4. MASSIMO VERZELLA, Embers di Christopher Hampton e

Transcript

4. MASSIMO VERZELLA, Embers di Christopher Hampton e
§
PARAGRAFO
RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI
Paragrafo
Rivista di Letteratura & Immaginari
pubblicazione semestrale
Redazione
FABIO CLETO, DANIELE GIGLIOLI, MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE,
FRANCESCO LO MONACO, FRANCESCA PASQUALI, VALENTINA PISANTY,
LUCA CARLO ROSSI, STEFANO ROSSO, AMELIA VALTOLINA
Segreteria di Redazione
STEFANIA CONSONNI
Ufficio 211
Università degli Studi di Bergamo
P.za Rosate 2, 24129 Bergamo - tel: +39-035-2052744 / 2052706
email: [email protected] - web: www.unibg.it/paragrafo
webmaster: VICENTE GONZÁLEZ DE SANDE
La veste grafica è a cura della Redazione
La responsabilità di opinioni e giudizi espressi negli articoli
è dei singoli collaboratori e non impegna la Redazione
Questo numero è pubblicato con il contributo del
Dipartimento di Lettere, Arti e Multimedialità dell’Università di Bergamo
© Università degli Studi di Bergamo
ISBN – 978-88-95184-10-0
Edizioni Sestante / Bergamo University Press
Via dell’Agro 10, 24124 Bergamo
tel. 035-4124204 - fax 035-4124206
email: [email protected] - web: www.sestanteedizioni.it
Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo
Paragrafo
II (2006)
Sommario
QUESTIONI
§1. ANDREA BELLAVITA, L’emersione del Reale. Perché una psicoanalisi
del cinema contemporaneo?
7
§2. ANDREA MICONI, Dal real maravilloso al realismo magico.
Approccio evolutivo alla formazione di un genere
27
FORME
§3. CLAUDIO CATTANEO, Cornici per un assassinio. I confini del testo
in Libra di Don DeLillo
51
§4. MASSIMO VERZELLA, Embers di Christopher Hampton e la traduzione della malinconia
69
§5. ENRICO LODI, La retorica del potere nei discorsi del primo franchismo
83
TEMI
§6. SILVIA ULRICH, Gli eredi di Felix Krull. Dai ‘falsi’ di Wolfgang
Hildesheimer alle imposture del caso Gert Postel
105
§7. FRANCESCA PAGANI, Dal ‘cielo stellato’ di Mallarmé alle ‘bolle
d’inchiostro’ di Reverdy. L’immaginario del libro magico nella
poesia francese della modernità
121
LETTURE
§8. LUCIA QUAQUARELLI, La vittoria di un’onda. Palomar di Italo
Calvino
135
§9. VALENTINA LOCATELLI, Christa Wolf, una moderna Medea in
California
149
I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO
169
NUMERI ARRETRATI
171
§
4
Massimo Verzella
Embers di Christopher Hampton
e la traduzione della malinconia
Il 15 febbraio 2006 al Duke of York’s Theatre di Londra è andata in scena
la prima di Embers,1 un adattamento dell’omonimo romanzo di Sándor
Márai2 a firma di Christopher Hampton. Il dramma si svolge in un castello ai piedi dei Carpazi, uno spazio della memoria, un ‘mausoleo di
granito’ che partecipa silenzioso al nostos dell’esule, Konrad, che, a distanza di quarantuno anni dalla sua fuga improvvisa, ritorna dall’amico Henrik per una resa dei conti definitiva. È il 14 agosto 1940 e l’Europa è di
nuovo incendiata da una guerra mondiale. I due protagonisti, ex ufficiali
dell’esercito austro-ungarico, hanno vissuto la caduta dell’impero asburgico, la rivoluzione bolscevica, la prima guerra mondiale, l’ascesa della Germania nazista. Hanno subito i colpi della storia in perfetta solitudine, l’uno nelle umide e piovose terre della Malesia, l’altro nelle stanze silenziose
del suo castello. Henrik è sopravvissuto in attesa di questo momento, in
attesa di un confronto con l’amico di un tempo, colpevole di aver tradito
il patto di eterna amicizia che per tanti anni aveva protetto il loro amore
1
Commissionato e prodotto da Eric Abraham, per la regia di Michael Blakemore, con
Jeremy Irons nel ruolo di Henrik e Patrick Malahide nel ruolo di Konrad.
2
A gyertyák csonkig egnék (letteralmente, “Le candele bruciano fino alla fine”), pubblicato in Ungheria nel 1942, è stato riscoperto nel 1998 da Roberto Calasso, ed è noto al pubblico internazionale con il titolo inglese Embers, quale appare nel 2001 nella traduzione di
Carol Brown Janeway (che, va detto, ha lavorato su una versione in lingua tedesca, Die
Glut). Per il dramma di Hampton si farà riferimento all’edizione Faber and Faber (London, 2006; d’ora innanzi riferito nel testo con la sigla E). Tutte le citazioni in italiano dal
romanzo di Márai rimandano all’edizione Adelphi, Braci, a cura di Marinella D’Alessandro
(Milano, 1998; d’ora innanzi riferito nel testo con la sigla B). È evidente che, di traduzione
in traduzione, molto si è perso della ricchezza lessicale del testo originale. Su questo tema si
vedano George Szirtes, “The Candle that Burned Right Down”, Guardian, 15 dicembre
2001 e, soprattutto, Tibor Fischer, “The Alchemist in Exile”, Guardian, 5 gennaio 2002.
