimi siano i serbi. Ma non cediamo alla semplificazione, ormai troppo diffusa nella stampa occidentale e in quella italiana più delle altre, di gettare sulla Serbia del comunista Slobodan Milosevic tutte le colpe di un conflitto forsennato che ieri, secondo la cruda descrizione del corrispondente dell' agenzia inglese Reuter, ha "lastricato di cadaveri" le strade di Sarajevo, capitale della Bosnia Erzegovina, così come, per mesi e mesi, aveva concimato di morti le campagne della Croazia. CON la sola eccezione della secessione della Slovenia, che è stata relativamente rapida e indolore anche perché era la repubblica etnicamente più omogenea e geograficamente più lontana dalla Serbia, il lento smembramento della Repubblica federale di Jugoslavia è stato una somma di errori politico-diplomatici, di vendette postume e di insensate violenze, per le quali nessuno è esente da responsabilità, neppure la Comunità europea, incerta e divisa, né gli Stati Uniti, indifferenti o addirittura conniventi (con Belgrado), né, infine, le Nazioni Unite, deboli e tardive. Nella lunga guerra di Croazia, chiarissime erano la mire egemoniche di Slobodan Milosevic, in un disegno di creare una "Grande Serbia", o le sporche manovre dei capi dell' esercito federale sia sul terreno che negli alti comandi, o la feroce vocazione all' eccidio delle milizie serbe. Ma anche là, se i serbi erano i "pessimi", i croati non erano certo i buoni, nonostante la tendenza diffusa a descriverli soltanto come vittime di un' aggressione. E' davvero difficile considerare i leader della Croazia come impeccabili democratici, visto che la loro simbologia era mutuata da quella della Croazia fascista degli Anni Quaranta e che hanno permesso, forse addirittura sollecitato, che le loro truppe terrorizzassero con ogni mezzo la minoranza serba. A posteriori, un liberaldemocratico al di sopra di ogni sospetto, come Ralf Dahrendorf, ha affermato sette mesi fa, in un' intervista a questo riconoscimento della giornale, comunità che la Croazia internazionale non proprio meritava il perché il trattamento delle minoranze non risponde alle regole universalmente riconosciute. Ora in Bosnia si assiste ad uno scenario simile e si rischia di ripetere gli stessi errori di valutazione e di reazione. Tutti gli osservatori concordano che la colpa iniziale e principale di questa seconda guerra di secessione balcanica è del governo serbo, che ha usato la netta superiorità bellica dell' esercito federale per sostenere le forze irregolari serbe nella loro sistematica opera di massacro della maggioranza musulmana, di distruzione di villaggi, di ostruzionismo e terrorismo verso gli osservatori internazionali. Ma, come ha scritto uno dei cronisti più attenti del tremendo "striptease jugoslavo", Blaine Harden del Washington Post, "nella repubblica sono in corso simultaneamente due guerre". Nell' Erzegovina occidentale, dominata dai croati, sono unità croate ad impegnare in combattimento l' esercito federale. Citiamo dal Washington Post: "Nell' ex repubblica jugoslavia di Croazia, i cui dirigenti non hanno fatto mistero del loro desiderio di annettere la regione, continuano a inviarvi armi e soldati. La Bosnia è diventata così il terreno di una guerra di mercenari tra la Croazia e la Serbia". A loro volta, le unità militari della maggioranza musulmana (il conflitto etnico-religioso bosniaco è tridimensionale, essendo la popolazione della repubblica divisa tra musulmani, croati cattolici e serbi ortodossi) hanno diretto la loro brutale violenza contro i civili serbi, uccidendo senza pietà, distruggendo abitazioni, saccheggiando e violentando. Questa carneficina dura ormai da due mesi, anche se l' Europa sembra averne preso coscienza soltanto nelle ultime due settimane, tentando, come ha sempre fatto nella crisi jugoslava, di chiudere le stalle dopo che i buoi erano scappati, con il risultato di dover dichiarare la propria impotenza. E sta provocando una delle più grandi tragedie europee degli ultimi quarant' anni: secondo i dati dell' Alto Commissariato per i rifugiati, il 10 per cento della popolazione è rimasto senza casa e 480.000 persone stanno muovendosi alla ricerca di siti più sicuri, la più massiccia migrazione di civili dalla fine della secondo guerra mondiale. E, ancora una volta, la comunità internazionale si chiede che fare per fermare questa nuova tragedia balcanica. La risposta più ovvia sono le sanzioni e le minacce diplomatiche, innanzitutto sul maggiore responsabile, il governo di Belgrado: rifiutando, ad esempio, il riconoscimento della nuova "mini Jugoslavia", che la Serbia ha appena formato con il Montenegro, pretendendo di essere l' erede legittimo della defunta Repubblica federale. Ma, come insegna l' esperienza, queste e altre misure (che non potrebbero esimere anche la Croazia) rischiano di essere totalmente inefficaci. Perché, spiega Robert Badinter, presidente della Corte costituzionale francese e della Commissione di arbitrato per la Jugoslavia, "l' insolubilità del conflitto dipende soprattutto dal fatto che con le guerre di oggi gli jugoslavi consumano le vendette per il passato". Occhio per occhio, dente per dente. E' davvero questa l' unica legge sulla quale può fondarsi l' "Europa delle tribù" nata dalle ceneri del comunismo? - di PAOLO GARIMBERTI IL NUOVO MEDIOEVO CHE BRUCIA SARAJEVO 16 giugno 1992 — pagina 1 NELLA cronaca sulle rischiose avventure d' un convoglio di soccorsi dell' Onu, diretto a Sarajevo, pochi giorni fa si leggeva che un ufficiale di scorta neozelandese avrebbe concluso sfiduciato: "No, non siamo i benvenuti, qui vogliono solo farsi la loro guerra in santa pace". Altre cronache descrivono una guerra di tutti contro tutti fra la Drina e la Miljacka, reggimenti serbo-montenegrini che si chiamano ancora federali ma operano come corpi di spedizione oltre frontiera, guerriglieri di Radovan Karadzic, irregolari cetnici, soldatesche bosniache di fede musulmana, milizie croate, colonne di profughi. E poi, malgrado qualsiasi tregua, bande di predoni o compagnie di ventura nei villaggi abbandonati. Medioevo a Sarajevo? Manca soltanto la peste nera. Nessuno può sapere come finirà il migliaio di soldati dell' Onu che Boutros Ghali deve mandare a Sarajevo con il compito di presidiare l' aeroporto, assicurare l' afflusso di viveri e farmaci, sgombrare i feriti. Con i soli "caschi blu", l' Onu può testimoniare una labile o stabile tregua in atto, ma non imporre la cessazione del fuoco. Il Consiglio di Sicurezza spera nell' efficacia della risoluzione 757 approvata il 30 maggio, quella delle sanzioni contro la Serbia espansionistica di Milosevic, che mediante l' embargo petrolifero potrà impedire o almeno limitare l' impiego di aerei e mezzi corazzati. Ma il successo dell' iniziativa, finché non saranno esaurite le riserve di carburanti, chiederà tempo. CHE ALTRO fare? Margaret Thatcher si domanda perché, dinanzi ai bombardamenti su Dubrovnik, neanche una portaerei nell' Adriatico abbia offerto ai difensori assediati una copertura simile a quella già concessa per proteggere i curdi nell' Iraq. Theo Sommer, su Die Zeit, ha proposto rappresaglie contro le basi dalle quali partono le aggressioni dell' apparato militare di Milosevic. Ma oltre qualche intervento misurato e circoscritto, non è consigliabile coinvolgere la comunità internazionale in questa guerra, per molte ragioni. Non c' è un fronte, ma una pluralità di fronti nel groviglio delle dislocazioni etniche imbastito dalla storia sul territorio di quella nazione inventata che fu la Jugoslavia, neanche tutta slava, dopo il crollo dell' impero turco- ottomano e di quello austroasburgico. Il teatro degli eventi è una mappa di guerriglia "a macchie di leopardo", laddove è inconcepibile un' operazione del genere Desert Storm. Qualsiasi intervento su larga scala sarebbe un azzardo avventuroso, una replica mista della doppia esperienza vietnamita e libanese fra terrorismi e imboscate, provocazioni e ritorsioni, errori e inevitabili corresponsabilità in massacri e deportazioni, senza la prospettiva di tirarsene fuori chissà per quanto tempo. E poi, quale sarebbe la coalizione di forze internazionali pronte a operare come braccio armato dell' Onu? I vicini d' Europa, italiani o tedeschi e austriaci, non possono intervenire affatto. Sarebbero accusati d' espansionismo recidivo, dopo la loro invasione della Jugoslavia nell' ultima guerra mondiale. Russi, cecoslovacchi e gli altri europei orientali sono già impegnati a controllare le loro vertenze interetniche. Americani, britannici e francesi, benché più lontani, sarebbero legittimati oltreché attrezzati, ma temono che l' intervento potrebbe soverchiare i limiti dell' impresa umanitaria, valutano i rischi e non considerano i Balcani come una regione d' interesse strategico. Fra il Danubio, la Sava e la Drina, dopo tutto non c' è nessun arsenale di armi chimiche, né un laboratorio di ordigni nucleari. Anche se Slobodan Milosevic può somigliare a Saddam Hussein, da Belgrado non affiora una minaccia di missili strategici. Là non c' è neanche il petrolio e non insorge nei Balcani come nel Golfo Persico nessun problema d' accesso alle fonti energetiche, una questione che nel mondo contemporaneo ha lo stesso valore della decisiva "libertà di navigazione" in altri tempi. Ogni stupore e scandalo, dinanzi a simili considerazioni, sarebbe ipocrita e futile. Così è la minima logica della Realpolitìk, insopprimibile oggi come sempre. Anzi, Bush, Major e Mitterrand hanno sicuramente più ragione di Bismark un secolo fa, quando asseriva che "i Balcani non valgono la vita d' un solo granatiere di Pomerania". L' Onu e le diplomazie occidentali, è vero, hanno indugiato troppo a lungo dinanzi alla necessità di riconoscere nell' espansionismo di Belgrado le responsabilità maggiori d' una guerra oscena, che non fa prigionieri, che rade al suolo Vukovar e Sarajevo, che nei bombardamenti su Dubrovnik non ha risparmiato niente, popolazione, mura normanne, monumenti veneziani. Basta ricordare che i militaristi della "grande Serbia", negli ultimi tempi, hanno aggredito tutti. Prima il Kosovo con una spietata repressione, poi la Slovenia con la fallita offensiva del generale Adzic, quindi la Croazia, infine la Bosnia. Ma il ritardo dell' Onu, come quello delle diplomazie occidentali, pare in larga misura spiegabile o inevitabile. Non era semplice misurare le ragioni e i torti nell' intricato labirinto della Jugoslavia in sfacelo, fra piani d' annessione o "cantonalizzazione". Per esempio, dinanzi alle vertenze interetniche di regioni come la Kraijna, la Banija, la Slavonia, dove neanche i croati erano e sono innocenti. Oppure, dinanzi al mosaico etnico della Bosnia- Erzegovina, 39,5 per cento musulmano, 32 serbo e ortodosso, 18,4 croato e cattolico. Non era semplice neanche prendere decisioni operative, in un contesto che malgrado tutto non minaccia l' equilibrio internazionale. L' acceso nazionalismo storico dei serbi può evocare catastrofi e rimane celebre giacché fu causa occasionale della guerra ' 14-' 18 con l' assassinio a Sarajevo dell' arciduca Francesco Ferdinando d' Austria per mano dello studente Gavrili Prinzip, affiliato alla fanatica sètta Ujedinjenie ili Smrt. Ma oggi non c' è nessuna effigie imperiale da abbattere, né il pericolo di un' altra guerra mondiale, mentre fra l' altro a Belgrado scendono in piazza gli studenti pacifisti e i fedeli del patriarca ortodosso Pavle. Anche se lo scempio al quale gli europei assistono dura da troppo tempo, non è un' operazione Balkan Storm che può spezzare questa catena di conflitti. Rimane solo da sperare, o aspettare, che l' embargo totale decretato dall' Onu affievolisca la bellicosità dei generali di Belgrado e favorisca l' opposizione crescente al regime di "Slobo" Milosevic. Questo non esclude che intanto qualche portarei nell' Adriatico, secondo il consiglio della "dama di ferro", sarebbe forse un segnale conveniente. di ALBERTO RONCHEY E Putin «premia» il boia di Vukovar Agli ordini di Milosevic Guidò la battaglia che segnò l' inizio delle guerre balcaniche. Accusato da Zagabria di aver ucciso un migliaio di civili, è ricercato dall' Interpol. Il Cremlino l' ha scelto tra i «benemeriti amici» del popolo russo Mandato di cattura 2007/15839. «Cognome: Kadijevic. Nome: Veljko. Sesso: maschile. Data di nascita: 21 novembre 1925 (82 anni). Luogo di nascita: Glavina Donja, Croazia. Lingue parlate: inglese, serbo. Nazionalità: serba. Tipo di reati: crimini di guerra. Ordine d' arresto spiccato per: Bjelovar, Osijek, Vukovar. Se avete notizie su di lui, avvertite la polizia del vostro Paese». Anzi, no: se navigando nel web andate a infrangervi sul sito dell' Interpol, sezione Wanted, schiacciate pure il Canc. Il latitante generale Kadijevic, ultimo ministro della Difesa jugoslavo, «il boia di Vukovar» che tre giudici croati aspettano di processare per un migliaio di civili massacrati, non sarà mai estradato. Fuggito a Mosca tre anni fa, per gentile concessione di Putin è diventato cittadino russo. Quasi senza dirlo: un breve annuncio dell' agenzia Novosti, lunedì, il nome nascosto fra 13 altri benemeriti prescelti dal Cremlino, poi la data del decreto (13 agosto) firmato dal presidente Medvedev e un grato, succinto, obbligato commento: «Ja istinnyj drug russkogo naroda», sono un amico sincero del popolo russo. Amico? Amicone. A Mosca, il generale Kadijevic non ha mai avuto problemi e via via era segnalato nelle dacie di Dimitri Yazov, il generalissimo dell' era gorbacioviana, o a casa dei paperoni serbi che sotto Putin si sono fatti ancora più ricchi, primo fra tutti il fratello dell' ex dittatore Slobodan Milosevic. Avvistato pure in Florida, ex cadetto di un' accademia Usa, qualche dubbio l' hanno fatto sorgere anche i suoi rapporti privilegiati con Washington: durante la guerra in Iraq, Kadijevic sostiene d' essere stato consigliere militare degli americani nella caccia ai saddamisti nascosti. Di sicuro, è un esperto di nascondigli. Una volta il Tribunale dell' Aja provò a convocarlo, solo per testimoniare, e tempo due giorni lui sparì dall' ultimo domicilio conosciuto. Lo scorso novembre, per bocca della ministra per la giustizia, Ana Lovrin, il governo croato disse d' aspettarsi un gesto responsabile dal Cremlino, perché «un mandato d' arresto internazionale è pur sempre un dovere per ogni Paese». Kadijevic chiamò la tv serba e replicò che l' Interpol poteva cercarlo quanto voleva: «A Mosca, il mio status è di rifugiato politico». In realtà, ad aggiornare la pratica, sono bastati il caso Kosovo e quest' anno di nuove tensioni balcaniche, con la Russia che guida una fronda filoserba: «Questa cittadinanza - protesta ora l' ambasciatore croato alla corte di Putin, Bozo Kovacevic - rende quasi impossibile processare il responsabile dei più atroci crimini di guerra commessi in Croazia». Riposino senza pace, giustizia è sfatta. Vukovar, novembre 1991, fu il primo grande massacro dei Balcani. Il primo firmato dai paramilitari serbi del terribile Arkan. Centinaia di cadaveri, le fosse comuni, gli stupri, duecento prigionieri ammassati ed eliminati in un ospedale, donne e vecchi mai più ritrovati. «La Stalingrado croata», episodiochiave d' una guerra d' indipendenza da Belgrado che fra il 1991 e il 1995 fece più di diecimila morti: forse, in tutta l' ex Jugoslavia, nemmeno Mostar ebbe devastazioni così pesanti. Per il sangue di Vukovar, il Tribunale dell' Aja ha già condannato quattro fra alti militari e politici. Vent' anni di carcere. Nell' indifferenza generale, ora si sta processando Vojislav Seselj, il leader radicale serbo che consigliava Milosevic. E il generale Kadijevic? Comandante supremo dell' esercito di Belgrado fino al 1992, fu lo stratega delle guerre in Slovenia e in Croazia. Per i suoi tentativi di coinvolgere subito l' Onu, allora fu giudicato troppo «molle» dai turboserbi e a un certo punto venne pure silurato. In verità, dicono i croati, Kadijevic fu il braccio armato di Milosevic, l' inventore delle Tigri di Arkan: non poteva non sapere. Lui nega. Scarica la colpa dei massacri sui sottoposti. «Dormo tranquillo», ha sempre detto. Chissà ora. Francesco Battistini CRONACA DI UN MASSACRO 22 gennaio 1992 — pagina 13 sezione: POLITICA ESTERA ZAGABRIA - Era il paradiso della natura, con quei sedici laghetti collegati da una serie di fiabesche cascate. Una miniera di valuta pregiata: l' 8% del turismo jugoslavo. Oggi il parco nazionale di Plitvice è peggio dell' inferno: l' inferno di una guerra feroce, barbara, senza pietà. Laggiù l' esercito federale e le bande dei cetnici spadroneggiano incontrollati. Villaggi incendiati. Razzìe. E massacri. Una regione sventurata Proprio ieri radio Croazia ha denunciato l' uccisione di sette abitanti di Smoljanac, uno dei paesi di quella sventurata regione che vanta un triste primato: il primo "incidente" di questo conflitto infame. Giorno di Pasqua del 1991. Vittime, due poliziotti croati, sfortunati pionieri di una lunga serie di agguati, di esecuzioni sommarie, di violenze indescrivibili. La strategia del terrore, applicata sistematicamente dalle formazioni cetniche sotto la compiacente protezione dell' armata jugoslava, si è sviluppata all' inizio in uno dei luoghi più belli e famosi dei Balcani: ed ora, più pericolosi. Già: perché persino quei 16 meravigliosi laghi, "tesoro mondiale dell' Unesco", sarebbero stati minati. E la popolazione croata costretta a fuggire. Ad abbandonare case, terra. Intere comunità deportate, qualche volta sotto "la protezione dell' esercito". Il quale lascia spianata la strada dei villaggi e dei paesi rimasti quasi deserti ai saccheggiatori cetnici: "Si continua a sparare, si continua ad ammazzare", dicono i profughi. Dei vecchi e dei malati che non hanno potuto scappare, non si ha più notizia. Hanno sparato a Zara lunedì alle cinque della sera mentre si svolgevano i funerali di tre soldati croati, caduti oltre la linea del fronte qualche giorno fa. Dal fatidico 3 gennaio, l' inizio dell' ultima tregua, sono 44 le vittime delle violazioni (tredici civili, un bimbo), almeno quelle segnalate in territorio croato. L' inventario delle stragi si precisa e diventa materia giudiziaria, dietro il macabro elenco s' indovina una ben precisa geografia del terrore: lo scenario è quasi sempre lo stesso. Un paese mai grande. L' arrivo degli ufficiali dell' esercito che lanciano ultimatum. Talvolta si scatena un attacco dimostrativo con carri armati e artiglieria, per "convincere" la gente a fuggire. Subito dopo, l' esercito cede il passo alle formazioni irregolari dei cetnici. E' così che si conquista, giorno dopo giorno, la Croazia che dovrà diventare Grande Serbia. Dalj, in Slavonia orientale, lungo la frontiera. Primo agosto 1991. I tank del corpo d' armata di Novj Sad entrano e conquistano la cittadina. I cetnici seguono l' avanzata e fanno piazza pulita: 22 croati massacrati. Chi sopravvive testimonia e racconta che i morti sono di più, che ci sarebbe una fossa comune con altri 18 corpi. Esiste un video agghiacciante che mostra i segni della strage. L' esercito per una settimana isola Dalj dal resto del mondo. Si parla di altre centinaia di vittime. Il risultato di questa "campagna" è una fuga contagiosa della popolazione di orgine croata dagli altri paesi della regione. Lovinac, nella regione di Lika, vicino Gospic. Cinque di agosto. Cinque contadini spariscono nel nulla. Li ritrovano dieci giorni dopo, dentro un fosso. Massacrati. Lovinac era l' unico paese croato in questa parte della Lika, circondato da villaggi abitati da serbi. Per due mesi i cittadini di Lovinac restano isolati, ma tengono duro: poi, una notte, in ottocento prendono la strada del monte Velebit. Un esodo. La loro fuga diventa leggenda. Kraljevcani, in Banja, 14 agosto. Cinque irriducibili contadini che non hanno abbandonato le loro case sono ammazzati. Berak, non lontano da Vukovar, 2 settembre. Alle 8 e 30 i carri armati federali si infilano su un campo minato dai loro alleati cetnici. La reazione all' errore è furibonda e selvaggia: mitragliano il villaggio, una strage di cui ancora non si sa esattamente l' entità: 40 abitanti dispersi. Cetekovac, vicino Podravska Slatina, lungo la strada che da Bjelovar porta ad Osijek, 3 settembre. Ventun corpi mutilati orrendamente. Komarev, sotto Sisak, 26 settembre. Strage mancata: 29 civili feriti dalle bombe a frammentazione. Non è il solo caso, ma è l' episodio più clamoroso. Siroka Kula, nella Lika, fine settembre. I cetnici uccidono 10 donne, una bimba e due novantenni. E li bruciano. Esecuzioni in massa Lovas, Slavonia orientale, 17 ottobre, un paese prevalentemente abitato da magiari. I cetnici obbligano tutti gli uomini a formare una catena umana e a camminare sui campi minati. 18 morti, 12 feriti. Bukovac, Lika, stesso giorno. Sette contadini uccisi e mutilati. Ravno, in Erzegovina. Fine ottobre: quel che succede è avvolto nel mistero. E' un paese croato. Il dottore Ejub Ganic, quando finalmente riesce a mettervi piede, a capo di una commissione, commenta: "E' terribile". I cetnici hanno fatto cucina nella chiesa cattolica e sull' altare hanno sgozzato i prigionieri. Esecuzioni in massa Petrinja, oltre il fiume Kupa, il 4 novembre esecuzione in massa di 76 civili. L' 8 novembre stessa sorte per altri 42. Di questi, massacrati sedici bambini. Klanjec, nel municipio di Slun, a nord di Plitvice, 11 novembre. Trovati i corpi di venti croati. Tovarnik, vicino Vukovar. A metà novembre, lungo la strada percorsa dai tanks serbi diretti alla "Stalingrado croata", vengono giustiziati ottanta civili. Saborsko, regione di Plitvice. Diciannove vecchi impiccati. Skabrnje, entroterra di Zara, altra regione nelle mire dei centomila miliziani di Milan Babic, il presidente della Krajina. Diciannove novembre. Raid cetnico. Atrocità e nefandezze: 45 vittime, vecchi, donne, bambini. L' orrore spinge alla fuga migliaia di persone. Vocin, pochi chilometri da Podravska Slatina. 39 abitanti massacrati ai primi di dicembre. Corpi carbonizzati. Teste mozzate. Occhi cavati. Siamo ai primi di dicembre, e finalmente l' opinione pubblica mondiale prende atto che la guerra dei cetnici, così come quella di chi li arma e protegge, è una guerra di bestie. Quando il 20 di dicembre si legge che a Bruska, vicino Benkovac, la famiglia Marinovic (10 persone, 9 croati e un congiunto serbo) viene sterminata mentre cenava, sono già all' opera le commissioni internazionali. E Belgrado capisce che non può più "coprire" i responsabili di simili atrocità. - dal nostro inviato LEONARDO COEN Belgrado, arrestato criminale di guerra 13 giugno 2003 — pagina 19 sezione: POLITICA ESTERA BELGRADO - Nonostante l' assedio di una folla ostile, la polizia serba anti-terrorismo ha catturato, ieri notte, il colonnello Veselin Sljivancanin, da due anni latitante. Sljivancanin, membro della famigerata «trojka di Vukovar», responsabile nel 1991 del massacro di oltre 200 civili croati in un ospedale, era il terzo grande ricercato dal Tribunale penale internazionale, dopo i leader serbo-bosniaci Radovan Karadzic e Ratko Mladic. Dispersi i dimostranti, la polizia è entrata nel palazzo con tre blindati. Gli agenti hanno arrestato l' ufficiale in congedo, tornato a Belgrado, a quanto pare, per festeggiare il suo cinquantesimo compleanno. Pozzanghere Api e girasoli 14 agosto 2001 — pagina 34 sezione: CULTURA Vukovar, oggi si cambia mondo, si va in Serbia sotto un cielo basso, quasi tedesco. Campi di girasole giallo elettrico, coperti da milioni di api. Il sole ci sveglia presto, il Danubio ci dà la direzione: Novi Sad, la città magica delle cento etnie e dei grandi ponti abbattuti. Novi Sad e la fortezza di Petrovaradin, a picco sul grande fiume d' Europa. Altan spinge in silenzio, la riva destra è lungo un tavolato regolare. Voli, una trentina di metri sopra il fiume, ma ogni tanto precipiti in una valletta scavata da torrenti che qui, sposandosi col Danubio, conquistano il rango di affluenti. In fondo alla discesa, villaggi dimenticati, acquattati sulla confluenza, stretti da strapiombi cariati e pieni di uccelli. La gente ci saluta, qualcuno vede dall' abbigliamento che siamo italiani e ci dice buon viaggio nella nostra lingua, poi risaliamo sul tavolato con rampe brevi e durissime, fino al dieci per cento. Il vento dice che sta per piovere, odore dolciastro di fieno bagnato, lontano c' è la Serbia con la Fruska Gora, un mondo segreto di colline e monasteri ortodossi. Lassù, dieci anni fa, uno sconosciuto ufficiale di nome Ratko Mladic si preparò all' assedio di Sarajevo comandando i tiri sulla Croazia. Ormai piove forte; la frontiera di Ilok è vicinissima. Non ci fermiamo, Emilio e Francesco, ciclisti esperti, insistono che semmai è tempo di accelerare per non raffreddare i muscoli. Il confine è vuoto, la dogana croata ci controlla con sufficienza, poi è il ponte, lunghissimo, un ponte grigio, da guerra fredda, da scambi di spie in un libro di Le Carré. Vola sopra un Danubio anch' esso grigio con smagliature color malva, improvvisamente lento. «Benvenuti in Jugoslavia» sta scritto in cirillico