PARAGRAFO II (2006), pp. 69-82
70 /
MASSIMO VERZELLA
puro e innocente, salvo poi vacillare al limitare dell’età adulta. Il romanzo
è tutto incentrato sul dialogo tra i due amici, dialogo che presto si trasforma in un monologo di Henrik che, fra riflessioni, digressioni e un’accurata ricostruzione dei fatti che determinarono la fuga di Konrad, cerca di
trovare una risposta ai tanti perché scolpiti nella sua mente. Con l’ausilio
di numerosi flashback il narratore onnisciente racconta l’infanzia euforica
dei due protagonisti, il loro incontro e gli anni trascorsi insieme al collegio militare; offre un ritratto dei genitori di Henrik, un capitano della
guardia molto influente e una raffinata contessa francese, e infine descrive
la Vienna imperiale, un’unica grande famiglia di ungheresi, tedeschi, moravi, cechi, serbi, croati e italiani, tutti desiderosi di sintonizzare la propria vita sulle frequenze e sulle pulsazioni di una città viva e pronta ad
aprire le sue cantine e i suoi caffè, le sue salette private e i suoi saloni da
ballo a chiunque volesse celebrare i fasti di una capitale dove “tutto e tutti
erano così perfettamente al loro posto” (B, p. 55). Le digressioni gettano
luce sul progressivo saldarsi dell’amicizia tra Henrik e Konrad e sui tempi
e i modi (profondamente diversi) del loro inserimento in questa realtà
culturale, ovvero nel mondo dorato dell’aristocrazia viennese, nei rituali
di una società chiusa, armonica e assiologicamente ordinata.
Ogni detour arricchisce di echi e risonanze il dramma di Henrik, ricomponendo, tassello dopo tassello, gli scenari di uno smottamento epistemico che trascina i “figli dell’impero” nel baratro di un mondo disarmonico e privo di senso:
E allora perché dovremmo aspettarci qualcosa di diverso da un mondo
che è pieno di incoscienza e di invidia, di astio e di prepotenza? Ci sono
giovani che si precipitano, con la baionetta in canna, contro giovani di
nazionalità diversa, uomini che si scannano a vicenda, regole e accordi un
tempo sacri che vengono calpestati. Soltanto le passioni vivono e bruciano e chiedono vendetta al cielo… (B, p. 148)
In una ricca e argomentata nota recensiva ai romanzi di Márai, J.M.
Coetzee ha scritto: “A ben vedere la novella è l’espediente che permette a
Henrik di riflettere ad alta voce sui meccanismi della gelosia e di esprimere
le sue idee sulla vita; si legge come una trascrizione occasionalmente goffa
di un’opera teatrale”.3 Dal suo punto di vista il tessuto di un’avvincente
pièce teatrale sarebbe stato allungato e stirato fino ad ottenere un romanzo
3
J. M. Coetzee, “Dupe of History: Embers and Five other Books”, New York Review of
Books, 48:20, febbraio 2001, p. 42. Laddove non è altrimenti indicato la traduzione è mia.
HAMPTON E LA TRADUZIONE DELLA MALINCONIA
/ 71
lento e, per certi aspetti, sfilacciato. Tuttavia, sul tema delle potenzialità
drammatiche di Embers si registrano voci e opinioni discordanti. Secondo
Charles Spencer “la storia risulta ben più accattivante sulla pagina scritta”.4
Paul Taylor, sulla linea di Coetzee, definisce il romanzo “un goffo tentativo
di romanzare un dramma”, salvo proseguire così: “In maniera perversa,
nella versione scenica di Christopher Hampton la materia ha dato forma
ad un dramma ugualmente intrattabile”.5 Così infine Kate Bassett: “È uno
sproloquio, una massa di ricordi continuamente riesumati che in un romanzo possono anche catturarti ma che in scena appaiono rigidamente
inerti”.6 Siamo dunque di fronte a un romanzo incarnato sullo scheletro
leggero di una pièce teatrale che Hampton ha saputo recuperare servendosi di un bisturi ben affilato?7 O forse è meglio parlare di un tentativo fallito di tradurre per la scena un testo dalle scarse propensioni drammatiche?
Niente nodo senza ostacoli, ammonisce Jacques Scherer.8 Naturalmente gli ostacoli possono essere sia esteriori sia interiori, la differenza di rango
sociale tra Henrik e Konrad è un ostacolo; la difficoltà da parte di Henrik
di rinunciare alle certezze del mondo infantile per confrontarsi con le sfide
dell’età adulta è un altro ostacolo, e di quelli difficili da superare. Stando ai
canoni dell’estetica classica, osserviamo che il dramma possiede una certa
unità di interesse, le due scene principali, i (pochi) dialoghi e il monologo
di Henrik sono tutti orientati a mettere in rilievo la personalità del protagonista.9 Quanto all’unità di tempo, Hampton soddisfa in pieno i criteri
4
Daily Telegraph, 2 marzo 2006, ristampato in AA.VV., “Embers”, Theatre Record, 26:5,
26 febbraio-11 marzo 2006, p. 235. A questa sezione del Theatre Record, in cui sono raccolte tutte le recensioni a Embers prese qui in esame, farà riferimento d’ora innanzi la sigla
TR, in coda all’indicazione del quotidiano in cui sono originariamente apparse.
5
Independent, 3 marzo 2006 (TR, p. 236).
6
Independent on Sunday, 5 marzo 2006 (TR, p. 237).