davanti ai container della polizia serba, scalcagnati, quasi sudamericani. Non c' è una tettoia, sotto il diluvio aspettiamo i passaporti con calma già islamica. Di colpo, ci cade addosso tutta la trasandatezza serba dopo l' attivismo dei croati. Le lingue dei due popoli sono quasi la stessa cosa, ma il nome del pane, per esempio, cambia, e in quel cambiamento c' è già l' Oriente. Non si dice più «Kruha», la parola dura da cui nacque in Italia il nomignolo «crucchi», per definire i soldati dell' AustriaUngheria, affamati e allo sbando dopo la rotta del Piave. Si dice «Hleb», un nome che non sa più di disciplina e fatica, ma di dolcezza e benedizione. Pioggia pannonica, la strada è orribile, piena di fango. I camion ci sfiorano, ma quando piove così il ciclista non se ne accorge. Si chiude in un guscio psicologico che lo protegge, entra in un tunnel. Buca, buca con acqua, acqua con nascosta buca: è una LiegiBastogneLiegi che ci trasforma in piccoli Learco Guerra, coperti di fango dalla testa ai piedi. All' inizio Altan evita le pozzanghere ma poi, chissenefrega, il bambino che è in lui prende il sopravvento e la bici le centra tutte con gioia primordiale. Ormai siamo lanciati, la corsa è una migrazione, un romanzo di Crnjanski, uno sfondamento armato dietro ai turchi in rotta verso Belgrado. Si va in un' aureola d' acqua e il nostro andare è una riabilitazione di uno sport che ha ucciso la leggenda, sputtanandosi per troppo denaro. Davanti, Emilio, con l' occhio del campesino che mastica coca. Dietro, Altan, silenzioso, criniera argento come un Re Leone nella savana, sogna le sue floride dee madri. In mezzo, il pazzo che li segue, alla ricerca dei luoghi di Danilo Kis, lo scrittore un po' folle di questa terra di zingari, acque e violini. Il tunnel d' acqua finisce, comincia la periferia di Novi Sad, con case orrende di emigranti e nuovi ricchi, vie di mezzo tra mausolei staliniani e Gasthaus tedesche. Ma poi comincia la città magica, le guglie a meringa, le bellezze a spasso come puledri. Vanno con quella speciale andatura slava, eretta e caracollante. Dicono ai signori delle pulizie etniche: avete ucciso per nulla, la razza mista è la migliore. Con lo sguardo, ti porgono un' ovvietà: in una terra di machos in continua fregola bellica, la salvezza sta nella donna, nel grande matriarcato danubiano. Ci guardano con curiosità. Siamo irriconoscibili, talmente coperti di fango che una piccola zingara non osa chiederci elemosine. Ci guarda come paralizzata. Pensa: strani questi ricchi che amano lo sporco, non ne ho mai visti prima. Smontiamo, le bici sono incrostate di limo, la mia pesa il doppio perché l' acqua ha inzuppato sacche e vestiti. La stanza d' albergo diventa uno stenditoio di fortuna, con mutande e calzini appesi dalle finestre al bagno. Tutto è molto comico, anche perché nel frattempo è uscito un gran sole. Il regista Zelimir Zilnik, che ci porta a cena, ride di cuore di questo nostro andare a Oriente mentre tutta la Jugoslavia tenta di sfuggirgli. «Sretan put italiani, dobri ljudi», ci saluta con un calice di rosso lo scrittore Aleksandar Tisma. Buon viaggio italiani brava gente. -paolo rumiz La prima sfida della nuova Serbia contro i fantasmi del passato 27 dicembre 2000 — pagina 10 sezione: POLITICA ESTERA PER TRE MESI le diplomazie europee hanno offerto alla Serbia di Kostunica riconoscimenti internazionali, finanziamenti sull' unghia e un sostegno entusiasta. Quest' apertura di credito illimitato è stata saggia e bene ha fatto l' Italia a distinguersi per benevolenza fin dal primissimo minuto. L' ex opposizione probabilmente non avrebbe vinto in misura così larga se l' Unione europea e la stessa Nato non avessero sottolineato in ogni modo all' elettorato serbo i vantaggi cospicui che avrebbe ricavato voltando le spalle a Milosevic. Ma annichilito il vecchio regime e insediato un governo democratico, ora sarebbe giusto porre fine alla luna di miele e avvertire Belgrado che non potrà più attendersi trattamenti di favore assoluto. D' ora in poi sia la nuova Serbia a dimostrare nei fatti d' essere realmente nuova. La questione è se e in che modo la Serbia farà i conti con il proprio passato. Riflettere sulle proprie colpe non è più di moda in Europa, figuriamoci tra gli slavi del sud, che per tutto il Novecento si sono sistematicamente assolti per i massacri di cui, oltre ad essere vittime, furono anche protagonisti. Chi rilegga le corrispondenze di John Reed dai Balcani durante la prima guerra mondiale, ritroverà la stessa disponibilità alla "pulizia etnica" che i nazionalismi ex jugoslavi riproposero nell' ultimo decennio. Questa spaventosa ripetitività della storia non è obbligata da culture proclivi allo sterminio, come in genere ritiene l' opinione pubblica europea, ma dal fatto che nell' ex Jugoslavia lo sterminio in sé non è mai stato sanzionato, se non con uno sterminio opposto e simmetrico. Il risultato che è gli slavi del sud hanno una consapevolezza vivida dei crimini subiti, ma nessuna o scarsa dei crimini di cui sono stati responsabili. Quanto più atroci le violenze commesse, tanto più stentoreo il vittimismo difensivo che cerca di occultarle agli altri e a se stessi. La Serbia si è liberata di un nazionalismo che condivideva con quello croato le colpe maggiori. Ma se in futuro non troverà il coraggio per sanzionare i crimini, non sarà mai un compiuto stato di diritto, e cioè non sarà autenticamente una democrazia liberale. Come arrivare a quest' ammissione di colpa, ecco il problema. In un' intervista recente Kostunica ha alluso ai crimini commessi durante l' era di Milosevic, di cui avvertiva, disse, il peso morale. La sua è stata una sortita coraggiosa e senza precedenti: ma non ha avuto seguiti. Permangono ostacoli obiettivi. Se Belgrado ammettesse, per esempio, che Milosevic organizzò, finanziò e armò le milizie del generale Mladic, con l' obiettivo di spaccare la Bosnia e spartirla con la Croazia di Tudjman, si condannerebbe a pagare i danni di guerra, verosimilmente una somma astronomica. Inoltre la traiettoria del vecchio regime intereseca le traiettorie personali di non pochi tra i leader dei 18 partiti che formano il cartello dell' ex opposizione (per esempio il generale Perisic: durante la guerra bosniaca comandava la piazza di Mostar). Infine la nuova maggioranza in genere avversa l' idea di consegnare Milosevic al Tribunale dell' Aja, per una questione di principio e per il fondato timore che la Serbia risulti arbitrariamente l' unica, grande responsabile della carneficina nell' ex Jugoslavia. Si preferirebbe processare Milosevic a Belgrado. E non per ciò che avvenne a Vukovar, in Bosnia, in Kosovo: per malversazioni, annuncia il futuro primo ministro serbo, Zoran Djindjic. Questa sarebbe una via d' uscita davvero singolare. Una condanna che consegnasse Milosevic alla galera forse esaudirebbe un certo senso etico, ma non è questo che serve alla Serbia se vuole fare i conti con il proprio passato. La storia dell' ex Jugoslavia nell' ultimo decennio non è esattamente la vicenda di una tangentopoli del Levante. Le malversazioni - una colpa da cui peraltro non sembrano immuni alcuni partiti dell' ex opposizione, amministratori allegri di municipi serbi - sono un dettaglio nella carriera politica di Milosevic. E Milosevic non fu l' unico colpevole di quanto avvenne. Si potrebbe perfino sostenere che, almeno all' inizio, egli fu ciò che il suo popolo gli chiedeva d' essere. Sia la nuova Serbia a trovare il modo più opportuno per guardarsi allo specchio. Ma lo trovi. E' nel suo interesse. Ha il favore dei venti, un presidente saggio, un' Europa bendisposta. Ha esordito nel migliore dei modi, con una vittoria elettorale larga seguita da una decisione apprezzata: Belgrado ha rimosso i due comandanti dell' esercito in Montenegro e disciolto la brigata para- militare costituita l' anno scorso, quando Milosevic pareva sul punto affidarsi alle armi per riprendere il controllo della repubblica gemella. Adesso il presidente montenegrino, Djukanovic, non ha più alcun pretesto per paralizzare il vertice federale o per chiedere solidarietà in Occidente. Altrettanto saggia è stata in queste settimane la condotta di Belgrado nella valle di Presevo, occupata da milizie di un secessionismo albanese che con queste avventure sta dilapidando il credito di cui godeva in Europa. La Nato ora potrebbe rinegoziare l' armistizio che chiuse la guerra del Kosovo, per venire incontro alle necessità di sicurezza di Belgrado nella zona-tampone. L' Alleanza non considera più la Serbia il nemico, ruolo che in qualche modo potrebbe essere trasferirsi alla guerriglia albanese. In altre parole, saggezza e coraggio politico pagano. La nuova Serbia dimostri le stesse qualità anche nel misurarsi con la propria storia. - di GUIDO RAMPOLDI Stupri di gruppo e torture pianificò la pulizia sessuale 14 ottobre 2000 — pagina 17 sezione: POLITICA ESTERA GIRAVA per Foca con la bomba legata alla cintola. Se i militari della Sfor volevano incontrarlo non avevano che passare la mattina in uno dei tre caffé sul piazzale della stazione, il "Mercur", il "Passager" e il "Krsma". Janko Janjic, 43 anni, era lì con i suoi amici, temuto e riverito da tutti. Se passava, cauta, una pattuglia di francesi delle truppe di pace (che controllano il sudest della Bosnia) Janko si alzava la t-shirt per far vedere la bomba: non mi prenderete vivo, era il messaggio che era allo stesso tempo una minaccia: anche voi rischierete la pelle. Nel ' 97 offrì di raccontare i crimini che aveva commesso alla Cbs. "Per 5.000 marchi (5 milioni in lire) vi racconto tutto. Come gli ho tagliato la gola, come li ho uccisi e gli tolto gli occhi. Mi potete registrare", aveva detto con tracotanza a un reporter che nascondeva una piccola camera. Foca, una piccola città sulla Drina a 70 chilometri a sudest di Sarajevo, fu la prima in cui i serbi attuarono il loro piano di massacri contro i loro concittadini musulmani, che fino al ' 92 erano stati la maggioranza della popolazione. Il piano era semplice: uccidi il tuo vicino e stupra le donne. Tutto perfettamente organizzato, hanno raccontato le vittime al Tribunale dell' Aja. "C' era un gruppo che uccideva e uno che stuprava". I musulmani furono colti di sorpresa. Tanto incredibile sembrava che i vicini massacrassero così brutalmente i propri vicini che a Sarajevo, quando arrivarono le prime donne scampate ai massacri e agli stupri, e raccontarono che cosa succedeva a Foca, anche i bosniaci musulmani stentarono a crederle. Intere famiglie furono massacrate mentre guardavano la tv dopo cena. Nella cittadina tutti si conoscevano. C' erano due fabbriche tessili e un paio di segherie dove lavorava l' intera popolazione. Il 6 agosto del ' 92 - ha raccontato la testimone "Fws 87" (l' identità delle testimoni è tenuta protetta dal Tribunale)- sei cetnici, tra i quali il suo fidanzato e un vicino di casa entrarono nel suo appartamento e in quelli di altre vicine e le arrestarono. In tutto 12 donne e 6 bambini. Lei e altre 6 donne furono portate in un centro sportivo vicino alla stazione di polizia. Il suo primo stupratore fu uno che lei conosceva, un operaio alla fabbrica di calzini.Le puntò il fucile al petto e le disse: ora ti stupro e se gridi ti uccido. Poi tutti gli altri violentarono le donne a turno. Fu solo l' inizio. Quattordici giovani donne musulmane come lei, dai 15 ai 30 anni, furono tenute come schiave a Foca dagli 8 incriminati per più di un anno, in un incubo di stupri, sevizie, violenze di gruppo, bordelli per i bulli di paese che si erano trasformati in miliziani. Le più giovani furono tenute in un bordello riservato ai "Cacciatori di Vukovar", una truppa d' assalto e poi vendute nel ' 93 a soldati montenegrini. Janko Janjic, meccanico, era il vicecomandante delle truppe paramilitari. Era accusato, insieme ad altri 7 tra poliziotti e paramilitari di Foca, di genocidio e stupro dal Tribunale dell' Aja. La tragedia delle donne di Foca è stata considerata un caso emblematico dai giudici dell' Aja, che hanno definito formalmente per la prima volta lo stupro un crimine di guerra e contro l' umanità. "Questo è un processo su donne e ragazze, alcune di appena 12 anni, che furono sottoposte a atrocità inimmaginabibili. Trattate come bestie e stuprate dai loro aguzzini. Quello che le donne musulmane di Foca dovettero subire fu loro inflitto a causa della loro appartenenza a un' etnia, alla loro religione, e al loro essere donne", disse il procuratore Dirk Ryneveld all' apertura del processo contro 3 degli 8 