7
Sulle pagine dello Spectator (11 marzo 2006; TR, p. 238) Lloyd Evans definisce il romanzo di Márai “un libro misero ed estremamente statico”; al contrario ha parole di elogio per l’adattamento di Hampton: “Ma per qualche miracolo l’intrattabile bolo è stato
assimilato e trasformato in un’opera teatrale insolitamente avvincente”. Tra gli estimatori
della versione teatrale figura Michael Billington che sul Guardian (2 marzo 2006; TR, p.
235) la giudica elegante, elegiaca e penetrante.
8
Jacques Scherer, La dramaturgie classique en France, Paris: Libraire Nizet, 1959, p. 63.
9
Qui il maestro è Molière, drammaturgo con il quale Hampton ha saputo dialogare a
livello intertestuale fino a proporre una sorta di Misanthrope dalla polarità invertite in The
Philanthropist (1970), grande successo di critica e di pubblico. Su questo dramma si vedano Fernando Cioni, “‘They could not be seen’: Hampton, Molière and the White Knight”, Assaph 100:9, 1993, pp. 115-27, e Ben Francis, Christopher Hampton: Dramatic Ironist, Oxford: Amber Lane Press, 1996; in particolare le pp. 25-35.
72 /
MASSIMO VERZELLA
dell’estetica classica, saldando tempo della finzione e tempo reale. Ancora,
il dinamismo del dramma, e del romanzo, sono garantiti dalla sospensione,
dalla proiezione nel futuro della riuscita/fallimento dello scopo. Lo stato
d’ansia in cui versano il lettore e lo spettatore è innescato da una serie di
prolessi che annunciano sviluppi drammatici svelati solo nel finale delle
due opere. Già nell’incipit, la balia, Nini, chiede al generale di prometterle
di non agitarsi. È una richiesta che, nella sua vaghezza, crea uno stato di
tensione. Vedendo i due amici ripartire insieme per Vienna dopo l’estate
trascorsa al castello, la contessa esclama, rivolgendosi a Nini: “Finalmente
un matrimonio riuscito” (B, p. 40; E, p. 5); ma quest’ultima non sorride
alla battuta e, poco oltre, osserva: “Un bel giorno Konrad lo lascerà”. Seguono pagine che descrivono l’intenso legame che unisce i due giovani ma
il capitolo sesto del romanzo si apre con una avversativa che getta un’ombra su questa amicizia apparentemente perfetta: “Ma Konrad possedeva
un rifugio dove l’amico non poteva seguirlo: la musica” (B, p. 46). Un’altra anticipazione è data dal padre di Henrik, il capitano della guardia, che
osserva: “Konrad non diventerà mai un vero soldato” (B, p. 49; E, p. 16),
quasi a voler smuovere i tizzoni di una differenza caratteriale che consumerà poco a poco l’amicizia che lega i protagonisti.
In questo dramma apparentemente assoluto, ovvero compiuto e autonomo, staccato da tutto ciò che è esterno, ambientato e sviluppato nel
presente di un unico spazio scenico (e quindi privo di ‘montaggio’), si insinua ben presto il tarlo del tempo, che rosicchia poco a poco le strutture
tipiche del teatro classico, in primis la dialettica intersoggettiva e il qui e
ora della scena, per far spazio al ritorno del passato. A questo punto l’opera abbandona il piano drammatico e si fa lirica mentre il ritiro formale
del dialogo conduce, inevitabilmente, all’epica. In uno studio sulla crisi
del dramma postrinascimentale e quindi della forma ‘chiusa’ del classicismo, Peter Szondi individua una fase di transizione nel teatro di Ibsen e
Čechov, due autori che hanno cercato di inserire tematiche epiche nella
forma tradizionale, prendendo in prestito modelli e griglie propri di un
genere letterario ben diverso, il romanzo. Il critico osserva che il punto di
partenza di Ibsen “era di carattere epico, egli dovette acquisire l’impareggiabile maestria di cui dà prova nella costruzione dei suoi drammi. E
avendo egli acquisito questa maestria, non si vide più, sotto i suoi drammi, la base epica”.10 Spetta alla funzionalizzazione drammatica colmare
10
Peter Szondi, Theorie des modernen Dramas (1956), trad. it. Teoria del dramma moderno, a cura di Cesare Cases, Torino: Einaudi, 2000, p. 23. Per un approfondimento sul
HAMPTON E LA TRADUZIONE DELLA MALINCONIA
/ 73
l’abisso esistente fra il presente e il passato che si sottrae all’attualizzazione. Tuttavia, prosegue Szondi, “[r]aramente Ibsen è riuscito a ottenere
che l’azione presente fosse tematicamente all’altezza di quella evocata e
che si fondesse omogeneamente con essa”.11 Il ‘trucco’ è quello di fondere
passato e presente nei Leitmotive intesi come fatti, oggetti o eventi simbolici, come il tintinnio dei bicchieri in Spettri. Passando a Čechov e, in
particolare, al dramma Tre sorelle, opera che Hampton amava molto e
adattò per le scene inglesi,12 Szondi sottolinea come sia l’attesa di un ritorno al passato a ‘riempire di sé’ la vita delle sorelle Prozorov: “Il loro
presente è oppresso dal passato e dall’avvenire; è un intervallo, un periodo d’esilio, dove la sola meta è il ritorno alla patria perduta”.13 Eppure,
nonostante questa clamorosa rinuncia tematica alla vita presente a favore
del ricordo sembrerebbe sferrare il colpo di grazia alla forma drammatica
‘chiusa’, gli eroi di Čechov non osano completare il percorso che conduce
all’isolamento e al distacco dal presente; finiscono così per restare sospesi
in una zona intermedia tra il mondo e l’io, tra passato e presente. Preservate le categorie di cui ha bisogno, la forma tradizionale si salva ma diventa ibrida e, per così dire, plastica. I diversi momenti dell’azione appaiono accostati e a volte perfino impilati l’uno sull’altro, senza un nesso
preciso, quasi a voler garantire al dramma un minimo di movimento che
teatro epico si veda Bertolt Brecht, Schriften zum Theater (1957), trad. it. di Emilio Castellani, Roberto Fertonani e Renata Mertens, Scritti teatrali, Torino: Einaudi, 1962.
11
Peter Szondi, op. cit., p. 23.
12
Hampton ha tradotto e portato in scena due drammi di Čechov, Zio Vanya (Royal
Court, Londra 1969) e Tre sorelle (Playhouse Theatre, Londra 2003), nonché numerosi
drammi di Ibsen. Sul debito di Hampton nei confronti di Ibsen e Čechov si veda “Christopher Hampton”, in John L. DiGaetani (ed.), A Search for a Postmodern Theater: Interviews with Contemporary Playwrights, New York: Greenwood, 1996). Su questo tema si
veda, inoltre, Alistair Owen (ed.), Hampton on Hampton, London: Faber, 2005. In questo
volume è riportata una lunga intervista concessa da Hampton ad Alistair Owen. Tra i tanti riferimenti al teatro di Čechov spicca la seguente riflessione: “Penso che non ci sia niente di meglio di un dramma ben fatto, cosa rara perché ciò che permette a un dramma di
funzionare, sia nella performance sia nella scrittura, è l’energia. Un grande scrittore come
Čechov può trasformare una combriccola di russi di mezza età che si vanno lamentando
in giro in qualcosa che parla dell’essenza della vita – e questo perché un’incredibile quantità di energia ha guidato la creazione di queste scene” (p. 10). Sulla figura di Hampton
come mediatore culturale si veda Alber-Reiner Glaap, “Translating, Adapting, Rewriting:
Three Facets of Christopher Hampton’s Work as a Playwright”, in Nicole Boireau (ed.),
Drama on Drama: Dimensions of Theatricality on the Contemporary British Stage, New
York: St. Martin’s, 1997, pp. 215-30.
13
Peter Szondi, op. cit., p. 25.
74 /
MASSIMO VERZELLA
a sua volta possa innescare il dialogo: “Ma anche il dialogo è senza peso,
come un pallido colore di fondo da cui si staccano, come pennellate più
vive, i monologhi (travestiti da repliche), in cui si condensa il significato
del tutto. L’opera vive infatti di queste autoanalisi rassegnate, in cui questi personaggi giungono via via ad esprimersi; ed è stata scritta proprio in
funzione di esse”.14 Szondi parla sempre di Tre sorelle, ma pare stia analizzando Embers.
A questo sottoinsieme creato dall’intersezione di forme epiche e drammatiche appartiene infatti il dramma di Hampton, un’opera che diversi
critici avrebbero voluto inquadrare in un ambiente semiotico più rigido e
ordinato, per neutralizzarne le spinte centrifughe negli spazi angusti di un
rigida descrizione culturale. In realtà, sia il romanzo di Márai sia il suo
adattamento per la scena ‘vivono’ e producono significati in una zona di
confine tra due generi letterari, un territorio neutro ma fertile, nel quale
tecniche narrative e sottocodici scenici si intrecciano e si fecondano reciprocamente fino a confluire in un codice ibrido. Il romanzo paradossalmente rispetta le unità aristoteliche di azione, tempo e luogo, ha dunque
la struttura di un dramma ‘chiuso’ e funziona perché sa innestare flashback e viaggi della memoria in un testo che rasenta spesso la forma drammatica. Al contrario, il testo scenico non presenta sviluppi o peripezie di
rilievo, è statico e ristagnante, oppresso dal peso del passato e della grande
Storia, eppure funziona perché Hampton riesce ad accogliere e a ‘tradurre’ il tempo nell’azione drammatica sfruttando al meglio le infinite possibilità e potenzialità dei numerosi codici scenici.
Nel suo adattamento di Embers, Hampton agisce alla stregua di un restauratore incaricato di eliminare le decorazioni verbali con cui Márai ha
rivestito le pareti scabre di un’opera concepita, con ogni probabilità, in
forma di rappresentazione scenica: attualizza e condensa gli elementi della fabula nel monologo di Henrik senza perdere per strada le battute e le
riflessioni più cariche di significati; conserva il tenore e i registri del romanzo nonché il linguaggio dello spazio artistico descritto da Márai, la
stanza di Henrik, ambiente che esprime e incarna una precisa visione del
mondo, con il suo soffitto a volta, le finestre ampie, la poltrona rivestita
di seta francese e il ritratto ottocentesco della madre.15 I flashback vengo14
Ivi, p. 28.
Appare felice, dunque, la scelta, da parte dello scenografo Peter J. Davison, di riprodurre fedelmente questa ambientazione in scena nello spettacolo prodotto da Eric
Abraham per il Duke of York’s Theatre di Londra.