accusati il 3 marzo di quest' anno. Secondo le stime europee, le donne stuprate in Bosnia sono state 20.000, il governo bosniaco parla di 50.000. Fino al ' 99 gli 8 incriminati avevano vissuto tranquilli a Foca, nonostante la presenza della Sfor che in teoria aveva il compito di arrestare i criminali di guerra. Nei cinque anni passato dall' accordo di Dayton, che dava diritto ai profughi di tornare nelle case da cui erano stati espulsi, nessuna famiglia musulmana ha fatto ritorno nella cittadina. Qualche centinaio di famiglie si è ristabilita nei villaggi vicini ma a Foca nessuno ha osato rimetter piede, terrorizzato dai criminali che giravano liberi per la città. Nel gennaio del ' 99 i francesi della Sfor uccisero Gradan Gagovic, ex capo della polizia di Foca e primo nella lista degli incriminati. Nel tentativo di sottrarsi all' arresto Gagovic aveva cercato di forzare con la macchina il posto di blocco. Dopo la sua morte una folla di cittadini inferociti avevano dato l' assalto alla sede della polizia civile dell' Onu ferendo gravemente 5 poliziotti e devastando i locali. L' ufficio della polizia Onu dovette essere evacuato per diversi mesi. Altri due, Radomir Kovac e Zoran Vukovic, furono arrestati qualche tempo dopo mentre un terzo, Dragoljub Kunarac, si è consegnato volontariamente al Tribunale dell' Aja. Tutti si sono dichiarati innocenti. Tre restano ancora in libertà. Anche Janjic ha tentato di far esplodere la bomba che teneva alla cintola ma è morto nell' esplosione. - di VANNA VANNUCCINI LA SERBIA RITORNA IN EUROPA 06 ottobre 2000 — pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA LA Serbia è rinata ieri nelle piazze di Belgrado. Una Serbia che temevamo non ci fosse più. Ma che alla prova estrema - letteralmente al bivio tra la vita e la morte - ha riscattato i dieci anni più oscuri della sua storia. Non sappiamo come si concluderà la parabola dell' ormai ex presidente jugoslavo. Ma il suo popolo lo ha rinnegato, con la rabbia disperata di chi sentiva di non avere altra scelta. Con Kostunica e contro Milosevic è scesa in campo una nazione che nelle guerre di Croazia, Bosnia e Kosovo è stata associata agli orrori più bassi. Ora tutti sappiamo che la Serbia non era solo né soprattutto Mladic e Karadzic, e nemmeno Milosevic. La storia giudicherà le responsabilità della nazione serba e dei suoi capi nelle guerre di successione jugoslava, giunte forse al termine. Dopo la morte di Tudjman che ha riportato la Croazia nel consesso civile, l' agonia politica di Milosevic ci permette di sperare che stia per chiudersi l' orribile parentesi di sangue che da Vukovar a Pristina ha sconvolto i Balcani. CON l' atto supremo della rivolta contro il maggiore certo non l' unico - responsabile di quelle tragedie, i serbi hanno cominciato a ricostruire il sentiero interrotto che un giorno li congiungerà all' Europa. Una sorpresa, per chi non aveva conosciuto la Belgrado vivace, cosmopolita e filoccidentale di prima della guerra. Il sacrificio di migliaia di giovani mandati a morire in guerre tanto feroci quanto inutili, la diaspora di almeno mezzo milione di cittadini in fuga da un paese ridotto a buco nero, il coraggio di pochi onesti oppositori che non hanno mai accettato le lusinghe del regime - tutto questo sembrava inutile. Fino a ieri, quando è esplosa incontenibile la ribellione contro il voto prima truccato e poi sequestrato da Milosevic. Certo, non è il caso di illudersi che l' imminente resa dell' ormai ex presidente jugoslavo significhi la fine della questione balcanica. Colpi di coda del regime non sono impossibili. Quanto alla "Serbia libera" evocata da Kostunica deve ancora strutturarsi e decidere che cosa fare di se stessa. E non tutti nei Balcani stanno festeggiando. A cominciare dagli estremisti kosovari e montenegrini che avevano in Milosevic uno straordinario nemico/complice, che per il solo fatto di esistere schierava la Nato al loro fianco. Come reagiranno adesso che restano soli a rivendicare la loro indipendenza? Quanto a Kostunica, non sarà un interlocutore di comodo. A differenza di Milosevic, interessato anzitutto al potere suo e della sua famiglia, egli ha a cuore l' interesse del suo paese. E' un nazionalista a tutto tondo, per quanto democratico. Ci vorrà ancora qualche tempo per misurarne le intenzioni e le capacità. Ma da ieri si può ricominciare a sperare. Non è poco, in un paese e in una regione apparentemente senza prospettive. La sconfitta dell' ex "volpe dei Balcani" ha una dimensione nascosta quanto decisiva. Fondamentale per il successo dell' opposizione è lo sgretolamento del regime, il cui perno è rappresentato dai centomila poliziotti speciali del ministero dell' Interno, dotati di un budget sei volte superiore a quello delle Forze armate. Enormi crepe si sono aperte anche fra i pretoriani. Senza di loro, Milosevic non può sopravvivere. Queste forze non erano deputate a proteggere solo la famiglia dell' ormai ex padrone della Serbia e i suoi alleati, molti dei quali vivevano da tempo con le valigie in mano. Erano la punta di lancia delle bande che hanno imperversato in Serbia nell' ultimo decennio. Nel campo governativo, ma anche in quello di alcuni veri o presunti leader dell' opposizione (Djindjic, Draskovic), dopo le guerre e le sanzioni è difficile discernere tra politica e criminalità organizzata. La scena jugoslava è occupata da gruppi di potere più o meno legati alle mafie russe o ucraine, che negli ultimi anni si sono combattuti senza esclusione di colpi per il controllo dei traffici (sigarette, droga, prostituzione). Una lunga scia di attentati che dall' assassinio del capo dei servizi segreti serbi nel caffè Mama Mia (1997), fino a quelli di Arkan e del ministro della Difesa Pavle Bulatovic, ha stretto Milosevic nel cerchio di sangue che lo sta soffocando. Milosevic è in una morsa. Da una parte, la rivolta popolare. Dall' altra, il regime in liquefazione. Due braccia di una tenaglia alla quale Milosevic non sembra poter sfuggire. Tempi e modi di questa fine di regno saranno dettati dalla volontà di un popolo che non ha più nulla da perdere, ma soprattutto dalla velocità con cui la più intima cerchia di potere abbandonerà un capo ormai finito. Subito dopo la sconfitta elettorale, infatti, anche i più servili fra gli uomini di Milosevic avevano allacciato discreti contatti con il fronte delle opposizioni, trattando salvacondotti e garanzie. Poteva funzionare in una logica da colpo di palazzo. Non a rivoluzione popolare in corso. Da oggi si riaprono tutti i giochi politici. Anche nell' opposizione, dove c' è urgente bisogno di facce nuove e fresche intorno all' onesto Kostunica. Per l' Occidente, è il momento della discrezione. L' opposizione ha fatto sapere a europei e americani che il miglior modo di aiutarla è tenere un profilo basso. Kostunica non è e non vuole sembrare il nostro uomo a Belgrado. Non dimentichiamo che la Serbia è pressoché unanime contro la Nato. E non solo a causa dei bombardamenti o delle sanzioni, che oltre a colpire la povera gente hanno prolungato artificialmente la vita del regime, offrendogli un alibi. Lo stesso Kostunica ripete a ogni occasione che il Tribunale dell' Aja non ha alcun titolo per giudicare Milosevic. Perfino l' inviato speciale dell' Onu nei Balcani, Dienstbier, si era spinto fino a proporre l' immunità per l' ex leader di Belgrado in cambio delle sue dimissioni, ipotesi fermamente respinta dalla signora Del Ponte. A sciogliere questo nodo potrebbe essere domani il popolo serbo. Sempre che non voglia seguire i suoi genitori in un' estrema pulsione suicida, del resto coerente al suo percorso politico, l' ex uomo forte di Belgrado potrebbe finire un giorno davanti a un tribunale del suo paese. I serbi si stanno guadagnando in queste ore il diritto di decidere sull' uomo che, insieme a molti altri, li ha portati alla rovina. - di LUCIO CARACCIOLO NOI E QUELLA GUERRA 19 marzo 1997 — pagina 40 sezione: SPETTACOLI E TV LA guerra di Bosnia è finita già da qualche tempo. E' ampiamente possibile che ricominci, ma sarà un' altra storia, una nuova storia, peggiore della precedente. Così l' ex Jugoslavia è uscita dalle conversazioni. Le rare volte che capita di riparlarne, si ascolta sempre l' antico ritornello. "Una guerra rimasta indecifrabile". "Una guerra che i media hanno distorto, semplificato, occultando una realtà ben più complessa". "Una guerra di cui mi sono disinteressato, perche non ci ho capito nulla e di certo i giornali non mi hanno aiutato a vederci chiaro". "Un susseguirsi di cartine pasticciate, divise in due o tre diverse tonalità di grigio, ma quella certo non era una spiegazione". In queste frasi-tipo e nelle loro infinite variazioni si riassume il senso comune sul conflitto che per quattro anni, dall' estate 1991 all' estate 1995, ha insanguinato l' ex Jugoslavia. Sono frasi che ci accomunano tutti: o le abbiamo pronunciate, o le abbiamo ascoltate, o le abbiamo subite. Il carniere, il bel film di Maurizio Zaccaro recensito ieri da Irene Bignardi, parla di questo. Non tanto della guerra, quanto di noi di fronte a quella guerra. Noi consumatori d' informazione, noi europei, ma soprattutto noi italiani, che dell' ex Jugoslavia siamo i distratti vicini, gli ignoranti dirimpettai, i visitatori in barca a vela o vestiti da caccia. I protagonisti del film sono appunto gli ultimi vacanzieri, fuori tempo massimo. Quando scoprono che la vacanza è finita il riflesso è scappare, molto prima, molto più di capire che diavolo stia accadendo. Il tentativo di comprensione arriva dopo, troppo tardi, nel mezzo della battaglia, quando l' unica cosa che conta ormai è salvarsi. Si salveranno, anzi saranno salvati, senza capirci niente. Nel linguaggio basico della sopravvivenza balcanica - "problema", "nema problema" - loro diventeranno un problema aggiuntivo. "Ho un problema", dice Rada quando si rivolge ai suoi consanguinei in cerca di una via d' uscita dalla città per i tre italiani. Anche questo è allegorico di una verità più vasta: avremmo potuto forse essere d' aiuto, in qualche modo, e invece siamo stati solo una complicazione in più. Buoni, per carità, come il personaggio di Renzo, che respinge la tentazione di rispondere al fuoco. Forse così buoni da risultare inutili, anzi d' impiccio. In apparenza Il carniere si compiace nella tesi dell' incomprensibilità della guerra ex jugoslava. Il film finisce e non sappiamo nemmeno in che città s' è svolta la vicenda. Potrebbe essere Sarajevo, Vukovar, Osjek. Non sappiamo chi spara e chi risponde al fuoco. Non sappiamo a quale nazionalità appartengano i personaggi slavi che ci sfilano davanti, se siano serbi, croati, musulmani. Ci aggrappiamo alla domanda del protagonista a Rada: "Ma tu, da che parte stai?". Però non c' è risposta. Ma questa è solo apparenza. In realtà, Il carniere è chiarissimo e dice quanto basta per capire. C' è chi spara e chi soccombe. Chi inquadra nel mirino e chi fugge. Il cecchino e il profugo. Il miliziano e il civile. Questo è tutto quel che occorre sapere. La guerra della ex Jugoslavia è stata tra chi l' ha voluta e chi non l' ha voluta. Tra gli "idioti" appostati sulle colline - così li chiamava nelle sue cronache da Sarajevo assediata Zlatko Dizdarevic - e le persone normali come lui, come voi, come me. Questo era tutto. Non era difficile capire. Bastava volerlo. Bastava saper guardare. Come impara a fare il personaggio interpretato da Leo Gullotta, unico eroe positivo in questo film sull' amarezza di un' occasione perduta. -Pietro Veronese STORIE DI VITE SPEZZATE PER SEMPRE 13 maggio 1996 — pagina 10 sezione: MONDO SARAJEVO - Un autobus preceduto da una camionetta bianca dell' Alto commissariato dell' Onu per i profughi (Unhcr) ha cercato sabato di rompere le barriere psicologiche che ancora bloccano in Bosnia i rapporti tra serbi, musulmani e croati. Per due volte ha collegato il sobborgo di Ilijdza, sotto controllo governativo, e quello serbo di Lukavica. Da oggi il servizio sarà regolare, quattro volte al giorno. E' la prima di cinque linee speciali in tutta la Bosnia con le quali l' Alto commissariato cerca di smuovere le acque di una partizione del paese che resiste a tutte le razionalizzazioni degli accordi di Dayton. Lo Unhcr ha l' incarico di riportare a casa i due milioni e mezzo di profughi e di sfollati prodotti dalla guerra. Ma le cose vanno a passo di lumaca, quando vanno. Finora, secondo le stime dei tecnici, solo 70 mila persone sono tornate alle loro case, in prevalenza in zone controllate dalla propria etnia. Il mezzo milione