15
HAMPTON E LA TRADUZIONE DELLA MALINCONIA
/ 75
no condensati, smontati e quindi ridistribuiti nel testo. La nascita e lo
sviluppo dell’amicizia pura e perfetta che lega Henrik e Konrad, la loro
esperienza presso il collegio militare e il loro isolarsi dagli altri per rifugiarsi in una inespugnabile fortezza emotiva, poco o nulla si perde nella
traduzione. Il passato, il tempo euforico in cui Henrik e Konrad erano
“come gemelli nell’utero materno” (B, p. 37), proprio come Leontes e Polixenes in The Winter’s Tale,16 non è raccontato da una voce fuori campo,
è nel tono infantile con cui Henrik chiede a Nini di preparare la grande
sala da pranzo, nel profumo delle pietanze riproposte a distanza di anni –
il roast beef, i gamberi, il gelato flambé – nella bottiglia di Pommard dell’ottantasei, nel vaso azzurro di cristallo pieno di dalie, nelle candele azzurre e perfino nella disposizione delle poltrone nella stanza. Il rituale del
pasto, con i suoi preparativi è l’icona stessa di un passato che Henrik vuole rimettere in scena, per tentare di riscriverne il finale. La scelta di conservare la sequenza (apparentemente sacrificabile) dedicata alla descrizione particolareggiata dei preparativi per la cena e alla cura profusa nell’allestimento della scena dell’incontro così che non ci siano differenze fra l’ultimo pasto consumato con Krisztina e Konrad e la sua ripetizione quarantuno anni dopo, si rivela vincente. Attraverso un sapiente e attento allestimento scenografico, e, in particolare, il Leitmotiv delle candele azzurre,17 Hampton fissa il tempo come differenza tra un passato euforico e un
16
Nel dramma di Shakespeare l’abbandono dell’infanzia implica l’abbandono della innocence sostituita dalla colpa, polisemicamente indicata dal lessema sangue: “Se avessimo
continuato quella vita, / e la nostra natura fanciullesca non si fosse rafforzata / con un
sangue più saldo, avremmo potuto arditamente dire al cielo / ‘siamo innocenti’, una volta
riscattata / la colpa originale”. Il racconto d’inverno, trad. it. di Demetrio Vittorini, Milano: Garzanti, 2002, I, ii, vv. 71-74. Nel momento in cui identifica questa colpa nell’incontro dei due re con le rispettive mogli, Polixenes sottolinea il potere corruttore e destabilizzante del legame coniugale. Molte le affinità con Embers. L’amicizia tra Henrik e
Konrad è più forte delle differenze di rango (Konrad proviene da una famiglia aristocratica decaduta e impoverita) ma si basa su una disciplina, una sorta di regola monastica, basata su rinunce e sottrazioni, per questo comincia a sfaldarsi non appena entra in scena
Krisztina, la donna che sposerà Henrik. Quest’ultimo è tanto sedotto e stordito dal sogno
intossicante di un’amicizia edenica ed eterna che cerca di eludere i problemi della sessualità, con tutte le loro complicazioni e le loro implicazioni nel ciclo procreativo. Il nuovo
legame con la moglie presuppone, nei confronti dell’amico, l’instaurazione di un rapporto
diverso da quello infantile ma Henrik non è pronto ad accettare il cambiamento e si illude di poter includere l’altro sessuale nel cerchio magico del legame omoerotico con l’amico d’infanzia.
17
Inscritto nel titolo dell’originale che, ricordiamolo, suona letteralmente “Le candele
bruciano fino alla fine”.
76 /
MASSIMO VERZELLA
presente disforico, tra il cosmo simbolico asburgico e il caos dell’Ungheria post-bellica.18
Se il codice scenografico incarna il passato, al codice delle luci e dei
suoni è affidato il compito di tradurre effetti e sfumature che Márai consegna alla parola scritta:
HENRIK:
Bene, ci stiamo avvicinando al cuore della questione.
Nella pausa seguente, una raffica di vento scuote le finestre e in lontananza la saetta solforosa di un fulmine squarcia il buio. La corrente elettrica
salta mentre un rombo di tuono brontola nel cielo notturno. (E, p. 19)
Il fulmine diventa una sorta di gong che dà inizio al match tra i due sfidanti, ma al tempo stesso segnala il coinvolgimento della natura e della
terra ungherese nel dramma che ha colpito i due protagonisti. Il dramma
privato risuona nella Storia, anch’essa segnata dalla profanazione del modello simbolico a pattuizione verticale di ascendenza medievale.19 Adesso
è la penombra ad avvolgere il racconto di Henrik, che, nel baluginio delle
lampade ad olio e delle candele azzurre, rievoca i fantasmi del passato ricostruendo nei minimi dettagli gli eventi immediatamente successivi al
tentato ‘fratricidio’, fino a quando, improvvisamente, torna l’elettricità e
l’ambiente si illumina di nuovo, scoprendo le ‘nudità’ di Konrad che ora
appare scosso e ansioso di sapere.
A livello linguistico il passato si attualizza nei meccanismi della referenza anaforica. Nel romanzo di Márai il motivo del patto e del giuramento
che vincola l’amicizia dei due protagonisti si ripete a intervalli regolari fino
a diventare il refrain che lega e tiene assieme i flashback narratoriali. Parole
come patto, giuramento, impegno, promessa solenne, legame, dovere, obbligo,
vincolo, ricorrono spesso nel testo e formano il paradigma dell’amicizia come legge, come contratto eterno e indissolubile: “Non dimentichiamo che
l’amicizia non è soltanto uno stato d’animo ideale ma una legge umana inflessibile. Nel mondo del passato fu la più potente delle leggi, quella su cui
si fondarono i sistemi giuridici di grandi civiltà” (B, p. 117).20 Si tratta
18
Un caos che, stando a quanto scrive Petronella Wyatt in un interessante articolo apparso sullo Spectator (“It Was Better Under Communism”, 30 aprile 2005), regna ancora
sovrano nell’Ungheria contemporanea.
19
Sull’opposizione simbolico/immaginario si veda Alessandro Serpieri, Retorica e immaginario, Parma: Pratiche, 1986.
20
Nel suo adattamento Hampton conserva questa importante affermazione di Henrik.
È evidente che lo spessore semantico di questi termini si è assottigliato notevolmente nel
passaggio dall’ungherese al tedesco e nel successivo passaggio dal tedesco all’inglese.
HAMPTON E LA TRADUZIONE DELLA MALINCONIA
/ 77
dunque di un legame, un sentimento, rigidamente codificato e quindi inviolabile, perché rappresenta, metonimicamente, il patto che unisce i popoli ungherese e austriaco al sovrano e alle regole di una società organizzata in una rigida gerarchia di ranghi e obblighi sociali.
Hampton maneggia con cura il paradigma modellato da Márai, lascia
alla referenza anaforica il compito di ricomporre, tassello dopo tassello, il
mosaico di un milieu storico-culturale che agisce sulle vicende individuali
dei protagonisti, orientandone azioni e comportamenti. Ma è nel personaggio stesso di Henrik, nei suoi gesti lenti e la sua voce malinconica,
nella sua nostalgica ostinazione a vivere fuori dal tempo, che si completa
la traduzione scenica dell’episteme asburgica. Figura caratterizzata da
un’elevata tipicità, Henrik è il rappresentante di una precisa casta sociale,
gelosa della sua chiusura e dei suoi privilegi ma sconfitta dal tempo e dagli eventi della Storia. Al contrario Konrad è il rappresentante del cambiamento e tradisce, già dalla sua passione per la musica – arte ‘pericolosa’
in quanto capace di sprigionare “una forza eversiva capace di sollevare i
mobili” (B, p. 48) –, un’indole diversa, più vicina a quella della contessa
francese (la madre di Henrik). La comune predilezione per Chopin, musicista di madre polacca e di padre francese nonché parente lontano di
Konrad (anch’egli nato in Polonia), unisce la coppia Konrad/contessa che
finisce per darsi come il polo della passionalità e della sensibilità artistica,
contro il polo dell’ordine rappresentato dalla coppia formata da Henrik e
da suo padre. La musica e le forze del cambiamento contro le forze dell’omeostasi, da questo scontro si produce la scintilla che rimette in moto l’azione drammatica, ostacolata a più riprese dall’insorgere di tematiche epiche entro gli spazi angusti della forma tradizionale.
Di fronte alla possibilità e all’idea stessa di cambiamento Henrik reagisce ‘esplosivamente’, puntando i piedi e opponendo le certezze del passato
al caos prodotto dalle forze disgreganti della storia. Per sfuggire ai guasti
prodotti dal tempo lineare si rifugia nell’isolamento e nell’attesa, addolciti
dalla speranza di riuscire, prima o poi, a eludere il cambiamento e a curvare la linea del tempo fino a saldare le giunture di passato e presente nel
punto esatto in cui si è spezzato il patto con l’amico di sempre. In altri termini, Henrik si chiude al mondo e decide di vivere il suo dolore proprio
come fa Miss Havisham in Great Expectations, nella reclusione. Abbandonata dal promesso sposo il giorno stesso delle nozze, Miss Havisham si isola e si nega al tempo per elaborare le sue trame di vendetta nei confronti
del destino avverso (e del sesso maschile), la sua determinazione continua-
78 /
MASSIMO VERZELLA
mente ravvivata dalla vista della torta nuziale in decomposizione.21 Lo
“spazio vuoto” (B, p. 63), che segnala la rimozione del ritratto di Krisztina
dalla parete dove è esposto anche il ritratto della madre è la ‘torta nuziale’
di Henrik. L’ennesimo Leitmotiv carico di ricordi del passato. La cicatrice
sul muro parla di una lacerazione impossibile da ricomporre, di un trauma
che Henrik non vuole superare ma che, al contrario, vuole vivere fino in
fondo, consumarlo nell’attesa della vendetta, rituale simbolico che, tagliato dall’incombere della morte, non può più darsi. La contrazione topologica che vede Henrik ritirarsi da Vienna al bosco dove va in scena l’ultima
battuta di caccia, dal castello alla stanza in cui è nato, metafora del ventre
materno e quindi dell’attesa di una eventuale rinascita, procede parallela a
quella storica, allorché l’impero austro-ungarico si sgretola a livello geografico, politico e culturale sotto i colpi della prima guerra mondiale e della
rivoluzione bolscevica. Si tratta, in altri termini, di una contrazione epistemica caratterizzata dalla completa dissoluzione dei codici rituali e dei modelli comportamentali di derivazione medievale che per anni avevano dato
ad Henrik l’idea di vivere e operare nella garanzia del Senso.
Perse le certezze assiologiche che garantivano la stabilità del cosmo,
Henrik si trova a dover fare i conti con la sua identità esplosa, con la perdita dell’essere e una precarietà omologa allo statuto indistinto dell’attore.