di rientri per la fine del 1996, resta una chimera: "Era una cifra di lavoro, saranno molti di meno", ammette l' alto commissario Sadako Ogata che in questi giorni ha fatto un lungo viaggio di perlustrazione in Bosnia: "Si tratta di piccoli passi, ma si va avanti. Il vero problema è di superare il fattore paura, che ancora blocca la gente". La paura e le minacce fanno sì che la ' libertà di movimento' sanzionata dal trattato di pace funzioni sia praticamente inesistente (o meglio, esista solo per gli stranieri). "Senza libertà di movimento - ammette un collaboratore della Ogata - non ci può essere ritorno di profughi e sfollati interni, non ci potranno essere le elezioni". "Noi abbiamo fatto quanto possibile - dice il comandante delle forze internazionali, l' ammiraglio Leighton Smith abbiamo creato le condizioni, ma per attuarla serve la volontà politica delle parti". E la volontà manca non solo in casa dei serbi, ma anche dei croati: pur cittadini della stessa ' federazione' i musulmani possono solo attraversare il territorio dei comuni croati, senza fermarsi. L' Alto commissariato tappa i buchi come può. Cerca di organizzare ' visite guidate' alle case rimaste in campo avverso. Lancia gli autobus della pace. Ha un programma di emergenza per 70 milioni di dollari che dovrebbe fornire a chi torna a casa il materiale essenziale (legno, chiodi, materassi, tegole) per rimettere in sesto almeno un paio di stanze. Ma è attivo da pochi giorni e ancora in pochi osano toranre a casa. Molti serbi prima di tutto - sembrano non pensarci proprio. SOLO ROVINE DOVE UN TEMPO C' ERA BRCKO BRCKO - Il sindaco Bahor ha la casa, o quello che ne resta, nel centro del ' cratere' . In mezzo a quella fascia di desolazione lunare che per diversi chilometri circonda Brcko, la città che controlla lo strategico ' corridoio della Posavina' dove per quattro anni si è combattuto senza tregua. Migliaia e migliaia di case annerite e minate, in una fascia di distruzione che nessun progetto di ricostruzione internazionale sembra poter rigenerare. Ma tra queste rovine qualcuno, come Huso Bahor, comincia a ritornare. Il suo villaggio, Dizdarusa, è tecnicamente in territorio serbo, ma protetto da un posto di controllo dell' esercito americano il sindaco ha deciso di tentare la sorte con altri cinquanta concittadini. "Tutto è pronto, ma non possiamo far niente senza materiale. Ce lo hanno promesso. La gente comincia a non credermi più". Intanto il sindaco Bahor, fa da ponte ai profughi serbi che vogliono andare a rivedere le loro case dall' altra parte. Li accompagna personalmente per indurli a tornare per sempre. DI NUOVO A JAJCE DOPO UN ESILIO DURATO QUATTRO ANNI JAJCE - Skiljan Meho è tornato a casa dopo quattro anni. Era dovuto andare via, scacciato con i suoi vicini dall' avanzata serba. A ottobre Jajce è tornata sotto il controllo della Federazione croato-musulmana. O, per meglio dire, sotto il controllo croato. Benché non prevista dagli accordi, la sedicente Repubblica di Herceg-Bosna si fa sentire pesantemente: poliziotti in divisa blu come a Zagabria, con lo stesso atteggiamento da padroni del mondo che hanno i colleghi di Zagabria. Un tempo questa città di vecchie case abbarbicate su una rocca era a maggioranza musulmana. Ora le famiglie musulmane ufficialmente autorizzate a rientrare sono 200 (in un accordo inter-federazione), ma solo un centinaio hanno veramente potuto farlo. Tra queste quella di Skiljan Meho, 53 anni, che con nove persone ha stipato due stanzette fatiscenti dove l' acqua penetra dappertutto. "Mi sento rinato", dice mentre cerca di raddrizzare qualche chiodo arrugginito. "Io sono pronto a fare tutto da solo, ma non c' è il materiale". Il materiale ci sarebbe, ma il sindaco croato pretende che l' Alto commissariato dell' Onu aiuti una famiglia croata per ogni famiglia musulmana. Ma lo Unhcr non accetta ricatti: "Non si può fare l' aiuto umanitario sottoponendolo a condizioni - dice un funzionario esasperato - Così non si fa l' integrazione". L' ultima cosa che i croati della ' Herceg-Bosna' vogliono è proprio l' integrazione. IL DRAMMA DEI BALCANI NELLE MILLE FERITE DEL VECCHIO JOZEF DOBOJ - La ' libertà di movimento' in Bosnia ha il passo riluttante di Amanda, la nipotina di Jozef Zier. A sei anni e mezzo avanza tra i blindati e gli sbarramenti del posto di blocco svedese trascinata per mano dalla mamma. Lo sguardo intenso, le labbra serrate, Amanda si appresta a rivedere i nonni: praticamente degli sconosciuti dopo quattro anni di guerra. Sulla famiglia di nonno Jozef la storia dei Balcani si è accanita con tutti i suoi drammi e i suoi paradossi. Di origine ceca, con madre tedesca, quest' uomo piccolino di 59 anni ha sposato una serba, che ora lavora per l' esercito di Radovan Karadzic. Insieme hanno avuto due maschi e una femmina. Il primo figlio ha perso un braccio nell' esercito serbo. L' altro è stato gravemente ferito nel 1991, a Vukovar con i croati. La figlia aveva sposato un musulmano che allo scoppio della guerra di Bosnia è andato dall' altra parte con la famiglia, ha combattuto per il governo di Sarajevo ed è morto sulle colline qui intorno. La pace di Dayton ha solo cominciato a rimarginare le ferite della famiglia Zier. Ha fermato i combattimenti, ha fatto allontanare le truppe, vietato i posti di blocco e proclamato il diritto di ogni bosniaco di andare dove vuole e di tornare a casa. Ma una cosa è la proclamazione di un diritto, altra è esercitarlo. Jozef Zier, per esempio, non si azzarda a varcare quella che i diplomatici hanno eufemisticamente ribattezzato ' Linea inter-entità' e che è ancora, a tutti gli effetti, una frontiera tra due mondi che non si parlano e continuano il loro conflitto con altri mezzi. Proprio in questa zona di importanza strategica nelle ultime tre settimane ci sono stati incidenti anche gravi (due morti) con gruppi di musulmani che cercavano di tornare a vedere le loro case, accolti a sassate e a fucilate dai serbi. Zier resta abbarbicato al volante della sua vecchia Zastava a un metro dal filo spinato svedese, mentre un soldato armato di tutto punto accompagna Amanda all' incontro con i nonni. Tra un paio d' ore, dopo baci e abbracci che la bambina accoglie con fastidio, Amanda e sua madre torneranno a casa nel territorio della Federazione croatomusulmana. I nonni nella Repubblica serba. "Vorremmo che venisse con noi, ma ha il suo lavoro...", spiega sconsolato Jozef. E lei? "Io? Io non andrò mai dall' altra parte. I serbi non vogliono vivere con i musulmani. I musulmani vogliono prendersi tutta la Bosnia, ecco perché dicono di andare da loro". ' MA NOI SERBI NON POSSIAMO PIU' VIVERE CON I MUSULMANI' SOKOLAC - I profughi del campo di Sokolac sono i più recenti. In gran parte si tratta di serbi fuggiti tra febbraio e marzo dai quartieri di Sarajevo passati sotto il controllo del governo bosniaco. Con la voce rotta dal pianto le donne ricordano le case perdute, tutta una vita bruciata nella fuga. Praticamente con le stesse parole che si odono nei campi profughi abitati dai musulmani, ma con una differenza fondamentale: i serbi non vogliono tornare indietro. Nel piccolo prefabbricato svedese che condivide con la figlia e con la nipotina, Snezana Bjielica non ha dubbi: "I serbi non possono vivere con i musulmani. O non ci sarebbe stata una guerra. Se tornassimo da loro non avremmo niente di nostro, le nostre chiese le nostre scuole. I nostri bambini sarebbero costretti a imparare l' Islam". Anni di convivenza con i laici musulmani di Sarajevo non contano nulla. GLI SCAMPATI DI SREBRENICA CUI NESSUNO RIVOLGE LA PAROLA URANDUK - Devila con altre sei donne e dieci bambini uno stanzone pieno di letti a castello di legno e di stufette economiche. E' l' aula di una scuola a quindici chilometri da Zenica, dove sono accampate duecento persone, in massima parte sfuggite la scorsa estate ai massacri di Srebrenica e di Zepa, le ' sacche' musulmane della Bosnia Orientale. Avvolte nei fazzoletti e nelle grandi gonne delle contadine musulmane, ancora sperano di tornare a casa, ma il realismo politico dice che questo non succedera. Devila è più fortunata, è più giovane (34 anni, due figli) e viene da un paese della Bosnia occidentale caduto in mano ai serbi. Il marito, fatto prigioniero e ' regalato' dai serbi ai croati, è stato a lungo in ospedale psichiatrico. Devila è già tornata per le feste del Bairam a visitare le tombe di famiglia. "Ma nessuno dei vicini di un tempo mi ha rivolto la parola - dice ora sconsolata - mi piacerebbe tornare a casa, ma non credo che sia possibile". -MARIO TEDESCHINI LALLI ATROCITA' CONTRO I SERBI, INCRIMINATI 23 marzo 1996 — pagina 16 sezione: MONDO L' AJA - Il Tribunale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia ha per la prima volta messo formalmente in stato d' accusa quattro persone sospettate di delitti nei confronti della popolazione serba di Bosnia. Dei quattro - due dei quali sono stati arrestati all' inizio della settimana uno a Monaco di Baviera e l' altro a Vienna - tre sono musulmani di Bosnia e uno è un croato-bosniaco. Un portavoce della Corte ha precisato che tra le incriminazioni pronunciate ieri vi è quella nei confronti di Zejnil Delalic, arrestato a Monaco e comandante di una unità dell' esercito musulmano-bosniaco che internò nel maggio del 1992 circa 250 serbi della cittadina di Konjic nel campo di concentramento di Celebici, dove almeno 14 di essi furono uccisi e altri violentati e torturati. Le altre incriminazioni riguardano il comandante del campo di Celebici, Zdravko Mucic, un croato-bosniaco arrestato lunedì a Vienna, e i suoi collaboratori Hazim Delic e Esad Landzo, musulmani e a tutt' oggi latitanti in Bosnia, dove peraltro le autorità di Sarajevo hanno dato al Tribunale assicurazioni circa la loro cattura ed estradizione. Il portavoce del Tribunale ha detto che queste "non sono certo le ultime incriminazioni" di persone sospettate di crimini nei confronti dei serbi e ha notato che la Corte agisce contro i criminali di guerra "senza badare alla loro nazionalità". Anche una quinta persona - un serbo bosniaco identificato come Goran Lajic, a sua volta arrestato a Norimberga il 18 marzo scorso e il cui nome già figurava nella lista dei primi 53 incriminati - sarà quanto prima estradato dalle autorità tedesche all' Aja per essere processato. Nella lista delle persone finora incriminate figurano anche il capo politico e quello militare dei serbi di Bosnia, Radovan Karadzic e Ratko Mladic, ma in Olanda sono finora detenuti solo due dei ricercati, mentre altri due ufficiali serbi in prigione all' Aja sono in attesa di una decisione della Corte circa la loro incriminazione. Ieri, intanto, l' ambasciatrice degli Usa all' Onu, Madeleine Albright, è apparsa profondamente turbata nella conferenza stampa che ha tenuto dopo aver visitato una fossa comune a Branjevo, dove si ritiene che almeno un migliaio di musulmani siano stati massacrati e sepolti dai serbi nel luglio dell' anno scorso. "Lo spettacolo più disgustoso, orribile che un essere umano possa vedere - ha detto la Albright -. Sono abituata alle ossa, ma non mi ero mai trovata tanto vicino a ossa umane, vertebre, pezzi di cranio. Poi c' era un corpo ancora in decomposizione. Sono davvero sopraffatta dall' orrore per tutto questo e perché uomini hanno potuto far questo ad altri esseri umani innocenti", ha detto la diplomatica, sottolineando l' urgenza di perseguire i criminali di guerra. Branjevo è nel cuore del territorio controllato dai serbi bosniaci, a 80 chilometri dalla base aerea di Tuzla, quartier generale del contingente Usa impegnato nella forze di pace Nato. Durante la visita della Albright, i serbi hanno schierato 200 soldati delle truppe speciali per prevenire che si ripetessero contestazioni contro la diplomatica come quelle di mercoledì a Vukovar. CACCIA ALLE FOSSE COMUNI 04 febbraio 1996 — pagina 13 sezione: MONDO SARAJEVO - L' incriminazione dei responsabili dei massacri e degli altri crimini di guerra e la loro punizione è una condizione indispensabile per l' avvio del processo di riconciliazione e di ricostruzione del paese e di una società civile, ha affermato il nuovo ministro degli Esteri della Bosnia Jadranko Prlic nella sua prima dichiarazione dopo aver assunto l' incarico. Prlic ha sostenuto che la giustizia dovrà perseguire non soltanto coloro che sono materialmente responsabili di questi crimini, ma anche "coloro che li hanno resi possibili indipendentemente dalle parti belligeranti". "Credo anche - ha detto ancora il ministro - che se qualcuno