Di qui la scelta di recitare l’ultimo ruolo ancora significativo, quello del
malinconico, figura tipica nella drammaturgia inglese,22 a partire dai malcontent elisabettiani. Così come Amleto è costretto a confrontarsi con un
mondo svuotato di senso, con un tempo sconnesso e una cultura in dissesto, Henrik deve affrontare il crollo dei valori in cui ha sempre creduto, la
fine dell’impero austro-ungarico, in una parola, il cambiamento. A Konrad, che giustifica il suo mancato arruolamento nel reggimento ungherese
in occasione della prima guerra mondiale asserendo che in quel periodo
era già diventato un cittadino britannico, Henrik risponde così:
HENRIK:
No, io penso che in nessun caso è possibile cambiare la propria
nazionalità. Abbiamo fatto un giuramento all’imperatore, o al Re, come
mio padre insisteva a chiamarlo.
21
Si veda, in proposito, Francesco Marroni, “Melancholy as a Narratorial Paradigm in
Great Expectations”, in Francesco Marroni (a cura di), Great Expectations. Nel laboratorio
di Charles Dickens, Roma: Aracne, 2006, pp. 9-28.
22
Paola Pugliatti, “Dalle convenzioni alla regolarità”, in AA.VV., Interazione, dialogo,
convenzioni. Il caso del testo drammatico, Bologna: Clueb, 1983, pp. 14-15.
HAMPTON E LA TRADUZIONE DELLA MALINCONIA
/ 79
KONRAD:
il mondo che abbiamo giurato di difendere non esiste più.
per me esiste ancora.
KONRAD: esisteva un mondo per il quale valeva la pena di vivere e di morire ma è svanito adesso, andato. Quello nuovo non significa niente per me.
HENRIK: Be’, per me è sempre vivo. (E, p. 14)
HENRIK:
Henrik si ostina a credere nel sogno di un impero che possa raccogliere
popoli di tante diverse etnie in un’unica grande famiglia in grado di salvaguardare le differenze culturali e le specificità dei suoi singoli membri.
Che il sogno di una convivenza armonica e pacifica tra popoli e classi sociali diverse, basata su regole e codici di condotta di stampo medievale
(fissi e immutabili), sia svanito lasciandosi alle sue spalle solo tracce di
ostilità, è cosa difficile da accettare: “Immagino che l’intero sistema culturale in cui siamo cresciuti sia infine prossimo ad essere spazzato via: ma
nonostante ciò, per qualche assurda ragione, la brama di vendetta persiste” (E, p. 41).
A ben vedere, la malinconia appare incisa nel codice genetico della famiglia di Henrik. Ne soffre la madre, catapultata dalla luminosa Parigi attraverso i tetri scenari mittleeuropei fino al castello nei Carpazi di proprietà del marito. Nel viaggio attraverso la puszta, la desolazione che opprime gli spazi sconfinati della grande pianura deserta le dà le ‘vertigini’,
così come la vista dei campi di granturco dall’aria devastata. Perfino l’ufficiale della guardia, assumendo la prospettiva della moglie, ovvero osservando la sua terra come se fosse la prima volta, percepisce l’atmosfera malinconica effusa dai suoi scenari desolati: “Guardava le case basse con le
persiane verdi e i porticati bianchi […] le case annidate in fondo ai giardini, abitate dagli uomini della sua razza con le camere linde dove gli
sembrava di conoscere ogni mobile, e persino l’odore che si sprigionava
dagli armadi. Guardava il paesaggio che adesso, nella sua solitudine e malinconia, toccava il suo cuore come non gli era mai accaduto” (B, p. 25).
Per arginare e controllare i logorii prodotti dell’umore malinconico la
contessa interviene sul castello, facendo arrivare decine di carri pieni di
mobili, di tele, damaschi e stampe, un esercito di oggetti ‘caldi’ per combattere il freddo che minaccia uno spazio vitale assediato da una natura
selvaggia e ostile. Alla penombra ungherese la contessa oppone la luce e i
colori dei tessuti importati da Parigi e al silenzio della landa desolata oppone la musica mediante la quale sogna di addomesticare perfino le belve
rintanate nei boschi circostanti. La sequenza che descrive il suo arrivo nel
castello ungherese è molto importante perché stabilisce il tono del ro-
80 /
MASSIMO VERZELLA
manzo, crea quell’atmosfera triste e nostalgica che avvolge e imprigiona i
personaggi nelle sue spire. Nel testo drammatico Hampton ha l’accortezza di riproporla, spolpata e ridotta all’osso, ma non per questo meno efficace e suggestiva:
HENRIK:
Lei veniva da Parigi, da un mondo di pettegolezzi, musica e balli
all’ambasciata; e ora si trovava ai confini della pianura ungherese, in un
castello così isolato e così silenzioso che potevi sentire la neve cadere. Ricordo l’estremo sconcerto che velava il suo volto allorché, seduta alla finestra, osservava mio padre rincorrere i lupi con il suo coltello da caccia. Si
amavano; ma c’era qualcosa di insormontabile tra di loro. (E, pp. 16-17)
Hampton mette in rilievo l’isolamento e la remoteness del castello ungherese per instaurare subito l’opposizione Francia vs. Ungheria che subito
dopo si traduce nello sguardo allucinato con cui la contessa osserva il marito trasformarsi nell’ominide efferato e selvaggio che rincorre i lupi armato di un semplice coltello da caccia. Proprio la malinconia è il laccio
che tiene unita la coppia contessa/Konrad. Anche quest’ultimo è stato
sradicato dalla sua terra per seguire un percorso esistenziale che non gli
appartiene. Ai ricevimenti e alle parate viennesi Konrad preferisce l’intimità di una stanza pervasa dalla musica di Chopin, lui sì, uno spirito affine. Malinconico è il suo sguardo sul passato, sulle rinunce patite dai genitori, aristocratici impoveriti, per permettergli di intraprendere la carriera
militare. Il sacrificio dei genitori, gli sguardi spenti e tristi di sua madre e
l’orgoglio di un padre determinato a riscattare il suo fallimento ad ogni
costo costituiscono il fardello che per anni ha piegato la schiena e il morale di Konrad, nonché uno dei fattori decisivi per la rottura del patto di
amicizia eterna siglato con Henrik, il figlio ricco e viziato di un favorito
dell’Imperatore.