di loro ha svolto o svolge tuttora un incarico politico dovrebbe annunciare pubblicamente di essere pronto a lasciare questo incarico nel caso il Tribunale dell' Aja producesse delle accuse nei suoi confronti", aggiungendo che per quanto riguarda il dicastero degli Esteri tutti i funzionari in servizio verranno attentamente scrutinati. Proseguono frattanto le indagini sulle fosse comuni dove sarebbero stati occultati i resti di migliaia di vittime delle pulizie etniche in tutta la ex Jugoslavia. Le ricerche fino ad ora limitate al territorio bosniaco si sono infatti estese anche alla Croazia dopo l' annuncio della scoperta di tre fosse a Ovcara, nei pressi di Vukovar, nella Slavonia orientale ancora sotto controllo serbo, che risalirebbero al 1991. Altri luoghi di recente segnalazione sono quelli in prossimità di Omarska, Vitovlje e Manjaca. In alcuni casi le vittime sarebbero state gettate nei laghi e nelle forre. Le autorità della Repubblica serba di Bosnia hanno fatto sapere che non porranno nessun ostacolo a queste indagini nel loro territorio e in particolare nella miniera di Ljubija e nell' intera regione di Prijedor. Tracce di fosse comuni, delle dimensioni di venti metri quadrati, sarebbero state rinvenute anche tra Banja Luka e Mostar. Un funzionario delle Nazioni unite dell' ufficio interessato ad accertare la sorte delle persone disperse è atteso oggi alla guida di una missione che dovrà visitare Ovcara e Glogova per verificare l' esistenza di queste fosse e assistere allo scavo di altre due fosse che sono state identificate nella zona di Jajce. Dopo le prime notizie trapelate il mese scorso con le rivelazioni dei massacri subiti soprattutto dalla popolazione di Srebrenica, vi è stato un susseguirsi di nuove denunce e secondo le stime più recenti vi sarebbero oggi non meno di due o trecento fosse comuni, ed è una cifra che viene ritenuta per difetto. Le responsabilità di questi crimini, inizialmente addossate solo alla parte serba, vengono ora estese sia ai croati che ai musulmani anche se in dimensioni inferiori. La Nato aveva cercato di tenersi fuori da questo problema sostenendo che il mandato delle forze dell' Ifor era limitato all' esecuzione militare degli accordi di Dayton. Le crescenti pressioni dell' opinione pubblica internazionale e in particolare del Congresso americano hanno ora convinto l' ammiraglio Leighton Smith ad intervenire garantendo quantomeno la protezione dei luoghi già identificati da ogni manomissione per cancellare ogni prova dei crimini. Per questa operazione si pensa di utilizzare anche le unità della polizia internazionale in via di costituzione. Le reticenze e le resistenze dell' ammiraglio americano si spiegano d' altra parte con il disagio delle autorità militari, a cominciare dal generale Janvier, che al tempo delle stragi facevano capo all' Unprofor e che oggi vengono implicitamente messe sotto accusa per non aver impedito quantomeno i massacri che fecero seguito, lo scorso anno all' occupazione di Srebrenica e di Zepa. Un capitolo, questo, della guerra in Bosnia che qualcuno forse preferirebbe non riaprire e al quale in modo molto sfumato può aver fatto riferimento il ministro Prlic. - VLADIMIRO ODINZOV PACE NEI BALCANI, L' AMERICA HA FRETTA 11 novembre 1995 — pagina 10 sezione: MONDO DAYTON - Nell' Ohio suonano i tamburi della pace. Il segretario di Stato Warren Christopher è tornato qui ieri per assistere alla firma dell' accordo sulla federazione croato-bosniaca, il primo risultato ufficiale e tangibile del negoziato apertosi undici giorni fatra i presidenti delle repubbliche ex jugoslave nella base aerea Wright-Patterson. L' intesa prevede l' immediata riunificazione di Mostar, la città medioevale a circa cento chilometri da Sarajevo, spaccata in due dai croati e dai musulmani dopo la tremenda battaglia di due anni fa; ma è soprattutto il muro maestro di una confederazione tra le due parti, che sarà la base del futuro assetto della Bosnia. Ora, ha detto Christopher salutando questo parziale successo del negoziato, la federazione "ha il potere per governare realmente" con la creazione di istituzioni politiche ed economiche comuni. In Croazia, invece, rullano i tamburi della guerra. Secondo osservatori delle Nazioni Unite sul posto, alcuni plotoni della cosiddetta "Brigata tigre", un corpo d' èlite dell' esercito croato, stanno marciando verso la Slavonia orientale, l' ultimo pezzo di Croazia in mano serba non riconquistato dai croati nelle vittoriose offensive-blitz della primavera (nella Slavonia occidentale) e dell' estate (in Krajina). La Slavonia orientale è una regione ricca, agricola e petrolifera, con accesso al Danubio, quindi di grande importanza strategica. Il presidente croato Franjo Tudjman ha promesso di riprendersela con le armi se, entro novembre, non sarà raggiunto un accordo per la restituzione pacifica. Una ipotesi d' intesa sulla carta esiste, è stata elaborata nei giorni scorsi dall' ambasciatore americano a Zagabria Peter Galbraith e dal negoziatore Onu Thorvald Stoltenberg: prevede un periodo transitorio di due anni, in cui la Slavonia resterebbe sotto mandato delle Nazioni Unite prima di tornare alla Croazia. Quale dei due suoni è autentico, e quale è falso? I rumori di guerra che arrivano qui dalla Croazia sembrano più tattici che reali. Le unità della "Brigata tigre" in marcia verso la Slavonia sono poche: gli osservatori Onu parlano di 350 uomini, il 10 per cento della forza della brigata. Ciò fa pensare che Tudjman abbai, anche per motivi interni, ma non abbia intenzione di mordere. Per il presidente croato lanciare un' offensiva in questo momento sarebbe pura follia. La conferenza di pace fallirebbe completamente e l' orologio della crisi balcanica tornerebbe indietro di mesi. E, in questo momento, non è certo Tudjman, tantomeno il presidente bosniaco Alija Izetbegovic, ad essere in difficoltà nell' estenuante negoziato nella base aerea di Dayton. Sotto pressione è, piuttosto, il presidente serbo Slobodan Milosevic. Due giorni fa, sulla sua testa è arrivata la decisione del tribunale dell' Aja di rinviare a giudizio tre ufficiali dell' esercito serbo per crimini di guerra commessi durante la battaglia per la conquista della città croata di Vukovar, nel 1991. Stavolta, Milosevic non può fingere di non avere responsabilità, come ha sempre fatto sostenendo di non controllare i serbo-croati o i serbobosniaci. I tre ufficiali erano, nel ' 91, inquadrati in quella che si chiamava ancora Armata federale jugoslava e uno di loro, l' allora colonnello Mile Mrksic è tuttora certamente nell' esercito della Serbia, anzi è stato addirittura promosso generale e avrebbe un comando in Montenegro. Il presidente serbo, dunque, è vicinissimo all' avviso di reato per crimini di guerra e potrebbe evitarlo soltanto se annunciasse la decisione di consegnare i tre ufficiali. Per i negoziatori americani la decisione del tribunale dell' Aja apparentemente è stata una brutta notizia perché Milosevic è il pilastro dell' accordo di pace che stanno trattando qui a Dayton. In realtà, è un formidabile strumento di pressione sul presidente serbo. Negli ambienti vicini alla trattativa si ha l' impressione che gli americani tengano Milosevic appeso ad un filo perché sono in possesso di prove molto più dirette del suo coinvolgimento in reati di guerra. Quattro giorni fa, la Casa Bianca ha deciso di vietare alla corte internazionale di giustizia l' accesso a documenti segreti sulle atrocità commesse nella ex Jugoslavia. La ragione, citata dal portavoce di Clinton, è "l' interesse della sicurezza nazionale". E' facile supporre che i documenti riguardino Milosevic e che l' "interesse della sicurezza" americana sia oggi di non indebolire ulteriormente il presidente serbo. Ma è altrettanto facile supporre che Richard Holbrooke, negoziatore duro e senza scrupoli alla Kissinger, abbia fatto un discorsetto a Milosevic del tipo: "Presidente, o lei accetta le nostre proposte di pace o noi mandiamo quei documenti alla corte di giustizia". E' la tattica del bastone e della carota, che gli americani usano con gli ex jugoslavi dal primo giorno: ieri l' altro, hanno parzialmente sospeso le sanzioni alla Serbia per permettere forniture di gas per riscaldamento, poiché l' inverno nei Balcani è arrivato molto precocemente. Le proposte americane sono contenute in undici documenti, rielaborate da quelle iniziali per tenere conto delle richieste delle varie parti. Il loro insieme forma la bozza del tanto sospirato trattato di pace nei Balcani dopo quattro anni di feroce conflitto. L' intero dossier è stato consegnato giovedì pomeriggio alle tre delegazioni ex jugoslave, che avranno alcuni giorni per studiarlo e riflettere. Ma non troppi: "Le nostre non sono proposte da prendere o lasciare. Però il tempo delle contrattazioni sta finendo e sarebbe ora che venissero prese decisioni vere e definitive, ha detto un assistente di Holbrooke. - dal nostro inviato PAOLO GARIMBERTI ' SERBI CRIMINALI DI GUERRA' 10 novembre 1995 — pagina 15 sezione: MONDO WASHINGTON - Il Tribunale sui crimini di guerra nella ex Jugoslavia punta dritto su Belgrado. Un mandato di cattura internazionale è stato spiccato ieri contro tre ufficiali dell' allora esercito jugoslavo, per crimini commessi durante l' assedio della città croata di Vukovar, nel 1991. La notizia, destinata a complicare le già difficili trattative sulla Bosnia, è giunta poche ore prima dell' annuncio di un primo, parziale successo del ' conclave' di Dayton. Nella base aerea dell' Ohio, dove da giorni sono chiusi i maggiori rappresentanti di Bosnia, Croazia e Serbia, è stato raggiunta un' intesa per l' applicazione del vecchio accordo sulla Federazione musulmano bosniaca. Un prerequisito per arrivare al più complesso accordo a tre con i serbi. L' intesa è stata siglata ieri e sarà formalmente firmata oggi alla presenza del segretario di Stato americano Warren Christopher e del presidente croato Franjo Tudjman che si sono precipitati in Ohio. Secondo alcune indiscrezioni, nei prossimi giorni potrebbe essere raggiunto anche l' accordo sulla Slavonia orientale, la regione croata (quella di Vukovar, appunto) occupata dai serbi nel 1991. Resta, invece, ancora lontano l' accordo generale sulla struttura della Bosnia e sui rapporti tra le due ' entità' che la comporranno: la federazione croato-musulmana e la repubblica serba. E' su questo dossier che potrà avere influenza l' annuncio di ieri del tribunale dell' Aja. Il tribunale dell' Onu aveva già incriminato il leader politico e quello militare dei serbi di Bosnia, Radovan Karadzic e Ratko Mladic, e in questi giorni a Dayton si cercava un modo per ottenere l' accordo dei serbi senza cedere sulla questione di principio. Gli americani, per esempio, premono perché sia proibito agli incriminati e condannati del tribunale dell' Onu di candidarsi alle prossimi elezioni in Bosnia. I tre ufficiali incriminati ieri sono il generale Mile Mrksic, il maggiore Veselin Sljivancanin e il capitano Miroslav Radic. Facevano parte della Divisione delle Guardie che partecipò al sanguinoso assedio di Vukovar, ' la Stalingrado croata' . Sono accusati di aver rastrellato circa 400 persone dall' ospedale della città: malati, personale medico e paramedico, nonché militari e poliziotti croati che vi si erano rifugiati. I prigionieri furono maltrattati e malmenati e almeno 261 furono poi fucilati e sepolti in una fossa comune. E' la prima volta che il tribunale internazionale arriva a toccare direttamente l' esercito serbo-jugoslavo e ciò metterà ancor più in difficoltà il presidente Slobodan Milosevic. Il generale Mrksic sarebbe, infatti, ancora in servizio e si troverebbe attualmente in Montenegro. Gli altri due ufficiali, invece, avrebbero combattuto negli anni scorsi nei ranghi delle milizie serbe di Krajina, sconfitte ad agosto dalla offensiva croata. Ora si troverebbero rifugiati da qualche parte in Serbia. Quanto all' accordo croato-musulmano, esso dovrebbe prevedere la libera circolazione di beni e persone, il ritorno alle proprie case di alcuni profughi (ma le indiscrezioni parlano di sole cento famiglie) e la liberalizzazione della città di Mostar, ancora drasticamente divisa in due parti, come la Berlino della guerra fredda. OSJIEK DEVASTATA DAI MORTAI DEI CETNICI 13 settembre 1991 — pagina 8 sezione: MILANO ZAGABRIA - Un' altra giornata di durissimi combattimenti in Slavonia: almeno 11 persone sono morte nella regione a causa dei bombardamenti di artiglieria, che sono stati, secondo gli osservatori, i più violenti dall' inizio del conflitto. Osjiek, la cittadina assediata dai miliziani serbi e dall' Armata federale, è stata colpita da ben 144 granate di mortaio dei ' cetnici' che, per più di due ore, hanno effettuato un tiro devastante. Non si conosce il numero delle vittime ma fra esse sono stati segnalati molti civili. Diverse case della città sono state distrutte o gravemente danneggiate. Bombardamenti sono stati effettuati anche dall' esercito federale, la cui artiglieria pesante ha martellato le posizioni tenute dalla guardia nazionale croata nei pressi di Vukovar. Continua intanto la lotta per il possesso dell' autostrada che collega Zagabria a Belgrado. Presso il nodo stradale di Okucani, a poca distanza del confine fra la Croazia e la Bosnia-Erzegovina, teatro già da diversi giorni di duri combattimenti, sono stati sparati diversi colpi di artiglieria e armi automatiche fra i reparti armati delle opposte fazioni. Fonti della minoranza serba, riprese dalla agenzia ufficiale Tanjug, hanno affermato che i ' cetnici' hanno ucciso "diversi soldati croati". A Vinkovci vi sarebbe stato un attacco di carri armati federali. La televisione Zagabria ha riferito che a Kostajnica, sempre in Slavonia, le milizie croate hanno subito 7 morti e 30 feriti ad opera dell' artiglieria federale e dei mortai dei guerriglieri serbi. Altri due membri della guardia nazionale sono stati uccisi a Topusko, 80 chilometri a sud della capitale croata. Secondo l' agenzia di stampa croata Hina, i reparti di Zagabria hanno avuto 2 morti e 4 feriti anche a Sisak, 60 chilometri dalla capitale della Repubblica. Su tutto il fronte della Slavonia, la guardia nazionale croata sta predisponendosi ad una difesa ad oltranza. I villaggi nei pressi di Osjiek sono stati fortificati. Sono state erette numerose barricate, mentre in diversi punti sono state piazzate delle mine anticarro. Diverse batterie di cannoni antiaerei leggeri sono state piazzate in prossimità degli svincoli stradali e presso altre installazioni di importanza strategica. Sull' altro fronte, quello dalmata, i croati hanno avuto tre morti vicino alla città di Sebenico, nel corso di scontri e bombardamenti presso una fabbrica di alluminio, che è stata gravemente danneggiata. Alija Izetbegovic, presidente della Bosnia-Erzegovina, ha chiesto ieri che venga creata una zona demilitarizzata fra i confini interni della Federazione. Il leader bosniaco vuole evitare l' estendersi del conflitto nella sua Repubblica. Essa è abitata da musulmani, serbi e croati. Izetbegovic teme che, se la guerra toccasse questa regione, possano saltare i fragili equilibri che mantengono la pace fra le diverse etnie della Repubblica. Mercoledì, ma si è saputo solo ieri, è stato aperto il fuoco contro un elicottero che si avvicinava a Okucani. A bordo c' erano l' inviato speciale della Comunità Europea Henry Wijnaendts, il generale Andrija Raseta e altri ufficiali croati. Nessuno è stato ferito ma l' elicottero è stato danneggiato. Ad aprire il fuoco - secondo Jo Van Der Valk, un funzionario Cee a Zagabria - sarebbero state due guardie della milizia croata. Quando è atterrato, l' elicottero, ha detto, perdeva carburante. Il ministero della Difesa jugoslavo ha affermato che un velivolo militare ungherese ha violato di recente lo spazio aereo federale ed ha accusato il governo di Budapest di aver chiuso gli occhi su un traffico di armi fra l' Ungheria e la Croazia. La notizia è stata riferita dal quotidiano Borba che riporta un comunicato dei vertici delle forze armate. In esso si accusa Budapest anche di aver favorito, non denunciandolo, un trasporto illegale di un carico di armi che, a fine agosto, attraverso l' Ungheria, sarebbe stato trasportato in Croazia. Esso sarebbe servito per equipaggiare i reparti della guardia nazionale di Zagabria. Alla frontiera italo-jugoslava un' automobile che trasportava fucili e munizioni è stata fermata mercoledì sera dalla guardia di Finanza. Le armi, che erano nascoste sotto il sedile posteriore della vettura, sono un fucile a pompa calibro 12 di fabbricazione statunitense, una pistola calibro 9 austriaca e numerose cartucce. Il conducente della vettura, un cittadino svizzero di origine croata, è stato arrestato. Secondo quanto reso noto dagli inquirenti la famiglia di origine dell' arrestato abiterebbe in una zona contesa dalle milizie ' cetniche' e dalla guardia nazionale croata. IN CROAZIA E' GUERRA, DECINE DI MORTI 27 agosto 1991 — pagina 11 BELGRADO - In Jugoslavia è ormai guerra aperta tra l' esercito federale e la Croazia ribelle. L' armata federale è scesa massicciamente in campo a fianco dei "cetnici", gli oltranzisti serbi armati contro la milizia di Zagabria. "Non intraprendiamo azioni offensive - dice l' alto comando - ci limitiamo a rispondere al fuoco". Ma da due giorni ormai una vera e propria battaglia campale infuria per il controllo di Vukovar, cittadina strategica della Slavonia. Carri armati e reparti d' artiglieria bombardano da ore i militari croati assediati; in appoggio all' offensiva federale sono intervenuti anche cacciabombardieri dell' aviazione, e motovedette della flottiglia fluviale del Danubio cannoneggiano la città assediata. "E' cominciata la guerra per la liberazione di Vukovar", hanno detto più volte radio e tv di Belgrado in apertura dei loro notiziari. Incalza radio Zagabria: "Dall' alba è in corso contro Vukovar un attacco di proporzioni mai viste finora; i morti sono decine, o forse centinaia". I civili in fuga Si combatte anche in altre città croate, e gli scontri hanno investito per la prima volta anche la repubblica della Bosnia-Erzegovina. "La guerra infuria in Croazia", titola ormai ogni dispaccio dell' agenzia di stampa federale "Tanjug". La popolazione civile tenta disperatamente la fuga dalle zone degli scontri, e molti sono certi di lasciare per sempre le loro case. La battaglia infuria nel triangolo tra Vukovar, Borovo Selo e Borovo Naselje. Dal suo esito dipende il controllo della frontiera tra le repubbliche e dei nodi di comunicazione verso Zagabria, la capitale croata. La città di Vukovar, che ha cinquantamila abitanti, è completamente circondata dai carri armati federali. I morti sono decine da ambo le parti, dice la "Tanjug". La guardia croata ha ricevuto l' ordine di combattere fino all' ultimo uomo. Le notizie dalla prima linea si fanno di ora in ora più allarmanti: sono almeno quindici, secondo fonti locali, i mezzi corazzati federali distrutti dai miliziani croati. Guardie di Zagabria armate di bazooka sono appostate agli ingressi della città, e fronteggiano i tank di Belgrado. Gli assediati affrontano anche attacchi dal cielo: a più riprese, i cacciabombardieri "Galeb 2" di costruzione nazionale dell' aviazione federale hanno attaccato Vukovar, Vinkovci e i villaggi vicini. I cacciabombardieri hanno usato i cannoni di bordo, hanno lanciato bombe a frammentazione e missili aria-terra per le loro incursioni. "Hanno colpito l' ospedale di Vukovar - ha detto per telefono a radio Zagabria un medico della città - l' ingresso principale e due sale operatorie sono distrutte". Anche una centrale elettrica è stata investita dai raid. I miliziani croati si sono difesi con mitragliatrici e missili antiaerei, e due "Galeb" - uno domenica, il secondo ieri - sono stati abbattuti. Vukovar è l' epicentro della battaglia, ma i combattimenti si estendono a macchia d' olio nella regione. Pesanti bombardamenti di carri armati e aerei hanno colpito Ilok, un' altra cittadina sul Danubio, più a sudest. Si parla di almeno quattro morti in scontri in altre zone della Croazia; decine di colpi di mortaio sono caduti anche su Okuni e Novska, appena 120 chilometri da Zagabria. Reparti armati cetnici hanno bombardato con i mortai i villaggi di Borovo Naselje e Nustar, da dove per tutta la giornata si sono sentiti echeggiare i sordi colpi delle granate. Fonti di un ospedale regionale hanno detto che sei persone sono state uccise, e venti ferite, nel corso di combattimenti a Beli Manastir, a nord di Osijek e non lontano dalla frontiera ungherese. La guerra infuria anche più a sud: il villaggio di Kijevo, a cento chilometri dal porto adriatico di Spalato, è stato colpito da bombe a frammentazione, probabilmente lanciate dai cacciabombardieri federali, e la milizia croata locale sta erigendo barricate nelle strade per prepararsi ad affrontare i carri armati. Negoziato difficile L' estensione della battaglia fa apparire sempre più improbabile una ripresa del negoziato tra le repubbliche per una soluzione politica della crisi. Ieri il ministro della Difesa croato, Milan Brezak, ha accusato l' esercito di essere completamente coinvolto nell' offensiva. Il presidente croato, Franjo Tudjman, aveva lanciato nei giorni scorsi un ultimatum alle autorità federali chiedendo il ritiro delle forze armate nelle caserme entro il 31 agosto. Sulla sponda opposta, il vice presidente federale Branko Kostic, considerato molto vicino alla Serbia e responsabile della commissione federale per il controllo di una tregua ormai fallita, ha lanciato ieri durissime accuse al governo tedesco. Kostic ha criticato le posizioni espresse dal cancelliere Kohl e dal ministro degli esteri Genscher, che si sono detti pronti a riconoscere subito l' indipendenza di Slovenia e Croazia se l' armata federale e le milizie serbe non arresteranno il massacro. Queste dichiarazioni, ha detto Kostic senza mezzi termini, "ricordano gli ultimatum lanciati dalla Germania prima dei due conflitti mondiali; abbiamo conosciuto gli effetti dei loro interventi, e ne conserviamo un ricordo sgradevole. Condanniamo i tentativi di internazionalizzare la crisi jugoslava portati avanti da Germania e Croazia, tentativi che possono aprire grandi rischi per il nostro paese ma anche per l' Europa". - DUSAN PILIC UN INFERNO DI BOMBE SULLA STALINGRADO CROATA 01 settembre 1991 — pagina 3 Vukovar, nel racconto dei cittadini che ancora non la tradiscono, per orgoglio di bandiera o per disperazione, è una città spettrale, morta, raggelata. E' il simbolo della resistenza croata, dell' odio etnico, della memoria storica che si risveglia oggi, dopo quarant' anni di finto letargo. C' è il silenzio della paura in Slavonia, ai confini con Voivodina e Serbia, c' è il rumore dei mortai, il crepitio violento delle armi serbe, il rombo lugubre degli aerei federali. L' albergo "Dunav", un grande palazzo stile socialismo reale, è in posizione "strategica": vista sul Danubio, il fiume della civiltà che ogni giorno, da queste parti, si tinge di sangue e porta qualche cadavere. L' altra riva è già Serbia. Dall' altra riva sparano e non sembrano intenzionati a fermarsi. Gli edifici attorno, facciate Jugendstil che rimandano ad altri tempi, sono quasi tutti sventrati, devastati dai continui, ossessivi bombardamenti. Il "Dunav" è rimasto in piedi, le camere vuote, senz' acqua, senza elettricità, pieno solo di soldati e giornalisti. Quando, nella notte di venerdì, è scoppiato l' inferno, Milovan, addetto alla reception, era al suo posto. Ha guardato dalla finestra, racconta: "Hanno sparato dal Danubio, dalle due navi piazzate a Borovoselo, la roccaforte serba. Colpi di cannone. Noi siamo corsi nel bunker, al buio. Ore terribili. C' hanno attaccato dal fiume, da terra, dal cielo. Viviamo ormai come braccati, chiusi nei rifugi. Non vediamo un giornale da dieci giorni. L' Esercito federale è riuscito a tagliarci i cavi della televisione croata. Ci vogliono prendere per stanchezza, per sfinimento. Ma noi abbiamo fatto quasi l' abitudine a tutto questo, sappiamo di sfiorare la morte ma vogliamo lottare. Questa non sarà mai Serbia, mai". Da quei battelli da combattimento appostati dietro un' isoletta verso Novi Sad, a BorovoSelo, a Opatovac, sono piovuti sulla città già umiliata, duecento colpi di cannone. Hanno fatto tre morti e venti feriti, dicono le agenzie. Bagliori inquietanti nella notte della paura che pochi testimoni hanno visto. La vita, se di vita si può parlare, scorre nei sotterranei. Girare per le strade significa rischiare di finire in mezzo al fuoco dei carriarmati che stanno appostati a decine nella foresta di granoturco attorno alla città oppure significa essere trapassati dai kalashnikov nascosti dietro ogni angolo. Una guerra crudele contro cinquantamila abitanti, il 44 per cento croati, il 36 per cento serbi, il resto magiari, ruteni, slovacchi, cechi, sassoni. Gente che parla la stessa lingua, veste alla stessa maniera, ma è entrata giocoforza nella spirale dell' odio. Il bollettino militare porta notizie