Infine la ‘malattia’ colpisce anche Henrik, all’indomani del dramma
che si compie durante e dopo la battuta di caccia. Da quel momento il
tradimento di Konrad diventa la sua idea fissa, l’astro immobile attorno
al quale ruota ogni suo pensiero. Henrik ha bisogno di rivedere l’amico
per ridare ordine al suo vissuto interiore, per capire quali intenzioni si celassero dietro il suo disegno omicida, quali sentimenti abbiano ostacolato
l’atto sacrilego, e ancora quali angustie abbiano paralizzato il dito di Konrad sul grilletto del fucile. Vittima ignara e inconsapevole della trama ordita dagli amanti, Henrik si appropria del ruolo di vittima e lo recita fino
in fondo. Ma, rispetto alla contessa e allo stesso Konrad, l’umore malin-
HAMPTON E LA TRADUZIONE DELLA MALINCONIA
/ 81
conico di Henrik appare ‘contaminato’ da un’altra perversione del sentimento, il masochismo. Gilles Deleuze ha scritto che la forma del masochismo è l’attesa: “Appartiene essenzialmente al masochismo l’esperienza
dell’attesa e della sospensione fisica, di legatura, di agganciamento, crocifissione. Il masochista è moroso, ma la parola ‘moroso’ significa innanzi
tutto il ritardo o il rinvio”.23 Più innanzi, Deleuze chiarisce la sua riflessione: “Il masochista attende il piacere come qualcosa che è essenzialmente in ritardo e si aspetta il dolore come una condizione che rende finalmente possibile (fisicamente e moralmente) l’arrivo del piacere”.24 Il masochista quindi rinvia il piacere in attesa del dolore che renderà possibile
la gratificazione e appare sempre in ritardo nei confronti di un appagamento eternamente differito. Ovviamente il piacere è quello della chiusura, quello di scrivere la parola fine e vedere il sipario nascondere la scena
caotica della vita. Il dolore, al contrario, è legato al sapere, all’avere confermati i propri dubbi, al fatto di percepire nel volto dell’amico la fisionomia della fine. Henrik è un masochista soprattutto perché sceglie la
sofferenza, preferisce il dolore alla morte allorché non approfitta dell’occasione offertagli dalla Grande Guerra per chiudere la sua vita con un atto di coraggio, pieno di senso. Al contrario egli si ostina a proseguire il
suo cammino esistenziale sobbarcandosi, oltre al fardello della sconfitta
privata, anche il peso di questa sconfitta dell’umanità. Masochista è infine l’atteggiamento di chi vive nell’attesa di conquistare una verità che già
possiede, nell’attesa di un rituale, la vendetta, desemiotizzato all’indomani del tramonto dell’Impero. Deleuze rileva altresì il significato particolare della fantasia nel comportamento del masochista: “La pratica masochista […] consiste nel neutralizzare il reale e nel sospendere l’ideale nell’interiorità pura del fantasma”.25 Il fantasma è la scena sognata, drammatizzata, ritualizzata, la scena che Henrik sogna di allestire per l’ultima volta
anche in assenza di Krisztina. Seduto a tavola di fronte all’amico, proprio
come in passato, Henrik chiude il cerchio del tempo e taglia fuori il presente insieme ad una realtà che ha perso nitore e consistenza a tutto vantaggio del sogno, strutturato sul paradigma della continuità e della permanenza di un modello esistenziale ipercodificato.
23
Gilles Deleuze, Présentation de Sacher-Masoch. Le froid et le cruel (1967), trad. it. di
Giuseppe Da Col, Il freddo e il crudele, Milano: Studio Editoriale, 1996, p. 80.
24
Ivi, p. 81.
25
Ivi, p. 82.
82 /
MASSIMO VERZELLA
La tipicità della figura del malinconico nel teatro inglese non è che
l’ennesimo catalizzatore attraverso il quale Hampton riesce a tradurre il
romanzo di Márai in testo drammatico. Il suo adattamento, come l’amicizia dei due protagonisti, si basa su sottrazioni e rinunce, su attualizzazioni e funzionalizzazioni complesse, ma la struttura non cede, perché i
paradigmi su cui poggia l’edificio narrativo sono resi accuratamente mediante l’utilizzo di tutti i codici scenici, non ultimo la performance degli
attori protagonisti. La malinconia venata di masochismo che avvolge, come una bruma densa e scura, le pagine del romanzo di Márai, si traduce
nel lento ma inesorabile consumarsi delle candele azzurre, nella cicatrice
sul muro che denuncia un trauma irrisolto, nella voce malinconica di Jeremy Irons (Henrik) e nell’incresparsi del volto di Patrick Malahide
(Konrad). Ogni canale della comunicazione drammatica trasmette un
frammento del discorso che Márai affida alla parola scritta, fino a quando
il messaggio si addensa di nuovo intorno al motivo dell’attesa, malinconica, della fine.