impossibili da verificare. Morti, feriti, distruzione. L' inferno quotidiano di Vukovar, che qualcuno ha già chiamato "la Stalingrado sul Danubio", ieri è arrivato alle undici, mentre la poca gente rimasta a patire tentava di procurarsi un po' di cibo, un litro di latte, un filone di pane, camminando fra i calcinacci, i vetri, i mattoni di un centro ormai distrutto. "Non ce l' aspettavamo - dice Milovan - sono stati quindici minuti di fuoco intenso". Azione coordinata da terra e dal cielo. Serbi ed esercito insieme per distruggere, accusano i croati. A Vukovar si bombarda tutto, le case, le scuole, l' ospedale, la chiesa. Sul numero di oggi del quotidiano Vecernji List sono pubblicati i nomi dei bambini rimasti feriti nell' ultimo agguato: Milica, cinque anni, Vlatka, sei anni, Ledran, sette anni, Sasa, dieci anni, Davor, dieci anni. "Questi bambini gridano per la pace", urla a un giornalista italiano la direttrice dell' ospedale Vesna Bosanska. Ma la pace, a Vukovar, (tradotto in italiano: "città del lupo"), è un concetto astratto. Le strade sono tutte minate, il fiume è pericoloso, impercorribile. Ad ogni posto di blocco della Guardia Nazionale, i soldati ripetono lo stesso avviso: "Si spara". Artiglieria pesante, bombardieri, granate, i razzi dei caccia. Ieri due giornalisti croati sono stati raggiunti da una pioggia di proiettili mentre viaggiavano in macchina. E' andata bene, non li hanno feriti. Ma anche l' auto, crivellata dai colpi, apparirà oggi sul quotidiano di Zagabria. Le sirene d' allarme suonano in continuazione. E la gente corre nelle cantine. Trema al buio, aspetta il silenzio, poi esce, poi torna a rintanarsi al primo boato, in una catena di crudeltà senza fine. Ai bambini, quelli che se ne sono potuti andare, hanno raccontato che a Vukovar faceva caldo, che andavano in vacanza. Gli altri, gli adulti come Milovan, rimangono. I croati non vogliono andarsene dalla loro città-simbolo. I serbi proprio per questo la vogliono a tutti i costi. L' esercito federale li aiuta, dà il colpo di grazia. Non è l' unico posto maledetto. A pochi chilometri, nel triangolo infernale della Slavonia, c' è Borovo Selo, quartier generale dell' offensiva serba. Le immagini degli operatori televisivi regalano altra violenza. Il Danubio divide i nemici, poco più di duecento metri. L' artiglieria dei croati è appostata fra i cespugli, i cecchini serbi sono pronti a colpire. Ieri, si son sentiti i boati di un' improvvisa battaglia, poco prima che un battello per i rifugiati e i feriti attraversasse il fiume per portarsi in Serbia. Ventitre feriti, dice il solito tam tam incontrollato. Borovo Selo è un altro paese spettrale, svuotato. Restano gli uomini a combattere "in nome della Serbia". Pochi chilometri più in là c' è Borovo Naselje, controllata dalle forze fedeli a Zagabria. Il Danubio è a portata di fuoco. "Sono pronto a morire - dichiara un serbo alla stampa - ma non prima di essere riuscito a uccidere dieci croati". Ore e ore di silenzio innaturale. Le sparatorie, i bombardamenti, arrivano sempre all' improvviso. Al calar della sera aumenta la paura. "Ogni giorno è difficile - dice Milovan - oggi ci hanno bombardato per quindici minuti. Domani chissà...". - a l L' IMPOTENZA EUROPEA 22 novembre 1991 — pagina 1 DAVANTI alle rovine di Vukovar, agli eccidi e ai massacri, l' Europa consuma un' altra vergogna. E quel che è peggio, fa fatica ad accorgersene, chiude gli occhi, continua a baloccarsi su che fare, quando farlo, con chi farlo, come se quei territori acquitrinosi dei Balcani dove si spara e si muore fossero un' Europa minore, fastidiosa, opportunamente lontana dalle capitali dove si disegna il mondo del futuro. Il dramma è proprio questo: i bambini e gli uomini trucidati a Vukovar erano parte viva di quelle generazioni per le quali la caduta del Muro significava un' alba di libertà. CHE COSA hanno avuto, mentre le opinioni pubbliche sembrano annoiate da questa guerra che non mostra in tv il buon generale Schwarzkopf in lotta contro il cattivo Saddam? Il paradosso è che se l' Europa fosse stata ancora divisa, se Usa e Urss ancora segnassero il confine del Bene e del Male, non ci sarebbe stata guerra in Jugoslavia, le superpotenze non l' avrebbero permessa. Ma viviamo in un' epoca nuova anche se non è detto che sia meno terribile della precedente. Ieri impauriva l' equilibrio pacifico fondato sulla minaccia dell' olocausto nucleare, oggi la guerra serbo-croata o un' altra analoga in Urss o altrove innesca tensioni nuove che non sappiamo ancora dominare. Il semplice fatto che la Jugoslavia faccia parte dell' Europa non implica che l' Europa sia davvero in grado di porre fine alla guerra civile che dilania quel Paese. La Comunità europea è una realtà commerciale e culturale, ma non ha una politica estera comune e men che meno una struttura militare con cui poter operare. Allora? Resta spazio solo per l' indignazione, per la protesta che muore lì perché non esistono strumenti concreti per operare? Non è così. Il dramma jugoslavo è lo scontro di nazionalità represse prima da un impero e poi da un' ideologia totalitaria, è l' esplosione a pochi anni dal nuovo millenio di problemi che l' Europa occidentale ha affrontato e in parte risolto quasi un secolo fa: per questo serbi e croati dovrebbero poter contare sulla solidarietà culturale e politica di paesi che in fondo giocano la loro leadership sulla capacità di offrire un' alternativa concreta e praticabile alla guerra. Dunque tocca all' Europa intervenire, anche se la crisi jugoslava non coinvolge la sovranità di altri stati, anche se croati e serbi sembrano animati da odii devastanti. I mezzi possibili sono tre: la trattativa, le sanzioni, l' intervento armato. Secondo l' Economist, i primi due sono inefficaci, il terzo è troppo pericoloso. Il primo, la trattativa, va avanti da mesi e non ha condotto a niente. La conferenza dell' Aja è a un punto morto, per mancanza di buona fede da una parte e dall' altra ma anche perché tra i dodici europei non c' è comunanza di idee. La Germania, diventata il padrino della causa croata in Europa, ha alimentato le ambizioni di Zagabria e le apprensioni di molti europei; la Serbia ha sfidato le incertezze comunitarie creando la politica del fatto compiuto: firmava all' Aja documenti in cui condannava la violazione delle frontiere con la forza e nelle stesse ore attaccava le regioni croate abitate in prevalenza dai serbi. La debolezza politica dell' intervento comunitario sta nel fatto che i dodici hanno preteso di salvaguardare la Jugoslavia, senza riconoscere esplicitamente né le mire aggressive della Serbia né il rifiuto croato di tutelare i diritti delle minoranze serbe entro i suoi confini: cioè la Cee ha difeso una cosa che i contendenti già consideravano morta, l' unità statale jugoslava, mentre i suoi stati più forti (Germania e Francia) o più vicini al terreno di scontro (Italia) non rinunciavano a perseguire determinate mire nazionali nella crisi. L' inefficacia della trattativa sponsorizzata dalla Cee ha anche motivazioni europee. Le sanzioni non sembrano produrre granché. Anzitutto perché non ci sono. La Cee finora ha soltanto sospeso gli accordi di cooperazione con le repubbliche jugoslave, poca cosa in concreto, chiedendo all' Onu di imporre l' embargo sulle vendite petrolifere. Ma l' Onu bloccherà davvero gli approvvigionamenti energetici? I principali fornitori della Serbia sono l' Urss e la Libia e fino a pochi giorni fa Mosca affermava pubblicamente che non avrebbe aderito a queste sanzioni: più che gli scontri in corso, il Cremlino teme un intervento dell' Onu in affari che egli giudica ' interni allo stato jugoslavo' , evidentemente un pericoloso precedente per un non improbabile scontro tra due repubbliche ex- sovietiche. Sotto la pressione occidentale Mosca sembra adesso tornare sui suoi passi. Resta il fatto che il petrolio, come le armi, può continuare ad arrivare anche in presenza di altisonanti dichiarazioni di embargo. Senza contare che le manovre in corso dell' esercito federale rivelano chiaramente che la nafta per i motori diesel dei carri armati c' è e in abbondanza. Il terzo strumento possibile a disposizione della Cee è l' intervento. Non l' intervento armato per imporre la pace: quale stato europeo manderebbe i suoi soldati a combattere a Vukovar, a morire per serbi e croati? Ad ogni buon conto, i governi hanno una scusa perfetta a portata di mano: non c' è il presupposto legale per un intervento simile a quello che sconfisse Saddam. La Jugoslavia non ha aggredito un altro Stato, non c' è un diritto internazionale violato da ripristinare: quanto accade è lo scontro tra due repubbliche che rivendicano una il diritto all' autodeterminazione, l' altra la tutela delle sue genti: diritti che chiamano in causa il singolo Stato interessato, non la comunità internazionale. In altre parole, per la comunità degli Stati, i morti di Vukovar non sono una base legale che permetta alcunché oltre la condanna o l' esecrazione. Tuttavia, se un intervento militare europeo per imporre la pace è impossibile, la Comunità può tentare di garantire il rispetto di una tregua una volta che il cessate il fuoco sia imposto e rispettato. Ora, ben diciotto ne sono stati dichiarati e tutti sono stati violati. Ma è certo che una forte iniziativa politica europea fondata su pressioni per la tregua, sanzioni commerciali e l' invio di caschi blu sul terreno, diretti a garantire il rispetto del cessate il fuoco, renderebbe assai più difficile a serbi e croati di usare le milizie e l' esercito come strumenti di provocazione permanenti. C' è un nuovo problema: i serbi vorrebbero i caschi blu a dividere i contendenti sul terreno, riconoscendo cioè le conquiste fatte sul campo; i croati invece lungo le frontiere originali tra Serbia e Croazia. Una missione del genere comporterà alti rischi, probabilmente morti e feriti tra i corpi della pace. E' un puzzle. E la scommessa politica con cui deve fare i conti la Cee. Con un rischio aggiuntivo. La Germania, rompendo gli indugi comunitari, ha chiesto la convocazione del consiglio di sicurezza dell' Onu; l' Italia parla di riconoscere Croazia e Slovenia qualunque cosa faccia la Cee. La bufera, lungi dal placarsi nei Balcani, rischia di spostarsi sopra Bruxelles. - di PIETRO JOZZELLI LE ACCUSE DI AMNESTY ' SONO TUTTI COLPEVOLI' 26 novembre 1991 — pagina 9 ROMA - Negli ultimi quattro mesi, tutte le parti coinvolte nella guerra civile jugoslava hanno violato le disposizioni del diritto umanitario che proibiscono l' uccisione e la tortura nei confronti delle popolazioni civili che non prendono parte ad un conflitto. E' questa la denuncia che è stata fatta ieri a Roma da parte dalla sezione italiana di Amnesty International. L' organizzazione umanitaria ha affermato, in un comunicato, che tra le diverse migliaia di persone uccise nel corso della guerra civile in Jugoslavia vi sono molti civili non combattenti. "Ci sono stati una serie di incidenti ben documentati dai media e da fonti ufficiali che hanno dimostrato chiaramente l' uccisione deliberata di civili, il ferimento di militari che si erano arresi e la tortura dei prigionieri". Amnesty osserva che è difficile verificare la fondatezza di tutte le denunce, ma l' organizzazione ritiene che siano numerosi gli episodi in cui sono stati deliberatamente uccisi civili inermi, e torturati soldati fatti prigionieri. Tra gli incidenti riportati nel comunicato di Amnesty vi è quello avvenuto nel villaggio croato di Cetekovac, dove un gruppo di paramilitari serbi ha fucilato cinque donne anziane e ucciso a coltellate un vecchio di 65 anni. Poco tempo dopo, 13 soldati federali che si erano arresi ed avevano consegnato le armi sono stati uccisi a Karlovac da un' unità speciale della polizia croata. Più recentemente Amnesty è stata informata di gravi violazioni dei diritti umani nella zona di Vukovar. Un soldato volontario serbo ha detto di aver visto i federali uccidere a fucilate più di 80 membri della Guardia nazionale croata, alcuni dei quali erano stati disarmati dopo essersi arresi. L' organizzazione ricorda nel dossier dedicato alle violazioni dei diritti umani durante il conflitto jugoslavo numerosi casi di tortura, tra cui quello di un prete cattolico e di due suore da parte di paramilitari serbi, avvenuto nei locali della polizia a Titova Korenica, il 14 ottobre scorso. I soldati dell' armata federale, che dovevano scortare i tre religiosi affinché presenziassero ad una sepoltura, li avevano in seguito rimessi alla volontà della milizia serba.